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Visualizzazione post con etichetta Post Rock. Mostra tutti i post
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martedì 26 ottobre 2021

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
La scena teutonica per cosi dire alternativa, sta crescendo ormai da un paio d'anni a vista d'occhio, sfornando band a destra e a manca. Gli ultimi di cui faccio conoscenza, ma non sono certo pivelli avendo quasi dieci anni di attività alle spalle, sono questi Glasgow Coma Scale, combo originario di Francoforte che con questo 'Sirens' mostra il proprio suggestivo mix di post rock e stoner. Peccato solo che si tratti di una proposta strumentale perchè le carte in regola per fare benissimo, c'erano tutte. Lo dimostrano le intimistiche sonorità dell'opener "Orion", che ammiccano nei suoi quasi otto minuti, ad uno space rock che potrebbe chiamare in causa un che degli Hawkwind, senza dimenticarsi di quelle partiture psichedeliche nel finale che ci conducono nei pressi di un sound di kyussiana memoria. Niente male, davvero. Peccato solo che il comparto vocale sia coperto da pochi secondi di spoken words. "Magik" parte in sordina, con un prog rock astrale seducente ma che necessita di quel quid per farla esplodere e renderla più coinvolgente. Arriverà verso il terzo minuto con il brano che aumenta i giri del motore per 60 secondi prima di un break atmosferico di scuola Porcupine Tree che fa da preambolo ad un finale a dir poco infuocato. Ci siamo, ci siamo quasi, bisogna lavorare esclusivamente sui dettagli. Quelli che verosimilmente vengono maggiormente sottolineati in "Underskin", un delicato ed etereo brano post rock, niente di particolarmente originale, ma dotato sicuramente di un certo appeal, soprattutto là dove i nostri schiacciano con più veemenza sull'acceleratore dando delle bordate elettriche su di un tappeto ritmico post metal malinconicamente ondivago. Però diavolo, se ci fosse stata una voce, non sarebbe forse stato meglio? La title track prova a venire fuori con un sound ancor più accattivante ma niente, quello che manca è un urlaccio che faccia sentire tutte le emozioni che stanno in seno alla band. "Day 366" prosegue sulla scia di un emozionale post rock d'annata, fluido, melodico, sicuramente interessante ma che tuttavia manca di un pizzico di originalità in più, cosa che magari poteva essere prodotta da una voce, chissà. Si lo so, risulto provocatorio addirittura noioso, ma non mi stancherò mai di ribadire la necessità di un vocalist che blateri qualcosa anche solo per pochi secondi. Tutto sarebbe risultato molto più figo, anche per quel che concerne la conclusiva "One Must Fall", ultimo fragoroso atto all'insegna di oscuri suoni lisergici guidati da una poderosa ritmica che rendono questo 'Sirens' un disco da consigliare però ai soli amanti del genere. (Francesco Scarci)

venerdì 22 ottobre 2021

Oneiros Way - The Dawn is Near

#PER CHI AMA: Dream Pop/Ethereal Wave
Non proprio il mio genere quello dei milanesi Oneiros Way e forse nemmeno il luogo più adatto quello del Pozzo dei Dannati per parlarvi del loro debut 'The Dawn is Near', tuttavia il disco è fra le mie mani, tanto vale rendervi edotti su questa release. Un lavoro che ci condurrà attraverso le maglie del dream pop, suonato peraltro attraverso l'uso di strumenti analogici, pianoforti acustici, synth, banjo e molto molto altro, il che sottolinea immediatamente come il duo, costituito da Regina e Claudio, faccia della sperimentazione sonora il proprio credo. Una sperimentazione che affonda le proprie radici nel trip-hop dei Massive Attack, cosi come nell'ethereal wave dei Cocteau Twins, ma fortunatamente qualche fraseggio post rock si riesce anche a ritrovare nel corso del disco. L'apertura affidata a "Scura" delinea immediatamente le caratteristiche della band, cosi dark nel loro approccio etereo darkeggiante, con un sound minimalista, delicato e suadente. In "Luna" compare la voce angelica di Regina in apertura ed è come se mi cullasse l'anima, accarezzasse lo spirito, poi è in realtà Claudio a guidare la song attraverso sua voce ed un flebile flusso armonico. In "Glass Bell" emerge qualche stravagante sonorità elettronica con le voci dei due musicisti ad accompagnarci, attraverso il cantato in italiano, in una sorta di fiaba, amplificata da un'effettistica che prova a scuotere un sound, forse talvolta troppo timido. "Alba" prosegue sulla stessa scia delle sonorità delle prime tracce, però il disco, per quanto peculiare esso sia, fatica a coinvolgermi ed emozionarmi. Sembra manchi un guizzo, una melodia vincente, un qualcosa di abbastanza catchy in grado di rapirmi. Questo per dire che c'è ancora molto lavorare per raggiungere vette qualitative. Certo, non mancano spunti interessanti: in "Raining Frogs", ma più in generale, preferisco quando è il cantato femminile ad avere la leadership, cosi caldo, delicato e sensuale. In "Rainfall", i nostri palesano le loro qualità nelle partiture strumentali e nella cinematicità di un sound forse qui più ispirato che altrove, in un incedere comunque oscuro e malinconico. "Immersion" è il singolo scelto dalla band per rappresentare il disco, un esempio di elettronica nebulosa e decadente, che ha qualche passaggio interessante, ma che in linea di massima, è lacunoso di quel quid indispensabile a farmi balzare dalla sedia. Bello poter sperimentare con tutta quel vasto armamentario di strumenti, ma io avrei francamente osato un po' di più, il rischio di sprofondare in un torpore durante l'ascolto di 'The Dawn is Near' rischia di essere molto elevato. (Francesco Scarci)

venerdì 15 ottobre 2021

Dumbsaint - Panorama, in Ten Pieces

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale
Continuano a cascata le uscite in casa Bird's Robe Records a riesumare album più o meno recenti (e conosciuti) del roster dell'etichetta australiana. Oggi è il turno dei Dumbsaint, ensemble di Sydney che su queste pagine avevamo già incontrato con 'Something That You Feel Will Find Its Own Form'. Quello di oggi è l'album 'Panorama, in Ten Pieces', release del 2015 che seguiva a tre anni di distanza quel 'Something...' appena citato. Il risultato? Sublime, e non lo scopriamo certo oggi con quell'amalgama perfetta tra post metal strumentale (oh dannazione, che peccato non ci sia una stramaledettissima voce che ogni tanto alteri la fluidodinamica dei suoni) e ambientazioni cinematiche che, dall'iniziale "Low Visions" finiscono, attraverso un percorso lungo, articolato e alquanto ambizioso, nelle delicate spigolature della conclusiva "Barren Temples". In mezzo? Sicuramente una buona dose di qualità e un'intensità sonora come quella sviluppata proprio dall'opener. E ancora, un'ottima riflessività (come quella esibita nella più intimista "Communion"), irrequietezza che contraddistingue la contraddittoria e vivace "Love Thy Neighbour", dapprima delicata e poi parecchio energica, al pari della successiva "(Partition)", tanto breve quanto efficace. Non dimentichiamo poi della strabordante forza distruttiva di "Cold Call", forse il brano più aggressivo e nevrotico delle dieci tracce qui incluse, anche il mio preferito. Vorrei citarvi ancora la breve "Graceland", con il suo fresco ed ipnotico post rock e la successiva, lunga, lunghissima e malinconica "Long Dissolve/Temps Mort", che con i suoi splendidi acuti di chitarra mi ha evocato un anomalo mix tra gli enigmatici finlandesi This Empty Flow e i nostrani Threestepstotheocean. Ottima riscoperta, assai utile per chi se li fosse persi sei anni fa, ancor più utile per chi si è dimenticato di avere il disco a prendere la muffa nella propria collezione. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 77

https://dumbsaint.bandcamp.com/

giovedì 14 ottobre 2021

Bend the Future - Without Notice

#PER CHI AMA: Psych Prog Rock
Rock progressivo dalla Francia. Ecco, mi sa tanto che i nostri cugini galletti se la cavano non solo in ambito estremo ma anche in sonorità ben più tenui, come quelle proposte dai Bend the Future, sestetto originario di Grenoble. La partenza di 'Without Notice' denota sin da subito le grandi capacità tecniche dell'ensemble, che con l'opener "Lost in Time" ci regalano suoni davvero entusiasmanti tra prog rock di stampo settantiano, aperture post rock, allunghi psichedelici e sprazzi jazzistici, che sottolineano l'imprevedibilità di quanto ascolteremo da qui alla fine nel corso del lavoro. Il primo brano è pazzesco, forse la cosa più debole sono le vocals (colpa mia che sono abituato ad un ben altro tipo di corde vocali), ma poi da un punto di vista strumentale, i nostri sono spaventosi, tra lunghi giri di chitarra, splendide melodie e cambi di tempo da applausi. Bomba! Chissà se le altre song sapranno confermare quanto di buono ascoltato sin qui? Un pianoforte apre la strumentale "As We Parry" e l'atmosfera somiglia a quella lounge da pianobar con un duetto di sassofoni che deliziano per come ben si amalgamano nella matrice musicale. "Merely" ha un impatto un po' più irrequieto, sebbene qui ritorni la voce del frontman a smorzare quell'animata ritmica che in taluni passaggi potrebbe evocare un che dei Riverside in salsa math, prima di un super spiazzante break atmosferico in grado di condurci improvvisamente indietro di oltre 40 anni nel cuore della musica settantiana. Da nostalgica lacrimuccia vintage. "We Aim Higher" è un pezzo di puro sperimentalismo sonoro, dal tratto saturnino che azzarda con trovate interessanti a livello di batteria e chitarra, e che vede peraltro la comparsa al microfono di un gentil donzella. Il brano è complicato, data anche una durata che supera gli otto minuti, ma alla fine davvero efficace tra fughe semistrumentali, stridori jazz e speziati aromi psych prog rock dal vago sapore mediorientale. Una delle hit del disco in assoluto. Non dimentichiamoci però della breve ma ficcante "Miniature", quasi un passaggio di collegamento con le restanti "Muş", più timida nel suo incedere comunque raffinato, e la title track, che chiude in scioltezza e alla stregua dei pezzi che l'hanno preceduta, un lavoro complesso, elegante e da approfondire ad ogni costo. (Francesco Scarci)

martedì 14 settembre 2021

Teal - Hearth

#PER CHI AMA: Alternative/Progressive Rock
La Bird's Robe Records prosegue la propria campagna di riedizioni questa volta con gli australiani Teal e il loro debut EP, 'Hearth', datato 2013. La proposta del quartetto originario di Sydney si rifà ad un alternative rock assai orecchiabile. Cinque le tracce a disposizione dei nostri per poter dire che, anche se vecchio di otto anni, questo lavoro rimane alquanto attuale. Ottime (e un po' ruffiane) le delicate melodie dell'opener "Solitaires", dove a mettersi in luce sono i vocalizzi di Joe Surgey, uno che strizza l'occhiolino, anzi l'ugola, al frontman dei Muse, con risultati peraltro più che soddisfacenti, e con la musica che si muove anche tra le maglie del prog rock, tra chiaroscuri emozionali, guidati proprio dalla voce di Joe e accelerazioni quasi ringhianti, che rendono la proposta davvero interessante. In "Don't Wake Up" non vorrei prendermi del pazzo, ma su di un tappeto post math rock, ci ho sentito dei vocalizzi addirittura alla Bono, con il sound sempre bello carico ma in continuo movimento tra trame più morbide e altre più potenti. Con "Raptor", il combo del Nuovo Galles del Sud, si propone con sonorità che richiamano ancora Matthew Bellamy e soci, anche se qui i Teal sembrano meno esplosivi che in precedenza, fatto salvo per il comparto solistico, breve ma efficace. Se parliamo di esplosività (ma pure creatività) non possiamo non citare "Voss": partenza acustica stile primissimi Pearl Jam, sound mellifuo guidato dalla voce di Joe e poi accelerazioni belle toste che si alternano a parti più atmosferiche ed intimiste con tanto di tremolo picking alle chitarre. In chiusura, la più oscura e meditabonda "Three Hours", che con i suoi costanti rimandi ai primi Muse, chiude degnamente una release che ai più, sono certo, fosse passata inosservata. Chissà che stanno combinando oggi i Teal, ora mi vado ad informare, voi nel frattempo ascoltatevi 'Hearth'. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2013/2021)
Voto: 73

https://tealband.bandcamp.com/album/hearth-ep

giovedì 9 settembre 2021

Yawning Sons - Sky Island

#PER CHI AMA: Post Rock/Grunge
Quello degli Yawning Sons è un progetto anglo-americano formatosi nel 2008 e inizialmente costituito da membri delle leggende californiane del desert rock, Yawning Man e dai post rockers inglesi Sons of Alpha Centauri. Da qui la crasi dei due nomi con 'Sky Island' a rappresentare l'incontro delle due realtà musicali, che tornano quasi dodici anni dopo il loro debut del 2009, 'Ceremony to the Sunset', in un lavoro raffinato, che sembra prendere le distanze dagli stili musicali delle due band madri. "Adrenaline Rush" e quel suo pulsante basso in apertura, si muove infatti attraverso sonorità prog rock che mi hanno evocato Porcupine Tree e Riverside, e che ci riserva uno spettacolare coro che si affianca alla voce di Marlon King (chitarrista dei Sons of Alpha Centauri). Blues rock invece per la suadente "Low in the Valley" che si dipana tra post-rock e post-grunge, con la mia sottolineatura assegnata alla strepitosa voce di Dandy Brown (Hermano, Orquesta del Desierto), uno degli ospiti che popola questo lavoro. "Cigarette Footsteps" vede invece alla voce il mitico Mario Lalli (Yawning Man e Fatso Jetson) in un pezzo compassato ed ipnotico, per un viaggio nei meandri del post rock più onirico. Con "Passport Beyond the Tides", la band arriva ad esplorare mondi lontani e dilatati, a cavallo tra synth wave e space rock, in una caleidoscopica girandola di emozioni esclusivamente affidata al suono della sei corde e dei synth. Ci si muove veloci ed è il momento di "Shadows and Echoes", che ci stupisce per la presenza alla voce di Wendy Rae Fowler (We Fell to Earth) con quel suo stile canoro accostabile a Dolores O’Riordan, in un pezzo sciamanico dai forti rimandi malinconici. Ci si avvia verso il finale dove mancano ancora a rapporto una beatlesiana "Digital Spirit", sorretta dai vocalizzi di un altro mitico personaggio, Scott Reeder (Kyuss, The Obsessed e Fireball Ministry). E ancora, "Gravity Underwater" dove al microfono ritorna Dandy Brown in un pezzo dal forte piglio settantiano che però non mi ha convinto del tutto, nonostante il suo ottimo assolo. In chiusura la strumentale "Limitless Artifact" per un pezzo che incarna invece sia il desert rock dei Yawning Man che il post rock dei Sons of Alpha Centauri, a fare questa volta, una crasi dei loro stili musicali. Un elegante ritorno. (Francesco Scarci)

giovedì 19 agosto 2021

Feeling of Presence – Of Lost Illusion

#PER CHI AMA: Dark/Post Rock Strumentale
C’è un qualcosa di magico nelle note introduttive di ‘Of Lost Illusion’, album di debutto dei teutonici Feeling of Presence. La band bavarese, guidata dal polistrumentista Andreas Hack, accompagnato in questo suo viaggio dall’arpista Nerissa Schwarz e dal batterista Wolfgang Ostermann, propone un sognante sound strumentale che, dall’iniziale “A Weird Form of Darkness” ci accompagnerà per quasi 40 minuti fino alla conclusiva “Venus Transit”, con un dark/post rock emozionale, quasi da brividi. L’apertura è a dir poco splendida, l’assenza della voce è compensato da un fantastico lavoro di arrangiamenti e da quel taglio cinematico che impregna interamente questa incredibile canzone che da sola varrebbe il prezzo del biglietto. “Room Number 105” infatti, per quanto deliziosa, non ha lo stesso effetto, sebbene confermi le buone qualità del trio germanico, abile a districarsi in momenti evocativi, ma forse qui troppo ancorati al post rock, cosa che invece non avevo percepito nell’opener. Con la title track, l’immagine che si configura nella mia testa riprende quella della cover urbana del disco, ossia una sorta di passeggiata nella città deserta di notte. Splendidi gli archi, che rievocano le ottime sensazioni provate inizialmente, tra dark, ambient ed un malinconico shoegaze. Affascinanti, non c’è che dire. E il godimento prosegue anche con “Fluorescent Detail”, una song in cui l’elettronica sembra prendere il sopravvento, regalandoci un altro genere di emozioni, più sintetiche forse, ma altrettanto efficaci e piacevoli, con reminiscenze musicali che conducono nel finale a ‘Host’ dei Paradise Lost. “Hollow Innocence” è una traccia più canonica ma comunque eterea almeno fino a metà pezzo quando la melodia viene spezzata da una poderosa linea di chitarra che si sovrappone al candore delle keys. L’ultima, “Venus Transit”, è un viaggio che parte da un lugubre trip hop per poi caricarsi di suoni emozionali e carichi di suggestioni cinematografiche, in grado di sancire la splendida chiusura di un inatteso disco strumentale. Tanta roba (Francesco Scarci)

giovedì 29 luglio 2021

Sólstafir - Svartir Sandar

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Experimental Metal
Un intrigante spleen introduce la prevedibile, poderosa galoppata a pelo nudo su strati di ossidiana incandescente e, in chiusura, un sofferente, epico landscape-wave da vesciche sui talloni: i panorami emozionali e la riuscita attitudine (ma solo quella) progressive di "Ljós í Stormi" aprono programmaticamente (come già accadde con "I Myself the Visionary Head" su 'Masterpiece of Bitterness' e, in precedenza, "Goddess of the Ages", stavolta in chiusura di 'Köld') questo tumultuoso joküll sonoro. Con l'eccezione della splendida ballata post-rock "Fjara", con tanto di ardito ritornello "abba-esque", il resto di 'Andvari', il primo di due dischi qui contenuti, espande o contrae gli elementi di "Ljós í Stormi" con la galoppante "Þín Orð" e la sofferente "Kukl". Spetta invece alle contrapposte epiche "Melrakkablús" e "Djákninn" ("Svartir Sandar" permettendo) il valoroso compito di traghettare, non senza qualche tollerabile lungaggine, il secondo disco 'Gola' nella direzione di un melodismo forse meno sussultorio ma senz'altro più ondulatorio. In altre parole, verso quel capolavoro indiscutibile e preterintenzionale che tre anni più tardi prenderà il nome di 'Ótta'. (Alberto Calorosi)

venerdì 23 luglio 2021

Captain Kickarse and the Awesomes - Grim Repercussions

#PER CHI AMA: Prog/Math Rock
Ancora Bird's Robe Records, ancora band australiane quindi, quasi sia un mantra dell'etichetta di Sydney arruolare realtà del proprio paese. La band di oggi è un trio strumentale che propone in questo 'Grim Percussion', un rock muscoloso davvero libero da ogni schema. A certificarlo subito le note della breve intro "Sixes and Dozens", che ci danno un'idea di che pasta siano fatti questi tre aussie boys, che sono in giro ormai dal 2009, quando uscì il loro EP di debutto, 'Falsimiles From The Facts Machine'. Con la seconda "Pogonophobe", ma sarà poi una costante lungo l'intero disco, quello che balza subito all'orecchio, è l'assoluta libertà da parte dei Captain Kickarse and the Awesomes di suonare quel diavolo che gli pare senza paura del giudizio esterno. Si va quindi dal jazz rock singhiozzante di questa song, alla più percussiva "Immaculate Consumption", dove ancora i fraseggi jazz la fanno da padrone. Certo si richiede una certa predisposizione a questo genere di suoni perchè dire che siano immediati da percepire e gradire, rischierebbe di essere una gigantesca bugia. E allora lasciatevi investire dalle sonorità un po' più grasse di questo pezzo e dalla sua delirante follia, affidata alla tecnica sopra la media dei tre musicisti, che in tre differenti occasioni, riusciranno a mettersi in mostra. Un breve intermezzo acustico e via per altri lidi di delirio musicale: ascoltando l'apertura di "Smallcastle", non si può non corrucciare le sopracciglia cercando di capire che cavolo i nostri stiano combinando con i loro sperimentalismi musicali. Dopo un paio di minuti, la traccia prende una sua forma meglio definita combinando prog e post rock, con un tappeto ritmico bello robusto e con ulteriori ammiccamenti a psichedelia e sludge. Il duetto di song costituito da "The Grapes" e dalla title track, si prende da solo quasi 21 minuti di musica stralunata, oscura ed imprevedibile (chi ha detto math-rock?), che saprà disorientarvi ancor di più rispetto a quanto fatto sin qui dal terzetto originario del Nuovo Galles del Sud. Non mancheranno infatti momenti estremamente riflessivi ed introversi, cosi come scariche di rabbia e frustrazione, colate di suoni ridondanti e roboanti che vedono a mio avviso, solo l'assenza di una dissennata forza della natura a urlare nel microfono, il che avrebbe reso la proposta dell'act australiano un po' meno ostico da digerire. Si perchè le cose si fanno ancor più complicate in "A Beard of Bees", un pezzo noise introdotto dal didjeridoo e affidato poi al caos primordiale, prima che "Fourth Party" metta la parola fine a questa fatica targata Captain Kickarse and the Awesomes, a tratti davvero complicata da affrontare. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 73

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/grim-repercussions

mercoledì 14 luglio 2021

Mish - Entheogen

#PER CHI AMA: Post Metal/Djent
Tra le uscite discografiche della label australiana Bird's Robe Records, volte a celebrarne i 10 anni di attività, figura 'Entheogen', secondo album dei loro connazionali Mish, originariamente uscito nel 2017. I Mish li avevamo già conosciuti all'epoca del loro debut, 'The Entrance', nell'ormai lontanissimo 2011. In questo secondo lavoro i nostri si ripresentano con un sound sempre robusto, a cavallo tra djent, post metal, math e qualche digressione in territorio post rock. Si parte discretamente con la feroce opener "Artax", ma è in realtà con la successiva "Red Fortune", che i nostri riescono meglio a mettersi in mostra, sia a livello tecnico (li definivo chirurgici in occasione della precedente release e non posso far altro che confermarne il concetto) che a livello melodico e in termini di originalità. Se dovessi pensare ad un qualche confronto da fare con altre entità del panorama musicale, penserei ai Meshuggah che si mescolano con un che degli Isis e con i loro compagni di scuderia Dumbsaint, in una proposta ove a mettersi in luce è anche il graffiante growling del frontman. La breve "Lyre Bird" si presenta come espressione musicale di violenza inaudita, con linee di chitarra ipnotiche, a tratti ridondanti, ma sempre belle possenti. Da li in poi, in corrispondenza della title track, il sound del combo australiano sembra virare drasticamente verso lidi post rock, grazie ad un arpeggio aggraziato in apertura e delle atmosfere quasi eteree a richiamarmi gli *Shels. Il brano è il primo di una serie in cui la band sembra mostrarci l'altra faccia della loro medaglia e lo fa con melodie, atmosfere e vocalizzi (puliti) completamente differenti dalla prima parte del disco, quasi stessimo ascoltando un'altra realtà musicale. E alla fine sapete che non ho ancora ben capito se apprezzo maggiormente questo lato più sognante della band (che tornerà anche nelle successive "Socrates", strumentale caratterizzata da un piglio stile ultimi Isis, nella lugubre melodia di Lung" o nella litanica conclusione affidata a "Thylacine") o quello più abrasivo che ha ancora modo di palesarsi nell'acidissima "Pinata" e nella schizoide "Verterbrae" (in realtà quest'ultima un mix tra le due facce della medaglia Mish). In attesa di capirne qualcosa di più, vi lascio all'ascolto di questa stravagante creatura australiana, forse alla fine potreste darmi una mano a comprendere meglio quale dei mondi targato Mish risulterà essere il più intrigante. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2017/2021)
Voto: 74

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/entheogen

martedì 22 giugno 2021

Mushroom Giant - Painted Mantra

#PER CHI AMA: Prog/Post Rock Strumentale
Era il 2014 quando 'Painted Mantra' vedeva la luce la prima volta. Dopo sette anni, la Bird's Robe Records restituisce una seconda vita a quel disco degli australiani Mushroom Giant, ormai band leggendaria del sottobosco locale sin dal 2002, in compagnia di altri mostri sacri quali We Lost the Sea, Sleepmakeswaves, Meniscus o Dumbsaint. In occasione del decennale dell'etichetta di Sydney, ecco quindi rivedere la luce un lavoro che fa di prog e post rock strumentale il suo credo. Nove pezzi che prendono le distanze dal classico post rock, fatto salvo per l'assenza di un vocalist, ma che da un punto di vista musicale, vede invece i nostri picchiare come fabbri sin dalla roboante apertura affidata a "The Drake Equation", un pezzo solo inizialmente onirico, ma che da metà in poi, si lancia in un centrifugato quasi killer di heavy prog davvero godibile. Si ritorna ad atmosfere pink floydiane con "Four Hundred and Falling", con quella forte aura malinconica che fino a metà brano ancora una volta sembra cullarci e che nel finale cresce emotivamente aumentando a pari passo, un interesse per una proposta che fin qui pareva piuttosto scontata, a dire il vero. Il finale però è da applausi. Come quelli che scrosciano per la lunghissima "Scars of the Interior" e i suoi quasi 14 minuti di parti arpeggiate, sognanti, ambientali; si dice a proposito, che il quartetto di Melbourne sia davvero forte dal vivo con parti visuali di grande effetto, da testarne insomma l'esperienza. Quello che mi convince della band è la capacità di coniugare la componente post con eleganti linee progressive dove i quattro musicisti sembrano trovarsi più a proprio agio. Fatto sta che, pur non essendo il sottoscritto un fan di offerte strumentali, qui mi lascio abbindolare dalle fughe rabbiose a cui seguono inevitabilmente lunghi ristoratori break atmosferici, che non fanno altro che prepararci ad un nuovo saliscendi musicale, ove la tecnica di questi aussie boys, viene fuori alla grande. Devo anche ricordarmi che questo 'Painted Mantra' è uscito sette anni fa, mica ieri. "Aesong" ha un fare quasi esotico a livello ritmico (ottima la batteria per la cronaca), quasi a condurci in una qualche isola al largo dell'Australia, con l'hammond comunque ad accompagnare con grazia e leggiadria, il comparto ritmico, qui vicino alle ultime prove degli Opeth, tuttavia ricordandosi che i gods svedesi hanno iniziato ad esplorare questo ambito ben dopo rispetto al "fungo gigante" di quest'oggi. L'ensemble continua a confezionare ottimi brani uno dopo l'altro: "Event Loop" è puro rock progressivo che ci porta a metà anni '70, con break affidati a basso e chitarra che a braccetto, ammiccano l'uno all'altro. Mancherebbe un vocalist ma questa volta voglio soprassedere e lasciarmi avvolgere dalla psichedelia di questa song o dalla successiva "Primaudial Soup", la cui batteria sembra quella in apertura di "Sunday, Bloody Sunday" degli U2, mentre a livello melodico, mi ha evocato un che dei Muse, inseriti comunque in un contesto più potente e coinvolgente. Lo ripeto, una voce avrebbe fatto le fortune di questo lavoro dal carattere cosi ondivago, stravolto peraltro costantemente da una marea di cambi di tempo. Se dovessi trovare un difetto, potrei dire l'eccessiva durata; quasi un'ora di musica filata, senza una voce, io la trovo sempre un'esperienza abbastanza sfidante, soprattutto in quei frangenti troppo meditabondi come può essere la prima parte di "Triptych". Poi fortunatamente il brano si muove dagli anfratti post rock e pestare maggiormente sull'acceleratore sfiorando il post metal con tanto di quella che mi pare anche una sezione d'archi. Ma c'è ben altro qui dentro, mille sfaccettature e dettagli che lascio approfondire a voialtri, godendo della performance di questi australiani che hanno ancora il tempo di inebriare i vostri sensi attraverso le decadenti note delle conclusive "Lunar Entanglement" e "Majestic Blackness", le ultime oscure perle di questo lavoro che a distanza di sette anni, non avete più alibi di lasciar andare. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2014/2021)
Voto: 75

https://mushroomgiant.bandcamp.com/album/painted-mantra

lunedì 21 giugno 2021

Repetita Iuvant - 3+1

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
In soli sei mesi, i liguri Repetita Iuvant escono con due EP. L'avevano dichiarato che avrebbero fatto uscire una trilogia in un lasso di tempo alquanto ristretto. Detto fatto. Il trio di La Spezia torna con quattro nuovi pezzi che si vanno a sommare a quelle "Gusev", "Montalto" e "Sapradi", uscite a fine 2020, nel primo EP intitolato '3'. Chissà se anche qui è colpa del Covid e dei lock-down annessi, se la band ha partorito cosi brevemente queste due creature o se magari erano pezzi che già facevano parte della storia dell'ensemble spezzino. Comunque per chi non li conoscesse, i Repetita Iuvant, locuzione latina che, traslata ai giorni nostri, vuol significare che ripetere un gesto o un'azione può dare un beneficio, propongono un post rock strumentale che dalle soffuse note iniziali di "Sagiadi", giunge a quelle finali della lunga "Piuno". Quando si parla di post rock, è spesso lecito cadere nella tentazione di immaginare come sia la proposta della band ancor prima di ascoltarla e ahimè, molto spesso ci si azzecca pure. Ecco, la cosa avviene anche per i Repetita Iuvant, anche se la proposta del trio sembra decisamente più scarna e minimalista se confrontata a produzioni internazionali ben più pompate. Il che sembrerebbe confermato da una registrazione in presa diretta che non enfatizza certo i suoni, caratterizzati da una ricercatezza sonora non cosi acuita, vista la volontà della band di proporre tracce per lo più improvvisate. "Polloni" è un lungo pezzo di quasi dieci minuti che si perde in un giro di pensieri iniziali messi in musica, quasi un rimuginare interiore che lentamente si palesa attraverso una narrazione pregna di malinconia, con un pizzico di magia e un sound che di caratterizzante però ha ben poco, visti i classici riverberi del post rock, un approccio onirico ed una certa lentezza di fondo, tutte cose che rientrano nei dettami del genere. "Metloping" si conferma come propugnatore di un approccio minimal-vellutato, quasi si tratti di una schitarrata in compagnia di amici, davanti ad un bicchiere di vino con luci soffuse e un'aura malinconica palpabile che si annusa più pungente laddove il tremolo picking aleggia forte nell'etere. A chiudere '3+1' ecco la lunga "Piuno", una traccia che si affida all'abbinata batteria chitarra in una forma che definirei ancora piuttosto ancestrale (per non dire casalinga), soprattutto per ciò che concerne i volumi dei singoli strumenti. Un brano che ho francamente faticato a digerire rispetto ai precedenti pezzi, forse perchè apparentemente sembra quello con meno passione anche se alla fine risulterà il brano più sperimentale. Attendiamo ora il terzo capitolo per capirne qualcosa di più di questi Repetita Iuvant. (Francesco Scarci)

I Repetita Juvant sono una trio proveniente da La Spezia che associa una filosofia lo-fi di registrazione con i classici canoni stilistici della musica post rock, quella più sognante ed eterea. In questo secondo disco intitolato semplicemente '3 + 1', si mette in evidenza una certa propensione per la musica liquida, fatta di atmosfere unicamente strumentali, che si incastrano tra qualche malinconica sospensione dei This Will Destroy You e certe teorie sonore degli Ulan Bator che hanno fatto storia, sviluppate in questo caso, da un trio anomalo formato da una batteria, una chitarra synth ed una chitarra elettrica. Da evidenziare anche un gusto assai personale per i disegni che animano l'ottimo artwork di copertina. La ricerca intentata nei suoni per tributare una certa matrice vintage e psichedelica, a mio modesto parere,  dà i suoi frutti solo in parte, visto che la veste naturale del suono viene così estremizzata, e in più momenti, sembra di essere di fronte, ad un demotape registrato in sala prove, cosa che penalizza l'ascolto dei brani che, al contrario, sono interessanti e pieni d'atmosfera. Il fatto di sperimentare sulla registrazione in tempi moderni è ammirevole, ma se il risultato fa implodere il sound nella sua totalità, la cosa fa un po' riflettere (il precedente lavoro intitolato semplicemente '3', non soffriva di questa carenza nella dinamica del suono). La sensazione è che siano buone cartucce sprecate solo per la presunzione di cercare la dimensione sonora di un tempo che non si può più ricreare. Altra nota in parte negativa che la registrazione scarna mette in evidenza, è una carenza nei bassi, ovvero la mancanza di un basso vero e proprio si rende troppo evidente, manca infatti qualcosa che renda il tutto eccellente, anche se ripeto, non voglio criticare la scelta stilistica e musicale ma semplicemente raccontare la mia emozione all'ascolto del disco. Quindi, alzato il volume, preso atto che non sentirò nessuna linea di basso in questo disco, mi affogo nel cristallino mare dei Repetita Iuvant, che non è mai banale e che pullula di idee, anche se non del tutto originali, ma comunque sono ben confezionate e suonate con ispirazione. Brani ipnotici, visioni filmiche di spazi immensi e luminosi, che vengono esplorati in queste quattro tracce dal taglio siderale, nudo e crudo, che avrei voluto sentire con una produzione totalmente diversa, più maestosa e cosmica, per un disco di tutto rispetto, pieno di ottime idee ingabbiate però, in una scelta di produzione a dir poco sotto tono. (Bob Stoner)


(Loudnessy Sonic Dream - 2021)
Voto: 66

https://repetitaiuvant.bandcamp.com/album/3-1

domenica 20 giugno 2021

Hans Hjelm – Factory Reset

#PER CHI AMA: Instrumental Prog/Kraut Rock
Hans Hjelm è un produttore e musicista svedese assai conosciuto in ambito alternativo, che vanta numerosi progetti e partecipazioni in un infinito numero di album. Questo suo primo disco da solista è anche la prima uscita interamente gestita dalla sua etichetta personale, la Kungens Ljud & Bild. In questo suo debutto dalla copertina futurista, Hans, ha suonato chitarre, synth, basso e programmato le basi, aiutato solamente da Jesper Skarin nel ruolo di batterista. Il noto chitarrista di Stoccolma milita in un nugolo di altre band di ottima fattura, tra cui Kungens Män ed Automatism, e si abbandona per questi sei brani strumentali ad un suono sofisticato, figlio dell'ammirazione verso certa new wave costellata di synth, profondi e cosmici, che entrano in armonioso contrasto con il suo modo originale di gestire le parti di chitarra, mettendo in luce i suoi studi in ambito jazz perseguiti in America, che caratterizzano il suo stile. L'appartenenza alle altre band si fa sentire sempre e comunque, anche se Hjelm ce la mette tutta per allontanarsi dalle precedenti multicolori avventure sonore: l'ombra dell'ultimo brillante disco degli Automatism, ad esempio, è qui costantemente presente, anche se, tra queste note, troviamo una sezione ritmica più evanescente, il basso resta sempre nelle retrovie e i synth e le chitarre cristalline per la maggior parte dei brani svolgono il ruolo di protagonisti. "Valley of the Kings" mostra perfino una verve ipnotica figlia della psichedelia dei Velvet Undergrond, riveduta in chiave newwave anni '80, mentre l'amore per i Depeche Mode esplode nella cover di "Nothing to Fear", estratta dallo storico 'A Broken Frame', e adattata in una veste più consona all'autore, piena di colori tra post rock e sonorità indie. Nel retro del cd troviamo un consiglio per l'ascolto scritto da Hjelm in persona, che lascia trasparire tutta la sua peculiarità, la sua meticolosa ricerca della qualità sonora, da musicista, da tecnico del suono e produttore di opere molto sentite a livello emozionale. La scritta recita:

Usa le cuffie stereo
Fai un respiro profondo e inizia a rilassarti
Chiudi gli occhi e lascia perdere tutte le preoccupazioni
Notare una frequenza leggermente diversa che raggiunge ciascun orecchio
Diventa consapevole del tuo respiro
Inizia a contare i tuoi respiri
Lascia che i suoni passino attraverso la tua mente inosservati
Immergiti nel processo di respirazione
Lascia che i suoni sincronizzino i tuoi schemi di pensiero
Ripetere il processo fino a quando non si verifica il ripristino

"Lights Turn Red" è invece la canzone più lunga del lotto e offre un'evoluzione lisergica di chitarra noise davvero interessante, che amplia il range della proposta del disco, che fondamentalmente si muove in un'ottica di ipnotica estasi sonica. Conoscendo e apprezzando gli altri lavori del polistrumentista svedese, posso dire che a differenza di altre sue uscite, 'Factory Reset' rappresenta qualcosa di diverso, più alla moda, un bel disco dalle dichiarate venature '80s rivisitate in un'ottica moderna, una release quasi perfetta, dal sound arioso, aperto, contemporaneo ed estremamente omogeneo, tendenzialmente meno rock, ma con un'anima sognante ai confini di un ambient che solo a tratti nasconde qualche sinistra insidia sonora. In tutto questo mi mancano le astratte evoluzioni compositive, tipiche di band come Sista Maj o Automatism, ma in effetti il lavoro di Hjelm in questo suo primo lavoro da solista non deve essere paragonato alle altre sue dimensioni musicali. Questo disco infatti vive di una propria reale identità, una luccicante, autonoma realtà compositiva che conferma una capacità straordinaria di creare universi sonori dalle mille entità diverse e colorate anche in veste solitaria. L'ascolto è consigliato, obbligatoriamente in cuffia, come raccomandato dall'autore! (Bob Stoner)

(Kungens Ljud & Bild - 2021)
Voto: 74

https://hanshjelm.bandcamp.com/album/factory-reset

Deka‘dɛntsa - Universo 25

#PER CHI AMA: Dark/Post Rock
Un altro prodotto della pandemia e del disagio creato da questo difficile periodo per il mondo intero. Questo è 'Universo 25', album di debutto dei campani Deka‘dɛntsa, che richiama nel proprio titolo, l'esperimento omonimo condotto dall'etologo John Calhoun, che usò l'espressione "fogna del comportamento" per illustrare i risultati della sua esperienza e denotare il collasso di una società a causa di anomalie comportamentali provocate dalla sovrappopolazione. Da qui, arrivare questa raccolta di sette tracce che si aprono con il rumorismo di "Latenza 00" che lascia ben presto il campo alla title track, una song dark rock cantata in italiano. Ottime le oscure atmosfere create dal combo originario di Salerno, che nel corso del disco, verrà supportato da svariati ospiti, da Mohammed Ashraf (Pie are Squared, Postvorta, Void of Sleep) che ha scritto e suonato l’intro “Latenza 00”, Andrea Fioravanti (Postvorta) alla chitarra in "Hikikomori" - entrambi grandi amici di Raffaele Marra (fondatore dei Deka‘dɛntsa ma anche dei Postvorta stessi) - ed Edoardo Di Vietri (In a Glass House) alla chitarra in "Disordine e Indisciplina" e nella già citata "Hikikomori". Sia ben chiaro che la band di quest'oggi non ha nulla da condividere con i Postvorta; messe da parte infatti le idee sludge/post metal, Raffaele in compagnia di un altro paio di amici, si diletta in sonorità più orientate al dark rock. Lo dicevamo appunto per la title track, lo confermo per "Inutili Eroi", che sembra quasi richiamare i Litfiba degli esordi, quelli di 'Desaparecido' per intenderci, in cui il sound combina influenze dark/punk/new wave con melodie tipicamente mediterranee, cariche poi di un fortissimo impatto emotivo. Qui percepisco una situazione alquanto simile, per quanto confluiscano nella proposta dei nostri dinamiche più attuali, con derive elettroniche ma anche sfuriate metal. Un bel basso apre e guida "Decadenza", un pezzo mid-tempo, oscuro ed incazzato, caratterizzato da buone melodie ma che probabilmente non rimarrà agli atti come uno dei migliori brani della musica dark rock italiana. La band ci riprova con l'emotiva "Hikikomori", un altro esempio di dark sulla scia dei vecchi Burning Gates, ma che in realtà mi ha ricordato "Satana" dei Nuvola Neshua, con la sola differenza che ho davvero amato il brano della band lombarda di primi anni 2000, un po' meno questo che sembra offrire il meglio di sè solamente nel finale. "Pandemica" è un pezzo dal taglio più corposo ritmicamente parlando grazie a dei granitici riff di chitarra ma che non mi convince a livello vocale con il cantato pulito in italiano del frontman, che non spicca certo in personalità; molto meglio invece il finale con delle spoken words in un contesto più post metal che rendono maggior giustizia al lavoro. In chiusura "Disordine e Indisciplina", gli ultimi sette minuti abbondanti all'insegna di un dark metal d'ordinanza, a tratti irrequieto a dire il vero, per un disco comunque che forse manca ancora di spunti vincenti per poter dire la propria in un ambito che vanta oltre quarant'anni di storia alle spalle e che necessita di molto di più per poter rimanere negli annali di questo genere. (Francesco Scarci)

(Zero Produzioni/22 Dicembre Records - 2021)
Voto: 65

https://dekadentsa.bandcamp.com/album/universo-25

lunedì 24 maggio 2021

Psychotropic Transcendental - Compilation 2020

#PER CHI AMA: Prog/Dark Rock
La qui presente ecopack compilation racchiude i due album dei polacchi Psychotropic Transcendental. Se dell'ultimo '.​.​.Lun Yolina un Yolina Thu Dar​-​davogh.​.​.' già vi avevo parlato a suo tempo e per cui vi rimando alla recensione nel Pozzo, del debutto intitolato 'Ax Libereld...', ne faccio oggi per la prima volta menzione. Questo perchè il disco è uscito nel 2001 e credo sia passato notevolmente sotto traccia, anche negli ambienti più underground. Il quartetto capitanato da Gnat (colui che ha inventato la lingua var-inath, utilizzata nei testi dei nostri) propone sette tracce che coniugano rock, metal e progressive. E la proposta sonora si evince immediatamente nelle atmosfere prog rock settantiane dell'opener, nonchè title track del disco, in cui il breve testo è urlato al vento dalla voce graffiante di K-vass (Moanaa). Le atmosfere sognanti del primo brano lasciano il posto a "Dirigah nax Ma-zarthilag", che sembra mixare il post punk con il dark, il tutto poi spinto a livello vocale in uno screaming efferato che fa da contraltare alle voci pulite dello stesso K-vass. Allo stesso modo, la musica segue con sfuriate, le parti più estreme di voce, per poi placarsi comunque nel lungo finale strumentale. La terza "Raxus Mahad Kirdail" è un brano più intimista e meditativo, guidato da una buona dose di malinconia, da atmosfere sognanti, dal ripetersi di un refrain di chitarra e da un cantato a tratti litanico e paranoico, inserito in un contesto a tratti mediorientaleggiante. Certo, la totale incomprensione delle liriche non aiuta molto nel memorizzare i testi, che potrebbero essere invece tranquillamente canticchiabili. "Sabagih Har Sabagihed" cosi come la precedente, potrebbero essere una versione in lingua var-inath degli Heroes del Silencio, con quella commistione tra suoni etnici e dark rock, che potrebbe evocare addirittura i Fields of the Nephilim. Quest'ultima influenza sembra confermarsi anche nei cori della successiva "Hava Kirr nax Lanamar", un pezzo interessante ma a tratti sconclusionato, più che altro perchè non è chiaro dove voglia andare a parare. Ma questa è una delle caratteristiche dell'ensemble originario di Bielsko Biała e necessita sempre un po' di tempo addizionale per orientarsi nella loro proposta musicale, che nel finale vede proporre atmosfere pink floydiane abbinate al punk rock. Ancora due pezzi a rapporto per completare l'ascolto del debut album dei nostri, un disco che sfiora l'ora di durata, che abbinata poi ai quasi 80 minuti del secondo cd, fanno circa 140 minuti di musica, una vera abbuffata, che prosegue qui sulle note oscure di "Garmed Il-namars". Questo è un pezzo prog che evoca i connazionali Riverside, e che mette in mostra uno scintillante finale da brividi in un climax ascendente tutto da gustare. In chiusura "Or Navorunas", gli ultimi dieci minuti affidati alle malinconiche melodie dei quattro polacchi che chiudono in maniera esemplare un debutto che ho apprezzato molto di più del successivo lavoro. In questa compilation uscita nel 2020, li trovate poi entrambi, quindi perchè farseli scappare? (Francesco Scarci)

lunedì 17 maggio 2021

Turangalila - Cargo Cult

#PER CHI AMA: Noise/Post Rock/Math
Continuo a pensare che ci sia del sadomasochismo a dare certi nomi alle band. Avere un moniker complicato, per quanto attinga all'omonima sinfonia di Oliver Messiaen, di sicuro non mi aiuterà a ricordare questi Turangalila, quartetto barese che rientra appunto in un sempre più nutrito numero di ensemble davvero difficili da memorizzare. 'Cargo Cult' è poi un album di per sè ostico a cui approcciarsi per le sonorità in esso contenute: sette pezzi semistrumentali che si aprono col passo irrequieto di "Omicidio e Fuga", e quel suo riffing roboante (all'insegna del math rock) su cui si stagliano slanci apocalittici di un basso costantemente fuori dagli schemi, arzigogolii di chitarra che si incuneano nel cervello e fanno uscire pazzi e poi ecco, un break, che apre a splendide e psichedeliche partiture post rock. Deliziosi, non c'è da aggiungere altro, soprattutto quando il violino emerge dal sottofondo. E l'ipnotismo lisergico della band pugliese esplode ancor più forte in "Don't Mess With Me, Renato", una song in cui la carezzevole voce di Costantino Temerario mostra il proprio volto, mentre in background le chitarre si confondono con gli sperimentalismi creati dai synth, generando atmosfere surreali che mi hanno ricordato i vicentini Eterea Post Bong Band. Un arpeggio stroboscopico apre invece "Tone le Rec", un brano da utilizzare con grande cautela, il rischio di andare fuori di testa è davvero elevato, complice la ridondanza delle sue chitarre prima che un indemoniato basso a braccetto con synth e una chitarra delirante, prendano la testa del brano e come cavalli imbizzarriti, si lancino in un fuga ad alto tasso di pericolosità. Ci ho sentito un che dei Primus in queste note, ma anche l'inquietudine degli Swans, unita alla melmosità dei Neurosis. I Turangalila (non ricorderò mai questo nome) proseguono sulle suadenti note di "Liquidi e Spigoli", un post rock malinconico che dilagherà presto in fughe math rock con la voce che torna a sgomitare accanto alla schizofrenica ritmica dei quattro italici musicisti. Ma i nostri proseguono il loro trip all'insegna di sonorità sbilenche nell'atipica title track che evidenzia una certa perizia tecnica all'interno del collettivo, una ricerca costante di esplorare il proprio intimo con suoni cerebrali, a tratti anche eterei che mi hanno evocato un altro nome che adoro, ossia gli *Shels, per quella ricerca costante di saliscendi ritmici in seno alla band. Si fanno invece più cupi in "Cargo Cult Coda" che con una splendida sezione d'archi, mette una sorta di punto e accapo al precedente pezzo. In chiusura, ancora dieci minuti di entropia sonora creata nell'amalgama noise rock di "Die Anderen", l'ultimo atto dove trovano il modo di confluire suoni post metal, alternative e d'avanguardia sempre più interessanti che mi obbligano a suggerirvi di avvicinarvi al più presto ma con grande cautela a questi Turangalila. Maledetto nome, non mi ricorderò mai di te. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2021)
Voto: 77

https://turangalila.bandcamp.com/