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sabato 20 febbraio 2016

Łinie - What We Make Our Demons Do

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Protometal, Tool
Disclaimer: questo è un disco importante, per cui poco male se decidete di non leggere oltre, ma se decidete anche di non dargli un ascolto, sappiate che state probabilmente facendo un grosso errore. L’oceano di produzioni piú o meno metal (sui generis, tanto per capirsi) negli ultimi anni si è fatto davvero sconfinato, ed esplorarlo tutto in lungo e in largo è impresa inumana, destinata a fallire miseramente, eppure ogni tanto (molto raramente, purtroppo) capita di imbattersi in qualcosa che si staglia per originalità e personalità risultando, di fatto, inaudito. I Łinie sono un quintetto tedesco, sulle scene dal 2012, formato da Jörn Wulff (voce, chitarra), Alex Wille (chitarra, voce), Alex Bujack (batteria, voce), Ralph Ulrich (basso, voce) e Alex “Iggi” Küßner (tastiere, elettronica) che definisce la propria musica con tre parole perentorie e molto precise: desert, noise, darkness. Dopo essermi scervellato per descrivere quello che fanno, devo arrendermi e riconoscere che non puó esserci definizione migliore per questo originale coacervo di influenze e suggestioni. Dovendo cercare di descrivere a parole i 40 minuti di questo esordio sulla lunga distanza, dopo il demo del 2014 'Negative Enthusiasm', punterei l’attenzione su tre aspetti chiave: la base della musica dei Łinie è una sorta di alternative-stoner-protometal come potrebbe essere quello dei Tool piú viscerali e meno cerebrali, quelli di 'Undertow' e 'Aenima', innervata peró di giuste dosi di elettronica mai invadente ma sempre perfettamente integrata, il tutto reso davvero unico da un cantato che si discosta nettamente dai canoni del genere, tanto che Wulff, col suo timbro profondo e bluesy, sembra quasi un novello Glenn Danzig. Il pezzo d’apertura, “Blood on your Arms” non fa progionieri coi suoi riff granitici, il drumming potente, un synth sinuoso e il maestoso declamare del cantante. Il resto del programma fila via senza cedimenti e nemmeno un riempitivo, tra citazioni tooliane ("The City", "Lake of Fire") e accelerazioni stoner ("Non Ideal"), ci sono vere e proprie gemme come “Inability”, “Designate”, o la conclusiva, bellissima, “Natural Selection”, che fa quasi pensare a una versione sludge dei Depeche Mode. Il tutto è sempre fortemente caratterizzato dal particolarissimo modo di cantare di Wulff, che ha un timing e un modo di stare sulla battuta tutto suo, riuscendo a donare quel tocco scuro e minaccioso che aleggia in tutto il lavoro, a partire dall’inquietante immagine di copertina. Album sorprendente, che rasenta la perfezione, in cui tutto, produzione, chitarre, ritmica, tappeti sintetici e voce, concorre a definirne la bellezza epica, allo stesso modo glaciale e rovente. Łinie. Segnatevi questo nome. (Mauro Catena)

Aethyr - Corpus

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gli Aethyr sono un quartetto moscovita, costituito da Mr. D, Mr. W, Mr.S e Mr. Y che escono con il loro secondo lavoro, 'Corpus', per la label CSR, a distanza di cinque anni dal debut, intervallati però da una serie di EP e split album. Sette i pezzi a disposizione per lasciare testimonianza della loro nuova fatica musicale, uno sludge/doom (con ricorrenti fughe nel post black cascadiano, come testimoniato nella traccia d'apertura) guidato da vocals aspre come nel più ferale dei dischi degli Immortal. Si parte con la lentezza disarmante di “Nihil Grail” (già presente nell'EP omonimo del 2011) e le sue lenti falcate, fatte di riff ripetuti allo strenuo, su cui poggiano le voci in acido di Mr. D; per fortuna il finale è un crescendo in intensità che dona un certo brio al pezzo. Si passa a “Sanctus Satanicus” e il rifferama dei nostri cambia, transitando per un apprezzabile stoner sludge, dotato peraltro di una certa fantasia a livello ritmico, ma che lascerà ben presto il posto al riffing, un tantino statico, della opening track. Difficile esaltarsi per cosi poco, ma in aiuto dei nostri sopraggiungono delle rasoiate ritmiche che spostano l'attenzione dell'ascoltatore su altri versanti sonori e evitano un precoce collasso dovuto alla noia. Con i dieci minuti di “ATU” (attenzione, non è la sponsorizzazione di una famosa marca di preservativi), ci inguaiamo inizialmente nelle sabbie mobili di uno sludge abissale, ove la band avrà modo di rivitalizzare ed esaltare il proprio sound con assoli psicotici, momenti di stanca lisergica e soffocanti drappeggi di una musicalità comunque melmosa, che lascia presagira le grandi doti fin qui celate del combo russo. Con "Cvlt" si continua a solcare i territori infausti dello sludge, che in taluni frangenti si concede belle accelerazioni black che hanno il grosso merito di rendere più varia la proposta sonora degli Aethyr. Che ai russi piaccia sperimentare è palese con "The Gnostic Mass", un'inquietante traccia noise/ambient non certo memorabile, se non fosse che la voce campionata che si sente, è quella di Mr. Aleister Crowley. Tralasciabile. Con la title track ci prepariamo ad affrontare altri 10 minuti di suoni al limite del funereo, con delle parabole chitarristiche che strizzano l'occhiolino ai brillanti fraseggi melodici dei Saturnus e ci consegnano un gran bel pezzo di suoni plumbei ma atmosferici, che ci accompagneranno fino alla conclusiva "Templum". La song apre lasciando grande spazio alla batteria e a graffianti riff di chitarra che pian piano troveranno il modo di salire in cattedra e lanciarsi in scorribande di isterico post black di scuola statunitense. 'Corpus' è un album interessante, non proprio semplicissimo da approcciare ma che comunque merita un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

giovedì 18 febbraio 2016

Zlang Zlut - Crossbow Kicks

#PER CHI AMA: Hard Rock, Led Zeppelin
Gli Zlang Zlut sono un duo di cinquantenni svizzeri che ha dedicato la propria vita alla musica. Infatti sono attivi sin dai mitici anni '90, quando i due di Basilea si dedicavano prima alla musica classica e poi al rock con diversi progetti. Amici di lunga data, nel 2010 hanno deciso di fondare questo energetico duo dando così alla luce il loro primo EP l'anno seguente. Nel 2014 hanno sfornato l'album omonimo ed ora ritornano con 'Crossbow Kicks', un digisleeve ben fatto con undici tracce di rock dalle influenze hard, ma pieno di sperimentazioni e con così tanta energia che farebbe impallidire parecchie giovani punk band. I ragazzotti amano il rock'n'roll vecchia maniera, ma non disdegnano anche sonorità moderne, distorsioni seducenti e ritmiche taglienti come un rasoio. In realtà la formazione è alquanto strana, nel senso che la line-up prevede un violoncello elettrico/bass synth con controllo a pedali e una batteria/voce, con un risultato finale alquanto soddisfacente. "Hit the Bottom" apre le danze con una ballata rock veloce, un cantato squillante e ben modulato in pure stile hard rock, mentre la sezione ritmica srotola un'ingente quantità di battute. Il violoncello distorto non fa certo rimpiangere la mancanza di una chitarra, anzi, l'assolo permette di godere appieno le diverse sfumature che tale strumento regala. In sé la canzone non offre niente di nuovo, grandi influenze dal passato sia nella struttura che nei riff, ma non fermiamoci al primo brano e passiamo oltre. "Rage" alza il tiro con un mood più oscuro e introverso, sonorità tra i Led Zeppelin e AC/DC, mentre il vocalist si lancia in un cantato ipnotico, sostenuto dai riff ossessivi del violoncello. I cinque minuti abbondanti della traccia rimangono sempre ad un livello che sembra voler esplodere, ma in realtà gioca su altri fattori, come i brevi assoli psicotici di violoncello. Non ancora soddisfatto, passo a "Out of Control", una vergata rock old school fatta di riff ballerini e ritmica figlia dei migliori moto raduni dagli anni sessanta ad oggi. In alcuni passaggi vocali sembra quasi che l'inossidabile Ozzy abbia prestato le sue corde vocali, in realtà il cantante è cresciuto a pane e rock come avveniva qualche anno fa. Anche qui il cello si inerpica in un assolo granitico, dimostrando che non ci vuole per forza una sei corde per scrivere qualche pagina di rock. "Now" è il brano più variopinto dell'intero disco, la struttura è classica, ma il tempo a disposizione permette di dare spazio al bass synth che probabilmente è un Taurus della Moog, a sentirne la cremosità delle frequenze. Anche il violoncello qui si arricchisce di effetti che insieme ai già sentiti excursus sclerotici, permette di inserire dei break che spezzano e rendono più vario il lungo brano. In generale gli Zlang Zlut sono un ottimo duo che brucia di rock come se non ci fosse un domani e nonostante sia restio a prendere la strada della sperimentazione, ne esce a testa alta, grazie anche alla lunga esperienza musicale che i due musicisti si portano sulle spalle. L'impressione è che i due si divertano un sacco, suonino quello che adorano e quindi vincano la loro sfida, senza il bacio accademico però. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2016)
Voto: 75

mercoledì 17 febbraio 2016

Dean Wallace - Metal Family

#PER CHI AMA: Heavy, Metallica
Vede la luce verso la fine del 2015 questo CD, frutto del lavoro di un polistrumentista francese, Dean Wallace. Dean è un chitarrista estremamente dotato tecnicamente, più che onesto invece quando si trova alle prese con gli altri strumenti. Se da un punto di vista essenzialmente formale il lavoro si difende discretamente bene, non posso dire lo stesso per quel che riguarda le altre sfaccettature di questo 'Metal Family', a partire da una copertina, che ricalca piuttosto banalmente i cliché del genere con borchie e placche metalliche. Approfondendo poi l'ascolto, emerge subito che il genere proposto è un metal molto classico, con tempi “dritti” e riff più classici del classico. Quello che salta però subito all'orecchio è l'impressionante (e vi assicuro che non esagero) somiglianza del timbro vocale del buon Dean, con quello del “vecchio” James Hetfield, compresi i cari “Yeahhh” di James o lo storpiare le finali delle parole aggiungendo una “A” un po' così a cazzo. Insomma, il ruggito tipico del californiano del periodo post 1991, ecco qui troverete tutti gli elementi che ho citato, e anche di più. E purtroppo, questo è il maggiore difetto di questo cd, e forse dell'artista in toto. Dico questo perché onestamente, ascoltare un CD che puzzi di plagio dall'inizio alla fine, non è ciò che cerco in un album o in un gruppo. Devo essere sincero, non sono riuscito ad ascoltare il CD più di una volta e mezza; anche quando a livello compositivo sembra esserci qualcosa, il tutto scade nel già sentito anche per quel che riguarda i suoni scelti (in alcuni punti sembra di ascoltare dei passaggi riscontrabili sul 'Black' album, ma senza raggiungerne neppure un quarto in termini di qualità). Mi sento solo di consigliare un ascolto ai più curiosi, ma per gli altri, questo 'Metal Family' non è altro che un lavoro superfluo. Per fortuna nostra, questo lavoro non rappresenta assolutamente la famiglia metal che, invece, Dean Wallace intende farci conoscere. (Claudio Catena)

(Tinphlo Records - 2015)
Voto: 45

Goatpsalm – Erset la Tari

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Ambient Noise/Drone/Black
I Goatpsalm sono una band di sicuro interesse per ricercatori di suoni spinti al limite del rumore ambientale, del feedback lisergico oltre confine ed estimatori d'avanguardia black/industrial estrema. La band russa esplora con il secondo album, uscito per la Aestethic Death nel 2012 l'universo storico e l'oscurità che si cela nella cultura sumero/babilonese, raffigurando la divinità Tiamat armata di tridente in copertina e cospargendo l'intero artwork di riferimenti e simboli storico religiosi dall'aria sinistra e minacciosa, mischiati alle poco rassicuranti figure dei tre musicisti sovietici. I nostri propongono la loro musica attraverso sonorità estreme divise in tre brani distinti, di cui il primo e l'ultimo di notevole durata (vicina ai venti minuti), separati da "Bab Illu", più corto e rafforzato da una evidente presenza etnica mediorientale costruita da strumenti a corde irrorati di misticismo e mistero per un'atmosfera arcaica e cupa pregna di sentore nero, un presagio sonoro perfetto per l'imminente disfatta di Babele. La conclusiva "Under The Trident Of Ramanu" mette in evidenza un riconoscibile destrutturato riff di chitarra, sorretto da una rarefatta, rumorosa e lacerata sezione ritmica in salsa lo-fi, con un finale caotico e astratto come se, giocando con il sound più glaciale e minimale del black metal, i Sunn O))) perdessero il mastodontico peso a favore di un groviglio di riff e lamenti chitarristici abissali, rubati ad un Eric Draven, fantasma e malato, nascosto in un luogo solitario tra il Tigri e l'Eufrate, investito da rumori di ogni tipo con finale spettrale che richiama i temi toccati nel brano d'apertura. Ricco di minimalismo rumorista, voci agghiaccianti, sussurrate e recitate, escursioni etnico/tribali che conducono in un viaggio da incubo in compagnia della divinità Marduk; una chitarra scarnificata, tagliente e gelida rallenta il battito cardiaco, giocando le sue carte sul filo del black sperimentale oltranzista (immaginate i Beherit di 'Unholy Pagan Fire' con una sezione ritmica dalla cadenza marziale, eterea, statica e lacerata) e l'industrial/drone più radicale, drammatico, minimale, cinematico, per certi aspetti molto simile ad una vera e propria colonna sonora da film. Aspettando il terzo e nuovo full length in uscita sempre per Aestethic Death a brevissimo, lasciatevi travolgere da questa infinita, affascinante, tenebrosa, tempesta mistica mediorientale! (Bob Stoner)

(Aestethic Death - 2012)
Voto: 75

martedì 16 febbraio 2016

Ha Det Bra – Societea for Two

#PER CHI AMA: Punk/Noise Rock
La meritoria etichetta croata Geenger Records, attenta nel setacciare la scena rock locale e distillare gemme preziose, propone questo cioccolatino imbevuto di noise che promette di placare la voglia di tutti noi orfani inconsolabili dei Jesus Lizard. Sarebbe tuttavia ingeneroso e ingiusto derubricare gli Ha Det Bra a semplici epigoni dell’indimenticata band di David Yow, in virtú della qualità altissima e della varietà di stili che fanno di questo 'Societea for Two' un esordio col botto. Le quattordici schegge che si susseguono lungo i 44 minuti totali, scorrono a meraviglia evidenziando innumerevoli sfumature e una personalità ben definita, attraverso gorghi noise rock, forti di una sezione ritmica granitica, chitarre affilate e urticanti, voce tormentata e graffiante. A colpire sono la qualità media dei brani e la straordinaria resa sonora, potente e sporca come i dischi Touch and Go degli anni '90, tanto che, tracce come “In Lies” o “Sleeping with the Werewolf” (per citarne due tra le tante), non avrebbero affatto sfigurato se inserite in scaletta nei classici del genere di Jesus Lizard o Unsane. Varietà, si diceva poc’anzi, e allora ecco la splendida “Mustafa the Tyrant” con inedite atmosfere orientaleggianti, o “Lowthing”, piccola parentesi che si distacca dal tono malato del resto del lavoro, per immergersi in atmosfere psych che ricordano addirittura gli Screeming Trees di mezzo. Altrove, ("Under the Mould" o "Michael’s Nightmyers") a farsi protagonista è quell’indole blues, quello passato attraverso indicibili torture e sofferenze degli Oxbow, che aleggia sul disco come una presenza maligna e beffarda. Sarebbero da citare tutti i brani, e ci sarebbero da spendere tante altre parole entusiastiche, nonché paragoni e rimandi che scaturiscono continuamente dall’ascolto di questo lavoro, la sfacciataggine malevola degli Swans o la furia iconoclasta dei Birthday Party, ma ogni parola spesa qui è un secondo rubato all’unica attività che invece andrebbe fatta: ascoltare questo disco! Esordi cosí sono rari e preziosi, e credo che se la band, invece che a Zagabria, fosse nata a Chicago, ora il suo nome starebbe di fianco a quello dei nuovi eroi del noise come Pissed Jeans, Whores e Metz. Unico rammarico: aver ascoltato 'Societea for Two' solo dopo aver stilato la mia classifica di fine anno. (Mauro Catena)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 85

domenica 14 febbraio 2016

Astral Blood - S/t

#PER CHI AMA: Black, Deafheaven, Emperor
Ci si poteva sprecare un po' di più ragazzi e rilasciare un EP di almeno una ventina di minuti, no? D'accordo il detto "chi si accontenta gode", ma 16 giri di orologio, sono un po' pochini per descrivere la musica di questa band di Minneapolis. Tre brani (in realtà saranno due visto che il secondo è un interludio) che irrompono con "Secluded and Forbidden", un pezzo che mette insieme il classico post black americano (Deafheaven su tutti) con sonorità black atmosferiche nordiche (Emperor), in un miscuglio perfetto di violenza sonora. Diavolo, ma perchè solo due pezzi, qui c'è la potenzialità per trovarci tra le mani qualcosa che scotta, una musica che quando esplode nell'aria, manifesta il suo diabolico intento di entrare nelle nostre vene. Ariose tastiere volano nell'etere mentre serrate ritmiche triturano riff minacciosi quanto la voce in screaming di Andrew Rasmussen. Una bomba ad orologeria che vi esploderà in mano lasciando soltanto polvere. Il riffing sciorinato dagli Astral Blood ha un che di magnetico e magico, nella sua fragorosa potenza, e il breve assolo che compare nella opening track ha il merito di rizzarmi la pelle d'oca sulle braccia. La poderosa violenza di questo trio del Minnesota, unita alle fantastiche melodie tessute, rendono questo EP merce prelibata per gli amanti del black in tutte le sue forme. "Interlude" è un omaggio a quei momenti di passaggio che popolavano 'The Principle of Evil Made Flesh' dei Cradle of Filth. Arriva anche il turno di "Our Almighty Gaze" e la profondità delle sue ritmiche è orgasmica, cosi come l'epicità che si respira nell'aria incendiata dai riff maestosi di Joe Waller (membro anche degli Adora Vivos) e Tommy Curry. Era una vita che non sentivo un black dalle tinte sinfoniche, qui peraltro unito a momenti in cui il tono si fa ancor più greve e in cui i lampi di genio di Joe squarciano il cielo con fantastiche melodie. Che altro dire, se non auspicare il vostro ascolto e un ritorno sulla scena dei nostri a breve con un full length. Da segnalarvi intanto che la band si è arricchita di membri di Amiensus e di Ashbringer, il che promette davvero ottimi risultati. (Francesco Scarci)

Under The Ocean - Dark Waters

#PER CHI AMA: Deathcore, At the Gates, The Black Dahlia Murder
Abrasivi. Fine. La mia recensione si potrebbe chiudere tranquillamente qui. Descrivere il sound macinato da questa band di Parma è abbastanza facile: un mastondontico deathcore, un rullo compressore che non si ferma davanti a nulla e asfalta qualsiasi cosa gli si pari davanti. 'Dark Waters' è un EP di 20 minuti, che in quattro brani, dà prova dell'energia di cui questi cinque giovani sono dotati. Un suono senza compromessi che sarebbe facile etichettare con un modo di dire abbastanza abusato ultimamente, "un sound che non fa prigionieri". Un principio culturale della politica americana, in cui la sostanza è che gli avversari devono essere distrutti con ogni mezzo. Altrettanto fanno gli Under the Ocean, che da "The Leper Town" alla conclusiva "The Creeper", ci offrono tonnellate di riff sparati in faccia alla velocità della luce, con un batterista che deve essere uscito dal circo per i numeri che riesce ad offrire con la sua tecnica e velocità, mentre i chitarristi provono a tessere qualche melodia di scuola death svedese (At the Gates) ma anche americana (The Black Dahlia Murder), corredata da stop'n go, begli assoli (interessante quello di "The Bell Tower" che mi ha richiamato i Sepultura di 'Arise'), break acustici e ritmiche decisamente, fortemente serrate, mentre il vetriolico vocalist sbraita nel microfono. Inusuale l'inizio di "The Riverbank", la traccia che forse di più si distanzia dalle altre e che, nel suo incedere a tratti marziale, rappresenta anche la mia preferita dell'EP, per quel suo mood più asfissiante delle altre. A chiudere, le vertiginose e aggrovigliate ritmiche di "The Creeper", che sanciscono la fine di questo EP niente male, ma che necessita ancora una revisione nel proprio sound per poter emergere dalla massa di band che offrono questo genere. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2014)
Voto: 65

https://drownwithinrecords.bandcamp.com/album/dark-waters

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

giovedì 11 febbraio 2016

CONTEST RUSTY PACEMAKER


I vincitori del contest "Rusty Pacemaker", che hanno risposto correttamente alle domande poste e vincono una copia dell'ultimo cd, 'Ruins', dell'artista austriaco sono:
The winners of the "Rusty Pacemaker" contest, that answered correctly to the questions and win a copy of the last album, 'Ruins', of the Austrian musician, are:

Caterina M. (Trezzo sull'Adda - Italy)
Michela M. (Coldrerio - Switzerland)
Piero S. (Breganzona - Switzerland)
Diego C. (Bardolino - Italy)
Giulio D.G. (Creazzo - Italy)

Malke - Days After Tomorrow

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal, Russian Circles
Regnano sovrane la decadenza e l’introspezione nel mondo dei Malke, act proveniente da Barcellona. Il trio post rock strumentale è formato da David (chitarra), Mario (basso), Albert (batteria). Nel 2014 i catalani escono per la prima volta allo scoperto con "Santos", un singolo allucinato e surreale, in free download su Bandcamp. Il disco d’esordio 'Days After Tomorrow' viene invece pubblicato nel Novembre del 2015: qui il suono è oscuro e spettrale, a tratti maestoso, a tratti impalpabile. Tuttavia non mancano estatici spiragli di luce che conferiscono all’opera un respiro spirituale e profetico. La fantasia inizia a correre già guardando la copertina, una scelta a dir poco azzeccata! Una luna nuova ed un freddo cielo notturno fanno da sfondo ad un magnifico falco che plana ad ali spiegate tra i grattacieli di un’oscura città, probabilmente disabitata da centinaia di anni. In questo paesaggio post apocalittico un’umanità decimata dalle forze della natura si rifugia nel sottosuolo, sopravvivendo tra stenti e sofferenze e combattendo per ricostruire la civiltà. Aprendo il digipack in cartoncino, scopro stampato sul disco il muso del falco che mi fissa con i suoni tre occhi. Come il rapace vola muto sulle rovine della civiltà anche 'Days After Tomorrow' fa volare l’ascoltatore tra paesaggi surreali e sentieri inesplorati, il tutto senza proferire una parola. I dischi strumentali a volte riescono ad essere più suggestivi proprio perché esulano dal significato delle parole e permettono di immergersi completamente nelle sensazioni che la musica trasmette; i Malke di sicuro hanno fatto proprio e messo in pratica egregiamente questo concetto. I nomi dei brani contribuiscono a rendere più credibile lo scenario di desolazione e tenebre, uno su tutti "Reise Nach Dachau" (Recarsi a Dachau), probabilmente un invito a visitare il campo di concentramento nazista e magari riflettere su come l’uomo sia in grado di infliggere dolore e morte a se stesso. Quasi un avvertimento profetico quello dei Malke, ci esortano ad evolverci e a guardare dentro noi stessi, forse l’unico modo per evitare di dover vivere sul serio nel mondo descritto da 'Days After Tomorrow'. Parlando strettamente di suono è sicuramente da notare il metodo di registrazione, cioè quello della presa diretta live. Sicuramente questa scelta è a favore dello spirito dell’opera che risulta molto diretta e senza fronzoli. L’esecuzione a volte non è perfetta ma è questo il fascino esercitato dalla registrazione live, si sente chiaramente la componente umana, con il disco che sembra suonato davanti all’ascoltatore. La scelta dei suoni di chitarra non eccessivamente saturi, permette alla melodia di prevalere rispetto alla ritmica seppure il disco presenti interessanti cambi di metrica che rendono le canzoni movimentate e dinamiche. Si percepisce chiaramente l’attenzione posta nella composizione della musica più che alla sua “estetica”, in questo primo disco dei Malke prevale la ricerca del significato e dell’espressione ma anche dell’equilibrio spirituale. Il disco inizia con "1402 – 1923", song il cui nome sembra evocare una data, confesso di aver provato a cercare il significato ma il mistero si è rivelato più fitto del previsto. Comunque il pezzo offre un ambiente psichedelico ed etereo, rotto a metà del suo sentiero da un guizzo di pazzia distorta. Poi modula ritmica e intensità fino al termine creando un senso di insicurezza ed instabilità ma anche infondendo un certo grado di coraggio e determinazione, quella che serve per esplorare un posto sconosciuto in una notte d’inverno. La seconda traccia, "Alfas", richiama lo stile dei Russian Circles, ma con suoni più diretti, taglienti e senza fronzoli. Gli strazianti arpeggi distorti della chitarra di David coronano il brano dipingendo scenari di desolazione ed inquietudine. Il corposo basso di Mario crea degli ambienti mistici e spaziali, che ricordano band come i My Sleeping Karma o i Monkey3. Il brano presenta un buon equilibrio tra l’oscurità delle parti distorte e quelle più eteree e risulta in generale godibile e ben costruito. Segue la crudezza di "Maskirowka" che ci riporta a volare un po’ più in basso verso il tartassato suolo terrestre, dove la chitarra e il basso tracciano dei profondi solchi nell’asfalto dissestato mentre l’ipnotica batteria di Albert mantiene l’incantesimo. Arriviamo quindi a "Nebula" che inizia con note sognanti incalzate da una leggera ritmica, come fosse il falco che si posa sulla guglia di un palazzo in rovina che guarda la desolazione sottostante e d’un tratto, decida di spiccare il volo. Dall’alto guarda le strade e osserva la desolazione in cerca di qualche piccolo animale sopravvissuto che serva da sollievo alla troppa e intensa fame. Dopo un intenso intenso viaggio tra le anime delle vittime dei campi di concentramento di "Reise Nach Dachau" possiamo lasciarci cullare dalla coda "Tro", uno splendido regalo d’addio che i Malke ci regalano. Il falco oramai stanco per l’estenuante ricerca della preda si concede qualche ora di riposo al sicuro nel suo nido, sotto una grondaia di un edificio in frantumi, per cercare di raccogliere le energie prima che i morsi della fame tornino a farsi sentire. (Matteo Baldi)

(Consouling Sounds - 2015)
Voto: 75

martedì 9 febbraio 2016

Nepalese Temple Ball – Arbor

#PER CHI AMA: Psych/Post Hardcore, Fugazi, Neurosis
Strano disco, questo. Strana band, anche. Da un gruppo che si fa chiamare come un leggendario tipo di hashish, ti aspetteresti musica rilassata o comunque un qualcosa che ti accompagni nei tuoi “viaggi” rendendoli piú piacevoli e consapevoli. Non certo un monolite oscuro, pesante e malsano fin dall’artwork (invero molto curato) che potrebbe rischiare di farti incontrare i tuoi mostri e indurti a perdere la testa per sempre. Perchè la musica dei Nepalese Temple Ball (NTB), quartetto inglese di Bournemouth, è un gigante barbuto e feroce, coi piedi ben piantati nel noise rock di matrice AmRep e due teste, una fieramente hardcore, l’altra dallo sguardo post-metal disturbato e folle. 'Arbor' risulta quindi un’impressionante opera prima che coniuga stili e influenze in modo tutt’altro che grezzo o ingenuo ma che anzi colpisce per maturità e riesce ad infondere un costante senso di minaccia lungo tutti i suoi 63 minuti. Molto merito va ascritto al peculiare utilizzo delle voci (spesso al microfono si altrenano un cantato di stampo piú classicamente declamatorio, alla Fugazi, e uno di scuola screamo) e di un suono che sembra come ricoperto di una patina di sporcizia, il che è un complimento, se capite cosa intendo. Per la gran parte del tempo mi sono trovato a gridare al miracolo, ci sono momenti in cui i NTB sembrano il figlio segreto nato dall’unione tra Fugazi e Neurosis, definitivamente conquistato dall’incompromissoria potenza dei riff, dalle percussioni furibonde e ritualistiche, come in “A Snake for Every Year”, monumentale cavalcata che apre il disco col suo furioso crescendo, o la maestosa e ipnotica “Gas Bird”. Splendide anche l’imponente (quasi) strumentale “Desert Baron” con le sue formidabili accelerazioni, “Astral Beard”, e le raggelanti urla di “The Axeman”, percorsa da folate psych su un incedere tribale, che chiude il disco come meglio non si potrebbe. Questi sono i passaggi che preferisco, quelli in cui il progetto sembra piú a fuoco e centrato, e quelli per cui (se fossero gli unici in scaletta) questo 'Arbor' potrebbe essere un vero capolavoro, rispetto ai brani in cui la violenza scream prende il sopravvento (“Knee Deep”), o all’anomalo psych death doom di “Statues in the Garden of Death”, che – per quanto validi - vanno forse un po’ a rovinare la coesione di fondo. In definitiva 'Arbor' è un esordio davvero importante, di quelli che fanno (o dovrebbero fare) molto rumore. Segnatevi il nome dei Nepalese Temple Ball e ascoltate questo disco, ne rimarrete conquistati. (Mauro Catena)

(Third I Rex - 2015)
Voto: 80

Vinnie Jonez Band - Supernothing

#PER CHI AMA: Stoner/Post Rock/Heavy
La via dello stoner continua ad abbracciare nuovi proseliti e altre band si aggiungono al già nutrito stuolo nazionale e non. I Vinnie Jonez Band (VJB) sono un quartetto romano (Palestrina per la precisione) nati dalle ceneri di band locali, che nel corso del 2015 hanno fondato la band e registrato questo EP. Cinque brani per raccontare la loro storia che si ispira a mostri sacri come Queens of the Stone Age, Mastodon, Deftones, ma anche a Mogwai, God is an Astronaut, Karma to Burn e Tool, con il mix che ne esce alquanto variopinto. A livello compositivo i ragazzi ci sanno fare, giocando spesso su cambi di ritmica, riff potenti e break che mantengono abbastanza alto il livello di attenzione dell'ascoltatore. Dico abbastanza perché spesso alcuni arrangiamenti sono frettolosi e il livello di qualità risulta scostante, una cura maggiore avrebbe sicuramente alzato il tiro e regalato un EP degno di nota. "Rose" ha la responsabilità di essere la prima traccia e porta con sè quanto detto fino ad ora. Il sound ricorda il grunge e l'alternative rock con un'attitudine punk, un mix che può convincere se sviluppato con cognizione, in realtà nei centocinquanta secondi il quartetto mette troppa carne al fuoco, come quell'assolo tipicamente heavy finale. Dopo questo turbinio un po' confuso passiamo a "To the Mountains" che ha un forte sapore Southern rock, che poi si appesantisce con sfumature metal e ritorna all'alternative sentito in precedenza. Il vocalist affronta la sfida, cerca di superare i propri limiti, l'esito è poco convincente. Gli strumentisti sono invece all'altezza anche se si sente la mancanza di un leader che mantenga le fila della composizione musicale in sede di scrittura. Il finale del dischetto conclude invece alla grande e fa dimenticare le precedenti incertezze. "Bleach" è la cavalcata finale che sale e scende, scorre fluida e si fa ascoltare con piacere con una chiusura prog/nu metal che stuzzica l'orecchio e conferma che i VJB hanno le capacità per fare buone cose, ma devono maturare una maggiore coscienza in se stessi che gli permetta il salto di qualità a cui sembrano mirare e che possono meritare. Ultima nota per la qualità audio dell'EP, discreta, non sacrifica né esalta le doti della band; piacevole anche la copertina che mostra uno stralcio del satellite lunare in un gradiente di giallo un po' vintage. Ora attendiamo fiduciosi il full length. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 65

domenica 7 febbraio 2016

Raventale - Dark Substance Of Dharma

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La Solitude Productions compie 10 anni e dagli esordi accompagna la mia maturazione musicale in ambito black/death/doom. Sono centinaia i dischi che abbiamo recensito qui nel Pozzo dei Dannati provenienti dalla label russa, band che ho visto passare e sbocciare, altre che dopo un solo disco si sono perse. Una band però mi è rimasta particolarmente nel cuore, forse perchè l'ho vista nascere e crescere lavoro dopo lavoro, sto parlando dei Raventale, da sempre guidati dal solo Astaroth Merc, che con questo 'Dark Substance Of Dharma', giunge al traguardo del settimo cd. Da parte mia nel corso di questi anni, ho cercato di fare la cronaca più o meno puntuale dei suoi lavori ufficiali o dei suoi side project. Eccomi quindi al cospetto del nuovo disco, che include sette nuovi brani e che vedono il mastermind di Kiev abbracciare forse una nuova religione (credo sia la dea Calì quella nella cover cd), incorniciata questa volta dal colore arancione. Faccio questa constatazione anche sulla base di quanto riportato nel titolo del lp, "Dharma", un termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati ("dovere", "legge", "ordine cosmico" oppure più semplicemente "religione"). Questa nuova direzione si riflette anche nei contenuti del disco che, muovendosi sempre nei territori del black doom, concede più spazio alla componente atmosferica, come certificato da "Destroying The Seeds Of Karma", che segue la classica intro. Il pezzo è un ottimo mid-tempo dove trovano collocazione evocative derive etniche e chorus che sembrano arrivare direttamente da qualche tempio tibetano. Suggestivi non c'è che dire, anche quando il ritmo si fionda su velocità più sostenute come nella title track, ma sono solo brevi attimi perchè poi l'intensità dei bpm rallenta per far posto a sognanti ambientazioni, ove sarà la vostra fantasia a guidarvi, se sugli impervi pendii dell'Himalaya, lungo le rive del Gange o semplicemente sotto un albero a meditare. Io ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato condurre dalle tastiere ispirate di Astaroth, mentre la sua voce abrasiva come sempre, narra appunto delle religioni orientali. Non fatevi però ingannare dalle mie parole, non siamo al cospetto di un lavoro di musica spirituale, stile Buddha Bar o quelle nenie che accompagnano l'arte dello yoga, qui avrete a che fare con black metal, però intriso di melodia, parti solenni e sognanti, ma anche di brevi ed epiche cavalcate ("Kali's Hunger" e "I Am the Black Tara"), fino a giungere alla perla finale di “Last Moon Fermata”, un pezzo aperto da un suadente pianoforte che vi permetterà di raggiungere il vostro karma, una song dotata di un refrain che guarda a sonorità gotiche. 'Dark Substance Of Dharma' è il nuovo passo di Astaroth Merc verso la rinascita della sua anima e l'espiazione delle colpe. Io, un ascolto attento lo darei. (Francesco Scarci)