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#PER CHI AMA: Horror Heavy, Rotting Christ, Septic Flesh |
Avete mai provato quella sensazione quando siete a tavola, di voler lasciare il meglio che c’è nel piatto alla fine? Ebbene, prima di ascoltare il tanto atteso ritorno sulle scene dei lucani Ecnephias, ho aspettato qualche giorno, cosi giusto per pregustarmelo un po’, insomma una sorta di “Sabato del Villaggio” come scriveva il buon Leopardi, in cui crearmi le giuste aspettative. Dopo quattro giorni, ho inserito finalmente “Necrogod” nel mio stereo per capire quale evoluzione avesse subito il sound di Mancan e soci. Ecco quindi proiettarmi con l’occulta intro nel mondo enigmatico e mediterraneo della band potentina. Volete sapere cosa ho pensato appena chiusi gli occhi e mi sono abbandonato a “Syrian Desert”? Mi è sembrato che questo prologo potesse ricalcare il debut EP dei Moonspell, quell’“Under the Moonspell” che mi sconvolse qualche lustro indietro l’esistenza, per quel suo forte taglio arabeggiante. Quando è poi “The Temple of Baal Seeth” a svelarsi come vera prima traccia, torno ad assaporare il sound ellenico nelle corde dei nostri, sporcato però da influenze british che ne ammorbidiscono il suono; immaginate un bel mix tra Rotting Christ e ultimi Paradise Lost e potrete capire di che cosa stia parlando. Vorrei quindi indicare gli Ecnephias come maggiori esponenti di una ipotetica scena della Magna Grecia. Sicuramente vi starete chiedendo il perché delle mie parole. Perché le chitarre del combo italico offrono il meglio della band greca, ossia quei riffoni che sembrano più un ingranaggio che va via via sbloccandosi, uniti ad un rifferama più pulito che invece ricalca l’ultimo periodo della band albionica, il tutto sempre contraddistinto dal dualismo vocale di Mancan, bravo a districarsi tra un growling sempre comprensibile (utile anche per farci capire le liriche, tra l’altro estremamente interessanti in quanto legate a mitologia, simbolismo, religione e magia) e delle cleaning vocals corali. “Kukulkan” è un brano ritmato, in realtà molto semplice ma che sa comunque conquistare per la sua melodia di fondo fresca e malinconica, sorretta da quei leggeri tocchi di pianoforte e da aperture che evocano tempi lontani, con un assolo di chiara matrice heavy. Parte di quella robustezza presente in “Inferno” sembra essere scemata per far posto ad atmosfere più soffuse e malinconiche, non fosse altro che le orrorifiche e a tratti incazzate melodie della title track, mi smentiscano immediatamente, spingendomi addirittura ad evocare nella mia tortuosa mente i Necrophagia e per orchestrazioni anche gli ultimi maestosi Septic Flesh. Niente paura perché arriva “Isthar (Al-'Uzza)” e qui il buon Mancan mi guarderà di sottecchi dietro ai suoi baffi: l’inizio della traccia (ma anche il chorus) ha tirato fuori dai cassetti della mia memoria “Desaparecido” dei Litfiba, spingendomi con un balzo temporale di 26 anni indietro; non sto pensando ad una canzone precisa ma a quell’aura dark, sprigionata dalle chitarre e dai vocalizzi, che contraddistinse il debutto della band di Piero Pelù e soci, anche se nel chorus di “Isthar” una rivisitazione di “Istanbul” ci potrebbe anche stare. Certo poi il growling del bravo vocalist permette alla band di prendere le distanze da quel lavoro, anche se al secondo e al terzo ascolto, ho riprovato questa stessa sensazione, focalizzando ulteriormente la mia attenzione su questo brano. Eccoli di nuovo poi gli echi orientali tornare in “Anubis (The Incense of Twilight)”, song contraddistinta da una ritmica sempre molto pulita e armonica con il resto degli strumenti. Semplice e diretta la batteria, essenziali le keyboards, pulite e mai spinte le chitarre, con la voce di Mancan sempre inappuntabile ed inconfondibile, peccato solo non abbia potuto godere di performance in cantato italico. “Kali Ma (The Mother of the Black Face)” è un altro pezzo in cui tornano a manifestarsi gli spettri dei Paradise Lost, forse quelli più ancorati a “Draconian Times”, mentre “Voodoo (Daughter of idols)” penultimo brano del disco e quasi un tributo ai vecchi Iron Maiden, vede la partecipazione in veste di special guest di Sakis dei Rotting Christ alla voce, segno della reciproca stima e amicizia che lega le due band. A chiudere ci pensa la strumentale “Winds of Horus”. Insomma, il restyling degli Ecnephias parte da “Necrogod” e dalla nuova etichetta alle spalle dei nostri, la sempre attenta Aural Music; speriamo solo che sia la rampa di lancio per una più che meritevole carriera degli Ecnephias, contraddistinta da sempre da ottimi lavori, che a mio avviso, non hanno però goduto della giusta attenzione da parte del pubblico. E allora, per rifarsi delle mancanze passate, date una grande chance a “Necrogod”, non ve ne pentirete! (Francesco Scarci)