Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Hardcore. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Hardcore. Mostra tutti i post

domenica 14 giugno 2020

Chat Pile - Remove Your Skin Please

#PER CHI AMA: Noise/Sludge, The Jesus Lizard
I Chat Pile è una band originaria di Oklahoma City che lo scorso anno se n'è uscita con due EP, di cui questo 'Remove Your Skin Please' è il secondo rilasciato sul finire dell'anno. Quattro pezzi all'insegna di un noise sludge con qualche venatura psych e grunge. Ascoltando l'opener "Dallas Beltway" penserei ad una versione più violenta dei The Doors, con la voce del frontman a blaterare come se fosse un novello Jim Morrison e la musica in sottofondo a mostrare un certo disagio interirore nel suo disarmante incedere, cosi sporco ed infimo, dotato però di una forte carica grooveggiante che alla fine me la fa adorare, ricordandomi un che dei The Jesus Lizard. L'inizio di "Mask" è ancor più coinvolgente, con quella sua vena post-punk che esce preponderante e le vocals sempre lamentose, a tratti parlate, comunque intrise di una elevata dose alcolica che le portano a sbraitare il loro disappunto con un fare grunge (mi sono venuti in mente anche i primissimi Nirvana) ma sul finire sfociano addirittura in un growling death metal. "Davis" è il terzo brano e sapete che potrebbe stare su un disco degli Ulcerate per quella sua ferocia sbilenca che non lo fa etichettare come death metal puramente per i vocalizzi puliti e urlati del cantante che ad un certo punto sembra addirittura dire "fottetevi". La canzone è comunque singolare tra parti psych noise e devastanti deragliamenti a livello ritmico che la spingono alle soglie del death metal. Peculiari e intriganti. La conclusiva "Garbage Man" è l'ultimo delirante episodio di un mini album che non è facilmente collocabile in un contenitore preciso. Qui infatti ci potrete sentire un mix tra hardcore, punk e sludge, il tutto cantato da un vocalist ormai alcolizzato. Sarebbe interessante ora saggiarli su un terreno più scivoloso, quello del full length, vediamo se sapranno accontentarci. (Francesco Scarci)

sabato 30 maggio 2020

Wojtek - Hymn for the Leftovers

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore, Converge
Formatisi solo un anno fa (era infatti maggio 2019 quando i cinque musicisti si ritrovavano in quel di Padova) ma con già due EP alle spalle, i Wojtek ci presentano l'ultimo e appena sfornato, 'Hymn for the Leftovers'. La band patavina, forte delle esperienze dei suoi singoli musicisti in altre corrosive realtà underground, rilascia cinque mefitiche tracce che si aprono con le urla dal profondo della brutale "Honestly", di certo un bel biglietto da visita in fatto di ferocia da parte della caustica band veneta. Detto delle urla iniziali e del lungo rumore in sottofondo che ci accompagna per quasi tre minuti, la band inizia a srotolare il proprio sound abrasivo con un riffing lutulento ma decisamente sporco, che chiama in causa i Converge in una loro versione a rallentatore, soprattutto quando i nostri mettono da parte il drumming e si affidano quasi completamente alle voci taglienti di Mattia Zambon e alle chitarre del duo formato da Riccardo Zulato e Morgan Zambon. Finalmente però sul finale, ecco un accenno di melodia, con la linea di chitarra che assume toni vagamente malinconici. Il basso di Simone Carraro apre poi la seconda "Curse", con il drumming di Enrico Babolin che va ad accostarsi da li a poco, e poi via via gli altri strumenti in una song dall'incedere lento e maligno, che sembra non promettere nulla di buono se non asprezze e spigolature sonore di un certo livello, non proprio cosi facili da assorbire, se non quando il quintetto italico ne agevola l'ascolto con una linea melodica in sottofondo, dai tratti comunque alquanto inquietanti. E proprio in questi frangenti che la proposta dei Wojtek (il cui moniker deriva dall'orso bruno siriano adottato dai soldati dell'artiglieria polacca durante la Seconda Guerra Mondiale) acquisisce maggiore accessibilità e fruibilità, altrimenti le cinque tracce diventerebbero un'insormontabile montagna da scalare. Anche quando parte "Crawling" infatti, l'inquietudine regna sovrana nel drumming schizoide del five-piece padovano poi, complici un paio di break ben assestati ed un rallentamento più ragionato, l'asperità insita nel sound dei Wojtek trova una maggior scorrevolezza in un sound altrimenti davvero ostile, come accade ad esempio nella parte centrale di questa stessa track, prima dell'ennesimo cambio di tempo a mitigarne la ferocia. Ancora il basso tonante di Simone e la sinistra ma nervosa batteria di Enrico ad aprire "Striving", un brano che si muove in territori mid-tempo, lenti ma questa volta pregni di groove a mostrarci un'altra faccia della band che, non vorrei dire un'eresia, in questa song mi ha evocato un che dei Cavalera Conspiracy. Più post-punk oriented invece la conclusiva "Empty Veins" che ci racconta da dove i nostri sono nati e cresciuti, accostando al punk anche la sua degenerazione hardcore. Lo screaming lacerante di Mattia lascia andare tutto il suo dissapore sopra una ritmica costantemente disagiata che trova anche modo di lanciarsi in una sgaloppata al limite del post-black, che si alterna con rallentamenti che spezzano intelligentemente la brutalità in cui i nostri spesso e volentieri rischiano di incorrere. Alla fine 'Hymn for the Leftovers' è un'uscita interessante, ma a mio ancora con la classica etichetta "Parental Advisory: Handle with Care", il rischio di farsi esplodere in mano questa bomba potrebbe rivelarsi letale. (Francesco Scarci)

(Violence in the Veins/Teschio Records - 2020)
Voto: 69

https://wojtek3522.bandcamp.com/album/hymn-for-the-leftovers

domenica 24 maggio 2020

VV. AA. - Solar Flare Records

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Noise
Un'altra compilation nelle mie mani questo mese, devo essere stato davvero cattivo negli ultimi tempi. Autori del misfatto questa volta i francesi della Solar Flar Records (supportata dalla Atypeek Music), che raccolgono qui 10 band del loro roster per testimoniare quanto portato avanti sin qui dall'etichetta e quanto dovrebbe prospettarsi roseo il futuro. Il cd si apre con il caustico refrain noise/post-hardcore degli statunitensi Pigs e della loro "Give It", estratta dall'album del 2012, 'You Ruin Everything'. Questo per dire che le tracce non sono proprio recentissime. I nostri torneranno più avanti con una più ritmata e convincente "The Life in Pink". Dei Sofy Major credo abbiamo abbondantemente parlato su queste stesse pagine, mentre non abbiamo mai avuto l'opportunità di saggiare il sound melmoso, schizzato e super fuzzato dei francesi Pord che, con "Staring Into Space", ci riportano al 2014: interessanti ma difficili da digerire senza un bel malox a supporto. Continuiamo col super ribassato sound dei Watertank e della loro "Pro Cooks", una combinazione di doom, noise e post-hc con voci molto (troppo) ruffiane, che mal si conciliano con i miei gusti, confermato anche dalla seconda "DCVR". Ancora chitarre sporche, voci abrasive e atmosfere psichedelicamente distorte con i Bardus, ma potete capire come sia difficile fare valutazioni sulla base di un pezzo, niente male comunque. Gli American Heritage fanno un punk hardcore inverinato che nelle due schegge a disposizione mostrano la verve abrasiva della band. I Fashion Week, per quanto fautori di un sound a tratti intrigante, alla fine non mi fanno proprio impazzire con il loro post grunge di scuola Smashing Pumpkins. Più strani i The Great Sabatini, con un punk noise hardcore all'inizio fastidioso, molto più interessante invece nelle linee più sludge della loro proposta. Ultima menzione per i Carne e "1000 Beers", estratta da 'Ville Morgue' (2013) che mette in mostra un post-hardcore dissonante che sembra ricongiungersi virtualmente al black destrutturato dei compaesani Deathspell Omega. In chiusura gli Stuntman e il loro devastante e irriverente hardcore, la forma più brutale di questo concentrato nerboruto di suoni tremendamente sporchi. (Francesco Scarci)

(Solar Flare Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: S.V.

https://www.facebook.com/solarflarerecords

mercoledì 29 aprile 2020

Mahavatar - Go With the No!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Un’energia che non ha bisogno di nulla se non di se stessa per sopravvivere… Immortalità fisica e spirituale… Questi sono i Mahavatar, band proveniente da New York, creatura messa sotto contratto dall'italica Cruz del Sur Music. La prima particolarità che balza all’occhio di questa band è che, ai tempi della presente uscita, la line-up comprendeva due signore, la chitarrista Karla Williams d’origine giamaicana (si avete letto bene, la patria di Bob Marley) e l’altra, la cantante Lizza Hayson, israeliana, supportate ottimamente da tre session. Le due girls, animate dal desiderio di libertà e d’esplorazione della mente attraverso la musica, hanno cosi partorito quest'album dallo strano titolo e da una anche più difficile assimilazione. 'Go With the No!' è in grado però di coniugare, in una commistione di stili ed emozioni, i più svariati generi musicali, riuscendo nell’intento di catturare l’attenzione anche di chi non ama il metal. Gothic, punk, hardcore, dark, jazz, doom e stoner metal si fondono in questa release, debut assoluto della compagine statunitense, attraverso lo scorrere di un sound oscuro, melodico e tribale, sorretto dalle pesanti e malinconiche chitarre di Karla e accompagnato dall’ipnotica voce di Lizza (che presenta una voce accostabile alla nostra Cadaveria,). I Mahavatar sono bravi a spingerci sul bordo del precipizio con le loro musiche psichedeliche e poi a trascinarci giù nei meandri dell’inferno per poi riuscirne con le sue selvagge e melodiche suggestioni in un caleidoscopico giro di emozioni. Bellissima l’ultima e introspettiva “The Time Has Come” con il suo liseergico incedere, quasi a voler scandire i secondi che ci restano da vivere. Lasciate aperta la porta del vostro cuore e date modo ai Mahavatar di toccarvi l’anima. (Francesco Scarci)

(Cruz del Sur Music - 2005)
Voto: 72

https://www.facebook.com/mahavatarHQ

domenica 5 aprile 2020

Snorlax - II

#PER CHI AMA: Death/Grind
Avevo voglia di un cambio radicale di genere, un desiderio di un qualcosa che potesse martoriare le mie orecchie ed eccomi accontentato. Mi sorprende che siano gli australiani Snorlax (un nome che deriva peraltro da una specie di Pokemon) gli artefici di tale maciullazione dei miei sacri timpani, visto che si tratta in realtà di una one-man band. Brendan Auld si fa portavoce di questo ferocissimo concentrato di grind attraverso il suo full length di debutto, 'II'. Che goduria per le mie orecchie e le mie coronarie. Quando "Infernal Devourment" esplode nelle mie casse, il rischio d'infarto è infatti elevatissimo: una grandinata poderosa di suoni death grind mi si abbatte sulla testa con il growling catacombale del buon Brendan (uno che vanta altri quattro progetti estremi) ad affossarmi. La tempesta è servita e funge da antipasto per la seconda "The Resin Tomb", una scheggia dedita a sonorità malefiche, ottantatre secondi impattanti e schizofrenici (peraltro con guest star al microfono, Mathew Budge dei Consumed) che ci conducono in un batter di ciglia alla terza "The Chaos ov Iron Oppression", un brano apocalittico, non tanto per le sue atmosfere, ma per quell'aura di morte che sembra attanagliare la song, complice anche il vocione profondamente growl del mastermind di Brisbane. La song trova modo anche di rallentare vertiginosamente (almeno in un paio di occasioni), una pausa dovuta, anche se di pochi secondi, per preparci al meglio a serie successive di bombardamenti ritmici. Arriviamo a "Mind ov Maggots", la song più lunga del lotto, ben sei minuti che fortunatamente si rivelano trattenuti in rumori di sottofondo per almeno i primi 120 secondi, prima di inquinare nuovamente i nostri sensi di suoni molesti, che mostrano anche una certa ricercatezza in quei frangenti ben più ritmici e rallentati (quasi al limite del doom), proposti dal terrorista sonoro del Queensland che qui più che altrove, sembra voler tributare i connazionali Disembowelment. C'è ancora tempo per maciullare le nostre orecchie con altre due song, "Encapsulated Apocalypse" e "Impending Abysmal Wretchedness", la prima dall'incauto inizio rallentato (successivamente dinamitarda), la seconda a rappresentare un altro brano propulsivo che vede la partecipazione ala voce di Anthony Oliver dei Descent, un'altra delle creature in cui milita Brendan. 'II' è un disco breve ma efficace che non deluderà certo i fan di sonorità cosi estreme, a cavallo tra death, black, grind e hardcore. (Francesco Scarci)

(Brilliant Emperor Records - 2020)
Voto: 70

https://snorlaxbm.bandcamp.com/album/ii

lunedì 30 marzo 2020

Walls of Jericho - With Devils Amongst Us All

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore, The Black Dahlia Murder, Bleeding Trough
Sinceramente con un nome del genere mi aspettavo più una band di power o speed metal, però vedendo prima la casa discografica e mettendo poi il cd nel lettore, mi sono reso conto che fra le mani avevo l’ennesimo esempio di metalcore. Che scrivere di diverso allora per questa band di Detroit, che già non sia stato scritto per le altre centinaia o forse migliaia di band metalcore che popolano il music biz? Il quartetto statunitense ci spara sulle nostre facce il solito polpettone di furia hardcore unita ad attitudine punk per un concentrato esasperante di adrenalina pura. Undici irriverenti tracce, caratterizzate dal solito thrashy riff, esplodono nelle casse del vostro stereo, undici pugni nello stomaco in grado di mettervi presto ko. La release dei Walls of Jericho ormai datata 2006 è energia allo stato puro, che mi fa saltare come una gazzella, sbattere il muso come un topo intrappolato in gabbia, lanciarmi in un headbanging frenetico dall’inizio alla fine, per ritrovarmi madido di sudore alla fine dell’ascolto di questo 'With Devils Amongst Us All', un disco la cui non troppo piccola pecca è quella di risultare uguale ad altri mille dischi metalcore. Da segnalare infine che le vetrioliche vocals sono ad opera di una cantante donna, tale Candace Kucsulain che attacca il microfono con un'incredibile ferocia. Solo per gli amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Roadrunners Records - 2006)
Voto: 62

https://www.facebook.com/WallsofJericho/

mercoledì 25 marzo 2020

Goatwhore - A Haunting Curse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Hardcore, Darkthrone, Soilent Green
Era il 2006 quando la Metal Blade rilasciò un concentrato dinamitardo di brutal metal a cura dei Goatwhore, combo di New Orleans, che con questo 'A Haunting Curse' giungeva al terzo album, una band peraltro dove militavano il vocalist dei Soilent, Green Ben Falgoust e il chitarrista dei Crowbar, Sammy Duet. Dopo essere scampati alla ferocia dell’uragano del 2005 e ad altre innumerevoli sfighe, la band statunitense è tornata più tosta e decisa che mai: undici tiratissime songs di un feroce mix death-black, partorite ai Mana Studios di Erik Rutan. I Goatwhore con la loro musica, ci scagliano addosso violenti scariche adrenaliniche, massacrando il nostro cervello con un sound tritabudelle che prende in prestito un po’ di rabbia dal brutal death e un po’ di malvagità da un black metal old school. Potete ben immaginare il risultato che ne viene fuori: nessun accenno alla melodia, nessun momento atmosferico, nessuna pausa, nessuna voce angelica, solo rabbia, furia cieca, frustrazione all’ennesima potenza che si traducono in scariche elettriche, montagne di riff di chitarra che costruiscono un muro sonoro inespugnabile, impazziti blast-beat che devastano ogni singolo neurone sopravvissuto nei nostri emisferi encefalici. La voce di Ben vomita tutta la cattiveria che imperversa nell’animo di questi quattro ragazzi. Difficile trovare un termine di paragone per questa band, perchè poche erano le band in giro a suonare questo improbabile ibrido black-hardcore: un po' come se i Darkthrone suonassero alla Soilent Green. Questi i Goatwhore 2006: veloci, ferali, oscuri, brutali, malvagi; è proprio vero il detto “ciò che non uccide fortifica”... (Francesco Scarci)

mercoledì 11 dicembre 2019

I Maiali - Cvlto

#PER CHI AMA: Noise/Post-Hardcore
Devo ammetterlo: il nome della band mi aveva fatto pensare ad uno di quei gruppi punk più interessati a scandalizzare che a confezionare un’opera in grado di stupire e rivolgersi ad un pubblico eterogeneo. Fortunatamente I Maiali, formazione romana attiva dal 2016, hanno infranto i miei pregiudizi con 'CVLTO', il loro debut album partorito quest’anno dopo un lungo travaglio, vuoi perché questa creatura luciferina è stata concepita là dove scorrono lo Stige e il Flegetonte, vuoi perché i ragazzi hanno preferito prendersi tutto il tempo necessario per lasciar maturare le loro idee. Se la seconda ipotesi è quella giusta, possiamo affermare che è valsa la pena aspettare.

Prodotto da Phil Liar (Monolith Recording Studio), masterizzato presso gli studi americani di Mistery House Sound e pubblicato per Overdub Recordings, 'CVLTO' si compone di dieci tracce roventi come i gironi infernali che evoca fin dall’introduttiva “Ave”, con la quale questo sulfureo concentrato di post-hardcore e noise-rock, inizia subito a scorrere nelle viscere dell’incauto ascoltatore come un filtro che abbia il potere di mettere a nudo i demoni nascosti in tutti noi. Gli ingredienti di questa pozione malefica? Versare copiosamente nel calderone le percussioni incazzate di Angelo Del Rosso, aggiungere le linee nevrotiche del basso di Matteo Grigioni e i taglienti riff della chitarra di Daniele Ticconi e non dimenticare la fondamentale formula magica recitata, urlata e bestemmiata da un mefistofelico Francesco Foschini.

Man mano che i brani si susseguono come una raffica di pugni nello stomaco, ci si rende conto che a colpire non è soltanto la furia sonora (qualità che fortunatamente non manca nel panorama noise e hardcore nostrano), quanto la personalità del quartetto nel destreggiarsi tra reminiscenze di quel rock graffiante e al tempo stesso accessibile che ha fatto le fortune di Marlene Kuntz e Il Teatro Degli Orrori, mantenendo i piedi sempre ben piantati nell’underground e gli occhi puntati verso gente come Nerorgasmo e Negazione. Il risultato è un sound compatto, moderno e dinamico, che si mantiene sempre accattivante, nonostante la rabbia selvaggia sprigionata in “Carne”, le atmosfere cupe di “Abbandono” e la schizofrenia di “Danza come Manson”.

“Adora il cvlto, adora il cvlto” grida ossessivamente il cantante nell’irresistibile title-track, perfetta sintesi dei contenuti di un disco zeppo di riferimenti a rituali poco ortodossi che garantiranno alla band le consuete accuse di oscure venerazioni. Ma qual è il culto oggetto di tanto fervore? E che c’entra il maiale, sbattuto in copertina nell’inquietante artwork del maestro Coito Negato?

Nulla in 'CVLTO' è stato scelto per caso o al solo scopo di scatenare le ire dei paladini di presunte radici nazionali: il rapporto morboso e al tempo stesso contradditorio tra l’uomo e la simpatica bestia, quotidianamente servita sulle nostre tavole malgrado sia il simbolo per eccellenza di impurità, sporcizia e istinti animaleschi, sembra una metafora di una triste consuetudine della nostra società, ossia l’ostentazione fanatica di valori e principi puntualmente rinnegati e sacrificati sull’altare delle nostre ambizioni e dei nostri bassi istinti. Ed è forse proprio questo l’unico culto che onoriamo fanaticamente: l’ipocrisia. (Shadowsofthesun)


(Overdub Recordings - 2019)

domenica 3 novembre 2019

Woundvac - The Road Ahead

#PER CHI AMA: Grind/Hardcore
Dopo tanto black e post-metal ascoltato in questo periodo, avrei bisogno di qualcosa che sradichi tutti quei suoni e faccia un po' di pulizia nella mia testa. Gli americani Woundvac, con il nuovo 'The Road Ahead', potrebbero fare al caso mio. Accendo lo stereo abbastanza ignaro di quanto mi aspetti, sebbene quella copertina piuttosto splatter lasci presagire il peggio. E infatti quando "The Last Nail" fa seguito all'intro del disco, ecco che vengo investito dalla furia nichilista del quartetto di Phoenix che mi assale con un grind/hardcore senza compromessi, in grado di polverizzare in un battibaleno qualunque forma di contaminazione musicale alberghi ancora nelle mie orecchie. Un due tre, la band sciorina uno dopo l'altro dei pezzi assassini che citano Napalm Death o Terrorizer tra le loro influenze, sebbene le harsh vocals del frontman statunitense non siano cosi profonde come il growling dei colleghi inglesi e il suono risulti più secco rispetto alle due band citate. Poi di fronte alla carneficina compiuta dei nostri non posso altro che alzare le mani e lasciarmi investire dalla tempesta sonica elargita dal malefico terzetto costituito da "Tightening Chain", "Never an Option" e la lunghissima (quasi quattro minuti), ma anche più ritmata, "Institutional Bloodshed". Feroci, furibondi, malefici, violenti, incazzati, trovate anche voi altri aggettivi che definiscano l'essenza ferale di questi terroristi del metal estremo. L'erasing alla mia testa è completato, il risultato raggiunto. (Francesco Scarci)

lunedì 28 ottobre 2019

Caliban/Heaven Shall Burn - The Split Program II

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Metalcore
Nel 2001 usciva 'The Split Program I', a mettere insieme due gruppi metal alle prime armi, Caliban e Heaven Shall Burn. Nel frattempo le due band hanno fatto uscire altri dischi, hanno suonato parecchio in giro e hanno maturato un buon successo nel panorama metal internazionale. Caliban e Heaven Shall Burn, per chi non li conoscesse, sono due valide entità del panorama death/metalcore tedesco, la cui fondazione risale alla fine degli anni ’90. La casa discografica, forte del successo del primo split, ha deciso di regalare ai loro fan un secondo split, che racchiude undici brani (sei per gli HSB e cinque per i Caliban). Che dire della proposta? Il cd parte con le tracce firmate Heaven Shall Burn, validissimi brani che proseguono là dove 'Antigone' si era fermato: techno death combinato con hardcore di scuola americana alla Hatebreed, riff devastanti lanciati su una possente base ritmica, amplificata da un’ottima produzione (effettuata presso i Rape of Harmonies Studios), un pizzico di melodia, retaggio degli insegnamenti di At The Gates e Dark Tranquillity, e il gioco è fatto. "Nyfaedd Von" è una ripresa dell’intro dell’album precedente, suonata però con violini e pianoforte; "Downfall Of Christ" e "Destroy Fascism", le ultime due songs, sono due cover rispettivamente dei Merauder e dei finlandesi Endstand. Passiamo ora ai Caliban: la band ci propone “The Revenge”, song che potrebbe tranquillamente stare sul loro cd 'The Opposite From Within', caratterizzata come sempre dal mosh cadenzato tipico dell’act tedesco, da velocità e melodia, e infine, dalle stridule vocals di Andy. I brani a seguire sono poi sostanzialmente riedizioni di vecchi brani, riveduti e modificati, ma niente di nuovo all’orizzonte. In conclusione direi buona la prima parte del cd, quello dedicato agli Heaven Shall Burn, con tanto materiale inedito e succoso, mentre scarsa è la performance dei Caliban. Ad ogni modo, lo split è consigliato agli amanti di queste due band e a chi vuole avvicinarsi, curioso di dare un ascolto alla proposta musicale dei nostri. (Francesco Scarci)

lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter

domenica 15 settembre 2019

Vile Nothing - Pessimist

#PER CHI AMA: Crust/Hardcore
Un po' di insano punk-crust-hardcore proveniente dalla Svezia è quanto proposto oggi dai Vile Nothing e dal loro 'Pessimist'. Si tratta di un EP di quattro pezzi che irrompono con la ferocia molestia di "In Disgrace, With Fortune", un brano breve ma incisivo, costituito da chitarre sparate ai 200 km/h e da una batteria al limite del grind, per poi rallentare paurosamente sul finale con una tirata di freno a mano da cappottamento garantito. "Erased" prosegue con un'altra ritmica al fulmicotone su cui s'installano le vocals sbraitanti del frontman; da notare che come sul finire della traccia in apertura, cosi anche in questa seconda song, sono presente i classici bombastici tonfi del deathcore a contaminare ulteriormente la proposta dell'act di Stoccolma che con il proprio sound non fa altro che darci un sacco di schiaffoni. Vi basti ascoltare la ficcante proposta della terza "Dåren Är i Lådan" un pezzo di 67 secondi devoti ad un tremebondo mathcore. Il finale apocalittico è dispensato dalle note furenti di "Abhorrence", l'ultimo straripante ed iconoclasta inseguimento dei Vile Nothing. Paurosi. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 agosto 2019

Atomic Witch - Void Curse

#PER CHI AMA: Hardcore/Math/Death
Dagli States è in arrivo una colata di hardcore schizoide con gli Atomic Witch e il loro EP di debutto, il qui presente 'Void Curse'. Il quintetto di Cleveland ci spara in faccia una manciata di pezzi (quattro per l'esattezza) dal mood alquanto incendiario. Si parte con la sbilenca "Severed Communion", in cui a farla da padrona sono le vocals urlate di Gorg, per poi passare alla più oscura title track, dove accanto a melodie alquanto dissonanti, la voce del frontman di dimena tra uno screaming arcigno e urlacci in stile power metal, in un'assurda cavalcata mathcore, fatta di ritmiche lanciate a tutta velocità su cui si stagliano i vocalizzi del buon Gorg, in un calderone che alla fine sembra inglobare anche thrash, black e death metal. Si continua con "Rude" con la medesima vena assassina, fatta di ritmiche secche e nevrotiche, qualche assolo old style e botte da orbi che ricordano un certo thrash metal di fine anni '80 evocante un che dei Sepultura di 'Schizophrenia'. Si chiude con le furenti mazzate di "Funeral Rust" ed un chorus che sembra avvicinarsi ad una versione più isterica dei primi Testament. 'Void Curse' è un lavoro particolare a cui forse dare una chance. (Francesco Scarci)

domenica 7 luglio 2019

Mercy's Dirge - Live, Raw & Relentless

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Celtic Frost, Possessed
Prosegue l'excursus sulle band rumene da parte della Loud Rage Music. Oggi è la volta del debut dei Mercy's Dirge, 'Live, Raw & Relentless', un album uscito autoprodotto nel 2018 e riproposto dall'etichetta di Cluj-Napoca nell'aprile 2019. In realtà, il disco contiene brani contenuti nell'EP uscito lo scorso anno e nei demo di metà anni '90 della band. Si proprio cosi, visto che il sestetto di Suceava aveva fatto uscire un paio di tapes nel 1993 e nel '95 prima di sciogliersi nel '97 e ritornare poi nel 2015. Il disco potrete pertanto immaginarlo come una sorta di bignami di rozze sonorità black/thrash/death di fine anni '80, un po' come mettere sotto lo stesso tetto Venom, Possessed, Celtic Frost, primi Sepultura, Kreator e Bathory, in un disco che francamente mi sento di consigliare solo ai nostalgici del genere. Undici tracce per quasi un'ora di suoni che definirei retrò proprio per non scrivere vintage e che poco ormai hanno da dirmi, avendo vissuto a quel tempo l'ondata di tutti quei mostri sacri. Se poi, siete giovani e non avete mai avuto tempo di approfondire le band di cui sopra, ma sarebbe un vero sacrilegio, allora provate a dare un ascolto anche al nevrotico sound dei Mercy's Dirge, alle architetture ruspanti (quasi punk-hardcore) di "Devilish Wish", ove accanto al cantato urlato, trova addirittura spazio una voce pulita. Tra gli altri brani, mi ha colpito l'epicità occulta di "In the Name of...", cosi evocativa nel suo cantato arcigno che troneggia su quella ispida ritmica sparata sul finire a tutta velocità. Il disco prosegue su questa scia fino alla conclusiva, seminale ed heavy "Senseless Agony", in una sorta di finestra su vista death/punk dei favolosi anni '80. Insomma, praticamente nulla di innovativo, solo un bel salto indietro nel tempo alla riscoperta di vecchi suoni ormai dimenticati nella notte dei tempi. (Francesco Scarci)

giovedì 4 luglio 2019

Breach - Kollapse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hardcore/Post-Punk
Non ricordo esattamente quando ascoltai 'Kollapse' per la prima volta. Ho iniziato a nutrirmi di post-metal quando mi fu consigliato 'Oceanic' degli Isis nel 2007 e da lì iniziai una caccia a tutto ciò che aveva “post” nell’etichetta, setacciando gruppi dagli elenchi di Wikipedia (sì, sono triste, lo so) o pescando album dai blog e credo di essere inciampato nei Breach così, mentre cercavo roba dei loro “vicini di casa” Cult Of Luna. 'Kollapse' era uscito nel 2001, sempre quell’anno i ragazzi di Luleå avevano capito che oltre era impossibile andare e si erano sciolti. Fu amore al primo ascolto e nel giro di poco tempo mi procurai 'Venom' (2000, altro disco allucinante), mentre solo più tardi avrei apprezzato a ritroso 'It’s Me God' (1997) e 'Friction' (1995). C’è qualcosa di malsano nel furibondo hardcore altamente contaminato dei Breach, un’energia selvaggia e ingovernabile che pochi altri gruppi riescono a trasmettere in modo così tangibile (vedi i Botch, band dal percorso simile): è come un’unione instabile tra forze contrapposte e, benché la loro uscita di scena sia definitiva (reunion lampo nel 2007 conclusa con la distruzione della strumentazione), non stupisce che ancora oggi siano una delle formazioni più influenti per gli amanti della scena post-hardcore e metal. 'Kollapse' è il canto di un cigno malato e incazzato nero per esserlo, un cigno che probabilmente sa di essere prossimo alla dipartita. È quella sottile malinconia che affiora qua e là tra le macerie a rendere questo album unico, straziante a livelli quasi insopportabili e profondamente introspettivo, malgrado quei chitarroni pesanti, le rullate tribali di batteria e quel basso che sembra voler fare tutto a pezzi. Anche la copertina minimal grigia, con l’aereo appena stilizzato e cristallizzato nell’attimo prima dello schianto, trasmette una sensazione di catastrofe imminente ed inevitabile: è facile leggervi tristi presagi relativamente al futuro della nostra società. Basta la traccia di apertura “Big Strong Boss” per farci venire la pelle d’oca: i Breach partono piano, quasi in sordina, lasciando spiazzati chi li aveva lasciati ad evocare demoni in 'Venom'; poi a piccole dosi iniziano a rilasciare gocce sempre più pesanti di disagio e le distorsioni acide a poco a poco, riempiono i precari paesaggi da sogno dell’intro deformandoli in un crescendo di mostruosità da cui non è possibile fuggire. Lo sviluppo dell’album è capriccioso e bipolare: pezzi come “Old Ass Player” e “Alarma” ci riconducono nel pieno delirio dei dischi precedenti e i Breach vi scatenano tutta la loro furia hardcore, o meglio, quel loro particolare hardcore bastardo e contaminato da sludge e da scorie di noise e di rabbia, mentre apprezziamo alla voce un Tomas Hallbom indemoniato più che mai nell’urlare contro un cielo buio e temporalesco. Gli inquieti intermezzi post-rock come “Sphincter Ani”, “Teeth Out” e “Seven”, pur nella loro calma apparente, rappresentano i momenti più disturbanti dell’album, onirici nelle loro atmosfere crepuscolari (in particolare "Teeth Out", in cui fanno capolino persino le delicate note di un glockenspiel), ma rese angoscianti dai nervosi fraseggi di chitarra e pronte a tramutarsi in incubi quando basso e percussioni iniziano ad aumentare di intensità. “Lost Crew” scompagina tutte le carte in tavola: furia punk rock, isteria post-punk e pesantezza metal, influenze mescolate tutte insieme in un cocktail omicida e sparate su un ritmo quasi danzereccio e su cui l’headbanging è obbligatorio. È probabilmente l’apice di un album che si mantiene costantemente su livelli altissimi, soffocandoci nel feroce hardcore di “Breathing Dust”, travolgendoci con la velocissima “Murder Kings And Killer Queens” e facendoci definitivamente impazzire insieme a Tomas, nelle allucinazioni sonore di “Mr. Marshall” (da chi avranno preso spunto i Daughters?). L’album si conclude con la lunga title-track, un pezzo strumentale che per certi versi richiama le sonorità di "Teeth Out", ma che si evolve tra cupi intrecci strumentali e fugaci bagliori di un tramonto lontano, lasciando un tangibile senso di perdita: i Breach si stavano infatti avviando verso l’addio, chiudendo e coronando la loro carriera con questo quadro dai colori stridenti, perfetta espressione di disagio esistenziale e desiderio di ribellione, pessimismo e speranza, emozioni contrastanti sperimentate tutte insieme. (Shadowsofthesun)

(Burning Heart Records - 2001)
Voto: 95

https://www.facebook.com/breachofficial/

giovedì 13 giugno 2019

Membrane/Sofy Major - Split Lp

#PER CHI AMA: Noise/Hardcore, Unsane, Melvins
Membrane e Sofy Major hanno da poco rilasciato gli ultimi capitoli della rispettiva discografia, il ruggente 'Burn Your Bridge' per il terzetto post-hardcore di Vesoul, e il graffiante 'Total Dump' per il gruppo di Clermont-Ferrand (che probabilmente qualcuno avrà potuto apprezzare live insieme agli Unsane al Solo Macello del 2016). Scopriamo che nel 2011 (riproposto nel 2017 dall'Atypeek Music) le due band transalpine, allora scarsamente conosciute dalle nostre parti, avevano unito gli sforzi registrando uno split fatto di distorsioni ipertrofiche e riff abrasivi. Aprono le danze i Membrane con “Gruesome Tall”, “Small Fires” e “Lifeless Down on the Floor”, pezzi ombrosi e che trasudano rabbia, perfetta sintesi delle coordinate della band: un post-hardcore molto pesante e metallico che richiama Breach e Today Is The Day, lanciato come un treno fuori controllo sui binari tracciati dalla batteria martellante e alimentato dallo sferragliare del basso. Ci pensano poi i cupi accordi di Nico e il cantato sofferente a raschiare ogni residua resistenza di fronte al cataclisma che i Membrane scatenano su di noi. La proposta dei Sofy Major è meno viscerale e più cafona (in senso buono), punta su suoni grossi e sulle distorsioni slabbrate create da quei Big Muff di cui non negano la dipendenza e l’abuso: “Ruin It All”, “Doomsayer and Friends”, “Some More Pills” e “Once was a Warrior” sono dei pugni in faccia a cavallo tra il pesante noise degli Unsane e lo stoner pachidermico dei Melvins, brani in cui la band dimostra tutto il suo potenziale sonoro distruttivo. Entrambe riconducibili al filone noise-core, Membrane e Sofy Major ci offrono due approcci differenti, con i primi maggiormente incattiviti e attenti a costruire atmosfere che coinvolgano l’ascoltatore nel loro abisso di angoscia, i secondi irriverenti e rumoristici servi di una qualche divinità del caos. Dal 2011 a oggi entrambi hanno affinato le proprie lame consegnandoci uscite memorabili, ma dando un ascolto a questo split c’è da dire che le premesse erano buone già all’epoca. (Shadowsofthesun)

mercoledì 12 giugno 2019

The Vasto - In Darkness

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
A partire dal nome, i The Vasto non le mandano di certo a dire, la furia distruttiva ed il gusto per la rabbia più pura e feroce sono infatti le caratteristiche principali del loro punk-core viscerale e questo 'In Darkness' segna il punto di definizione della loro identità artistica. Interessante la commistione tra assalti al vetriolo e momenti più calmi come l’inizio di "Fractures", come le onde del mare che prima di infrangersi sugli scogli formano una risacca che porta il fondale alla luce del sole. Non si pensi a qualcosa di post oppure troppo emozionale, la rabbia e l’intensità impregnano pesantemente ogni nota, ogni intro, ogni passaggio. Sì, la risacca funziona come metafora ma solo per mostrare un fondale marcio, pieno di plastica e detriti della civiltà umana, non c’è niente di idilliaco o di poetico, solo un rigurgito di nausea verso tutto e tutti, che non si ferma davanti a nulla. "Fractures" è forse il mio pezzo preferito del disco grazia alla varietà di ritmiche usate e alla sua potenza espressiva, si passa dalla classica ferocia punk ad una coda a ritmo dimezzato propria di generi distanti dalla radice core della band, a riprova del fatto che i The Vasto non sono solo rabbia cieca ma lucida creatività e consapevolezza artistica. "Constellation" con i suoi riff granitici e gli arpeggi dissonanti potrebbe sembrare a tratti una canzone dei Cult Of Luna o dei Deathspell Omega, senza mai perdere di vista il quel tocco personale che i The Vasto sanno conferire ad ogni loro brano. Chiude il disco un’adrenalinica "Crocodile Tears" dove la radice punk si fa ancor più evidente sempre accompagnata da ruggenti stacchi di distorsioni fino al rallentamento e alla conclusione finale di 'In Darkness'. Sicuramente un disco che soddisferà il palato degli appassionati del genere ma che sarà in grado di dare spunti originali ed inaspettati a chiunque lo ascolti. Se cercate qualcosa di arrabbiato e ruvido, ma che al contempo sia in grado di spaziare dal proprio genere di provenienza, qualcosa di personale insomma, di squisitamente unico e compiuto nella sua concezione, allora mi sento di consigliarvi vivamente questo ultimo disco dei The Vasto, sono sicuro non ne resterete delusi.(Matteo Baldi)

(Overdub Recordings - 2018)
Voto: 78

https://thevasto.bandcamp.com/

giovedì 11 aprile 2019

Antre - Void

#PER CHI AMA: Black/Hardcore
Da Nottingham, il nuovo furore che avanza. In periodi di Brexit, speriamo che gli Antre possano abbattere quelle barriere che incredibilmente il Regno Unito ha deciso di alzare, quasi un salto indietro nei secoli bui della nostra storia, ma andiamo oltre queste beghe politiche e focalizziamoci sulla musica del quintetto britannico. 'Void' è il primo full length per i nostri, dopo un EP uscito nel 2017 ed uno split album lo scorso anno. Lp include nove tracce di focoso black che inizia a darci calci sugli stinchi a partire già dall'opener "Suffer the Light", una song che evidenzia il carattere irrequieto di una band formatasi solo nel 2017. La proposta, non troppo pulita da un punto di vista produttivo, mette in mostra la sua efferatezza con un riffing tipicamente post black, su cui si installerà lo screaming caustico di Patrick MacDonald. Poi è il turno di "Fear the Old Blood" una traccia dal carattere ancora più inquieto anche se inizialmente si palesa più rallentato; poi il nefasto riffing che puzza ancora di hardcore, probabile retaggio dell'ensemble, inizia a pigiare ancor di più sull'acceleratore e son dolori, anche se qui la voce di Patrick passa dallo screaming ad un urlato polemico, mentre il sound si muove a cavallo tra punk, black, hardcore, grind, doom e death in un impetuoso ed entropico sound, che si prende una pausa nell'acustica di "Denisovan", un breve intermezzo strumentale. Poi tocca ad "Into Oblivion" riprendere il filo del discorso qui interrotto ed ecco nuovamente una colata di suoni funambolici e discordanti, come se i Deathspell Omega jammassero con Defheaven e Napalm Death, mentre il vocalist passa con grande disinvoltura da urla bestiali ad altre un po' più teatrali, che sembrano richiamare gli A Forest of Stars. Più old school invece "Tyrant", una classica song black di poco meno di tre minuti. "Guided by Nightmares" esplode ancor più tonante nella sua isterica rincorsa black/death, rallentata solamente nella seconda parte, decisamente più compassata. Un altro break acustico, "The Frozen Deep", ed è tempo della veemeza esacerbante di "Infinite Abyss", dove nei suoi suoni sembra convogliare uno psicotico death sound che evoca gli Aevangelist in un gorgo ritmico (o forse meglio in un buco nero) da cui è impossibile far ritorno. Alquanto inatteso invece il finale affidato a "Beyond these Skies", inatteso perchè l'inizio si presenta assai morbido, in una strategia disorientativa per subire ancor di più l'attacco che da li a pochi secondi ci calerà sulla testa, in un finale che sembra omaggiare questa volta i conterranei Akercocke in un ammorbante assalto pestilenziale che segna il risucchio totale nel maelstrom creato dagli Antre dal quale sarà impossibile uscire. (Francesco Scarci)

(Withered Hand Records - 2019)
Voto: 70

https://antre.bandcamp.com/album/void