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venerdì 21 settembre 2018

Skjult - Progenies ov Light

#PER CHI AMA: Black Old School, Gorgoroth, Watain
Pensavo di aver visto tutto nel panorama musicale odierno, invece mi sbagliavo. Si perchè una one-man-band cubana devota ad un black metal glaciale di stampo scandinavo, mi mancava. 'Progenies ov Light' è il secondo album degli Skjult, ensemble guidato dal factotum Conspirator che si diletta nello scaraventarci addosso tutta la ferocia dell'act caraibico. Sette i brani a disposizione (più una bonus track che era contenuta nel tributo a Trond Nefas, leader degli Urgehal, scomparso nel 2012) per aver chiaro che quanto contenuto nel qui presente album, potrebbe tranquillamente stare in un disco di una qualsiasi band norvegese/svedese votata alla fiamma nera. Si parte con "Into the Void" e si prosegue a ruota con "Immolation Rites", "Summoning The Eternal Black Flames Of Death" e tutte le altre fino a "Baptized By The Unholy Goat": lungo questo percorso, il canovaccio della proposta dell'artista de L'Havana, non muta però particolarmente. Cosi ci si trova ad affrontare un black metal fumante e iroso, tra sfuriate ritmiche, harsh vocals e atmosfere nere come la pece (basti ascoltare la doomish "Glorious Night"), il tutto corredato da una produzione secca che conferisce quell'aura maligna che si confà degnamente ad un lavoro di questo tipo. Chiaro, che se siete in cerca dell'originalità in questa tempesta sonora, ne troverete gran poca, ma se siete degli amanti di sonorità in stile Gorgoroth, Watain o Urgehal stessi, qui troverete pane per i vostri denti. Un ascolto lo darei non fosse altro per il carattere esotico del mastermind che si cela dietro a questo moniker e per la sua musica glaciale che tradisce completamente le sue origini. (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Black Metal Propaganda Deutschland - 2018)
Voto: 60

https://satanath.bandcamp.com/album/sat187-skjult-progenies-ov-light-2018

giovedì 20 settembre 2018

Lilla Veneda - S/t

#FOR FANS OF: Black/Death
Black/death metal is king when we talk about fusion success of the genres, we have several of the best bands ever among this mixing of aggression, violence, technique, and boldness from death metal; while ambient, darkness, melancholy and emotion from black metal, bands such as Dissection, Behemoth, Dawn or Sacramentum to name a few. But there is a difference, believe it or not, if we change the order of the mix to death/black metal, then we have a focus on instrumental extremity, violence, production, and heaviness but less of a direction to the atmosphere and cathartic element proper of the black art, nevertheless we have aswell great bands like Belphegor, Azarath, Necrophobic or Unanimated.

Now, when we find a band like Lilla Veneda is hard to say where they want to land and what their music is about because they seem to want to take a direction towards darkness, grimness and melancholy in some points, and being violent, visceral and bestial in some other parts without finding their middle ground.

Lilla Veneda is a Polish band that at first sight looks like a black metal band, their lyrical themes are related to philosophy, romance and misanthropy, their art direction allude obscurity and sadness (check the album cover art), but they play a sophisticated yet indefinite mix of many things. I wouldn't say they are a blackened death metal band, because it is interesting how they combine the elements of their music, however, it is difficult to pigeonhole them in a concrete genre and in this case is not a virtue, and that problem is present in the whole album.

Lilla Veneda's second record is bold and full of good music, right from the opener song "Divination" you can tell they are talented musicians, the structure of their compositions is complex and well thought, guitar riffs are diverse and powerful, the bass line is solid and drums are creative, the vocals, however, stays behind at some points, since the music overshadows it. The guitarist especially shines offering a great collection of heavy riffs and extreme moments.

Tough clearly this album has a sublime production and exquisite mastering, the band does too little to transmit their message, maybe I'm going to hard on Lilla Veneda, but to me, the album as good as can be, can't convey me much. However, the complex instrumentation and the skilled musicians aren't enough to create the art that can touch and affect others, take a brutal/technical death metal band for instance, as impressive and superb their music is, it remains sterile. To me that's the problem with this album, I feel little to nothing with its music, and maybe someone can be very touched with this album tracks and technique, but I'm a black metal head, emotion is important in my music, and darkness as ambiguous as it can be, contributes with an important element of thrill.

There are some songs that stand out and seem to express more, songs like "Divination", "Martyranny" and "Wheel of misfortune", something worth mentioning is the presence of a violin to add ambiance to the music and more specifically to this songs. Guitar solos are short but well executed, and the guitar work shines in the melodic parts. Impressively how the shortest and last song is the highlight of the album, "Chmury" is a song where they crafted black/death metal more coherently: is heavy, fast, rampant yet grim and dark, this song has essence, soul and a motive, we get to listen to black metal riffs and some sort of angry melancholy, the lyrics are dismal and poetic.

In the end, Lilla Veneda's second album is not a bad effort, but it seems lost, indecisive in the objective, the band seems unsure if they want to crush it and be fierce and savage or to be more emotional, cathartic and grim. We can only wait and see if the band finds its way and perfection their formula because this album could have been a masterpiece if they had focused more in the expression of ideas and feelings than in the delivery of dexterous performance. (Alejandro Morgoth Valenzuela)


(Via Nocturna - 2018)
Score: 65

https://lillaveneda.bandcamp.com/

Akhenaten - Golden Serpent God

#PER CHI AMA: Black/Death, Melechesh, Arallu
Dopo Melechesh, Nile e Arallu, ecco arrivare dagli Stati Uniti, altri esponenti della corrente arabo-mesopotamica. Si tratta del duo formato dai fratelli Houseman, che dal 2012 a oggi, ha rilasciato sotto il moniker Akhenaten, quattro album fatti di suoni estremi ispirati al mondo mediorientale. Le classiche venature arabeggianti sono già identificabili nell'apertura di questo 'Golden Serpent God', nell'opener "Amulets of Smoke and Fire", dove le peculiarità del combo del Colorado, si palesano immediamente. Ecco quindi la loro forma arcaica di death/black, in cui trovano ampio spazio delle percussioni dal sapore mediterraneo, un dualismo vocale che si muove tra growl e scream e ottime orchestrazioni. Insomma, tutti gli ingredienti essenziali per condire un genere interessante e che vede negli Akhenaten nuova linfa vitale per arricchirne di contenuti. Poi dopo quattro album e parecchia esperienza maturata, anche attraverso il progetto Helleborus, i nostri si divertono a sciorinare un pezzo dopo l'altro, contrappuntandoli di un forte impatto musicale. Splendida a tal proposito, la seconda "Dragon of the Primordial Sea", affascinante per le liriche ispirate al culto di Akhenaton (che per chi non lo sapesse era il padre di Tutankhamon e fondatore di una religione di stampo enoteistico), ma soprattutto per quegli inserti strumentali tipici della tradizione araba che ci trascinano al tempo dei faraoni. "Throne of Shamash", la terza song, prende le distanze dalle altre canzoni e si manifesta come una mazzata di violenza inaudita, al limite del brutal. Facciamo una piccola pausa con l'esoterismo strumentale di "Through the Stargate" e arriviamo a "Erishkigal: Kingdom of Death". Erishkigal, nella tradizione mesopotamica, era la regina della Grande Terra, dea di Kur, la terra dei morti nella cultura sumera e qui le sue tematiche vengono affrontate grazie ad un sound malvagio, oscuro che arriva a scomodare anche gli Aevangelist in una furibonda traccia, dove la roca voce del frontman, convince appieno. La song è monolitica, una sassata in pieno volto senza troppi orpelli stilistici, che invece riappaiono in "Pazuzu: Harbringer of Darkness", traccia decisamente più ritmata, dal forte sapore epico e battagliero, in cui le vocals appaiono per la prima volta anche in formato pulito e le tastiere si prendono la scena nella seconda parte. Siamo a metà disco e non temete, rimangono ancora parecchi momenti interessanti di cui godere: ad esempio le tre tracce strumentali (di cui "Sweat of the Sun" è la mia preferita) che ci prendono per mano e conducono in un qualche souk arabo, dove ad esibirsi troviamo incantatori di serpenti e danzatrici del ventre. C'è però ancora modo di fare male con il death metal distorto e contorto di "God of Creation" o ancora con l'apocalittica ed esoterica "Apophis: The Serpent of Rebirth" che sancisce la bravura, la preparazione tecnica e l'originalità di questo ensemble statunitense, devoto al culto del solo dio Aton. Eretici! (Francesco Scarci)

(Cimmerian Shade Rec/Satanath Rec/Murdher Rec - 2018)
Voto: 80

https://satanath.bandcamp.com/album/sat201-akhenaten-golden-serpent-god-2018

mercoledì 19 settembre 2018

The Clouds Will Clear - Recollection of What Never Was

#PER CHI AMA: Post Rock, Russian Circle, Ulver
Quello dei The Clouds Will Clear è un quartetto proveniente dalla Germania, Francoforte per l'esattezza. La musica che propongono i nostri è un post rock piuttosto lineare che ogni tanto prova ad uscire dai binari grazie all'uso dei synth. "In Cyles", l'opening track, delinea comunque la proposta dei teutonici, un sound con ariose aperture cinematiche, assai poco pretenziose aggiungerei ahimé. Buone per carità le linee di chitarra, belle pesanti in alcuni frangenti, poi il solito compitino portato a casa con sufficienza e senza particolari sussulti. I riverberi di chitarra, l'aura malinconica, i frangenti ambient e tutti gli ingredienti tipici del genere, li possiamo ritrovare in questo 'Recollection of What Never Was', troppo poco per permettere ai nostri di uscire dalla massa informe di band post rock che popola ormai il pianeta. Serve una trovata, un'uscita di pista che possa realmente farmi pensare che questi The Clouds Will Clear meritino veramente la vostra attenzione. Ecco nella prima traccia non l'ho trovata e nemmeno quando il piano (un cliché) apre "Recollection", rimango colpito, già sentito mille volte, cosi come il riffing in tremolo picking o una voce che sembra provenire da una radio. Quello che più mi colpisce invece è un'atmosfera che si fa man mano più tesa, che riesce a catalizzare la mia attenzione, pur ricordandomi l'incipit del dvd degli Ulver, 'The Norwegian National Opera'. Non male soprattutto l'ascesa musicale, ma serve sicuramente qualcosa in più per scuotere la mia attenzione. Ci prova "Before the Tempest", e il suo carattere ambientale affidato a piano e basso, in un brano dal tiepido carattere autunnale che sembra fungere più da riempipista che altro e che alla fine, francamente, non mi lascia granché. Si arriva a "Attack Warning" e la solfa è la medesima, un peccato perchè mi stavo quasi ricredendo sulle potenzialità dei quattro teutonici. Troppo facile ma piuttosto inutile ripetere la lezione pedissequamente dei maestri (Russian Circle e This Will Destroy You), serve ben altro che una schizoide voce radiofonica per poter pensare di emergere dalla massa. Meglio allora provare a sterzare anzichè continuare ad insistere su flebili melodie, come quelle contenute anche nella conclusiva "Deep Sea Mining", il rischio di annoiarsi è dietro l'angolo. Onestissimi mestieranti, ma nulla di più. (Francesco Scarci)

martedì 18 settembre 2018

Grimorium Verum - Revenant

#PER CHI AMA: Symph Black, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Era da un po' di tempo che davo il black sinfonico per morto, soprattutto dopo le ultime performance orchestrali dei Dimmu Borgir. Invece, dalla città di Syktyvkar, a nord est di Mosca, ecco arrivare i Grimorium Verum, portatori della fiamma nera nella sua veste symph. 'Revenant' è il quarto album della band russa, che esiste addirittura dal 1996, sebbene si sia presa una pausa di riflessione tra il 2001 e il 2006. Quel che conta alla fine è che siano tornati sulla scena a distanza di tre anni da 'Relict' e l'abbiano fatto con una certa convinzione. Forse l'opener, "The Born Son of the Devil", non risulterà tra le tracce più convincenti dell'album, ma lascia presagire la vena fortemente sinfonica del lavoro, complice una spiccata propensione alle orchestrazioni che si odono a metà brano. Quello che semmai colpisce è la parte solistica del duo russo, davvero graffiante e di scuola death/thrash. Ma dicevo che forse l'opener non è il momento migliore dell'album, visto che con "The Kingdom of the Pain" i nostri si lanciano con il loro black thrash ruggente, tra ritmiche tiratissime, harsh vocals ed improvvise parti atmosferiche affidate al tastierista di supporto alla band, che si avvale peraltro anche di altri quattro musicisti addizionali. La proposta dei Grimorium Verum è davvero intrigante, miscelando reminiscenze dei Dimmu Borgir (periodo 'Puritanical Euphoric Misanthropia'), con gli Old Man's Child, un pizzico di Cradle of Filth (soprattutto nell'utilizzo delle voci femminili e nel cantato più evocativo/recitato del frontman) e un thrash metal davvero raffinato. La qualità del disco va aumentando con la magniloquente "The March of the Northern Kings" e quei suoi chitarroni che s'intersecano col bombastico suono delle tastiere e il meraviglioso attacco solistico, cosi come accade nella seguente "Blind Faith in Nothing" che ha un piglio analogo ma vede la comparsata anche del pianoforte nel suo velenoso incedere. Il disco prosegue, forse troppo lungamente (e qui risiede uno dei pochi difetti di 'Revenant'), su queste note, sfoderando pezzi più o meno interessanti, di cui vorrei sottolineare l'intensa "The Light of Dark Father", solenne nella sua parte ambient centrale, davvero fenomenale, laddove il vocalist si lancia anche in un cantato corale super pulito. Ultima menzione per "The Great Serpentine Saint", assai vicina al chitarrismo di 'The Cruelty and the Beast", ma anche qui ecco comparire delle vocals pulite che spezzano la veemenza ritmica dei russi e prendono nettamente le distanze dal genre (si un po' come fatto dagli ultimi Dimmu Borgir per intenderci). Insomma, alla fine un lavoro questo 'Revenant', che mi sono gustato con sommo piacere dall'inizio alla fine, un album che mi spinge sicuramente a saperne di più sul passato dei Grimorium Verum. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Symbol of Domination/Cimmerian Shade Rec/The True Plague/Black Metal Rec - 2018)
Voto: 75

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp109-grimorium-verum-revenant-2018

Svin - Virgin Cuts

#PER CHI AMA: Avantgarde/Alternative/Noise
La cosa che più mi piace degli Svin è, che nonostante siano passati degli anni dal loro primo ottimo album del 2011, con le loro uscite, sono sempre andati verso un crescendo artistico. La recente trasformazione in trio non li ha indeboliti ed il succo della loro musica è rimasto invariato, lo stile si è evoluto, è diventato adulto, più raffinato e disturbante, più conscio delle proprie idee e rigenerato da un'originalità in grande spolvero. Intendiamoci, la musica strumentale di questa band di Copenaghen non è mai stata di facile approccio e questo nuovo 'Virgin Cuts' (uscito per la Mom Eat Dad Records) di certo non è nato con l'intento di esserlo ma la fantasia che contraddistingue il trio danese è invidiabile. Stiamo parlando di musica alternativa, sperimentale, allucinata, complessa, che va via via stratificandosi e nota dopo nota fa perdere l'orientamento al povero ascoltatore. Le composizioni sono oggi oramai più vicine al jazz d'avanguardia pur nutrendosi di suoni provenienti dagli angoli più disparati della musica, da suoni di confine di ogni genere, muovendosi come arie cinematografiche, colonne sonore introspettive, rumorose, alternando schizofrenia e quiete ed un ambient per nulla rilassante. Quindi riusciremo a sentire percussioni etniche che si fondono ad umori industrial, un sax notturno che dialoga con il noise elettronico e atmosfere bizzarre con loop lacerati rubati ai Seefeel, in odor di divagazioni lunatiche alla Zorn, luci da jazz club fumosi, richiami al mito ieratico della urgente, rumorosa, creatività dei Sonic Youth del debut 'Confusion is Sex'. Infine, per non far mancare nulla a questa magica pozione, aggiungete un tocco di no wave e il legame con le prime superbe e complesse composizioni del signor Arvo Pärt (vedi "Sinfonia nr.1") e l'ispiratore zappiano quale fu il geniale Edgar Varèse (vedi "Hyperprism" e "Poème Électronique"). Avanguardia è il nome da incollare oggi alla musica dei nuovi Svin, musica colta e matura, trasversale e tagliente, stravagante e intelligente. Posso garantire che questo album diventerà la vostra prossima ossessione sonora. (Bob Stoner)

(Mom Eat Dad Records - 2018)
Voto: 80

https://svin.bandcamp.com/album/virgin-cuts

lunedì 17 settembre 2018

Phal:Angst - Phase IV

#PER CHI AMA: Post Metal/EBM
Album particolare quello che ho tra le mani oggi. Trattasi dei viennesi Phal:Angst, band a me totalmente sconosciuta fino ad ora, che con questo 'Phase IV' arriva al traguardo del quarto album. Leggendo sul web, capisco che la band è promotrice di un sound a cavallo tra EBM, Industrial e post-rock. Lo si evince immediatamente ascoltando la lunga e claustrofobica traccia in apertura, "On the Run", tra l'altro il singolo apripista del lavoro. La song ha un incedere asfissiante tra suggestive atmosfere post rock, tra l'altro corredate da un chitarrismo bello pesante, su cui si installano successivamente rumorismi industriali e pattern electro-EBM. Il suono è cristallino, splendido a tal proposito l'inizio di "Money and Fame", in cui si possono distinguere chiaramente strumenti ed effetti vari. La song ha un piglio elettronico nel suo delicato proporsi, ma quello che frega sembra essere una monoliticità di fondo della proposta del combo austriaco. Non c'è infatti dinamicità nella traccia, sembra sempre che debba decollare da un momento all'altro, ma alla fine non accade nulla se non rilasciare un sound sintetico che alla fine risulta quasi sfiancante. Due brani e si sfiorano già i 19 minuti e con i successivi non si scherza altrettanto viste le durate infinite di pezzi che si palesano alla fine tutti allo stesso modo, ossia con un'importante base ritmica costituita da un bel riffone portante e che incorpora elementi elettronici, cyber vocals (in versione pulita o sussurrata), insomma un po' come se i Neurosis si mischiassero con i Coil. Lo stesso dicasi di "Comeuppance" e francamente la sensazione inizia a divenire alquanto frustrante, cosi come con gli oltre dodici minuti di "Despair II", una nenia colossale che non vira mai verso lidi alternativi, ma che nei primi cinque minuti propone fondamentalmente la stessa soluzione musicale; fortuna nostra che la song va alla ricerca di soluzioni un po' più mutevoli, altrimenti il rischio di stroncatura era davvero dietro l'angolo. Non che le cose cambino drasticamente, però i nostri ci mettono dell'impegno per provare ad acquisire nuovi fan con fughe oniriche o successivamente con un approccio quasi dronico, nella song che mi rimarrà in mente più che altro per la lunghezza del titolo ("They Won't Have To Burn The Books When Noone Reads Them Anyway") che per altro. Arrivo stancamente alla conclusione di 'Phase IV', con un paio di remix (l'ipnotica "Despair II" e la quasi EBM "The Books Jk Flesh"), entrambe contraddistinte da un carattere quasi trip hop, di cui avrei fatto volentieri a meno. Che fosse un disco particolare, lo avevo dichiarato sin dall'inizio ma che fosse un paccone di questo tipo, lungi da me dall'immaginarlo. Che fatica. (Francesco Scarci)

(Bloodshed666 Records - 2018)
Voto: 60

https://phalangst.bandcamp.com/track/on-the-run

Tommy and the Commies – Here Come

#PER CHI AMA: Garage Punk Rock
Questo disco riafferma che il buon vecchio punk rock non morirà mai e continuerà a dare ottime emozioni e scossoni ritmici al fulmicotone. Tommy and the Commies, un power trio, un nome provocatorio, un canonico e vintage modo di intendere il punk, una carica esplosiva per una manciata di brani irresistibili che vi faranno ringiovanire nei soli sedici minuti di durata dell'album. I brani sembrano usciti dal cassetto di punk band leggendarie come i The Undertones, con accorati cori pop stradaioli ed un vocalist dal canto rubato al mito di Howard Devoto e i suoi indimenticabili The Buzzcocks; aggiungete poi l'assalto sonico di Johnny Thunder ed i suoi Heartbreakers ed il disco perfetto è servito. Un brano migliore dell'altro, dall'iniziale "Devices" ai successivi "Permanent Fixture", "Suckin' In Your 20's" e alla magnifica "So Happy" (dal finale peraltro splendido), confermano come il primo lavoro di questo trio proveniente dall'Ontario, s'inserisca a meraviglia nel cast di chicche punk, psych e garage, dell'instancabile etichetta canadese, Slovenly Recordings, che sicuramente è tra le punte di riferimento nel settore underground ed alternativo per i generi in questione. Il tempo non sembra essere passato ed il punk, musicalmente parlando, per questa band, che suona davvero bene, non si è mai evoluto, anzi si è fermato al 1977 con quella grande passione ed accanimento, una fede che ha fatto rimanere i tre musicisti canadesi ancora dei teenager duri e puri come si faceva qualche decennio fa, con un'attitudine che esalta l'egregia qualità di questa release fulminante. Niente di nuovo, anzi, lacero e vecchio ma elettrizzante, accattivante, indomabile punk rock old school. Produzione ottima per un disco breve, d'assalto, otto canzoni che in un'altra epoca sarebbero state delle hit da alta classifica. Ascolto obbligato. (Bob Stoner)

Tangled Thoughts of Leaving - No Tether

#PER CHI AMA: Post Metal Sperimentale
Per chi non li conoscesse (il sottoscritto ad esempio), i Tangled Thoughts of Leaving sono un quartetto australiano che si diletta nell'esplorazione del post metal, sporcato da doom/jazz e sonorità progressive, il tutto rigorosamente strumentale. 'No Tether' è il loro terzo album (ci sono parecchi EP all'attivo però), fuori in co-produzione tra Bird's Robe Records e la Dunk! Records. Un lavoro di oltre 56 minuti che sin dalle battute iniziali si conferma ostico da digerire musicalmente: "Sublunar" è infatti un'intro rumoristica che introduce al paesaggio sonoro affrescato da "The Alarmist", la prima perla di questo cd. Una traccia che delinea il carattere stralunato della compagine originaria di Perth abile nel miscelare una song dai forti connotati post con rallentamenti caratteristici della musica del destino, in un incedere melmoso ed imprevedibile dotato di una profondità di suoni che riempie le orecchie e satura il cervello. E con un riverbero assai prolungato si arriva a "Cavern Ritual", densa nel suo lentissimo avanzare, con suoni che accelerano il battito cardiaco, scatenando ansie e paure, generando angoscia ed un profondo senso di intorpidimento degli arti in quello che potrebbe essere tranquillamente un funeral doom dalle tinte progressive. Soggiogato dalle tinte fosche della terza traccia, trovo finalmente ristoro nella lunga "Signal Erosion", quasi tredici minuti di sonorità droniche che si fondono con psicotici giri di chitarra e delicati tocchi di tastiere. La ritmica però preme per trovare un suo spazio, si concede degli strappi post-hardcore ma dovete pensare comunque ad una pluristratificazione sonica su cui si muovono indipendenti questi generi, con l'aggiunta di meravigliose fughe jazz (con tanto di trombe e tromboni all'opera), momenti ambient e rallentamenti doom sul finire, in quello che potrebbe essere un incubo ad occhi aperti. Posso ammettere che qui una voce non era strettamente necessaria tale la complessità generata da questi quattro incredibili musicisti. Vi basti chiudere gli occhi e provare (dico provare) a farvi guidare dalle visioni oniriche immaginate da questi impavidi australiani. Stravolti da una massiva portata musicale, si arriva a "Inner Dissonance" e immaginarla come musica di sottofondo in un qualche jazz club, non sarebbe certo un'eresia. I suoni tornano a farsi minacciosi con "Binary Collapse", dove una ritmica tonante si fa accompagnare dal piano in un'ispirata cavalcata metal che viene interrotta da un break post rock che allenta per un po' la tensione dirompente degli esordi, ma spinge tuttavia per poi riesplodere nel corso del brano e far breccia nella seconda metà tra le invasate melodie di tromba e pianoforte in un poderoso climax che sale di livello, di potenza, di intensità, di tutto per un finale frastornante da applausi. Per ultima la title track: dodici minuti affidati a spettrali rumori, cacofoniche melodie, landscapes dronici, tumultuose ritmiche e una dose massiccia di creatività che mi spingono inevitabilmente a saperne di più di questi imprevedibili Tangled Thoughts of Leaving (tanto da indurmi a comprare i precedenti lavori), una bella scoperta davvero. Una jam session a tutti gli effetti. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Dunk! Records - 2018)
Voto: 85

https://music.tangledthoughtsofleaving.com/album/no-tether

martedì 11 settembre 2018

Niet - Dangerfield

#PER CHI AMA: Post Punk/Noise, Shellac
Fare musica noise punk in due persone non deve essere faccenda cosi semplice. Ci provano i Niet (il cui moniker è un omaggio ai NoMeansNo), ensemble proveniente dalla provincia di Ferrara che con armi e bagagli in mano (una chitarra e una batteria), ci sparano addosso questo EP di cinque pezzi, intitolato 'Dangerfield'. L'approccio all'opener "All Work And No Play" non è quanto di più semplice mi aspettassi: la musica ha un'espressione alquanto minimalista (anche a livello vocale), si sente che manca di qualcosa. Complice anche una registrazione lo-fi, mi lascio comunque investire dalla carica energica di questi due ragazzi. La matrice musicale del duo è sicuramente punk-hardcore - penso ad una versione più corrotta dei Melvins - su cui poi i nostri ci innestano ridondanze noise/math. Quella della ripetitività dei suoni (caratteristica di Shellac e Jesus Lizard, altre due importanti influenze della band di Portomaggiore) emerge anche nella seconda "Sinking", canzone ruvida, schizoide e snervante quanto basta per spingermi a premere sul tasto skip, per evitare di accumulare una fastidiosa rabbia interiore. Questo è infatti l'effetto che subisco nell'ascoltare le scorribande noise punk dei Niet, è musica che necessiterebbe infatti di una bella valvola di sfogo, magari un bel pogo durante uno dei devastanti concerti del duo emiliano. Nel frattempo, il disco prosegue tra deliri post punk con "MDZhb" e tribaleggianti divagazioni math (la title track) che tuttavia stentano a decollare, come se deprivate di quel quid che invece ha reso magiche le proposte delle altre band citate sopra. A chiudere ci pensa "KEXP", forse il pezzo meglio riuscito del disco, in cui la componente vocale sembra più fluida, al pari delle linee di chitarra, per lo meno più fruibili. C'è ancora tanto lavoro da fare per poter almeno avvicinarsi ai mostri sacri e dare una maggiore fruibilità ad un disco desisamente ostico, e in cui la cattiveria non è messa al giusto servizio della musica. (Francesco Scarci)

lunedì 10 settembre 2018

Antisoph - S/t

#PER CHI AMA: Avantgarde/Progressive, Ved Buens Ende, Ulver
Con alle spalle una serie di esperienze in molteplici band (Kerbenok e Vnrest) e una passata storia col moniker Orb, giungono a noi i tedeschi Antisoph con questo primo lavoro targato Geisterasche Organisation. Il cd consta di sette tracce che sin dall'opener "Karmaghoul", lascia intuire che non ci troviamo al cospetto di una band estrema propriamente convenzionale. Questo perchè a fronte di un'irrequieta tempesta musicale di stampo black, poi a comparire sono vocals che mi evocano Ved Buens Ende, Ulver o addirittura Voivod. La musica degli Antisoph è a tratti devastante con sfuriate in blast beat o schitarrate in tremolo picking, ma quello che entusiasma sono quei vocalizzi puliti che ricordano per l'appunto Carl-Michael Eide, frontman delle due band norvegesi citate sopra e membro (o ex-) di un quantitativo esorbitante di realtà quali Aura Noir, Satyricon, Dodheimsgard, Fleurety, tanto per fare qualche nome. E forse proprio a qualcuna di queste imprevedibili realtà musicali norvegesi che il nostro terzetto di Schleswig-Holstein prova a guardare, mischiando le carte, e tra sparate estreme, ci piazzano mirabolanti trovate progressive, come i bravi Enslaved insegnano. Basti ascoltare l'assolo finale dell'opening track per trarre questa banalissima conclusione oppure trovare piacevole conferma in altri pezzi: "Hypnoroom" suggerisce qualcosa degli Ulver dei tempi di 'Blood Inside', concimandolo con un black'n roll furioso e psicotico con tanto di cavalcata sincopata a livello ritmico. Una corsa che lascia senza fiato tra ritmiche dissonanti e riff di scuola "vektoriana". "Distant Scream" è un notevole esempio di estremismo progressivo, non posso etichettare come black o death perchè qui di voci scream o growl non c'è traccia, però le sventagliate ritmiche sono portentose e fanno molto più male di realtà ben più estreme dei tre teutonici che qui si dilettano non poco con rincorse paurose al limite del parossismo, smorzate da inattese divagazioni jazzate che mettono in luce una notevole preparazione tecnica e una capacità mostruosa a livello compositivo. Nulla è scontato in questo cd anzi, il rischio di incorrere nell'eccesso di voler sorprendere ad ogni costo l'ascoltatore, ne penalizza addirittura l'ascolto vista una scarsa orecchiabilità per brani al limite del geniale. Il disco mi piace, soprattutto nei frangenti più estremi e penso alla cavalcata post black negli ultimi minuti della terza traccia; talvolta però non è cosi semplice digerire la scarsa linearità musicale dell'ensemble e la voce che emula anche i Vulture Industries nelle tonalità più alte, sembra andare leggermente in difficoltà. Tuttavia insisto, l'album è notevole oltrechè ostico, ma se riuscirete a prendere le giuste precauzioni anche voi non potrete non apprezzare le tortuose e urticanti ritmiche di "Death" e quel suo break centrale che ammicca anche agli ultimi Opeth e al contempo si concede un'altra sfuriata black nel suo epilogo. "Teleport Maze" dà un'altra dimostrazione di spiccata personalità con suoni e voci che chiamano in causa a caso Opeth, Arcturus, Cynic, ma anche il math di Between the Buried and Me o dei Follow the White Rabbit, in una assalto sonoro difficile da gestire perchè cosi frastornante e deviante. Con "Ghostking", il trio prova a rallentare un po' le velocità disumane a cui ci ha abituato sin qui, ma come sempre con questa band dovete aspettarvi sempre di tutto di più, e quindi via ad orpelli blues rock di chitarra, un break progressivo, un bell'assolo, per quello che in definitiva sembra essere il momento più pacato del disco. A chiudere ecco l'acustica delicata di "Rejoice" che rappresenta in questo caso, la meritata quiete dopo una spaventosa tempesta. (Francesco Scarci)

(Geisterasche Organisation - 2018)
Voto: 80

https://antisoph.bandcamp.com/

domenica 9 settembre 2018

Marla and David Celia – Daydreamers

#PER CHI AMA: Psych/Folk Rock
Come da buona prefazione, il titolo di questo disco ('Daydreamers') ci indica la chiave di lettura della musica contenuta in esso. Fare i conti con un album creato da due giovani talentuosi cantautori come Marla Green e David Celia, è un vero piacere ed il gioco diviene facile e credibile, immergendosi nelle atmosfere soffici e cristalline dei loro brani, attraversando il loro modo delicato di vedere l'alternative country ed il folk americano. La musica del duo di Toronto, si muove tra leggerissime arie di chitarre acustiche e pacati ritmi di batteria e basso, tutte intente a supportare le voci ispirate dei due blasonati artisti, che si muovono in duetti dal canto rilassato, con il tono di chi ha trovato nella natura del Canada l'habitat perfetto. L'accostamento a June Carter e Johnny Cash è quasi d'obbligo in brani come l'ottima "Lover of Mine" oppure "Heart Like A Dove", anche se l'atmosfera non è infuocata come nella famosa "Jackson", ma da luci che si abbassano al calar del tramonto. Fantastica la voce di Marla nel brano che dona il titolo all'album, dove il ricordo di Dolly Parton è ancora vivido riarrangiato in una veste hippie alla Joni Mitchell. Molto bella e professionale poi la produzione del disco, che ha suoni colorati e profondi, palpabili e vivi, umani, troppo umani, bellissimi, nello stile folk di Sharon Krauss dell'album 'Songs and Loss'. Ottima e stravagante la traccia "Brave New Land" dove il ritmo si alza leggermente e si discosta dal seminato in maniera lunare e più psichedelica. Le atmosfere che toccano il folk rock psichedelico degli anni sessanta unite a richiami dei Fleet Foxes, la voce rassicurante di David, il romanticismo diffuso tra i brani, la stupenda copertina alla Nick Drake e quel pop sommesso di casa Beatles come in "I Am Her Man" e nella conclusiva "All in Rhyme", danno un degno finale ad un disco che si lascia ascoltare beatamente, in modo lineare e scorrevole, dolce come una giornata frizzante di primavera. Grande prova di maturità artistica, ottimo lavoro! (Bob Stoner)

(Elite Records - 2018)
Voto: 75

https://marladavidcelia.bandcamp.com/releases