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domenica 23 marzo 2014

Dementia Senex - Heartworm

#PER CHI AMA: Death/Djent/Postcore 
I cesenati Dementia Senex debuttano con un EP di tre pezzi, con l'intenzione di mostrare di che pasta sono fatti. Speriamo che questo sia l'antipasto di quanto bolle in pentola, che si preannuncia essere alquanto prelibato, ma per il momento non ancora cotto a puntino. Il five-piece romagnolo ci offre un concentrato abrasivo di sonorità di matrice death metal, pesantemente influenzato dall'ultima ondata post (hardcore e metal). La gavetta fatta a supporto di bands come Mouth of the Architect, Ulcerate o Fleshgod Apocalypse, darà sicuramente i suoi frutti in un immediato futuro. Ma passiamo all'analisi dell'EP. "Unscented Walls" è una song che inizia e scivola via piano prima di carburare, sciorinando un riffing schizoide, vocals al vetriolo e un martellante drumming. Ahimè il potenziale esplosivo della band rimane tuttavia inespresso e lascia con la voglia di ingurgitare qualcos'altro di più sostanzioso per saziare il proprio appetito. E dire che in termini di preparazione tecnica non vedo alcun problema, musicalmente i nostri sono ineccepibili, ma sembra sempre che il colpo rimanga strozzato in canna. Non basta, seppur apprezzabile, un breve break semi acustico o delle leggere interferenze industrial, per conciliarmi appieno con la proposta dell'ensemble italico; in un genere ormai estremamente competitivo come il post, bisogna osare e stupire e i nostri non ci riescono ancora al 100%. La opening track rimane quindi e ahimè, un'incompiuta, speriamo nelle successive. "Kairos" è un breve pezzo di due minuti in mezzo, decisamente più votato a quel death metal, da cui i nostri erano partiti: un sound mai troppo feroce ma ricco di cambi di tempo, di scuola Death. Un inizio acustico apre la conclusiva title track, che si rivela essere la song più variegata delle tre, dove le sonorità alternative/nu metal della struttura armonica, si miscelano con un funambolico attacco all'arma bianca, mentre le vocals si alternano tra un growling ulceroso e un "neo" cantato pulito. Le ritmiche poi rientrano nei binari di un death venato di djent, mostrandosi serrate e puntuali, e completando il quadro corroborante di un lavoro che palesa ancora alcuni difettucci in termini di songwriting, di cui sono certo, la band sarà in grado di raddrizzare, ma confermando anche le enormi risorse che l'act di Cesena può vantare. Ovviamente, anche la durata complessiva di 'Heartworm' (17 minuti) non giova, rendendo più complicata un'analisi approfondita della proposta dei nostri. Dalle band italiane si pretende sempre il massimo e io dai Dementia Senex mi aspetto molto di più. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2013) 
Voto: 65 

giovedì 20 marzo 2014

Ars Goetia - Servants Of Void

#PER CHI AMA: Old school black metal, Mayhem, Celtic Frost
Il black metal è un genere poco fantasioso ma certamente ampio, tanto che usualmente lo si identifica solo nella sua accezione della second wave tralasciando le radici thrash. I padovani Ars Goetia invece sono riusciti ad andare più indietro rispetto alle altre band che cercano di emulare, spesso con risultati deludenti, le icone del genere. Se solitamente le influenze o i plagi sono di band storiche come Darkthrone, Marduk o Burzum (per fare degli esempi profondamente differenti tra loro in modo da ampliare il raggio di possibili richiami), i nostri presentano un sound non votato alle gelide lande a cui solitamente facciamo riferimento, ma più ad una forma primordiale tipica dei primi lavori di gruppi fondatori come Mayhem, Bathory, Celtic Frost o Sarcofago, quando etichettavano la loro musica come "deathrash". La composizione è difatti minimale, sporca, non c'è millimetrica precisione ne elevata velocità ma solo oscurità e rabbia, la title-track all'apertura del disco ne è la prova, come la successiva "The Witch of Endor" mentre le tracce più rappresentative che scavano nelle radici musicali del genere toccando l'hardcore, punk e il thrash si trovano nella seconda metà del disco, come "Virgin Prostitute" e "Crusted Blood". Quello presentato dai nostri blacksters è un prodotto originale che emerge dal piattume "wannabe black metal", il quale purtroppo rovina questo genere culto generallizando tutti i loro adepti. L'unico lato negativo di quest'opera potrebbe essere la mancanza di mordente e la staticità della composizione, che nonostante un songwriting schietto ed old school rischia di annoiare a causa del minutaggio del disco. Ad ogni modo missione compiuta Ars Goetia! (Kent)

(Baphomet in Steel - 2013)
Voto: 70

Giza - Future Ruins

#PER CHI AMA: Instrumental Post-metal, Sludge, Isis
Da quanto tempo non vi capitava di premere repeat per quattro volte di seguito per un brano di un disco nuovo? Personalmente da un bel po’. E mi è capitato adesso, con “Hour of the Bullfight”, traccia numero 4 di questo lavoro di debutto dei Giza: un riff che cresce e monta piano, fino ad esplodere fragoroso e irresistibile come il lavoro indemoniato della batteria, e poi una seconda parte meditabonda, con colpi lenti che sembrano i magli di una fonderia. Il biglietto da visita con cui si presenta questo trio di Seattle è di quelli importanti, molto importanti: pur essendo un'autoproduzione, questo loro esordio è stato infatti registrato nei leggendari Litho Studio (per intenderci quelli in cui sono stati registrati i dischi di Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam, tra gli altri) da Matt Bayles, già produttore di gente come Mastodon, Isis, Cursive, Russian Circles, tanto per far qualche altro nome. E in effetti il suono di questo disco è di quelli che ti fanno vibrare dentro. I tre sono autori di un post/sludge strumentale potentissimo e piuttosto apocalittico (la copertina parla chiaro, del resto), giocato su una profondità sonora e compositiva davvero invidiabile, in grado di mostrare nuove sfumature ad ogni ascolto. Apocalittici, si diceva, e apocalittico è l’attacco di "Séance", lenta e maestosa marcia di distruzione, portata da una chitarra devastante, un basso lirico e impressionanti gragnuole di colpi della batteria. Se non siete annichiliti dopo dieci minuti così, ci sono ancora da affrontare l’ondivaga “Wake & Drag”, con il basso ancora una volta a fungere da strumento solista, la rutilante “Roaming Hordes” e la conclusiva “Great Leader”, che contribuisce non poco a ridefinire il concetto di potenza, così come lo conoscevano gli altoparlanti del mio stereo. L’unico appunto che si può muovere ai Giza è quello di non essere proprio originalissimi (dopotutto Isis e Pelican sono in giro da un po’), ma in loro si intravede il marchio dei fuoriclasse. Se lo siano davvero, ce lo dirà il tempo. (Mauro Catena)

(Self - 2012)
Voto: 75

Barbora – Tartarus

#PER CHI AMA: Metal Avantgarde, Ephel Duath, Voivod, Disharmonic Orchestra  
Barbora è una chitarrista proveniente dalla Slovakia di base a Londra con una passione smodata per la chitarra e il metal in generale. Lei programma le percussioni, suona anche il basso e ovviamente tutte le chitarre presenti su questo album interamente autoprodotto. Diciamo subito che l'aspetto di Barbora non ci aiuta a capire di quale musica potrebbe nutrirsi una giovane tanto graziosa e questo ci riserva un'ottima sorpresa. L'apertura di questo album è data dal brano "Creation", brano di due minuti circa che già fa presagire qualcosa di particolare. Il pezzo inizia con rumori d'ambiente creando il tappeto ideale per l'ingresso di 'Tartarus' che sembra appena uscito dalla scatola magica degli Ephel Duath, tanto il suono riflette dissonanze prog e schegge di jazz metallico impazzite, ritmiche stregate dal potere lunare adatte a coltivare un amore per le allucinazioni sonore di scuola Voivod con sperimentazioni a volte anche azzardate. In "Orpheus" ci si scontra con una sonorità thrash/death devastante e trasversale in stile Disharmonic Orchestra, contornata da una voce growl violentissima (quella di Simon Duthilleul Vannucci aiutante per voce e synth). Il brano si snoda in un groviglio di note e riff contorti e vorticosi in cui potremmo facilmente affogare, onde sonore anticipate da un intro di vago ricordo Jeff Buckley. Nel quarto brano "Eurydice", ci si scioglie in un'onirica suite, delicatissima e sognante che offre un istante di alternative folk al cd e ci traghetta dolcemente verso "Odysseus". Il brano mette in luce il lato più progressivo della nostra eroina che per l'occasione mostra una voce indie inaspettata, quella dell'amica Kaya Labonte-Hurst, affascinante, ammaliante e alquanto atipica per il genere (ascoltate la cover di Chris Isaak, "Wicked Game", fatta dal duo che trovate su bandcamp). Nel finale un'altra suite per la bella chitarra di Barbora che si cimenta in un brano acustico dove sfodera parte delle sue doti esecutive e compositive leggermente offuscata da una registrazione non in linea con il resto del lavoro. Un EP decisamente stravagante, tanto prog metal alternativo con svariate buone idee, un sound intrigante e solo in parte bisognoso di una produzione più intensa e professionale. Un concept ispirato alle leggende dell'antica Grecia, un album metal non catalogabile, fuori dagli schemi, bello e non di facile approccio. Diremo una sfida... che Barbora ha vinto! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 70

Shrapnel - The Virus Conspires

#FOR FANS OF: Modern Thrash, Blood Tsunami, Demonica
With all the hoopla over the retro-sounding thrash acts coming out nowadays, sometimes it’s nice to be able to just sit down with an act that doesn’t try to ape the sound of 1986-era thrash. The UK-based act bearing the name Shrapnel is part of this movement with perhaps no denying the fact that there’s more than enough acts reminiscent of that time period, it’s about the here-and-now in terms of thrash, and the intensity bristling through these eleven tracks certainly bears that attitude with absolute precision. Armed with a slew of vicious, intense riffing that bear the tell-tale stamp of modernity through their crystal-clear production, thumping omnipresent bass-lines, triggered patterns and technical precision rather than the more loose and energetic thrash of the glory days which seems somewhat inspired through Metalcore, as well as doing so through the vocals which feature the hoarse screaming/shouting tactic employed by such bands. Somewhat surprising for a modern band is the ability to dip into the melodic realm with their soloing to offer up a much-needed sense of relief from the storming chaos outside, which is the main goal here with the majority of the songs here content to rattle along at the bristling up-tempo pace they clearly enjoy and offer up plenty of high-speed tunes throughout. The real down-side to this is the fact that the band manages to fall in love with a singular pattern for attack and manages to incorporate that into nearly every track on here, resulting in a decided lack of distinction between the tracks. Drop this anywhere and it’s pretty tough to spot a singular note or pattern to distinguish where you are or what song’s playing for they all tend to sound pretty similar with the band in constant “attack-now” mode which does leave this to grow tired as well when looking for a bit or variety throughout which can also lose some points here. Intro "Kingdom Come" pretty much sets the stage for what to expect here, with barreling drum beats, razor-edged riffing and relentless paces that are forged by the screaming/shouting vocals that undoubtedly sound far more modern than old-school. "Titan" offers up some tripping backing vocals and a stuttering pace to keep things barely contained as the pace threatens to rattle out of control throughout the blistering drumming featured throughout, while the barreling "Brain Dead" offers up some highly melodic solo leads during the intense stages. Ironically, it’s not until the title track where it really starts getting really original with a rather vicious set of riffs sprinkled throughout the raging tempo and manages to strike itself as an album highlight that offers hints that the band might be able to glom onto for future releases for its blend of intensity, technicality and sense of variation within the guitars where it’s not just set to the same pattern throughout. Beyond these, really only "Red Terror" manages to really evoke a response with its barreling performance, tight riffing and pounding drumming working along a rather stylish pattern, even though "The Watchers," "Pseudocommando" and "Poison the Mind" all have the markings of being vicious, energetic thrashers. It’s all just too similar to each other to really stand-out, even though it’s pretty clear the band is good at this form of intense thrash and that youthful exhurberance makes for a few extra points. (Don Anelli)

(Candlelight Records - 2014)
Score: 75

mercoledì 19 marzo 2014

Tartharia - Bleeding for the Devil

#PER CHI AMA: Black/Death melodico, Throes of Dawn, Arch Enemy
Allora lasciatemi ringraziare immensamente la band dei Tartharia, che non solo mi ha inviato il cd dell'ultima compilation (di cui presto leggerete la recensione), ma addirittura Lp in questione, che rappresenta il quarto lavoro della loro decennale carriera. Cosi, con la gioia di un bambino in corpo che gioca con le sue macchinine, io col mio bel vinile, mi lancio all'ascolto di 'Bleeding for the Devil', album di 10 pezzi, belli freschi e incazzati. Le danze si aprono con i 2 minuti di "Metal Salvation", song essenziale che sembra immediatamente decretare l'amore della ensemble di San Pietroburgo per il death di matrice finlandese (Throes of Dawn su tutti). Sarà la vicinanza della grande città russa alla Finlandia, ma gli elementi canonici ci sono tutti: un bella ritmica in cui la chitarra che disegna trame melodiche va a raddoppiare quella che segna invece il passo veloce dei nostri, sorretti da vocals arcigne che nella successiva "Bridges Burning Memories" diventeranno decisamente più growl, almeno all'inizio, dove compare anche la voce di una donzella. Il sound si fa tuttavia più tirato e meno spazio viene concesso a quelle gentili linee di chitarra, per far posto invece ad una bella galoppata thrash/death di scuola Arch Enemy oriented, interrotta da qualche frangente doom. La terza è la title track, song dotata di un buon tiro ma soprattutto di un bel chorus; se devo trovare un pregio ai Tartharia, è quando i nostri spezzano il loro torrenziale incedere con qualche break di tastiere o frammento doom. Con "Satisfactory Suffocation" vengo nuovamente investito dalla furia black/death dell'act russo, ma si tratta sempre di un sound carico di groove che rende più accessibile la proposta. I nostri ci prendono a calci nel fondo schiena ma fondamentalmente lo fanno con il sorriso sulle labbra, regalandoci costantemente melodie catchy. La durata mai eccessiva dei brani (fatto salvo per la conclusiva e misteriosa "Mission Failed") fa si che le song arrivino dirette là dove devono arrivare, stampigliandosi con il loro chorus o la loro bella melodia fischiettabile, nella mia testolina. 'Bleeding for the Devil' è un album che non richiede macchinosi sforzi fisici per essere compreso o apprezzato; è sufficiente premere il play nel vostro hi-fi e lasciarsi guidare dal sound robusto del quartetto guidato da Igor Anokhin. "Newer Too Late" è probabilmente la song più varia del lavoro (e anche la meno tirata) ma sicuramente quella dalle atmosfere più crepuscolari, in cui fa la comparsa anche una certa effettistica cyber. "Prime Evil" e "Half a Sense" sono due schegge impazzite: la prima più blacky, la seconda più orientata ad un versante rock, per un risultato finale decisamente apprezzabile. I 10 minuti finali di "Mission Failed" si presentano come una bella crivellata di colpi d'arma da fuoco, che tra una cavalcata e l'altra sorrette da ottime e flebili tastiere poste in secondo piano (ma dal forte effetto funzionale), qualche buon assolo, decretano la buona riuscita di questo lavoro. In realtà il brano dura sui 5 minuti, poi un paio di minuti di silenzio per la ghost track che si nasconde in coda, che riprende il mood dark melodico della opening track. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

(Phantom Pain - 2014)
Voto: 75

Enos - Chapter I

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner/Sludge, Space rock, Orange Goblin, Baroness, Sleep 
Si intuisce che c’è più del solito disco in questo 'Chapter 1' degli Enos solo guardando il packaging: schemi di costruzione di razzi spaziali, un bel fumetto free – come il disco, d’altra parte: tutto in free download –, e una tracklist che racconta già una storia: quella di una scimmia, Enos, che negli anni ’60 fu addestrata dalla NASA e lanciata nello spazio come test per i futuri viaggi dello shuttle. Enos tornò a casa, nella vita reale: la band inglese, invece, immagina che da qualche parte la scimmia si perda nello spazio e ritorni sulla Terra, sì, ma ormai trasformata in qualcos’altro. Musicalmente gli Enos pescano a piene mani elementi dello stoner/sludge psichedelico di oltreoceano (c’è qualcosa dei Kyuss, certo, ma anche di Sleep, Baroness, Hawkwind) mantenendo comunque un certo piglio British (Orange Goblin, persino Pink Floyd a tratti) soprattutto nei suoni, nella struttura delle canzoni e nel mood generale. Cinque tracce per 35 minuti: si va dai potenti riff stoner di “Launch” alle atmosfere space guidate dalla chitarra acustica di “In Space”, ma c’è spazio anche per la psichedelia floydiana di “Floating” e per l’oscurità doom delle inquietanti “Transform” e “Back To Earth”, che chiude il disco con tre minuti abbondanti di un riff ossessivo che non dimenticherete facilmente. I quattro Enos si muovono con personalità e sicurezza pur essendo un debut album: si percepiscono le influenze già citate, ma ben miscelate e interpretate con gusto e presenza. Bella la voce quasi costantemente in delay (mi ricorda i Sons Of Otis), bello il taglio blues di molti soli, belli i misuratissimi interventi di soundscapes di tastiere. Volete un difetto? Alcuni suoni, il rullante in particolare, sono forse un po’ troppo lo-fi persino per un genere che ha fatto della produzione sporca e grezza un marchio di fabbrica. Ma “Chapter 1” degli Enos resta davvero un bel lavoro, pieno di idee e ben suonato: se non bastasse, lo ripeto, l’album è pure in free download. Da avere. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2010) 
Voto: 75 

lunedì 17 marzo 2014

Circsena - S/t

#PER CHI AMA: Black Folk Atmosferico, Agalloch, Menhir 
E' decisamente controverso il mio giudizio sull'album in questione per tutta una serie di motivi: partendo da quello negativo, posso dire che non mi piace la grafica fantasy troppo elementare della cover cd e della pseudo brochure che lo accompagna. Tuttavia considero una bella trovata proprio quella della brochure, che narra la storia della band teutonica, ne ritrae i suoi componenti in modo stilizzato, descrive i brani track by track, narra la epica storia alla base di questo cd ed infine ne riporta i testi. Insomma, i nostri hanno già fatto tutto da soli, probabilmente non sarebbe necessario neppure il mio commento, ma quando serve un giudizio obiettivo, eccomi materializzarmi per voi. 'Circsena' è un EP di quattro pezzi che apre con il dolce flauto di "Wandering Above the Trees and Moors" che palesa immediatamente l'amore del duo della Sassonia per un viking black folk mid-tempo, carico di melodie nordiche abbinate ad un riffing mai troppo pretenzioso e ai vocalizzi graffianti di Daniel Kirchhoff. Un che dei primi Einherjer o dei connazionali Menhir, emerge dai solchi di questo self titled EP. Con "The Sleeper" ci si ritrova nel bel mezzo della foresta, ne percepisco l'odore del muschio e delle rocce bagnate. L'atmosfera è rilassata e quasi sognante: si tratta di una song strumentale in cui a mettersi in evidenza è il pulsante suono del basso e di una chitarra che ricama psichedeliche ambientazioni che mi conducono a "Here I Am", terza traccia di questo interessante lavoro. Una song che ha abbandonato quasi del tutto gli umori vichinghi della opening track (fatto salvo per il break centrale), e che sembra piuttosto aver abbracciato un sound molto più vicino a 'The Mantle' dei maestri Agalloch. Meravigliose (e malinconiche) le linee di chitarra, ottimi i suoni bucolici nella sua parte centrale e spiazzante la comparsa delle eteree vocals della guest Janina Jones a creare un ambientazione ancora più sognante; azzeccatissima infine la scelta dei cambi di tempo. Ottime le tastiere che con un bel riffing ritmato, aprono la conclusiva "The Age of the Dryads Pt.1", song di breve durata che mette in luce altre analogie con i gods di Portland, e che fanno balzare i Circsena in testa alle mie preferenze all'interno di questo genere. Non so se siano la risposta europea agli Agalloch, sinceramente me lo auguro, perchè Daniel e Jens Wallis di talento ne hanno da vendere. Sono certo che di risposte ne avrò a breve, visto che questo EP è preludio ad altri due cd in arrivo che continueranno la saga del potente regno di Dryad. (Francesco Scarci)

(Self - 2013) 
Voto: 75 

domenica 16 marzo 2014

A Very Old Ghost Behind the Farm - La Came Crude

#PER CHI AMA: Post Metal/Stoner, Neurosis, Cult of Luna 
Se il primo album dei francesi A Very Old Ghost Behind the Farm ci aveva impressionato per il loro piglio stoner doom, con questo secondo lp, l'ex one man band di Tolosa, guidata da Lundi Galilao (che abbiamo già incontrato nei Dead Mountain Mouth), cattura la nostra attenzione per tutta una serie di trovate. 'La Came Crude' per un giorno mi ha invogliato allo studio del francese. Perché vi chiederete voi. Vi rispondo che in compagnia del cd, vi arriverà anche una piccola novella scritta proprio nella lingua madre dalla band transalpina, che narra di una leggendaria e folkloristica creatura della Guascogna e delle regioni dei Pirenei (appunto la came-crude), simile ad un gufo dotato di un solo artiglio allungato sul quale risiede un terzo occhio, che era solito vagare di notte e divorare la gente per la strada. Ecco, partiamo quindi da questo scenario di terrore per descrivere la nuova fatica di Lundi e soci: un'unica traccia suddivisa in due parti che esordisce con uno scenario notturno, proprio come se la notte scendesse su un paese qualunque di quella zona della Francia. Quindi la quiete sul calare della sera, le luci che si accendono qua e là nelle case, il crepitio del fuoco. Ovviamente ci troviamo in un'epoca medievale in cui le credenze verso il male e creature mostruose sono ben diffuse, soprattutto per incutere timore nei bambini "cattivi". Ma in questa apparente situazione di calma, quando ormai la notte è calata e ormai poche persone girano per la strada, ecco le prime urla di sgomento, segnate anche dallo screaming infausto di Lundi e da un'atmosfera di ansia e fuga, cosi ben descritta dal riffing post metal dei nostri. La paura si fa sempre più palpabile, una vera e propria escalation di ansia, terrore e orrore. Le poche persone per la strada fuggono all'impazzata, mentre la creatura infernale inizia a svolazzare alla ricerca della sua cena. Strazianti urla annunciano la presenza del mostro, un break acustico pare riportare la calma, ma un viandante con la voce stile Arcturus, annuncia invece che la morte si abbatterà su qualcuno quella notte. L'attesa è snervante, l'atmosfera sempre più tesa, e si prepara ad un epilogo funesto. La creatura deve nutrirsi ed è pronta al primo assalto. Un break di basso descrive il volo del mostruoso volatile e poi eccolo attaccare. Esplode un riffing dalle molteplici sfaccettature: stoner e post metal diventano una sola cosa. La furia imperversa. Montagne di riff, un assolo da paura. La came-crude ha fatto la sua prima vittima e la divora con somma voracità. Solo la preghiera corale delle persone per colui che è stato prescelto come vittima, riporta un po' di calma, ma è solo una questione di pochi attimi, perché il terrore torna a divampare tra le strade. Il mostro non è sazio e vuole far suo qualcun altro. I ritmi tornano a rallentare in un cupo incedere doom su cui si stagliano le clean vocals del bravo artista francese. Ancora attimi di attesa e terrore sorretto da una ritmica quasi marziale. Ecco calare definitivamente le tenebre con un sound al limite del funeral doom. Il pericolo sembra tuttavia scongiurato. Un temporale infatti pare aver allontanato il volatile malefico, ma il suo spettro ancora aleggia spaventoso nella notte per un ultimo attacco, che certo non tarda ad arrivare. Ecco esplodere nuovamente un violento riffing, che strizzando un po' l'occhiolino ai Neurosis, si rivela come un finale presagio di morte che si spegne in un ottimo assolo e in un riffing conclusivo degno dei migliori Cathedral in versione quasi black metal. Non c'è tregua un solo attimo in questa magnifica release del sempre più sorprendente Lundi Galilao, che con 'La Came Crude' colpisce ancora con la sua straordinaria inventiva e prolificità musicale, con un lavoro che sarà sicuramente apprezzato da tutti coloro che gradiscono sonorità stoner/post/doom/black/sludge. Inquietante e coinvolgente! (Francesco Scarci)

(Peccata Mundi Records - 2014)
Voto: 85 

Orbweaver - Strange Transmissions From The Neuralnomicon

#PER CHI AMA: Death Grind Schizoide, Gorguts, Primus, Meshuggah, Naked City 
Gli Orbweaver arrivano dalla Florida e ci aprono all'ascolto del loro primo scrigno magico composto da cinque stupendi brani, magistralmente autoprodotti con un artwork di tutto rispetto, ricercato e perfetto per l'immagine della band. L'album è a dir poco allucinante, suonato divinamente, duro, tossico, violento, psichedelico e folle. Immaginate i Psyopus che suonano un tributo agli Hawkind con la follia dei Primus più trasversali e con la potenza devastante dei Napalm Death e avrete una vaga idea del groviglio sonoro proposto da questa stratosferica band. Un quartetto di tre ragazzi e una ragazza (Sally Gates suona la chitarra divinamente), formazione classica con un chitarrista cantante e una propensione al grindcore infarcito di LSD e viaggi cosmici, una tecnica invidiabile e una fantasia al limite del sopportabile in quanto a variazioni sul tema. Esagerati, forse fin troppo positivamente oppressivi nella proposta musicale indecente, troppo intellettuale, tanto affascinante ed emozionante e piena di sensazioni in continuo movimento. L'atmosfera è surreale, simile a quella di certi Voivod o Meshuggah e un gusto naif alla Ozric Tentacles, con una maniacale devozione alla forza d'urto, alle dissonanze e alle magnifiche chitarre interstellari, al viaggiare attraverso mille galassie di suoni . Un improbabile connubio tra Frank Zappa, i Naked City di 'Torture Garden', Cannibal Corpse, The Dillinger Escape Plan e Gorguts. È difficile spiegare come questi ragazzi abbiano superato indenni la tentazione di creare la solita zuppa di tecnicismi fini a se stessi, optando per un EP carico di suggestione sonora e chilometri di fantasia, cercando nuove vie di espressione, allargando i confini di una musica che molte volte cade nel sentito e risentito. Ci rendiamo conto che non sarà facile dare un seguito ad un tale capolavoro e per ora ce lo gustiamo spensierati a tutto volume, a bordo della nostra navicella cerebrale a spasso per lo spazio più profondo. Intelligente, geniale, fantasioso, estremo. Stellare! (Bob Stoner)

(Primitive Violence Records - 2013)
Voto: 85

25 Yard Screamer – Something that Serves to Warn or Remind

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Dream Theater, Marillion 
Il progressive rock è un genere che, alle mie orecchie, suona di per sé come una cosa molto delicata. Posso amare oppure odiare con la stessa intensità questo tipo di musica, e spesso il confine tra un sentimento o l’altro si misura con la capacità dei musicisti di mantenersi in equilibrio su terreni molto, a volte troppo, scoscesi. Ci sono un paio di cose che mal sopporto e che non vorrei mai trovare in un disco prog: l’eccessiva freddezza e la prolissità che troppo spesso non è giustificata dalla quantità o la bontà delle idee musicali. Ebbene, da che parte stanno i 25 Yard Screamer? La risposta è: dipende. Per i miei gusti, perdono un po’ troppo di frequente quell’equilibrio di cui sopra, e così ci si sorprende a cercare il tasto “skip” più spesso di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Il loro è un prog venato di hard che guarda ai Marillion, ai Rush e ai Dream Theater come punti di riferimento. Le qualità tecniche ci sono tutte, e anche l’esperienza dovrebbe giocare a favore dei quattro gallesi (formatisi da una decina d’anni abbondante). Peccato che alcuni brani risultino inutilmente lunghi (“Lost in a Green and Blue Sky” dura almeno 4 minuti di troppo), altri semplicemente piatti e troppo scarichi (“The Journey”, quasi irritante a tratti). A tutto ciò non giova una produzione un tantino troppo “sottile”, che non mette in evidenza le doti dei 25YS, e non rende un buon servizio alla pur bella voce di Nick James, che appare sovente troppo “davanti” e rischia di risultare un po’ pesante. Altrove ("The Ritual", "Always There", "Home is not Home") invece, tanto la scrittura quanto l’esecuzione sono davvero molto buone, cosa che però non fa altro che accrescere la sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro riuscito a metà, un’occasione sostanzialmente sprecata. Alla fine si arriva in fondo con una certa fatica, e la sensazione che questi 57 minuti siano durati almeno il doppio. Formalmente ineccepibili, ma lungi dall'essere indimenticabili. (Mauro Catena)

(WhiteKnight Records - 2013)
Voto: 65 

sabato 15 marzo 2014

Ewok - No Time

#PER CHI AMA: Electro Music
Il trio sloveno degli Ewok, con il loro primo full-lenght 'No Time', dimostra ancora una volta quanto l’etichetta “musica elettronica” voglia dire tutto e niente: qui non ci sono il groove dei Propellerheads, i suoni industriali dei Nine Inch Nails, gli arrangiamenti dei 65daysofstatic, il minimalismo di James Blake; non c’è nulla di dubstep, drum’n’bass o ambient. Cosa resta? Poco o nulla in realtà: il risultato è un disco che può forse funzionare in certi club dell’est Europa per scatenarsi dopo mezzo litro di vodka, un insieme di musichette goderecce da party di serie zeta, con quell’atmosfera da festa tardo-adolescenziale mentre i genitori sono fuori casa. Il basso e la batteria, che dovrebbero essere cuore pulsante del big-beat (ascoltatevi Fatboy Slim o Chemical Brothers, giganti del genere), negli Ewok hanno una personalità quasi inesistente. Vengono premiati di gran lunga i synth anni ’80 – noiosi già dalla terza traccia – e la voce, sempre a cavallo tra melodie new wave e hip-hop da dilettanti. Il premio di peggior componente va senz’altro a Milan Jerkic (voce), che esagera con gli “yeah!”, i “c’mon!” e gli “hey” trasformando anche le poche tracce appena interessanti ("Don’t Stop, Mr. Pacman") in una specie di ridicolo ballo di gruppo. Gli Ewok strappano un 55 solo per l’artwork del disco (la copertina è raccapricciante, ma il layout interno è ben fatto) e perché, dopotutto, è il loro esordio: mi piace credere che sapranno migliorarsi. (Stefano Torregrossa)

(Kapa Records - 2013)
Voto: 55

Halberd - Ruthless Game

#PER CHI AMA: Thrash Death, Exodus, Kreator
Esistevano, fino a qualche anno fa, le cosiddette “scuole” del metal: quella tedesca, molto classicheggiante, impassibile nel suo immobilismo e poco avvezza ad innovazioni di qualsivoglia tipologia; quella americana, che conosciamo tutti come la più varia; quella scandinava, votata ad un estremismo più accentuato e, per amor di patria, quella italiana che vedeva draghi ed elfi combattere sulle varie copertine dei più disparati gruppi che narravano interminabili saghe Tolkeniane (trend durato una decina d'anni). Per carità, l'Italia del metal è soprattutto altro, ma commercialmente ed internazionalmente quella è stata la corrente più nota. Nel corso degli ultimi tempi un vero e proprio tsunami è arrivato dalla Russia, portando una vagonata di gruppi con sé, dei più disparati generi e devo ammettere, che l'asticella della qualità è piuttosto spostata verso il basso. Vi confesso che mi sono avvicinato a questo lavoro degli Halberd con una certa diffidenza; diffidenza nata da approcci non proprio piacevoli con alcuni lavori giunti dall'ex Unione Sovietica. Risultato: prontamente smentito (dannati pregiudizi...). Ad un primo impatto sembra di trovarsi di fronte ad una band tedesca: strutture quadrate, chitarroni potenti e instancabili in quei riffoni “pieni” di plettrate alternate. Un sound pregevole, l'onda d'urto che scatena rischia di fare del male alle mie casse Wharfedale, che nonostante tutto mi invitano a far salire, di qualche tacca ancora, il volume. Musica da headbanging puro, senza compromessi e di una corposità notevolissima; vi assicuro che gruppi ben più blasonati degli Halberd non sono riusciti nello stesso intento di questi ragazzi, cioè quello di produrre musica per cuori di puro metallo e per thrashettoni della prima ora. Chi ama o ha amato gruppi tipo Kreator, Exodus, Death Angel, Testament o più recentemente Municipal Waste e Toxic Holocaust troverà pane per i propri denti: potenza, velocità, riffing killer, doppia cassa a volontà e tanta qualità. Il mix di elementi qui proposti sfiora la perfezione, sinceramente non ricordo un EP di questa qualità, nel corso dell'ultimo decennio; non mi sento di consigliare una traccia in particolare perchè sarei in difficoltà, sono “solo” 5 pezzi e meritano di essere ascoltati tutti d'un fiato, 20 minuti di pura goduria metallosa. Personalmente, si aggiudica la palma di migliore del lotto “Army of Reproachers” anche se la successiva title track non lascia scampo, con il suo devasto sonoro. Ve lo anticipo: non sarà una proposta che verrà ricordata per le innovazioni musicali proposte; qua di innovazioni, non ce ne sono proprio. C'è una cosa che, a mio avviso è più importante: c'è l'onesta. C'è l'onestà di proporre qualcosa che piaccia, prima di tutto, a chi suona; poi, benvenga, anche all'ascoltatore. Gli Halberd mi danno l'idea di essere il classico gruppo con “poche idee ma tutte estremamente chiare”; gli Halberd non sono nati per fare sperimentazioni, e non hanno neanche l'arroganza di proporle ad ogni costo. Fanno la loro onesta musica e la fanno bene, molto bene; avete presente quel giubbino di jeans smanicato pieno di toppe che avete nell'armadio? Passato di moda, ok, ma per voi sempre bellissimo...ecco, gli Halberd sono un po' come quel giubbino: forse non più di tendenza, ma oggettivamente di ottima fattura. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2013)
Voto: 90