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sabato 12 maggio 2012

My Sixth Shadow - 10 Steps 2 Your Heart

#PER CHI AMA: Love Metal, HIM, The 69 Eyes
Per lo spazio “Back in Time”, andiamo a pescare il debutto tanto atteso dei My Sixth Shadow! La band che nel 2002 aveva raccolto così tanti consensi presso tutte le testate giornalistiche italiane, torna a breve distanza dal demo-cd “Sacrifice” con l'esordio discografico “10 Steps 2 Your Heart”. Freschi di un nuovo contratto con la tedesca Voice of Life Records, i sei ragazzi romani si apprestano ad esportare il proprio nome oltre i patrii confini e ad accrescere sempre di più quel seguito di estimatori che il loro gothic metal è riuscito a conquistare in così poco tempo. Anche se la tracklist dell'album riporta un totale di dieci brani, “10 Steps 2 Your Heart” non va inteso come il vero e proprio full-length ma piuttosto come un assaggio di quali siano le attuali capacità del gruppo: i pezzi nuovi sono infatti solo quattro, a cui si aggiunge una cover di “Rain” dei Cult e le cinque tracce dell'acclamato demo-cd “Sacrifice”. Dall'ascolto di “Intoxicate My Heart” salta subito all'attenzione il notevole miglioramento del cantato di Dave, il quale dimostra di sapersi inserire con maggior grazia tra le note dei nuovi brani. Inoltre i passaggi più movimentati vengono interpretati con un'impostazione vocale grintosa e decisa, del tutto priva di quelle stucchevoli "scivolate" in cui lo stesso Dave si era imbattuto in passato nell'affrontare certi acuti. Proseguendo con “Death is My Rebirth” e “Throw Me Away” l'impressione è quella di assistere alla fusione della tradizione glam-rock americana (Mötley Crüe, Skid Row e Cinderella su tutti) in un contesto più attuale, che può trovare un'attinenza con le melodie romantiche e affilate di HIM e The 69 Eyes. I My Sixth Shadow non possiedono ancora la maturità e lo charm delle due band finniche ma “10 Steps 2 Your Heart” si presenta ad ogni modo come un lavoro ricco di brani d'impatto e dai cori facilmente memorizzabili, con un'attenzione particolare riposta nella scelta delle melodie e nell'uso sempre parsimonioso dei synth. Un lavoro, insomma, che nonostante qualche sbavatura qua e là può costituire un punto di partenza ottimo per avvicinarsi al pubblico gothic-metal. Consigliandovi di tenere d'occhio questi ragazzi, vi anticipo anche che la band è già al lavoro sulla registrazione delle dodici nuove tracce di “Love Fading Innocence”, full-length che vedrà la luce per gli inizi del 2005. (Roberto Alba)

(Voice of Life Records)
Voto: 70

Any Face - The Cult of Sickness

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Origin, Atheist
Uscito nel 2010 per la Buil2Kill Records, questo è il sesto album degli emiliani Any Face. Lo stile musicale è quello claustrofobico del death metal old school americano con molte influenze del tecnicismo e sferzate stilistiche di casa Origin e Atheist. Nel primo brano “Suicide Surge”, in più occasioni degli stacchi improvvisi portano la band a sperimentazioni su ritmiche dal sapore tropicale in acido che lasciano ben sperare gli amanti dell'innovazione: In “Stabbing the Core” si riparte dal death più efferrato e, guidati dalla voce di Yuri Bianchi, che sembra un “Barney” (aka Napalm Death) a rallentatore, si arriva alla terza traccia, un massacro ben studiato. Nella quarta traccia, dopo soli 33 secondi, ci si imbatte in una costruzione ritmica figlia dei migliori Voivod sperimentali, per poi ripartire gutturali più che mai. La preparazione tecnica è buona e in alcune parti ci si trova in bilico con il grind. Nella cover “Happy Tantrum” tratta dall'album “The Musical Dimension of Sleastak” del 1993 della band O.L.D., il nostro bravissimo e cadaverico Yuri, duetta con Alan Dubin, originale cantante della band “coverizzata”. Il brano che segue è standardizzato, una lobotomia continua e soffocante. “The Unspoken Son” mostra delle chitarre velocissime e cariche di tecnicismo, in puro stile Atheist o Massacre con un bell'assolo centrale lungo, “strano” e carico di atmosfera delirante, che sfocia in un rallentamento abissale, seguito da una ripresa molto riuscita. “Portrait of a Nihilist” chiude il disco e parte con una spinta non comune, la voce growl è sempre più padrona e tutto fila al meglio disseminando violenza qua e la. Quest'ultima traccia racchiude un po' tutto il sound degli Any Face con passaggi “particolari” e trasversali, una chitarra “cosmica” e stacchi dediti ad un certo progressive metal e un finale che lascia sfumare il tutto su di una ritmica che abbraccia il modo di interpretare il metal dei Flotsam and Jetsam. Alla fine ci troviamo di fronte ad un lavoro ben fatto e per palati fini, carico di buoni spunti e padroneggiato da un'ottima monotona voce “cavernicola” che fa la differenza... suonato molto bene e a tratti molto coraggioso, come negli stacchi del primo brano (il mio preferito!). Per Any Face si presenta un roseo futuro se continueranno a suonare e ad evolversi su questi territori. Se riuscite a immaginare l'esatta concentrazione di Atheist mescolata a Massacre e spruzzatine di Napalm (Death ovviamente) questo è un altro disco da non perdere! Bravi e coraggiosi! (Bob Stoner)

(Buil2Kill Records)
Voto: 80

Moloken - Rural - English

#FOR FANS OF: Post Metal, Sludge
We had left them just over a year ago, in the fall of 2010 with their brilliant first full length, "Our Astral Circle" and now finally the brothers Bäckström return, as always very well supported by Discouraged Records, with a new job. The sound does not blatantly changes compared to the previous album, and certainly is not bad if you were pleasantly impressed by that release. Their music, therefore, continues to travel in post-metal/sludge territories, however, in some darkest shades, less accessible, fuller of anger and certainly less full of easy melodies. "Rural" is an angry album. In its seven songs in its long fifty minutes, moods are alternating by winding between fury and irascible, occasionally leaving room for breakers in the limit of post-rock (the second half of "Ulv"). What amazes me most in the new work of Moloken, is a certain combination of the sounds that come from the strings of the guitar, sometimes really delusional or completely discordant (I am thinking of the psychotic ending of "Waltz of Despair" for example or the hypnotic beginning of the aforementioned "Ulv" pachydermic song - lasting 16 minutes - fierce yet obscure, that reminds of those wanderings of the school of Ved Buens Ende), which contribute confuse the listener a bit. The tribal and schizophrenic "Casus" serves as a bridge connection with «Blank Point " and I am gradually beginning to realize the good things contained in "Rural", a job to say the least controversial, certainly difficult to digest, but given its complexity, of important progress. The vocals of Niklas continue to be those in the limit of the caveman, so as it was outlined in the previous review, but it is of little importance because I measure the band in its ability to vary their own sound, and I guarantee to you that there is not one single minute of respite in which runs the risk of dozing off or lying down, although we have the impression that their sound can be trapped in doom like or even psychedelic sounds (and I think the suffocating and sick "Thin Line"); no fear though, because the quartet of Holmsund comes out even more fiercely and ready to crash your bones. I am shattered by their impetuousness, by their dark gray, almost the same while watching the sun setting fast on the horizon, leaving soon place for a dense fog which possesses you with the darkness of the night. Hostile, neurotic, glacial, fearful, are just some of the adjectives that come out of my mind after listening to this disfiguring "Rural", an album to have in your collection at any cost. Raving! (Francesco Scarci - Translation Sofia Lazani)

Algol - Complex Shapes

#PER CHI AMA: Swedish Death, Thrash, At the Gates, Dark Tranquillity
Melodic Death Metal tutto all’italiana quello degli Algol, e lo posso dire con fierezza stavolta: sono orgoglioso di essere nato nel Belpaese. Tralasciando gli ovvi paragoni-metafora riguardo al nome della band (Algol infatti oltre ad essere una stella è anche il nome di un personaggio di Soulcalibur), posso confermare la generale ermeticità del songwriting e la crescente complessità che si sviluppa durante il primo ascolto. Con un nomignolo così evocativo e un titolo estremamente ragionato, ho dovuto trovare dei momenti particolari per poter procedere all’ascolto di quest’opera senza tralasciare un secondo delle atmosfere presenti al suo interno. Facendo questo, ho solo guadagnato. Gli Algol presentano un sound tutto personale, molto caratteristico in ambito death e che sarà d’obbligo seguire nella sua evoluzione nelle prossime uscite. Alcuni passaggi di tempo e melodie vengono riprese più volte tra una canzone e l’altra, conferendo serietà e compattezza ad un genere che di questi tempi tende a imitare più che sperimentare. Degli omaggi a dei maestri del death, comunque, non si fanno mancare (credo di aver trovato alcuni stralci degli At The Gates e dei Dark Tranquillity degli albori). Non ho mai amato una recensione a pari passo con le singole tracce, preferisco citare quelle che più mi hanno influenzato e fatto riflettere musicalmente. Quindi scusate se non seguo in modo matematicamente freddo la scaletta di undici tracce. Adotto un sistema molto più emotivo. “Still in My Eyes, Burning” rappresenta forse l’unico esempio di una componente ‘sinfonica’ e gothic dell’intero album. Una voce femminile subentra improvvisa e una voce pulita domina i ritornelli. Tastiere di sottofondo risultano estremamente avvolgenti e le chitarre si lasciano coinvolgere in passaggi che sono una manna per le orecchie, decretando un puro melodic death come era da tanto che non si ascoltava. A canzoni più ‘lente’ (diciamo così) come “Gorgon” e “Empire of the Sands”, si contrappongono le rapide sfuriate influenzate apertamente da un thrash old style. “Subvert” si configura perno centrale di quest’ultima tipologia. Voci in growl e screaming duettano in un sottofondo di accecante violenza sonora, perfettamente accompagnata da una batteria che sa il fatto sua (ottima anche la produzione). E poi c’è lei, la title track. “Complex Shapes” racchiude bene o male tutti i diversi fattori che portano gli Algol ad essere quello che sono. Chitarre apertamente swedish-death style su veloci riff di alti e bassi (su questo punto di fondamentale importanza è “Hate Serenades”), grande attenzione all’aspetto tecnico (magnifiche ‘plettrate’) e melodia del ritornello coinvolgente. Necessita di più ascolti. È un lavoro decisamente complesso e ci sarebbe molto altro da dire. Questi padovani sono già all’apice. Hanno creato un album di ampie vedute in un death metal melodico con influssi progressive certamente non convenzionale. Superano i maestri del genere… Si, mi sono permesso di pensarlo a volte… (Damiano Benato)

(Punishment 18 Records)
Voto: 85
 

giovedì 10 maggio 2012

Generation of Vipers - Howl and Filth

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, The Atlas Moth, Planks, Unsane
Dopo tanto black metal, finalmente le mie membra trovano il tempo di lasciarsi cullare da un dannatissimo e fangoso sludge, quindi che c’è di meglio che trasferirsi negli States, in Tennessee per l’esattezza, prenderci un bel whisky e assaporare il gusto del vero sound americano? Amanti di Neurosis, Tombs e tutto ciò offre un post-qualcosa nella propria proposta, si facciano avanti e ascoltino questi misconosciuti Generation of Vipers. “Ritual”, “Silent Shroud” e via via dicendo, tutte e sei le lunghe song che compongono questo malsano lavoro, scavano nell’anima con i loro suoni abrasivi, carichi di emozioni, grondanti rabbia, esasperazione e paranoia. Sarà anche il fatto che nei GoV troviamo alle percussioni un membro di U.S. Christmas e A Storm of Light, potete ben comprendere quale oscura e asfissiante opera, ingombri con il suo claustrofobico incedere, il mio stereo. Sarà forse il sole bollente della città di Knoxville, ma il sudore che gocciola dalla mia madida fronte è dovuto anche alla lenta, nevrotica e lacerante proposta di questo trio del sud-est degli US. Le ritmiche, belle pesanti e costantemente corrosive, ma mai su di giri, ingarbugliano un bel po’ le nostre menti, assai ricettive. La voce di Joshua non è mai preponderante nei confronti degli altri strumenti, preferisce farsi percepire nel suo “vetriolico” ardore, lasciando il resto della scena, alla dannata musica. Non saremo di sicuro di fronte ai maestri incontrastati del genere, ma di sicuro i Generation of Vipers sanno il fatto loro, e non lasceranno delusi i fan di un genere, che sta vivendo il suo momento d’oro. E allora, tanto vale, cavalcarne l’onda… (Francesco Scarci)

(Redwitch Recordings/Translation Loss)
Voto: 75
 

Destrudo - Falx Cerebri

#PER CHI AMA: Techno Death, Thrash, Progressive, Cynic, Pestilence
La destrudo, rappresenta per la psicologia freudiana, l'energia dell'impulso distruttivo, l’essenza di Thanatos, la pulsione di morte, o in parole povere, l’istinto aggressivo, insito in ogni individuo, che spinge all’annientamento di se stessi. Non so se dietro al monicker della band capitolina, si celi tale definizione, tuttavia la “cerebrale” copertina mi lascia presupporre che questi siano i giusti riferimenti. Riferimenti che forse ci aiuteranno a definire meglio il progetto dell’ennesima band italica, che popola meritatamente le pagine del Pozzo. La proposta dell’act romano non è proprio immediata, anche se quel chitarrone un po’ grezzo, posto in apertura di “Matter in a Ghost World”, mi fa pensare di trovarmi fra le mani la consueta disagiata band delle periferie, dedita ad un gretto thrash metal. Niente di più sbagliato e superficiale, che dare giudizi su due piedi; già perché dopo 2 minuti le vocals di Lorenzo “Wakana” passano da un canonico growl ad un qualcosa di più cibernetico e ricercato di scuola Cynic, mentre la ritmica, ci lascia intendere che non sarà facile l’ascolto di questo disco, causa repentine variazioni nel pattern chitarristico. Abbandonati infatti i richiami thrash death dei primi minuti, la band sembra quasi mutare camaleonticamente nel corso del brano, cosi come pure il vocalist che trova anche modo di proporsi nella sua veste, un po’ più scarsa a dire il vero, pulita. Poco male, perché la musica seduce per le sue partiture progressive, che non fanno altro che incrementare il senso di disorientamento che trasuda questo cd. Proseguo nel mio ascolto, con “Concussion” e di sicuro quello che emerge immediatamente è quel suono maledetto di basso che pulsa nelle mie orecchie: Nevermore, Cynic, i Pestilence di “Spheres” convogliano tutti in questa traccia, che vede ancora una volta i nostri difettare nella sezione vocale pulita. Vado via veloce, perché al mio terzo ascolto, pregusto di riassaporare nuovamente quel meraviglioso assolo di sax posto che contraddistingue la title track, sublime. Un po’ (tanto) Pan.Thy.Monium, un po’ Love History, una bella dose di synth, e mi lascio bruciacchiare qualche neurone qua e la, prima della conclusiva “Lord of War”, che prosegue il discorso iniziato con questo “Falx Cerebri”. Peccato solo che continui a mal digerire la voce del povero Lorenzo, in versione clean, altrimenti la musica mai eccessivamente incazzata, ma costantemente ragionata e tenuta sotto controllo, per dominare il desiderio di annichilimento personale, è assai interessante soprattutto nella seconda parte dell’ultima traccia dove emerge una componente avanguardistica di scuola norvegese, prima di un riff che sembra estratto da “Walk this Way” e di un delirante finale destrutturato. Non c’è che dire, le qualità ci sono, la follia pure, ora serve un pizzico di fortuna! Destabilizzanti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

Hour of Penance - Sedition

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Morbid Angel, Nile, Behemoth
Rullo compressore: si tratta di una macchina che ha la funzione fibrante che permette di compattare al meglio l’asfalto o il terreno attraverso dei rulli che possono essere di ferro-gomma o ferro-ferro. Dopo questo breve cappello introduttivo, oserei dire che la musica dei nostrani Hour of Penance, potrebbe essere assimilabile a quello di un rullo ferro-ferro. Non tragga infatti in inganno la intro con canto gregoriano incorporato, perché quando deflagra nel mio stereo “Enlightened Submission”, sono assolutamente innondato dalla devastazione sonora della band capitolina, da poco sotto contratto con la statunitense Prosthetic Records (e cosi dopo la fuga dei geni nella scienza, stiamo ormai assistendo alla fuga anche delle nostre migliori band, complimenti alle etichette italiane!): ritmiche assassine, qualche breve assolo, ma soprattutto una prova tecnicamente ineccepibile del quartetto guidato dalle brutali vocals di Paolo Pieri. La terza “Decimating the Progeny of the Only God” si conferma immediatamente il mio pezzo preferito, incarnando al meglio il repertorio dei nostri, sia in termini di velocità che di malsane atmosfere, una song che per certi versi mi ha richiamato nei suoi secondi iniziali i Morbid Angel, per poi irrompere furente come un mix tra Behemoth e Nile, con una ritmica spaventosa e delle meravigliose e stranamente melodiche aperture di chitarra. Diabolica. Neppure il tempo di rifiatare ed ecco ancora la brutalità essere perpetrata questa volta con un pezzo iper tecnico, fatto di repentini cambi di tempo e stop’n go, che ci introducono alla evocativa e tranquilla (rispetto alla velocità della luce) “Ascension”, che si fa notare oltre che per il suo incedere ritmato, anche per i suoi chorus. Mai lasciare comunque il fianco scoperto però, perché quando si mostra il punto debole, il nostro nemico se ne approfitta e colpisce a fondo e a morte: ecco perché l’epica “The Cannibal Gods” e le restanti tracks (soprattutto l’irraggiungibile “Deprave to Redeem”) inferiscono gli ultimi colpi mortali, vibrando la spada nell’aria e piantandocela giusto nel mezzo del petto. Non ho molte altre parole da accostare a questa cavalcata intitolata “Sedition” se non che gli Hour of Penance hanno partorito uno dei più bei lavori di techno brutal death degli ultimi dieci anni! Ottimi. (Francesco Scarci)

(Prosthetic Records)
Voto: 85

domenica 6 maggio 2012

Marc Rizzo - Colossal Myopia

#PER CHI AMA: Guitar hero, heavy, hard
La Mascot Records si è incaricata di rilasciare il disco di Marc Rizzo che, per chi non lo conoscesse, è il fondatore degli Ill Nino e anche chitarrista eclettico dei Soulfly di Max Cavalera, nonchè Cavalera Conspiracy. In realtà, “Colossal Myopia” è una sorta di riedizione dello stesso lavoro uscito l’anno precedente, però con l’aggiunta di nuovi brani e un nuovo artwork. L’ascolto di questo cd è stata una grande sorpresa per me, che mal digerisco album interamente strumentali. La proposta di Marc è veramente interessante, per il suo elevato tasso tecnico (mi sembra di parlare di un calciatore), per l’eccellente qualità musicale e la varietà con la quale riesce ad assemblare i suoi pezzi, senza tralasciare l’ottima produzione. Ciò che più mi ha impressionato in questo disco, oltre ai virtuosismi di Marc, è la totale amalgama fra le chitarre heavy e il flamenco (ascoltatevi la title track e capirete immediatamente di cosa sto parlando), le bellissime chitarre spagnole, che danno quella sensazione di essere immersi in paradisi tropicali, a gustarsi una gustosa piňa colada sotto le palme e il sole di posti lontani... “Colossal Myopia” è un gran bel disco, suonato bene da ottimi musicisti, che raccoglie dodici tracce per più di un’ora di musica, spaziando da momenti hard in cui si possono ritrovare richiami delle band in cui Marc ha suonato, ad altri più delicati con soffuse melodie che deliziano i nostri palati (ad esempio la bellissima e malinconica “Synapse”); ma poi ci sono anche inserti di jazz, salsa e rimandi al sound solare di Santana, che ci mostrano quanto Marc Rizzo sia un chitarrista versatile, con radici ben salde nella musica metal, ma con una forte passione per il flamenco e per qualsiasi cosa che arriva diretta al cuore. Ragazzi questo è un album che vi farà emozionare, sognare e desiderare spiagge bianche, assolate e piene di bellissime ragazze... Un cd come “Colossal Myopia” mancava nella mia collezione, ora sono sicuramente più felice... (Francesco Scarci)

(Mascot Records)
Voto: 85 

On Broken Wings - It’s All a Long Goodbye

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore/Swedish Death, Converge
Cosa esce questa volta dal sempre più affollato calderone del death-metalcore “made in USA”? Oggi è il turno degli On Broken Wings di Boston, il cui “It’s All a Long Goodbye” rappresenta il loro secondo lavoro, fuori per una sottoetichetta della Century Media, la Alveran Records. Come per "Some of Us May Never See the World", debut cd del 2003, il quintetto americano propone l’ormai classico hardcore dalle sbiadite tinte swedish death metal. I trademarks sono alla fine sempre quelli: riffoni death/metalcore dai molti cambi di tempo, che alternano con sapienza, momenti speed ad altri molto rallentati ad altri breaks melodici, harsh vocals contrapposte a chorus con voci pulite... sì insomma, niente di più scontato nel panorama musicale americano. Il sound del combo del Massachussets potrebbe essere tranquillamente avvicinabile a quello dei Converge, anche se leggermente più melodico. Le canzoni come sempre si assomigliano un po’ tutte, quindi non riesco ad indicare quelle che più mi hanno colpito. C’è ben poco da aggiungere ad un album che non presenta alcun spunto vincente se non una più che discreta produzione. Oramai, il rischio maggiore per questo genere è che, giunto alla sua saturazione, privi di interesse i fan in giro per il mondo, sarebbe davvero un peccato... Per concludere, gli On Broken Wings si sono rivelati noiosi e anonimi, speriamo che il loro sia proprio “un lungo addio”... (Francesco Scarci)

(Alveran Records)
Voto: 50
 

Manes - Vilosophe

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ulver
Mi aspettavo grandi cose dai Manes! Immaginavo che se mai ci fosse stato un seguito di “Under Ein Blodraud Maane”, quell'album avrebbe preso le distanze dal black metal o quanto meno avrebbe sconvolto l'audience "estrema" con delle soluzioni imprevedibili e assolutamente fuori dagli schemi. Sicuramente le mie previsioni sul futuro artistico dei Manes potevano apparire atipiche per un fan di vecchia data del gruppo, ma il desiderio di ascoltare qualcosa di nuovo dal genio di questi norvegesi era troppo forte per potermi accontentare di un sequel in linea con il precedente album o di un lavoro che si affermasse semplicemente come una buona conferma. Non c'è che dire! Ogni personale aspettativa nei confronti di “Vilosophe” è stata pienamente soddisfatta e anche oggi, come in occasione dell'uscita dell'esordio “Under Ein Blodraud Maane”, mi ritrovo ad esultare per un altro capolavoro a nome Manes, un album che, oltre a tagliare definitivamente i ponti con il passato, prende il largo verso un'esplorazione musicale senza ritorno, amalgamando gli elementi stilistici più disparati in una collezione di otto brani veramente straordinari. Ecco allora ritmiche jungle, psichedelia e space rock che si fondono in un corpo unico, quasi ad assumere le sembianze di un appetibile e moderno rock alternativo, ma nascondendo tra le trame di un'apparente ‘normalità’ qualcosa di subdolo e poco rassicurante. È come se in una sorta di continuazione con le atmosfere terrificanti e gelide del loro passato, i Manes ci fissassero sorridendo mellifluamente e sotto le mentite spoglie di una nuova accessibilità covassero i medesimi sentimenti disillusi e cinici di un tempo. Viene quasi naturale l'accostamento dei Manes ai conterranei Ulver, non tanto per il tipo di musica proposto ma per la simile metamorfosi che entrambe le band hanno affrontato in questi anni, passando improvvisamente dal black metal ad una forma musicale estremamente più libera e multiforme. Per il resto, classificare un album come “Vilosophe” risulta talmente arduo da rendere futile ogni tentativo: a giungere in mio aiuto sono allora gli ascolti della band, che vanno da Hawkwind, Pink Floyd e David Bowie fino ad Aphex Twin, Massive Attack e Mogwai, influenze che in “Vilosophe” si disperdono fino ad annullarsi, per poi ricomparire improvvisamente tra l'irruenza delle chitarre, i camaleontici e melodiosi passaggi vocali, le note struggenti di un piano e i ritmi spezzati di drum'n'bass. Cerebrali e sofisticati, eleganti ed irriverenti, poliedrici ed inclassificabili: questi erano i Manes del 2003, una band geniale che sicuramente ha fatto discutere e che probabilmente avrà visto l'insorgere delle solite accuse di "tradimento" da parte dei puristi del black metal. Ho lasciato volentieri certe chiacchiere a chi pensava ancora di aver qualche voce in capitolo sulle scelte musicali di un artista e limitandomi a riconoscere il valore di “Vilosophe”, un album straordinario che ha fatto dell'avanguardia e della libertà artistica una lezione di stile. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 90

sabato 5 maggio 2012

Opera IX - Strix – Maledictae In Aeternum

#PER CHI AMA: Black esoterico
*"Qui la turba malvagia, non paga dei prolungati eccitamenti delle torture, si saziò di sangue innocente. Salva ora la patria, abbattuto ormai il covo del lutto, là dove imperversò la morte rifulgono oggi vita e benessere." Edgar Allan Poe – “Il Pozzo e il Pendolo”.

Sperate di non ricevere mai l'invito per un rituale di magia nera, naturalmente voi non saprete che si tratterà di quello, soprattutto perché l'invito vi giungerà certo da parte di qualcuno di cui vi fidate, ciecamente, da sempre. Di qualcuno per il quale sareste disposti a mettere la mano sul fuoco. Dubitate ancor di più, e soprattutto, se quel qualcuno, di giorno, predica bene. Rimarrete certo sconvolti o ancor peggio morti, a seguito di quel che vi potrebbe accadere, o che sicuramente vedrete accadere, se sarete un po’ più "fortunati", rispetto a qualcun altro. Vi cambierà per sempre. Indietro non potrete più tornare (Requiescat in pace). Sarete volti al male, per sempre. Una sola esitazione, il ripensamento di un attimo, vi condurrà ancor più velocemente alla bara. No. Non ci sarà nessuna bara per voi. La verità è un'altra: sparirete per sempre, all'improvviso, senza lasciare la minima traccia. Di voi parleranno, forse, solo i telegiornali e, se non contate niente, per poco tempo. Vi ho reso partecipi del pensiero vomitato dalla mia mente, evocato per voi dall'ascolto dell'intro "Strix the prologue" degli Opera IX. Ammesso che non abbiate già troppa paura, spero continuerete a sanguinare in mia compagnia, leggendo, perché sarò ben felice di farvi da Polia della situazione e di condurvi, per mano, in questo hypnerotomachico onirico viaggio di "Strix Maledictae in Aeternum", concept album sulla stregoneria. I primi centocinquantaquattro secondi spettano all'intro: un talentuoso artificio di tastiera mi trascina nella più profonda delle ipnosi, un viaggio alla suspiria, senza ritorno, nel tempo, verso il 1313. Mi lascio corteggiare, sedurre, avvolgere, da queste torbide, malsane, atmosfere aiutato anche da una suadente voce femminile. Non ho dubbi, si tratta di una strega: mi sussurra, sbiadita, tra fulmini, saette e canti gregoriani. Parte "1313 (Eradicate the False Idols)", a differenza della prima, è cantata. Uno scream cupo, pieno, che urla come Dio comanda e mi regala un'altra scena: stavolta mi trovo in una piazza e vesto il saio. Si, sono un frate cappuccino dell'Ordo Fratrum Minorum Capuccinorum, ordine che al tempo ancora non esisteva, sarebbe infatti nato poco più di due secoli dopo. Là, proprio di fronte a me, in mezzo ad una folla esaltata, vedo svolgersi la solita pantomima. Una giovane donna, bellissima, dai lunghi capelli neri, seminuda, è stata piantonata ad un palo. Visibilmente malmenata, non mi stupirei se stuprata poco prima dai suoi stessi inquisitori, è sotto lo sguardo crudele della folla assatanata. Tutti gli occhi, iniettati di sangue, sono volti a lei. Sono volti al male. Tutti la additano: Strega! Strega! Loro sono nel giusto, si, perche... credono. Un mefitico substrato di tastiere, come nebbia, si diffonde tra la gente. E' sotto l'influenza di questo malefico manto che la folla si fa’ ancor più violenta, più spavalda. Vi si insinua dentro un vero e proprio empatico odio collettivo. Un assolo di chitarra, come una frusta, sferza uno squarcio alla folla ed eccolo: l'inquisitore, dinanzi a lei, con lo scream che prima vi ho descritto, cita il ben noto versetto del Vangelo di Giovanni (15,6) grazie al quale per secoli, il rogo è stato giustificato: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi li raccolgono e li gettano nel fuoco e li bruciano." Parti lente concedono, a tratti, qualche intarsio di veloce doppia cassa. Un rullo cadenzato, rende trionfale questa specie di marcia ed anche se con qualche sbavatura, colgo comunque quell'attimo: la fiaccola che viene calata sul rogo, le fiamme che divampano. Con quest'ultima immagine vi proietto nella successiva "Dead Tree Ballad" si parte con una batteria trionfale, da parata. Odo poi ancora quelle tastiere che fanno sesso con batteria di un di gusto che non vi dico perché voglio che lo sentiate voi stessi. Buone ma non ottime le rullate sui tom ma quella tastiera è degna di far da organo nella più meravigliosa delle gotiche cattedrali. Vedo i gargoyles prostrarsi ad essa, idolatrano il tastierista come una sorta di pifferaio magico. La batteria semina qualche peccato qua e là. Ricordo che al tempus fugit, se non si era "sin pecado" si bruciava. Nel complesso, comunque, anche questa track mi è piaciuta, mi ha lasciato qualcosa. Segue un secondo intro, "Vox In Rama (Part 1)". Canti in latino e cembali cui prima non avevo accennato, ma che comunque cadean, ogni tanto, qui è là, come coriandoli e l'atmosfera da oscuro rituale è garantita. Era l'introduzione per la successiva "Vox In Rama (Part 2)" un amalgama di scream e batteria che dapprima lenta, si fa poi più veloce, cadenzata, ma senza eccessi. "Mandragora" parte con un buon solo di chitarra anche se la sviolinata di batteria mi lascia un po’ perplesso. Ancora una volta l'entrata della tastiera mi salva da tutti i mali. Seguono "Eyes in the Wheel" su cui non mi soffermo perché ritroviamo un po’ tutti gli ingredienti di cui già vi ho in precedenza accennato. Con l'attacco di "Earth and Fire", riprendo la storia della strega da dove l'avevo lasciata. Le fiamme che divampano e la folla che urla. Ma le vere urla, strazianti, stavolta provengono dalla strega. Le fiamme infatti cominciano a lambirla, ad accarezzarla. Osservo le sue carni sciogliersi, sotto l'effetto del fuoco, ne intravedo le prime superfici del teschio sotto quei pochi lembi di carne che ancora vi restano adesi. Quello che prima era il suo bel viso, adesso si scioglie e cola sotto i miei occhi. Come una candela, si sfalda e pian piano si raggruma, accesa da un pellegrino nella più tetra e oscura delle cripte. I suoi denti ormai insanguinati brillano rossi e accesi come rubini ardenti e poi cadono, tra le fiamme, che si fanno sempre più fameliche e carnivore. Lasciano il nulla dove prima c'erano quelle sue curve voluttuose. Chitarra e scream vocale mischiati al sangue come in un calderone, marchiano nella mia mente quel suo crepitare. Quegli... scoppi. Quell'odore. Segue un'altro intro, anche questo molto suggestivo e ad effetto: "Ecate - The Ritual (Intro)". Mette una certa ansia, devo ammetterlo, ascoltatevelo al buio, magari da soli, in un posto sinistro e vi assicuro che a più di qualcuno metterà una certa paura. Degno di un Sabbah. E su questa parola mi sovviene un'altra immagine, una vera e propria opera d'arte questa volta. "Il Sabba delle Streghe" di Francisco Goya che Baudelaire, in “Fari” (ne “I Fiori del Male”), descriveva così la sua pittura: "incubo colmo d’arcani senza fine; feti cotti in un sabba, su qualche orrida balza; laide streghe allo specchio; ignude ragazzine che per tentare il diavolo si tiran su la calza.". Queste parole, rendono in modo eccezionale l'idea del rituale. Seguono "Ecate" e "Nemus Tempora Maleficarum". Anche qui non si perde certo l'occasione per descrivere un altro oscuro rito, svolto nella notte di San Giovanni e dedicato agli arcani elementi. Vi si citano persino i pianeti. Spetta ad "Historia Nocturna" dare il giro di boa a questo disco, a chiudere questo diabolico girone infernale che per solo averlo ascoltato, colloca al di là di ogni ragionevole dubbio, la mia anima, se mai una ne ho avuta, nel Cerchio VI, quello degli eretici. Quasi dimenticavo, non vi ho raccontato che fine ha fatto la strega: Riesce, prima di andarsene per sempre, a lanciare il suo ultimo anatema:

"Impia tortorum longos hic turba furores sanguinis innocui, non satiata, aluit. Sospite nunc patria, fracto nunc funeris antro, mors ubi dira fuit vita salusque tenent"*

(Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 80

giovedì 3 maggio 2012

Germ - Wish

#PER CHI AMA: Black, Space Rock, Elettronica, Ewigkeit
Disorientato. Ecco l'effetto infertomi dal primo ascolto del debut album di questa one man band australiana che risponde al nome di Germ, che combina grandi aperture melodiche, con rare ma feroci sfuriate post black, fino a divagazioni dal flavour rock psichedelico. Apertura affidata a “An Overdose on Cosmic Galaxy”, che propone un qualcosa di simile da quanto fatto recentemente dagli svedesi AtomA (ex Slumber), con un sound etereo, arioso, easy listening e forse un po’ ruffiano, rovinato solamente da delle clean vocals fastidiose di Tim Yatras (già in Austere, Nazxul e session dei Woods of Desolation). Ma ecco che a scombinare e disorientarmi del tutto, ci pensa lo screaming efferato del mastermind, che seppur su un tappeto cibernetico assai possente, mi fa piombare nei miei incubi più spaventosi. La seconda traccia continua la sua opera di stordimento: base affidata ad una specie di space rock (ricordate gli Ewigkeit) però con le urla brutali a farsi portavoce della rabbia contenuta nell’animo tempestoso di Tim, che si alternano con un cantato pulito, finalmente all’altezza. L’elemento portante di tutte le song è sicuramente l’elettronica, la cui influenza è da indirizzare al grande Jean Michele Jarre, il che rende la proposta del nostro artista, veramente bizzarra e inedita. Non fosse per alcune galoppate epiche, di sporadici ma veementi stacchi black e delle già menzionate strazianti performance vocali, probabilmente saremo qui a parlare di un qualcosa che ha più connessioni con il rock, piuttosto che con l’ambito estremo. E proprio in questo risiede la forza di questo lavoro, che nella quarta “Breathe in the Sulphur/A Light Meteor Shower” vede il suo apice artistico compositivo, con orchestrazioni da brivido che si stagliano su una base lugubre come se il giorno fosse portato a notte, da un’inquietante eclissi solare, assoluto presagio di morte. Splendida. Seppur alcuni possano storcere il naso per una ridondante ripetizione nelle ritmiche, poco importa, c’è da divertirsi comunque nell’ascolto di questa avvincente opera; sono le ambientazioni depressive, le elucubranti percussioni psichedeliche, la fusione di generi cosi estranei tra loro, a rendere “Wish” il mio più chiaro desiderio di questa primavera. Si prosegue con la follia EBM di “Gravity”, prima che l’aussie man si lanci nuovamente alla carica con una serie di song che, lasciatemelo dire, di metal hanno ben poco. “Flower Bloom and Flower Fall, but I’m Still Wait” si sorregge sull’onnipresente base orchestrale, mettendo in mostra uno splendido assolo, “Infinity” funge da intermezzo allucinogeno prima del feroce attacco finale inferto da “Your Smile Mirrors the Sun”. Insomma un altro signor album che arriva dall’Australia, in attesa di venire catapultati nei fantastici universi di Ne Obliviscaris e Aquilus. Australia, fucina di talenti infinita! (Francesco Scarci)

(Eisenwald)
Voto: 85

Zuriaake - Afterimage of Autumn

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Pensavo di aver scavato abbondantemente nell’underground, evidentemente mi sbagliavo. Lo testimoniano quest’oggi i cinesi Zuriaake e il loro introvabile album di debutto, edito dalla Pest Productions. “Afterimage of Autumn” è un lavoro un po’ datato, del 2007, che però ci tenevo a recensire, essenzialmente per dare voce a un mondo a me sconosciuto e in secondo luogo, per l’aura magica che lo avvolge sin dalla meravigliosa intro, “Whispering Woods”. Poi, il rumore di un ruscello apre “God Of Scotch Mist” e ben presto, anche le stridule chitarre (e vocals) di chiaro sapore nord europeo, fanno la loro comparsa. Burzum. Si, ancora il suo spettro che si aggira minaccioso anche per le lande infinite dell’estremo oriente. Non c’è nulla da fare, il Conte ha creato un genere che fa proseliti in tutti gli angoli del mondo, compresi questi Zuriaake. Se cosi fosse però, la recensione potrebbe anche terminare in poche righe; quello che mi fa però drizzare le antenne è l’utilizzo delle tastiere, limitato per carità, ma in grado di creare suggestive ambientazioni che sanno molto di cultura cinese. E se cosi, con la seconda traccia, ho come l’impressione di visitare il Palazzo Proibito di Bejing, con le successive song mi sento catapultato in cima alla Muraglia cinese, o al cospetto dell’Esercito di Terracotta, nonché dimenticato nelle povere campagne cinesi. La tradizione di questo popolo, i suoi suoni, i suoi umori, i dolori, le frustrazioni, la sua religione, convogliano tutte nelle tracce di questa interessante release che pur respirando la gelida aria dei boschi norvegesi, non nasconde l’amore per la propria spiritualità. Un po’ come accadde per i coreani Sad Legend, i Chthonic di Taiwan o i giapponesi Tyrant, anche con gli Zuriaake andiamo a scoprire una forma di estremismo sonoro che trae sicuramente spunto dalla musicalità di questo immenso paese. Per amanti del black ambient, ma non solo; anche chi ha voglia di esplorare una nuova cultura musicale, si faccia sicuramente avanti! (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 70