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martedì 13 marzo 2018

Martin Nonstatic - Ligand

#PER CHI AMA: Ambient/Elettronica
Martin Nonstatic è un artista sofisticato, ma non lo scopriamo certo oggi, avendo già recensito un paio di suoi album. In tutti i suoi lavori di musica d'ambiente riesce a far esplodere un oceano di emozioni nell'ascoltatore. Emozioni di varia natura che convergono tutte con la voglia di ritagliarsi uno spazio etereo in cui poter sentirsi vivi. Così, i bassi ben tarati e mai invadenti, l'incedere lento della miriade di rumori e ronzii che vagano perenni tra i brani, si fondono a synth vintage e ultramoderni, tra suoni alla Tangerine Dream e un Eno raggelato da correnti di suoni freddi e crepuscolari, tanto elettronici, che ti soffiano in faccia una sospesa e rigenerante armonia futurista, una tecno a rallentatore di origine teutonica che, come lo stupendo artwork, ci proietta in un mondo incantato, invernale, fatto di lenti movimenti, estasi e momenti di velata malinconia. L'ora in cui si srotola il cd sembra infinita e l'album sembra una lunga colonna sonora che ci porterà in un sogno che ci donerà riflessione ma anche l'illusione di essere stati liberi almeno mentalmente durante il suo ascolto. La media delle composizioni è lunga perciò si raccomanda un posto isolato ed intimo, ottimo per viaggiare in macchina di sera, in solitudine a riordinare le idee. "Ligand" è il brano che mi ha colpito di più per la qualità del suono e l'infinità di rumori che ne determinano il ritmo minimale e frastagliato, un brano fantastico anche per l'uso diverso e frantumato dei synth, che per qualche strana alchimia, mi ricorda certa new wave sperimentale dei tempi d'oro. Sempre supportato dalla Ultimae Records (uscito nel novembre del 2017), il nuovo disco di Martin si presenta divinamente, come di consuetudine per la casa francese, ricalcando la tipica filosofia ambient elettronica dal leggero sentore sperimentale, carica di suggestioni cinematiche, musica per umani dal cuore puro che dialogano con il mondo digitale, nel tentativo di immaginare una natura incontaminata che li possa ancora accogliere. Una vera e propria fuga dalla realtà, solo così posso definire "Dendrictic Ice" e l'intera opera, un'estensione dell'infinito. Immancabile il suo legame con l'astrologia/astronomia ("Kepler's Law") e la biochimica con la song che dà il titolo all'album. Un ricercatore sonoro d'altri tempi. Un ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2017)
Voto: 85

https://ultimae.bandcamp.com/album/ligand

Laconic Zero - Sun To Death

#PER CHI AMA: Industrial/Electronoise/8-bit/Djent
“Chi vuole recensire un disco programmato col Commodore 64?”. Ovviamente: io! Premo play ma ho già la bava alla bocca, perché adoro la musica folle e perché sono un nerd che ha vissuto a pieno l’esplosione informatica degli anni ’80. Alcune coordinate per capire i Laconic Zero: ogni singolo bit è pensato, scritto e suonato dal norvegese Trond Jensen — già chitarrista e bassista dei Next Life e dei Mindy Misty — che aveva esordito come Laconic Zero la bellezza di 11 anni, fa con l’applaudito 'Tribeca'. Questo secondo lavoro, 'Sun To Death', è un viaggio mesmerizzante di poco meno di mezz’ora, suddiviso in 11 movimenti che raramente superano i 3 minuti l’uno. Poca roba? Aspettate a dirlo. Ogni brano è un condensato multilivello di follia strumentale come non ne sentivo da parecchio, una supernova di bassi distorti, synth gorgoglianti e un tessuto fittissimo di casse, rullanti, percussioni e beat con quel sapore vintage che solo una programmazione old-school in 8 bit è in grado di dare. I primi 10 secondi della opening “Evoke Heat” sono già una dichiarazione di guerra, con quei blast-beat (o dovremmo dire blast-bit?) spietati e quel 6/8 ripetuto all’infinito tra crescendo e calando. “Gladeflicker” ha il sapore dei Ministry sotto acido, sorretto com’è da un synth giocattolo e un basso gorgogliante di distorsione. Reggetevi forte ai vostri neuroni quando entra l’arpeggiator in “Inborn Eclipse”, perché potrebbero scivolarvi tra le dita. Se la coppia “Infractor” e “Into The Plasma” lasciano respirare tra strings lunghi e ipnosi noise, è solo per prendervi nuovamente a pugni in faccia con la velocissima “Diamond Crash” (ah, se gli Shining di 'Blackjazz' fossero nati negli anni ’80!) o la finale “The Sun To Death”, che sembrano i Nine Inch Nails suonati da Super Mario Bros. Non vi spaventi il solo apparente sapore midi dei suoni: non c’è nulla che sappia di antico o vintage, qui. La mente di Trond Jensen è un vero labirinto di metal modernissimo e industrial death, e questo 'Sun To Death' è un inno alla violenza elettronica suonata con cuore, anima e testa, prima ancora che con super produzioni e tecnologie contemporanee. (Stefano Torregrossa)

(Handmade Records - 2018)
Voto: 80

https://www.facebook.com/laconiczero

domenica 11 marzo 2018

Black Sin - Solitude Éternelle

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Shining, Burzum
I Black Sin sono un quartetto francese, formato da membri di Cult of Erinyes, Imber Luminis e Deluge, che dopo aver rilasciato lo scorso anno questo 'Solitude Éternelle', ha pensato bene di sciogliersi. Ora, non conosco le cause che hanno portato allo split della band, tuttavia posso solo sottolineare ombre e luci della proposta suicidal black dei quattro musicisti transalpini. Il disco si apre con un'intro a base di urla disperate e ritmica caotica che preannuncia l'arrivo di "Lente Descente", una traccia che evidenzia il lineare quanto elementare approccio black dei nostri, nelle cui allegre scorribande, mi sembra di captare una certa influenza punk. La musica dell'act occitano, sebbene la sua primitiva irruenza, ha comunque qualcosa di interessante nelle sue note che evocano un che dei pazzi suicidi Shining (quelli svedesi mi raccomando). Il riffing è quanto meno accattivante anche nelle sue improvvise accelerazioni e frenate, mentre lo screaming arcigno e sconsolato del vocalist, alla fine risulterà estremamente convincente nella sua performance. Più altalenante la terza "Dévastation", in cui le ispirazioni per i nostri sembrano provenire da gente tipo Lifelover e dalle forme più doomish degli Shining. Niente affatto male le linee di chitarra, cosi come i break acustici, da dimenticare invece le ritmiche punkeggianti sul finire della song. Le chitarre burzumiane di "Derniers Instants de Vie", mi riportano indietro di quasi 25 anni quando sulla scena si affacciavano gli album 'Det Som Engang Var' e 'Hvis Lyset Tar Oss'. Ecco direi, fuori tempo massimo e forse proprio in questo risiedono le ombre dei Black Sin che vengono però spazzate via da quelli che sembrano quasi degli assoli (ma non lo sono) che incrementano invece la componente atmosferico-emotiva del disco e che in questa traccia, identificherei in ben due momenti di catalizzazione massima della mia attenzione. Se "K.A.H.R II" suona un po' meno convincente, troppo dritta e scontata, il giochino di chitarre quasi sul finire, sembra risollevarne le sorti, almeno parzialmente. "Cendres" è una mazzata in pieno volto di incandescente musica black: dieci minuti tra serratissime sfuriate black, rallentamenti depressive, bridge armonici e udite udite, addirittura anche la triste melodia di un sax che trasmette il giusto mood autolesionista al brano. Peccato solo che col pezzo successivo, il decadente romanticismo svanisca del tutto e si torni a viaggiare a velocità infernali giusto per dimostrare quanto la band abbia una certa dimesticazza anche su ritmiche tiratissime. Ecco cosa significava quando parlavo di luci ed ombre. I Black Sin se si fossero focalizzati maggiormente sul genere depressive black metal, forse avrebbero reso oltre ogni più rosea aspettativa. In territori esclusivamente black, finiscono nell'infinito calderone delle band dedite alla fiamma nera. Meno male che si ritirano su con la conclusiva title track che ci riporta nei meandri della solitudine e della disperazione, per gli ultimi sei minuti di passione targata Black Sin. Altalenanti. (Francesco Scarci)

(Black Pandemie Productions - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/blacksin88/

Fleet Foxes - Crack-up

#PER CHI AMA: Neofolk/Rock
Le velleità letterarie di Robin Pecknold, recentemente suggellate da una laurea in lettere conseguita presso la occhialuto-hipsterosissima Columbia University, si concretizzano mirabilmente nelle tortuose eppure conturbanti liriche dell'album. Sottomissione e misoginia ("- Naiads, Cassiades"), la insensata iperviolenza urbana di "Cassius" (l'assassinio di Alton Sterlin, avvenuto il 5 luglio del 2016 è ricondotto al complotto di Cassio nei confronti di Giulio Cesare in un modo che non potrà non ricordarvi certi recenti sforzi tecnopop degli Ulver), la coraggiosa riconsiderazione di sé ("I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar", una canzone gioviale, nelle parole dello stesso R-P, ma anche l'allegoria malinconica di Mearcstapa), o dei propri rapporti interpersonali ("Third of May / Ōdaigahara" ma anche la successiva "If You Need to, Keep Time on Me"). Progressivamente scoscesi fino all'inaccessibilità i suoni, dove il folk regredisce a mero substrato, quasi una sorta di pretesto di lusso per dipingere impressioni sonore di inoppugnabile e distante alterità. Pensate ai dettagli: ai grappoli di note vagamente percepibili in "Kept Woman", alle digressioni casualmente progressive di "Mearcstapa", alle tinte melodrammatiche di "Third of May / Ōdaigahara", a certe improvvise (dis)orchestrazioni new-björkesi (la title track e nuovamente la “gioviale” opening track "I.A.A.T.I.N. / A.S. / T.C."). Alla distanza interposta tra sé e i Fleet Foxes che conoscevate, intenzionalmente oggettivata in canzoni come "Fool's Errand". La medesima sensazione che provaste ascoltando i Talk Talk di 'Spirit of Eden' dopo quelli di 'The Colour of Spring', i Pink Floyd di 'The Final Cut' dopo quelli di 'The Wall', o ancora i Radiohead di 'Kid A' dopo quelli di 'OK Computer'. Ehi, che diamine vi succede? Vi sentite bene? (Alberto Calorosi)

(Nonesuch Records - 2017)
Voto: 75

http://fleetfoxes.co/crack-up

sabato 10 marzo 2018

Blueriver – Waiting for the Sunshine

#PER CHI AMA: Country Rock, Buffalo Tom
La Music for People alimenta il braciere del rock promuovendo (è uscito nel settembre 2017) il primo EP ufficiale di questa band proveniente dalla provincia di Lecco, pubblicato in precedenza dal gruppo autoprodotto nel 2015. Le quattro cavalcate elettriche scorrono veloci, aggraziate da una verve brillante e una buona dose di tecnica musicale, il suono è in carreggiata con band di grossa rilevanza, tra Buffalo Tom e Grant Lee Buffalo e devo ammettere che l'iniziale "You and Me" gioca la sua carta emozionale nel migliore dei modi portando alla mente un po' di quel sogno americano pieno di libertà e strade polverose da macinare. La title track, "Waiting for the Sunshine", porta con sè ottime linee vocali a stelle e a strisce, dove si sente tutto l'allinearsi dei Blueriver con i mitici Buffalo Tom e se non fosse per una registrazione assai buona, ma non troppo per gli standard yankee e anche non così calda come dovrebbe, in più momenti in quest'album, si sarebbe potuto gridare al miracolo. Ottima l'interpretazione vocale e i ricami chitarristici, che aprono le composizioni con un suono cristallino e aggressivo al tempo stesso, buone le scelte ritmiche, la varietà delle canzoni che pur rimanendo saldamente ancorate ad un genere molto classico, dall'impianto tipico del cantautorato rock, si muovono libere e per certi aspetti anche originali. Ripeto ancora che con una scaldata ulteriore al sound in direzione Drive-By Truckers sarebbe stato perfetto. Buon debutto ufficiale, attendiamo notizie per un full length con i fiocchi! (Bob Stoner)

(Music for People/GoDown Records - 2017)
Voto: 70

https://blueriverockband.bandcamp.com/releases

giovedì 8 marzo 2018

Death Rattle - Volition

#FOR FANS OF: Groove Death/Thrash, Lamb of God
Death Rattle has returned after nearly six years with a fresh full-length album of very worthy groove and metalcore. Continuing down a well-trodden path, the band seems set for success so long as it simply follows each curve to a tee, however Death Rattle's sure-footedness ensures a smooth example of modern groove metal while meeting each crag and rock in this second outing with a finesse that shows a few fresh tricks hidden up the band's sleeve. Newly fronted by Trey Holton of the hardcore band 12 Step Program, and forging ahead with a fresh confidence, the northern New England outfit has finally received the studio it deserves in the Brick Hithouse and has done it the honor of giving an incredible performance worthy of its perfect production.

Death Rattle proudly sports its primary influence like ink tattooed under its sleeve, an armband encircling a bicep that devotedly honors a modern metalcore institution. Many moments in this album, including the opening lyric in “Love and War”, sound exactly like Lamb of God while retaining enough signature energy and personality as to remain a proprietary product. Some segments of songs are so astonishingly similar in production and attitude that they have me wondering whether this band has perfected the cloning process and is hiding from the world court in a low profile metal band. There must be some sort of atrocity going on here because a beheaded chicken in the name of voodoo can't be the only explanation for such on-the-ball resemblance. The addition of Trey Holton on vocals greatly enhances the delivery of Death Rattle's early songs, however the lyrics display apparent differences. Unlike the past lineup with Donnie Lariviere, this new vocalist does a great job of getting the lyrics out through a range of gruff yells and long drawn out screams, but the content of some of these new lyrics is more vague and distant from reality than the songs comprising the reprisal segment of 'Volition'. Where there is a direct and obvious object of one's anger to confront in songs like “Snake in the Grass” or “Sociopath”, the lyrics to a song like “Adrenalize” focus more on an internal boiling over as rage precludes destruction. This is best displayed in “Internal Determination” as the song describes how “you'll see the past of a psychopath” while invoking metaphysical manifestations of mayhem.

There is a marked improvement in quality from Death Rattle's first foray. The proficiency in the guitar riffing and the cohesion of the ensemble between the songs from the previous album bring this new iteration in 'Volition' into full bloom. This band would be a good Lamb of God clone on a bad day but such fresh and original arrangements in songs like “Sentenced to Hell”, “Adrenalize”, and “From Blood to Black” show that Death Rattle is in top form with more than a cursory sense of its direction. Meaty breakdowns between headbanging runs, chunky guitars full of reverb like blenders overloaded by intermittent power surges, and grooves that drive with every needle riding a red line make this album worthy of any enthusiasm it receives. Ryan VanderWolk and Jimmy Cossette round out their lead and rhythm guitars incredibly well, creating an ideal interplay between industrial machinery sticking to its protocol and sentience screaming out for recognition. The intricacies of guitar in “Adrenalize” accelerate and twist around Chris Morton's deceptively steady drumming rhythm through hypnotic churning that grows like barbed vines deliberately digging into flesh, bleeding its prey while weaving a bed of thorns that tears into the meat of an immobilized deer. This glacial but cutting pace denotes waves of aggression in fits and bursts, perpetuating the motion of a fiery and intricate mechanism, interconnecting each sharp tooth of its clockwork gears with laser precision.

With a thrashing start, “Sentenced To Hell” charges its way into a fantastic breakdown, a melee that runs right into “Blood of the Scribe” territory with tinkling cymbals joined by punchy bass kicks, crashing this riff into roaring drum fills that pummel a heart into submission in endurance of an eternal sentence in headbanging perdition. An orgasmic bluesy solo rounds out the album in “From Blood to Black” that persists through a dozen rounds of the drum rhythm. These moments of soloing ecstasy are exactly what anyone would want to experience live and bring a final punishing end to this album as the guitars wail in pleasure-pain throughout this drawn out climax. Improving on the template established in the first album, 'Man's Ruin', Death Rattle has made the discovery of more intricate flowing guitar grooves that maintain an aggressive tone throughout each song a paramount concentration to its groundwork while venturing farther from this foundation with finesse.

Rerecording the singles “Snake in the Grass”, “Sociopath”, “Order Within Chaos”, and “Doomsday” from 'Man's Ruin', as well as reworking “Vicious Cycle” into the new song “Unfinished Business”, displays the leaps and bounds that this band has made in tightening up its delivery and crystallizing its intonation. The run after the solo in “Sociopath” sounds spectacular and proves that this recording truly achieves the aim that the first album attempted but never truly reached. The dropping strings, riding the waves churned by Kevin Adams' bass, throughout the elaborate solo section sounds like a seventh string strung to stretch a neck and beautifully rejoins the run with a pummeling punch, as though dozens of victims of a diabolical overlord are beating the hanging tyrant like a piñata.

“Unfinished Business” takes another crack at the sound started by “Vicious Cycle” on 'Man's Ruin'. The song is streamlined with more focus on the leading riff before swirling, in the second verse, a blending melody in New England metalcore style and beating it furiously with percussion. While I would have preferred to have heard the drum interlude reprised to open the song, it seems that the percussion has been reigned in a bit tighter than entirely necessary as Morin's drumming has become far sharper and well-timed but is also lacking in inventiveness. Rather than cascade each cymbal clink throughout a fill to drive the tone of a song like “Unfinished Business” into the deepest pit, the tripling on the double bass helps to up the ante but the top of the percussion stays too uniform to truly grab you and shake things up. Meanwhile, the guitars slope down into a murky marsh of melody in the chorus that magnificently satisfies a metalcore mania. Though all the cylinders may not be firing with fury, there is still plenty of roar in this engine to top out at breakneck speed.

As much as Death Rattle will inevitably end up compared to Lamb of God due to the Virginia stalwart's heavy inspiration and similarity, this newcomer shows its ability to thrive as it strays from the derivative. A template formed on the aggression of 'As the Palaces Burn' combined with the crisp refinement of 'Ashes of the Wake' makes Death Rattle achieve its production aims throughout 'Volition'. However, it is in approaching its early offerings with fresh ideas where the band has revitalized its previous pieces. The newest songs on this album greatly expand the aims and scope of the band's ambition, riding its own waves of sound off of coattails and into its own atmospheric layer. Considering the new normal presented in 'Volition', Death Rattle has a bright future ahead of it. While the band is not out to replace any established brand or define a new cultural direction, the band shows itself as a confident and competent outfit with plenty of personality to boot. (Five_Nails)

Decemberance - The Demo Years (1998-2001)

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi The Gathering, primi Anathema
Considerate subito una cosa: avevo definito l'ultimo album della band ellenica una prova di sopravvivenza, cosa aspettarsi dunque da un lavoro che recupera i primi due demo della band, datati 1998 e 2001, che propongono una registrazione alquanto casalinga e che esordiscono con la marcia funebre? Francamente, io temerei il peggio. "Dying" è il primo pezzo, estratto dal demo d'esordio 'Decemberance', una song che mantiene per quasi tutta la sua durata, la melodia di fondo della marcia funebre appunto e su cui poggia il cantato sussurrato di Yiannis Fillipaios. Si va avanti con "When Darkness...", dieci minuti di suoni che lasciano intuire quello che il combo dell'Attica avrebbe concepito e migliorato nel corso degli anni, ossia un death doom robusto, sorretto da delle tastiere forse un po' troppo elementari, ma che mi hanno ricordato l'album d'esordio dei The Gathering, quelli estremi, non le derive pop rock dei giorni nostri. Comunque già s'intravedono quelle che saranno le peculiarità dell'act greco, con quei suoni violenti ed opprimenti, smorzati da un break acustico che scomoda pesanti paragoni con "Remember Tomorrow" degli Iron Maiden, mentre la voce del frontman è qui in versione growl, cosi come nella successiva title track, lenta ma venata di un alone orrorifico, con tanto di lamentosa voce femminile in sottofondo. A chiudere la prima parte del cd ci pensa la strumentale ed acustica "Sorrow". Vado ad affrontare il demo 'Just a Blackclad...' e prima cosa che posso notare è una registrazione leggermente più pulita ed un approccio musicale forse più feroce ma al contempo più votato alle tenebre, con accenni agli Anathema di 'Serenades' che si fanno più importanti. Il disco è un bel macigno da assorbire, non ne avevo dubbi; meno male che torna un break semi-acustico dal sapore barocco ad allentare una tensione che, si stava facendo via via sempre più pesante da tollerare. Certo l'incedere del disco è mastodontico ed ecco che mi sovviene un altro paragone col passato, quello con l'EP 'Preach Eternal Gospels' degli olandesi Phlebotomized. Ascoltare per credere ed apprezzare la monumentalità di ritmiche iper-distorte, che viaggiano in profondità, la cui pachidermia viene alleggerita dal suono di archi. "Numquam" è un Everest di 21 minuti da scalare tutti d'un fiato, e chi si ferma è decisamente perduto. E allora via ad affrontare l'ennesima inerpicata tra sonorità a rallentatore, delicati arpeggi di violino, gorgheggi d'oltretomba, sprazzi atmosferici, raffinati squarci acustici che evidenziano già un certo talento nelle corde di un ensemble che non vuole comunque rinunciare nemmeno alle classiche galoppate brutal death. Devastato, giungo all'ultima "...Of Decay and Sadness", in cui è il suono del flauto ad aprire le danze, prima di lanciarsi in una serie di divagazioni acustiche con tanto di strumenti ad arco, che per oltre sette minuti deliziano i padiglioni auricolari con della musica classica, che precede l'ultima breve fuga death metal di quest'interminabile ma affascinante raccolta. Ora che ho compreso da dove i Decemberance siano nati, tutto mi è molto più chiaro. (Francesco Scarci)

(Endless Winter/GS Productions - 2018)
Voto: 70

lunedì 5 marzo 2018

Aorlhac - L’Esprit des Vents

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Einherjer
Il monicker Aorlhac (mi raccomando si pronuncia "our-yuck") sta per Aurillac, ossia la citta natale dalla quale proviene la band, espresso nel linguaggio occitano. 'L’Esprit des Vents' è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2007 con 'La Croisée des Vents' e seguita da 'La Cité des Vents' nel 2010, volta a narrare storie e leggende medievali dell'Occitania, ossia quella parte di territorio che comprende il sud della Francia, ma anche alcune aree dei Pirenei spagnoli e alcune valli piemontesi. Tutto questo attraverso dieci brani che, partendo dalla tellurica "Aldérica", si concluderà con la strumentale "L'Esprit des Vents", in un cammino musicale votato ad un black thrash epico e belligerante. Pochi infatti i momenti di quiete, il disco è frenetico e spavaldo, fiero portavoce delle proprie origini ancestrali. Durante l'ascolto dell'album, le citazioni per questa o quell'altra band però si sprecano, mostrando una certa dose di influenze provenienti dal Nord Europa, che si miscelano con l'heavy metal britannico (l'assolo classico de "La Révolte des Tuchins" è a dir poco spettacolare) e la scelta di cantare in francese, per un risultato alla fine dei conti, comunque più che discreto. Non siamo di fronte a nulla di estremamente originale sia chiaro, il black metal degli Aorlhac è onesto, dotato di buone melodie (fischiettabile il motivetto della folkish "Infâme Saurimonde") e di una buona preparazione tecnica, con la prova del batterista sicuramente sugli scudi. Echi di Einherjer e Windir rieccheggiano nelle linee di chitarra vichinghe di "Ode à la Croix Cléchée", su cui si poggia il cantato abrasivo ma abbastanza originale di Spellbound. "Mandrin, l'Enfant Perdu" si muove tra sonorità black e thrash, chiamando in causa anche i cechi Master's Hammer oltre ai norvegesi Taake e verso la fine, addirittura emerge forte un riconoscibilissimo richiamo agli Iron Maiden. Tra le mie song favorite citerei sicuramente "La Procession des Trépassés", intensa a livello ritmico quanto dotata di sagaci melodie e di un forte tocco malinconico; ultima citazione infine per "L'Ora es Venguda" dove addirittura sento un che dei Primordial. In conclusione, 'L’Esprit des Vents' è un disco che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti di sonorità black pagane ma che, almeno personalmente, non mi ha appagato in modo totale. (Francesco Scarci)

domenica 4 marzo 2018

Interview with Arallu


Follow this link to know much more about the proposal by Arallu, an Israeli band mixing black metal, thrash and Arabian/Middle Eastern sounds. The interview with them allowas also to understand better the Middle East tensions and their day by day situation:

Premarone - Das Volk Der Freiheit

#PER CHI AMA: Psych/Doom sperimentale, Nibiru
Inquietanti, da brivido, deliranti. Tornano i piemontesi Premarone con un secondo lavoro, 'Das Volk Der Freiheit', dalle forti tinte psichedeliche oltrechè psicotiche. Il quartetto di Alessandria, forte del nuovo deal con la russa Endless Winter, rilascia un mastodontico album di 60 minuti, coperti per buona parte, da sole due song. Si viene risucchiati immediatamente dal vortice lisergico dell'intro, che ci introduce alle cupe atmosfere di "Parte I - D.V.", un colosso di quasi 29 minuti di durata, in cui il doom claustrofobico dei nostri si fonde con lo psych, lasciando alle chitarre quel quid che evidenzia inevitabili reminiscenze stoner. Liquidare una traccia di mezz'ora in due sole righe sarebbe alquanto riduttivo, ecco perchè posso aggiungere che dopo sette minuti di suoni sfiancanti ed ipnotici, i quattro folli si lanciano in una serratissima ritmica black, che dopo qualche secondo, lascia posto a delle voci che richiamano la storia politica italiana. Questo perché il disco è in realtà un concept che propone una sorta di analisi personale dell'ultimo ventennio della storia politico-sociale dell'Italia: non sono solo le voci di politici (sempre all'insegna della par-condicio) quindi a palesarsi nel corso del flusso angoscioso di un brano, potente sia sotto il profilo musicale che vocale, ma anche pubblicità delle reti Mediaset con rievocazioni al Grande Fratello o ad altri programmi che arrivano dalle reti di Piersilvio. Dopodiché, spazio al delirio assoluto, tra kraut-rock teutonico, suoni progressivi che arrivano direttamente dai nostri anni '70, ma soprattutto tanta improvvisazione, il che significa originalità a profusione che non posso far altro che apprezzare. Certo, bisogna affacciarsi a questo disco con una mente assai aperta se non si vuole soccombere agli stralunati deliri musicali dei Premarone, che ci infilano nel loro poco confortevole shakeratore, buttandoci dentro ancora qualche elemento che scopriremo poco più in là, mentre le urla inviperite di Fra eccheggiano nel mio stereo, rievocandomi peraltro il cantato di una band storica del panorama italiano, i CCCP, quanto tempo. Stordito da brutali suoni schizofrenici, vecchie registrazioni vocali, rallentamenti abissali, synth che ci riportano ad un'altra epoca, mi accingo finalmente ad affrontare l'intermezzo ambient-drone di "Interludio - Interferenze", che con un titolo cosi non può far altro che alterare lo stato già di per sè alterato, del mio cervello. E allora, mentre scorrono suoni/rumori dal vago sapore casalingo, vi posso svelare la ragione del titolo in tedesco: 'Das Volk Der Freiheit' vuole infatti evocare lo spettro di un regime totalitario (andatevelo a tradurre su Google translator e capirete). Andiamo avanti con l'esplorazione degli ultimi venti minuti affidati a "Parte II - D.F.", una traccia la cui matrice ritmica ha forti sentori sludge/doom su cui si agitano poi le narrazioni di Fra, in una song apparentemente più stabile e lineare della precedente, ma che comunque ha ancora modo di sorprendere con i suoi (mal)umori, le sue nevrosi e gli abbattimenti, in una digressione musicale che sembra voler evidenziare quel decadimento imperante nel nostro amato paese. Alla fine, 'Das Volk Der Freiheit' è un signor album, sicuramente difficile da approcciare, ma che certamente sarà in grado di offrirvi un interessante spaccato dell'ormai deprimente società italica, dimostrando allo stesso tempo che almeno a livello musicale, l'Italia ha diritto di sedersi con i più potenti stati del mondo. (Francesco Scarci)

sabato 3 marzo 2018

Senzabenza - Pop From Hell

#PER CHI AMA: Punk Rock
Dalla old school ultralondinese con guida a destra alla Madness ("London Town", eccheccaz, "Ten Day Holiday") a quella cazzon-revival-americana stile Social Distortion ("A Street Car Named Desire") o Ramones ("Someone" o "She is Just a Runaway"); dalla prima dollarosissima reviviscenza rock-oriented early-90 a trazione Green Day (quasi ovunque, per esempio in "Never Really Hurts") e NOFX ("Father Jack") per raggiungere certe soleggiate pennellate sixty-surf ("Someone") oppure inopinatamente psych-beat tardosessanta ("Mrs. Lucy Simmons" sta indubbiamente svolazzando in "The Sky With Diamonds"). Sedici nitide policromie happy-punk provenienti dall'affollato inferno del pop per conficcarsi direttamente nei vostri padigilioni, a chiara dimostrazione che la punk-band italiana apprezzata da Joey Ramone, giunta al ventottesimo anno di carriera e al quindicesimo anno di astinenza dallo studio di registrazione, paradossalmente, ancora non ha terminato la benza. (Alberto Calorosi)

Mothership - High Strangeness

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Black Sabbath
Il terzo album dei cosmic-sassaioli Mothersip, provenienti dalla medesima città di J.R. Hewing e Meat Loaf, esordisce con uno strumentale, "High Strangeness", se possibile persino più psico-cosmico del già largamente psico-cosmico "Celestial Prophet" collocato in apertura del precedente 'Mothership II' (avrete senz'altro ascoltato 'Embryo' dei Pink Floyd almeno una volta nella vita). Ma a differenza del precessore, più monolitico, qui lo stoner è una sorta di substrato sedimentario ove collocare, di volta in volta, chitarrismi eminentemente secondozeppeliniani (la quasi citazionistica chiusura di "Midnight Express" e "Wise Man") o primosabbatiani (i riverberi infernali emanati dalla conclusiva, eccellente, "Speed Dealer") oppure polverose aspirazioni nu-grunge (la deboluccia "Crown of Lies"). Quello che sorprende è che si tratta proprio dei momenti maggiormente riusciti, a (ulteriore) testimonianza di un futuro auspicabile distaccamento dal genere di riferimento oppure, vedete voi, del fatto che chi scrive nutre una conclamata antipatia nei confronti delle ortodossie musicali in generale e dell'ortodossia stoner in particolare. (Alberto Calorosi)

Abigor - Höllenzwang (Chronicles of Perdition)

#FOR FANS OF: Black Metal
For an Austrian black metal band that has been around since the early '90s Abigor's only outstanding aspect is in its failure to impress with this 2018 offering, released as soon as possible into a new year to garner some credence before this band's betters begin breaking solar silences. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that aims to capture the chaos of a hellacious descent and torture the listener with an avant-garde style that supplants harmony with horror to diverge from meditation with exhaustive apocalyptic exercises. Instead, and maybe in spite of such an ambition, Abigor accomplishes little more than a parody of itself, as though tethered so tightly to cliched notions of evil and scary ideas that the only way it can seem different from a thousandth viewing of The Exorcist is to provide utterly unlistenable music as introductions to inane horror movie interludes.

That isn't to say that there isn't anything redeemable in 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)'. The regal and theatrical synth that closes a series of unusual arrangements in “All Hail Darkness and Evil” introduces an offering that initially intrigues while leaving listeners wondering just how such chaos can be sustained by presenting such an intimidating mix buffered by such truly off putting aspects. A cursory glance at the shrieking and stumbling leads as they are trodden upon by a litany of drum changes does pique some initial curiosity. However, that is only until moments of clean singing and choral outpouring of the song's namesake call out from the winds of controlled chaos crashing into cliffs of cringe, as though the lyrics are being yelled into an oscillating fan as the guitars clamor up blood soaked walls with tormented and grotesque limb movements, their jagged joints having been bent, broken, and repurposed in opposing directions. The album does well to focus on the agony of malformation while drastically abusing the register but finds itself stuck in the most unsophisticated and sophomoric senses of the sentiment that it renders its bewilderment moot to its own emasculated execution.

The weirdness doesn't stop there as “Sword of Silence” awkwardly runs up, down, and around its register like the little feet of spectral children haunting the staircase where their necks were broken. The absurd vocal delivery boots this clumsy song as far from evil territory as its kick can muster and instead jams its big toe into the anus of parody. The guitars attempt to corrupt and distort the flow of a song like “The Duelists” or “Flash of the Blade” with a delivery that inverts any and all chivalric concepts to dishonor past regal Iron Maiden bouts, yet its realization merely comes off as a goof on black metal so easily able to fit into a Spinal Tap sequel's montage as the aging band attempts to stay relevant by hopping from style to style in search of a following. Just because three separate songs can be played at once, it doesn't mean that they combine amicably or even hint at the fruits of jazz. The avant-garde treble movements in this album seem like an excuse to feign intellect while having no prescribed direction before jumping into wholly unsatisfying runs, but at least the rhythm tries to pump some adrenaline despite its dilution. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is made even more comedic by the disharmony of “Black Death Sathanas- Our Lord's Arrival” and the groans that accompany it and “The Cold Breath of Satan” into what sounds like a harem full of Fergie replicants all singing “The Star Spangled Banner” while reenacting The Exorcist by masturbating with golden eagle flag toppers in order to shock Dani Filth out of an opera house. By the end of “The Cold Breath of Satan” there is a breakdown where the guitars create a ghastly and intriguing curl that creeps down the spine, finally achieving the sort of eminent evil that draws out images of horror rather than residing only in parody. Sadly it is too little too late after enduring such unpalatable mechanics, made even less enticing by this meandering maelstrom maiming its majesty.

Unfortunately, the redemption found in achieving maleficent notation is in sparse supply as its most apparent instance appears in “Christ's Descent into Hell” where the ensemble careens into the depths with a frolicking tumble, as though chasing a wheel of cheese into a cauldron of shaved steak. Idiotic souls are left screaming as their mouths melt from the delicious lava in spite of knowing exactly what luncheon grotesquerie they were lunging into. An opening run in “None Before Him” provides paltry satisfaction before the guitars are allowed to run riot and the ensemble embraces the boredom brought by Dimmu Borgir. As much as Abigor promises the unusual and pads it with a slight bit of interesting, 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that tries too hard to fail laterally. This is an album that prefers to crash and burn so terribly that Don McLean may noodle through a song about it, that Tommy Lee would love to neglect it at a pool party, and that has strung itself up by its own umbilical cord rather than experience the pain of seeing its own misshapen visage burned by the light of day. This is an album that surely did not make it far past the drawing board and somehow is burning itself into my ears, like ice picks tipped with sulfuric acid, just to make way for thoughts as banal as this album's ideas. As hard as this band attempts to be ugly, it simply sounds crass, phony, and annoying. As hard as this band tries to be avant-garde, it merely comes across as unlistenable dreck, but at least it's not as bad as Chepang, Nic, Mutilated Messiah, or many of the other unutterable failures that populate a realm hell-bent on reveling in mediocrity in order to feign depth in its pathetic poetry. This album needs to be heard like I need another höllen my zwang. (Five_Nails)

giovedì 1 marzo 2018

Blackfield - Blackfield V

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Distensivi (il singolo "Family Man" et molto al.) o corrucciati ("How Was Your Ride?" et poco al.) poppettini idroponici monocultivar seminati da Tel Aviv Geffen, arati a nido di porcospino da Steven King Wilson e incellofanati da Alan Prostatite Parsons, che vanno a costituire l'impronta di dinosauro di quest'album e, più in generale, dell'intera seconda reincarnazione Blackfield (da 'Welcome to My DNA' a questo 'Blackfield V' compresi: la ampiamente annunciata e pubblicizzata rinascita della partnership non è altro che una mozzarella di bufala). Torpidi lentoni 100% Blackfield-iani ("Sorrys", "October" et tantissimi al.), e qualche timidissima concessione progressive, cfr. l'ammorbidente in 7/8 erogato in "We'll Never Be Apart", oppure l'architettura traballante tardo(ne)-Yes di "Life is an Ocean", unica composizione firmata da entrambi gli spaventapasseri del Campo Nero. Ovunque, un registro narrativo (eccessivamente) patinato e trattenuto, nei testi (ascoltate il modo tristerello in cui A-G canticchia "my happiness" in "October") e nei contenuti sonori (cfr. "Lately", la canzone più tardo(ne)-Parsoniana dell'intero album) e, ahimè una diffusa, fragorosa mancanza di ispirazione. (Alberto Calorosi)