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lunedì 28 maggio 2018

Doomster Reich - Drug Magick

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Electric Wizard, Pentagram
I Doomster Reich sono un combo di navigati musicisti provenienti da Łódź, carichi di esperienza che si fa notare ormai in tutti i loro lavori, un gruppo che merita tutta la vostra attenzione considerato che dalla loro prima uscita discografica, i nostri sono cresciuti moltissimo. Devo ammettere che ci ho messo un bel po' di ascolti per convincermi che la nuova release della band polacca, uscita per la Aesthetic Death l'anno scorso, fosse stata registrata in una session live presso i Radio Lodz concert studio, tanto è buona la produzione quanto alto il valore della musica espressa. Prodotti da Kamil Bobrukiewicz in maniera ottimale fin dall'iniziale "Gimme Skelter", song peraltro irresistibile, 'Drug Magick' riesce a mantenere sia la tensione live che la qualità di un album doom/stoner/vintage hard rock di egregia fattura per tutta la sua durata. Brano dopo brano ci si immerge in una totalità cosmica e psichedelica acidissima (ascoltare "Rites of Drug Magick" per credere) , figlia dei Pentagram quanto degli ultimi Electric Wizard, con un sound ribassato ma molto frizzante, allucinato e con un calorosissimo pathos nelle parti più colorate. Ci sono poi esplosioni di memoria 70's come riuscivano ai migliori Nebula, suoni dilatati, assoli space oriented ideali per esplorare il cosmo, e una voce che sembra arrivare da una galassia ignota, pronta a salmodiare prediche politicamente scorrette condite di funghi allucinogeni ("Round the Band Satan"). L'attitudine doom emerge in "Meet the Dead" con un incidere blues e una chitarra che sputa note lisergiche come fossero lava ardente, e con i fantasmi di Hendrix e co. che si riaffacciano al mondo delle sette note con nuove colorazioni e rivisitazioni, in quasi nove minuti di sbornia psichedelica lasciata libera di creare effetti stupefacenti di ogni tipo. "Chemical Funeral" omaggia a suo modo gli insuperabili Cathedral, nel suo essere così vintage e nuova allo stesso tempo. Per chiudere, la più sperimentale e lunghissima "Black Earth, Red Sun", dove la band assume un'anima oscura, sinistra, desertica e mantrica di tutto rispetto, mostrando che di psichedelia non ci si stancherà mai e che le sue strade sono infinite, l'ennesimo viaggio ai confini della concezione psichica umana. Album sorprendente, non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 80

https://doomster-reich.bandcamp.com/

Lychgate - The Contagion in Nine Steps

#PER CHI AMA: Symph. Doom, Tristitia, Wyrding
Quando tra le tue fila hai un artista che risponde al nome di Greg Chandler (frontman degli Esoteric), credo che nulla possa essere precluso. Se poi aggiungi altri musicisti che militano negli Acherontas o negli Ancient Ascendant, credo che tutto sia decisamente più semplice. Ecco che il terzo album per gli inglesi Lychgate potrebbe rivelarsi un esercizio di stile per sfoderare una prova di assoluto valore e prestigio. E questo è già avvalorato nell'opener di questo mirabolante 'The Contagion in Nine Steps', "Republic", in una magniloquente orchestrazione che lascia sin dai primi secondi a bocca aperta, per la caratura tecnica e la creatività già sprigionate dopo poco, in un'evoluzione sonora davvero imprevedibile e imperdibile. Come definire questo sound? Non è per nulla semplice, forse un doom sinfonico di stampo avanguardistico, impregnato di suoni progressivi in salsa gotica. Chiaro no? L'unica cosa certa è probabilmente la voce di Greg, che intreccia il suo insano growl con il cantato pulito di alcuni ospiti e con le prodezze di Vortigern, vero mostro alle tastiere, organo e mellotron, gli strumenti che più degli altri si riveleranno fondamentali durante l'ascolto di questo disco. L'atmosfera criptica di "Unity of Opposites" si trasforma da li a poco in giri chitarristici (e di basso) da death jazzato, cori dal sapore liturgico in un ambientazione che mi ha evocato i Tristitia, mentre la song prosegue in un frullato sonoro che lascia disorientato per il quantitativo di idee espresse in cosi pochi minuti. Una traccia di 360 secondi e poco più, in cui la sensazione finale è quella di aver ascoltato un intero album. Incredibile, perchè nulla appare scontato qui dentro. C'è finissima arte infatti nel saper creare e condensare in 40 minuti quello che ascolterete in 'The Contagion in Nine Steps', che si candida già ad essere uno dei migliori dischi dell'anno, sicuramente tra i più complessi. Con "Atavistic Hypnosis", pezzo ispirato al libro 'The Invincible' dello scrittore polacco Stanisław Lew, i suoni rallentano paurosamente e si entra in un incubo sonoro ad occhi aperti da cui sarà difficile riprendersi. È funeral ma non nell'accezione convenzionale del termine, non ci sono in effetti chitarroni profondissimi che vanno a rallentatore, ma solo suoni stralunati al massimo su cui si staglia la voce acida di Greg, in una progressione sonora comunque fuori da ogni tipo di schema, in cui le atmosfere si rivelano suggestive, surreali, e la proposta vede alcuni punti di contatto con gli americani Wyrding e nel cantato pulito anche con il folletto canadese Devin Townsend. Insomma, è intuibile che qui si entra nei meandri della sperimentazione che tanto prediligo e che alla fine i londinesi Lychgate non siano proprio una band come le altre. Ma questo lo si era già capito dalle precedenti release. Se comunque non siete ancora del tutto convinti, catapultatevi nel mondo sotterraneo di "Hither Comes the Swarm", un altro pezzo dove il delirante sound dei nostri trova modo di coniugarsi con derive dal sapore blackish. La musica classica, che già aveva primeggiato nel debut album, torna sovrana anche in "The Contagion", con giri maestosi di pianoforte e cantati puliti che entrano in collisione col growling infernale di Mr. Chandler in uno dei brani dotati di maggiore teatralità dell'intero disco, che nella sua seconda metà, rintocca campane a morto. Nonostante le mie parole al miele, sia chiaro che l'ascolto di 'The Contagion in Nine Steps' si rivela come un qualcosa di estremamente complicato, per quanto quest'album rientri tra i lavori più raffinati che io abbia ascoltato negli ultimi dieci anni. Serve una mente aperta, cosi come un cuore che sia in grado di abbracciare una musicalità cosi ostica e mai scontata. A chiudere il disco, il pezzo più breve del cd, "Remembrance", song che induce gli ultimi cinque minuti di riflessione, e che mostra un notevole approccio corale avvicinando nuovamente le proprie sonorità a quanto ascoltato dai Wyrding. Che altro dire, se non invitarvi a godere di questi 42 minuti di catarsi sonica che vi concilierà col mondo... dei morti. (Francesco Scarci)

venerdì 25 maggio 2018

Metamorphosis - The Secret Art

#PER CHI AMA: Black/Heavy, Celtic Frost, Amorphis, Septic Flesh
Il buon Boris Ascher, factotum dei Metamorphosis non ci crederà, ma io conservo ancora la cassetta 'Life Is Just a Joke' che comprai nel lontano 1994 direttamente da lui per una manciata di dollari. Era la demotape di debutto per la one-man-band bavarese, da allora, con estrema calma, sono usciti sei album, di cui 'The Secret Art' è appunto l'ultima opera, rilasciata lo scorso autunno. Cosa cambia rispetto agli esordi? Il supporto, qui c'è un cd in digipack anzichè un nastro, per il resto lo spirito genuinamente black metal di Boris sembra essere rimasto inalterato lungo questi 24 anni. Il musicista teutonico prosegue sulla sua strada di un black metal atmosferico e melodico, come certificato dalla traccia in apertura del disco, nonché title track, di cui vorrei sottolineare l'eccellente performance corale che rende il tutto assai epico, nonostante un riffing che si pone poi a metà strada tra il death/thrash e il black. Un interludio strumentale è quanto servito in "The Beckoning", poi è la volta di un arpeggio, quello che apre "Night on Bare Mountain", in cui su un riffing quasi techno death, si colloca il growling stridulo del mastermind tedesco, mentre il flusso sonico subisce una serie di rallentamenti, accelerazioni e cambi di tempo, che francamente mi ricordano per spirito i Celtic Frost, mentre per ciò che concerne gli arrangiamenti di stampo sinfonico, ecco che le mie rievocazioni mentali mi guidano verso i greci Septic Flesh, anche per una certa magniloquenza delle atmosfere. "As Legions Rise" parte robusta e arrogante per poi dissipare le tempestose nubi death thrash in azzeccatissime linee di chitarra e ottimi assoli. "God of the Dead" è una song strumentale che vanta una piacevole melodia di fondo che scomoda facili paragoni con i primi Amorphis, con le tastiere che creano successivamente un'ambientazione spettrale. Sembrano infatti le catene di un fantasma imprigionato in un castello, quelle che si avvertono in sottofondo, mentre il buon Boris sciorina un rifferama che vede nel drumming il solo punto debole del pezzo (aggiungerei anche dell'album che avrebbe sicuramente necessitato di una migliore produzione), mancando di una certa potenza che avrebbe reso il tutto assai più maestoso. "A Fateful Night" è un altro esempio di come il musicista originario di Holzkirchen, riesca a coniugare con estrema semplicità death e black, peraltro regalando vertiginosi ma non troppo lunghi, assoli da brivido. Complice una certa brevità dei brani, tutti assestati attorno ai 4-5 minuti, devo ammettere che è ancor più immediato e facile assaporare il feeling emanato dal fluire del cd, come nella settima "Holy Wounds", in cui a guidare è un bel riffone thrash sul quale si staglia il vocione del vocalist, mentre in background sono delle minimaliste quanto funzionali keyboards a creare quell'aura mefistofelica. "Invictus" è un altro mid-tempo thrash/death, il cui break centrale prende le distanze da ogni tipo di sonorità estrema, virando verso un sound decisamente più leggero, quasi hard rock. Se non ci fosse il growling oscuro di Boris e verosimilmente tematiche volte a temi occulti, probabilmente starei parlando di tutt'altra proposta musicale, come quella che incontro nella nona traccia, "The Crypt", che mi ha ricordato un che dei Running Wild meno power. Boris alla fine sorprende per la sua voglia di sperimentare, ma questo mi era già chiaro perfino nel 1994. (Francesco Scarci)

(The Devil's Ground Productions - 2017)
Voto: 75

https://thedevilsground.bandcamp.com/album/the-secret-art

giovedì 24 maggio 2018

PinioL - Bran Coucou

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Mathcore/Noise
Era un po’ di tempo che non mi capitava di ascoltare della musica così pazzoide ma allo stesso tempo ben congeniata e stranamente sensata nella sua totale mancanza di raziocinio. Si tratta dei PinioL, formazione transalpina di sette elementi alla prima prova in studio intitolata 'Bran Coucou', un titolo di cui non ho idea del significato (google suggerisce "crusca di cuculo" - NdR). Mi fa sorridere e allo stesso tempo divertire questo disco, volutamente ironico nella sua ripresa del progressive più efferato direttamente dai primi anni settanta. Ricordo solo un’altra band così splendidamente matta ossia i Magma, storica formazione progressive francese che addirittura creò una propria lingua – il kobaiano – cosa che non mi stupirebbe neppure per i PinioL; non ho infatti distinto una singola parola sensata in tutta la lunghezza di questo 'Bran Coucou', solo molti suoni onomatopeici al limite di sillabe casuali, quasi bambinesche. Tra stacchi alla King Crimson e lunghe suite strumentali alla Jethro Tull, i PinioL rievocano la vera anima del progressive e anche se non ci sono grosse aggiunte o modifiche al genere originale, fa piacere sentire una band che ha così ben capito e interiorizzato gli insegnamenti dei seventies per trasporli in chiave moderna. Ad un ascolto per intero del disco, è quasi impossibile distinguere tra loro le canzoni, tanto sono complicate e concatenate una all’altra, il viaggio è una parabola dalle dinamiche oscillanti a metà tra un trip di LSD ed una sbronza pesante di whiskey. Si distingue tuttavia la grande capacità compositiva della band, oltre che le indubbie qualità tecniche dei musicisti. Se volete avere un’idea di cosa voglia dire pazzia musicale, ascoltatevi 'Bran Coucou', al termine avrete innanzitutto una grande stima di voi stessi per essere arrivati in fondo ad un’opera così titanica, poi avrete anche un'idea di cosa accada nella mente di un ricoverato di un ospedale psichiatrico, in modo che se dovesse accadere anche a voi, saprete già di cosa si tratta. (Matteo Baldi)

Selva - Doma

#PER CHI AMA: Post Black/Post Hardcore
Ho recensito i Selva nel novembre del 2016: da allora i ragazzi lodigiani si sono prodigati in lungo e in largo in una discreta attività live. Giusto il tempo di trovare uno spazio temporale, visti gli innumerevoli side project del batterista, che per allietare i fan il terzetto lombardo ha deciso di proporre due pezzi nuovi di zecca, che coprono addirittura quasi 25 minuti di scabrose sonorità post black. Ecco ciò che è racchiuso in questo 'Doma', EP uscito per la Overdrive Records e che include appunto "Silen" e "Joy", due schegge impazzite che confermano quanto di buono fatto sin qui dal trio italico che continua imperterrito nel proporre sonorità caustiche, retaggio di un punk/hardcore che ancora scorre nelle vene dei nostri. L'incipit dell'opening track è lunga e cerebrale, ma presto si trasformerà in spessa carta vetrata che trova pace solamente verso il minuto sette dopo un'assalto sonoro fatto di ritmiche serrate e da uno screamo lancinante, lanciandosi poi in dilatate partiture post rock in un break strumentale che dopo un paio di minuti viene lasciato a briglie sciolte per l'ultima cavalcata di rabbia incandescente che chiude un brano che fa perno su una violenza primitiva, fortunatamente spezzata dalle classiche deviazioni soniche tanto care ai nostri. Con "Joy" ritroviamo maggiori variazioni al tema, sebbene si venga travolti immediatamente dalla selva di riff disumanamente tempestosi che affliggono le carni e le menti in abrasive e ridondanti scorrerie sonore (spaventoso a tal proposito il muro di chitarre eretto verso il terzo minuto della song) che troveranno in rallentamenti doomeggianti la calma di una tempesta che non sembra mai accennare a placarsi, ma anzi se possibile, a sprigionare un rifferama sempre più veemente e veloce tra blast beat e urla feroci. La song è più ritmata nella sua seconda metà, con un ampio spazio ritagliato a favore di quelle fughe oniriche in territori post-rock che smorzano i torvi e biechi attacchi strumentali che forse alla lunga rischiano di essere troppo autoreferenzianti, mentre a mio avviso la band è in grado di regalare nei momenti più melodici e atmosferici, il meglio di sé, soprattutto grazie alle potenti e malinconiche linee di chitarra che saturano l'aria irrespirabile di questo 'Doma'. Un gustoso aperitivo in attesa di una prelibata cena? (Francesco Scarci)

(Overdrive Records - 2018)
Voto: 70

https://selvapbs.bandcamp.com/album/d-o-m-a

mercoledì 23 maggio 2018

Grá - Väsen

#PER CHI AMA: Scandinavian Black, Dissection, Dimmu Borgir
Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa, perchè gli svedesi Grá sono al terzo album, e io li ignoravo completamente. Mea culpa. Perché tra le sue fila c'è tal Heljarmadr, voce prestata all'ultimo lavoro targato Dark Funeral (e non solo). Mea culpa. Perché la band di Stoccolma propone un sound che di base è un black metal in stile scandinavo (un mix del meglio di Svezia e Norvegia), sebbene poi si destreggi egregiamente nei meandri di sonorità pagane. L'opener, "Till Sörjerskorna", strizza l'occhiolino ai maestri svedesi, ma la sua maestosa furia iniziale evolve in un black mid-tempo, mi ha riportato alla memoria i Dimmu Borgir delle origini, di quel mitico 'For All Tid' che fece conoscere la band norvegese al grande pubblico, anche se i Grá risultano decisamente meno tastierosi e più votati a trame chitarristiche tremolanti. Però quell'aura di mistero, quello screaming che per certi versi richiama proprio Shagrath e gli arrangiamenti davvero azzeccati, mi fanno appassionare fin dall'inizio, a questo 'Väsen'. La ricerca di qualche effetto elettronico invece scomoda qualche paragone con i nostrani Aborym di 'Generator'. La cavalcata in mezzo alla neve continua con "King of Decay" e le sue sfuriate belliche in stile Gorgoroth, che trovano attimi di pace in rallentamenti più ragionati. “Hveðrungs Mær”, che sfodera un inizio quasi esoterico, ha in serbo un black glaciale soprattutto nelle sue parti più tirate ma anche in quelle più rallentate, dove peraltro ho rivissuto la gioia dell'ascolto di "Blashyrkh" degli Immortal. È con "Krig" però che i nostri mi rapiscono totalmente: la song offre un sound maledetto, inesorabile, una voce che sovrasta e arresta completamente la musica, in un'atmosfera surreale che fa emergere tutto il maligno che c'è dentro al quartetto svedese ma anche dentro noi stessi. Eppure non è una song rabbiosa, feroce come le altre (e come potrebbe essere in seguito la thrasheggiante "Dead Old Eyes"), ma sicuramente è quella con l'impianto ritmico più epico e suggestivo. “Gjallarhorn” apre invece con una massiccia dose di synth, prima di esplodere in un'arcigna galloppata dalle ritmiche sghembe e instabili, ma sempre maledettamente efficaci. "The Devil’s Tribe" evoca nuovamente i Dimmu Borgir più atmosferici e ruffiani (nell'accezione positiva del termine), in un incedere lento e sinuoso. La conclusione è affidata alla tagliente title track, uno Swedish black di scuola Dissection che oltre a mostrare le classiche linee di chitarra della scuola svedese, ci delizia con raffinati arpeggi, che spezzano quella tormenta di ghiaccio che si abbatte impietosa sulle nostre teste. (Francesco Scarci)

(Carnal Records - 2018)
Voto: 80

https://grahorde.bandcamp.com/album/v-sen

Winfield - Rock 'N' Roll Ist Krieg

#PER CHI AMA: Hard Rock
I Winfield sono una band hard rock originaria di Caen in Francia, ovvero normanni puro sangue, attivi da quasi dieci anni. Il quartetto voce-chitarra-basso-batteria conta un paio di EP ed un album autoprodotto, un anno fa hanno poi rilasciato questo full length 'Rock 'N' Roll Ist Krieg'. Il digipack è semplice ma ben fatto, dominato da una stile "noir" dove la band si è divertita a posare in modalità gangster. "The Opening" fa appunto da intro a quest'album di dieci brani e ci invoglia con un breve stralcio strumentale dal sapore southern-folk ad assaporare chitarre acustiche, armonica a bocca ed una lontana sirena che raccontano di un paesaggio lussureggiante sotto un cielo plumbeo e carico di pioggia. E come di consueto accade, la quiete prima della tempesta non lascia presagire niente di buono ed ecco allora che i Winfield attaccano con "Kingdom of Gold", brano con il gain impostato a undici decimi. I riff di chitarra viaggiano veloci e pesanti, un mix tra Motörhead and Pantera che regala un pezzo potente, il tutto incorniciato da un cantato perfettamente in linea con il genere. Il basso pesta a più non posso sulle corde e la batteria non è da meno, i vari break aiutano poi a dare respiro e ripetere la struttura della canzone ad libitum. La storia si ripete con "Goddamn Loud" ma in chiavi leggermente più lenta e maliziosa, in stile Jon Bon Jovi anni '90 per intenderci. La solfa non cambia, sempre un gran lavoro di arrangiamenti, assoli e ricerca del suono che portano a quasi sei minuti di puro rock. Piacevole lo stacco a metà brano che alleggerisce e permette ai musicisti di destreggiarsi in un fraseggio funk-blues, ove ahimé il vocalist non coglie l'occasione per dare il suo contributo interpretando il break alla solita maniera. La parte strumentale evolve verso l'alto con la prevedibile chiusura che riprende il tema iniziale. "El Tequito" è un altro break strumentale dal gusto folk che ha la sola colpa di non essere stato approfondito e lasciato solo fine a se stesso. Un gran peccato. La speranza non sembra perduta con "Alcoholic Song", un doom rock che puzza di whiskey e mozziconi, lento come il sangue che fuoriesce da una ferita che sai già che si rimarginerà in fretta, ma lascerà una piccola cicatrice quale ricordo indelebile. Le altre tracce della seconda metà dell'album mantengono il livello e sembrano addirittura più convincenti delle precedenti, questo per dire che forse una track list diversa avrebbe coinvolto maggiormente l'ascoltatore. I Winfield hanno saputo mescolare bene lo stile Nashville Pussy con suoni più moderni, mantenendo un buon livello di composizione ed esecuzione. I fedelissimi del genere apprezzeranno questo cd e non possiamo dargli torto, si ascoltano i Winfield per avere una boccata di classic rock senza orpelli. Chiudiamo con la dichiarazione del frontman circa il fatto che scrive un nuovo album quando ne sente veramente il bisogno, altrimenti meglio aspettare. Se non si hanno obblighi di alcun tipo, questo è il miglior modo per alimentare la propria creatività. L'importante è non farla appassire lasciandola a se stessa per troppo tempo. (Michele Montanari)

(Gargouille Productions - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/winfieldcaen

martedì 22 maggio 2018

The Body - I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer

#PER CHI AMA: Experimental/Electro Noise
The Body è un progetto che ci ha abituato ad alte vette di sperimentazione quanto a profonde esplorazioni di ansie, paure e disperazione. Con grande delizia per le nostre orecchie e goduria per il nostro cervello, gli ultimi due lavori 'No One Deserve Happiness' e 'A Home on Earth' hanno alzato l’asticella del significato del termine “musica estrema”, nel primo attraverso contaminazioni melodiche ed eteree, e nel secondo con fiumi di distorsioni e disagio infinito. Con 'I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer', i The Body prendono un’altra direzione ancora, quella dell’esoterismo e dell’ancestralità, senza mai perdere di vista l’oscurità, l’orrore e il delirio. Ritroviamo la collaborazione di Chrissy Wolpert che per questa prova, inserisce oltre ai già sperimentati interventi di belcanto, anche parti di voce sporca e arrangiamenti di pianoforte che permettono di aprire lo spettro sonoro della band in maniera estremamente efficace. Il disco inizia con quelli che sembrano lontani echi di liuto provenienti dal fondo di antiche caverne d’epoca romana, il tutto decorato dalla magnifica voce di Chrissy e da un’atmosfera spettrale e quasi religiosa. L’ambiente tuttavia dura giusto due brani, al terzo già si ripiomba nell’oblio più recondito. La voce di Chip è sempre più rapace, così acuta e penetrante da essere scambiata per un suono estraneo, in un primo momento pensavo si trattasse del suono di due lastre di acciaio che si infliggono profondi solchi irregolari sfregando tra loro. La voce femminile mitiga l’abrasività delle parti vocali di Chip conferendo un equilibrio non comune per un disco di così ampio respiro sperimentale. Contribuiscono poi al bilanciamento sonoro l’ultilizzo di drum machine – come in "The West has Failed" – , di pianoforti – come nel pezzo di chiusura del disco "Ten Times a Day, Every Day, a Stranger" – e arrangiamenti orchestrali dal sapore arcaico e dimenticato. A tal proposito mi colpisce il brano "Nothing Stirs", pelle d’oca pura e brividi dietro la schiena quando la voce di Chrissy si sporca sopra un tappeto di archi disintegrati e orrorifici che catapultano la mia immaginazione al cospetto di un antico cimitero in una notte di vento freddo, nel mezzo di una steppa desolata e arida. Si percepisce il dolore, la sofferenza e la profonda inadeguatezza che i componenti della band sentono verso il mondo dei “normali”, iconica sensazione che riassume perfettamente l’intenzione generale infusa nel disco. A ben guardare è proprio quello che noi ascoltatori di musica estrema proviamo tutti i giorni ed è proprio ciò che i The Body riescono ad esorcizzare in maniera così efficace e impenitente; con prepotenza si afferma la propria non appartenenza al pensiero conforme, si esalta la propria unica e irripetibile personalità che fieramente vola come una maestosa aquila reale sulle coscienze imputridite di tutte queste anime soggiogate dalla massificazione e assuefatte dalle false promesse che la società ogni giorno si auto-propina. Consiglio l’ascolto di "Stickly Heart of Sand" – secondo me a mani basse il miglior brano del disco – in qualsiasi momento ci si dovesse sentire scoraggiati, fuori luogo e incatenati a qualcosa. La musica dei The Body racchiude in sé un incantesimo così potente da essere in grado di ripulire il petrolio che impregna lo spirito vessato dalla vuotezza della quotidianità e dal dolore dell’esistenza. 'I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer' per me è già uno dei migliori dischi del 2018, un ascolto imprescindibile per tutti gli appassionati di musica heavy. (Matteo Baldi)

lunedì 21 maggio 2018

Magnitudo - Men Against Fire

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Conan
Dopo un paio d’anni dal primo 'Si Vis Pacem', il trio sludge doom bergamasco dei Magnitudo, torna alla carica con il nuovo 'Men Against Fire', un disco che si potrebbe descrivere come il figlio bastardo nato dopo una violenta copulazione e una dolorosa gravidanza da una relazione clandestina tra i Conan e gli Alcest. Tutto sembra mirato a stuprare timpani e scrostare intonaci, le voci sono ruggenti e cavernose, le chitarre abrasive e velenose e la sezione ritmica è un rullo compressore che avanza inesorabile come un carroarmato di acciaio inossidabile. L’evoluzione rispetto al primo disco è chiara, se la violenza è rimasta immutata nell’intensità, seppur arricchita da elementi progressive e in generale da parti meno ruvide e più ponderate, l’oniricità ha subìto invece un forte incremento. Nei pezzi sono disseminati rilassanti quanto meditativi momenti di eterei arpeggi e ritmiche lasche, funzionali a lasciare un po’ di respiro prima di rituffarsi a capofitto nell’inferno infuocato di riff rugginosi e onde quadre a cui i Magnitudo ci hanno abituati fin dal loro esordio. Non solo di violenza vive però questo 'Men Against Fire', c’è infatti un’importante componente culturale e di concetto che ci invita a riflettere e ad usare quello sconosciuto organo chiamato cervello. Mi riferisco in particolare alla citazione Orwelliana – ripresa nel titolo di uno dei migliori pezzi del disco – “Immagina uno stivale che schiaccia un volto umano per sempre”, potentissima incarnazione dell’idea secondo cui l’umanità è destinata a soccombere sotto il peso della propria ebrezza di potere in un mondo in cui l’individuo, vessato da doveri e svuotato di ogni propria personalità, esiste solo in funzione della collettività. Immagino legioni infinite di soldatini identici, con espressioni neutre e gli occhi bassi camminano in frotta verso le rispettive occupazioni, timbrano il cartellino, stanno alle loro postazioni, ripetono le medesime mortifere abitudini che lentamente consumano carni, pensieri e individualità. Solo quando gli stracci che portano addosso sono zuppi di sudore e incrostati di polvere, e quando ogni sinapsi è stata forzatamente scollegata e riprogrammata, gli è permesso di tornare alle proprie baracche fatte di niente, fatiscenti e standardizzate, in attesa solo di tornare al proprio lavoro. 'Men Against Fire' è quella voce interiore che spinge ad aprire gli occhi, a vedere e sentire che non ci sono solo ordini esterni ma anche una strada tracciata nell’anima che deve essere a tutti i costi percorsa a pena di unirsi all’infinito gregge di scimmie che altro non sanno fare se non acconsentire e sottostare. È forse questo il fuoco con cui l’uomo si deve scontrare, quello stesso fuoco che potrebbe spronare la mandria indefinita di soldatini a ribellarsi e riversarsi come furie nei propri posti di fatica per distruggerli e incendiare qualsiasi cosa possa ricordare la sensazione di soggiogamento che guidava le loro vite. Potrebbero usare il fuoco per ribaltare il potere trucidando nel sangue i propri ricchi governanti e radere al suolo la società marcia e impune per ripartire finalmente da zero a costruire un nuovo mondo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2018)
Voto: 75

https://magnitudo.bandcamp.com/album/men-against-fire

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

venerdì 18 maggio 2018

Phantom Winter - Into Dark Science

#PER CHI AMA: Black/Sludge/Crust, Neurosis
"Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate". Dante e Virgilio dinanzi alla porta dell'Inferno, che mette in guardia coloro che stanno per entrare, me li immagino davanti a quella soglia, con una colonna sonora di fondo simile a quella che ascolterete in questo terzo disco targato Phantom Winter. Sperando che il buon Dante Alighieri non si rivolti nella tomba per questa mia eresia, posso dirvi che 'Into Dark Science' consta di sei malatissime tracce, che affondano le loro radici in un melmoso sludge black dalle tinte fosche a dir poco. L'impatto sonoro con "The Initiation of Darkness" è spaventoso: una song mefitica, in cui verrete spazzati via dalla totale assenza di luce, per sprofondare in un suono malsano, fatto di sonorità post-core, atmosfere doom, urticanti voci black, e di tastiere spettrali che sembrano burlarsi dell'ascoltatore, quasi fossero un fantasma che appare e scompare davanti ai nostri occhi. La proposta non è facile da assimilare per quanto si riveli estremamente affascinante da ascoltare. Nella seconda "Ripping Halos from Angels", l'aria si fa ancor più claustrofobica, nonostante l'incipit strizzi l'occhiolino al post-hardcore; poi sono di nuovo desolatissime ambientazioni, cosi cupe e al limite del minimalismo sonoro a prendere il sopravvento, prima dell'incandescente e iper-caustico finale affidato ad una scorribanda di black ferale, in cui a colpire, oltre alle disumane vocals, sono in realtà quelle malinconiche e ronzanti linee di chitarra che accompagnano le grida disperate e angoscianti dei due insani vocalist (qui appare anche un bel growl). Confermo, la proposta è di difficile digestione, si consiglia un antiacido già alla terza traccia, "Frostcoven". Per quanto questa cominci in modo decisamente compassato, con il dualismo vocale prodotto dai due frontman (uno dei quali è peraltro ex membro degli Omega Massif), la song sembra prepararsi ad una tempesta sonora senza eguali. Lo si avverte in quel rallentamento a metà brano che fa da preludio ad una ferocia, venata di una forte componente malinconica, che da li a poco prenderà possesso di questa song, impregnata di cotanta indicibile violenza. Fortuna nostra che l'inizio della lunga "The Craft and the Power of Black Magic Wielding" riveli alcune influenze post-rock per i nostri, che si squaglieranno però da li a breve, lasciando posto ad un rifferama monolitico, inquietante, dannato, con i lacerati vocalizzi che si vanno a sovrappore ad un tremolo picking che ricorrerà presto nei vostri incubi peggiori, sappiatelo. Forse per questo che continuo ad immaginarmi la musica di 'Into Dark Science' come l'ideale accompagnamento per la calata agli inferi del sommo poeta. Una furia dirompente divampa anche nel prologo della title track che mostra segni nei suoi solchi, derivanti da territori crust, e che nella sua seconda parte, tira invece il freno a mano, rallentando i ritmi vertiginosamente e proponendo l'ennesima visione apocalittica di questi musicisti teutonici. Le ultime ammorbandi visioni da fine del mondo fuoriescono dalla conclusiva "Godspeed! Voyager", la cui delicata intro preparatoria non è altro che presagio dei brutti sogni a venire frutto delle notti insonni di questi cinque ragazzi bavaresi. Complimenti a chi è arrivato a leggere o addirittura ad ascoltare l'album fino a questo punto, essere arrivati qui è come aver sconfitto il mostro finale di Doom. Paurosi. (Francesco Scarci)

giovedì 17 maggio 2018

Major Parkinson - Blackbox

#PER CHI AMA: Cinematic Prog Rock
Elettroniche compresse e ossessive (sentite "Night Hitcher", costruita su un inverosimile pattern in 10/4 - poi ripreso nel finale di "Isabel" - che la fa rassomigliare a una "Under Pressure" come la interpreterebbero dei Nine Inch Nails morsi da uno zombie) ed un intreccio di voci ultraterreno (una sorta di eterea Linn Frøkedal contrapposta al terracrostaceo Jon Ivar Kollbotn) finalizzato ad accrescere la tensione narrativa del concept (e probabile che "Lover, Lower Me Down" vi sembri tipo una cosa degli Ulver cantata da Leonard Cohen e, uh, la sensazione si accentuerà nella successiva "Madeleine Crumbles") incredibilmente viranti nella direzione di un prog-pop dalle tinte scurissime (i Depeche mode sotto-il-cielo-elettrificato-di-Bristol di "Blackbox") e, saltuariamente, epicamente morriconiana (i finali di "Isabel" e soprattutto della title track) vs. certo progressive-nonmetal, alla Pain of Salvation, per intenderci. Saranno proprio le due lunghe epiche centrali, le più pirotecniche e creative: la pluricitata "Isabel" (una tuttologica cavalcata progressive attraverso vari suoni: il prog-folk elettrostatico, il finale spacey con tanto di typewriter che richiama il folle pattern di "Night Hitcher") e "Baseball" (un'accozzaglia di circensi quadriglie tra i Rondò Veneziano, gli Alan Parsons Project di "Silence and I" e i Pain of Salvation di "Spitfall" featuring, tra l'altro, il medesimo estratto di "Twisted Nerve" che piace tanto a Tarantino - l'avete sentito?), a ricordare a voi i P-O-S, appunto, e ai P-O-S che se continuano a pubblicare roba come 'In the Passing Light of Day' questi norvegesi qua gli fanno le scarpe in quattro album e quattr'otto anni di carriera. (Alberto Calorosi)