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lunedì 9 marzo 2015

Stömb - The Grey

#PER CHI AMA: Djent/Progressive, Tesseract, Uneven Structure
Il djent è uscito dai miei radar da un po'. Il fenomeno che è salito alla ribalta grazie a gente del calibro di Tesseract, Uneven Structure e Vildjartha (senza ovviamente trascurare i precursori, Meshuggah), mi sembra che si sia un po' perso per strada. Per fortuna arrivano i francesi Stömb a rivitalizzare le sorti di una decadenza annunciata, con un disco strumentale che certamente renderà felici gli amanti del genere, incluso il sottoscritto, che qualche anno fa, veniva ribattezzato dagli amici, come "Principe del Djent". La band di oggi è un quartetto di Parigi che, rilasciando 'The Grey', riprende in mano quanto fatto dalle band sopracitate (a cui aggiungerei Periphery e Ganesh Rao), con classe e passione. Lo dimostra la opening track, "The Complex", quasi nove minuti di sonorità in cui si fondono progressive, ambient e appunto djent. Forti di una produzione a dir poco cristallina, i nostri infondono nel loro flusso sonico il gusto primigenio dei Tesseract (e questo vale già molto, peccato solo manchi un vocalist con le palle) con la notevole perizia tecnica dei Periphery (mostruose le linee di basso che s'intersecano con un drumming fantasioso, senza tralasciare i giochi "di grigio" che le due asce vanno sciorinando). "Rise for Nothing" è un pezzo da brividi a cui sarebbe bastato anche solo un tiepido vocalizzo per raggiungere la perfezione. La lezione di Meshuggah (e anche Cynic) viene assimilata dai quattro francesini e riproposta con grande personalità e carisma, alternando sfuriate elettriche con ambientazioni in penombra. "Veins of Asphalt" ripropone un'altra lunga traccia dall'apertura quasi drone/noise: un momento che i nostri scaldano i motori e i riffoni di chitarra risuonano nel mio stereo come il rombo del motore di quattro Ferrari all'unisono. Wow, i nostri hanno classe da vendere e lo dimostra il fatto che nonostante le dieci canzoni contenute in 'The Grey" abbiano delle durate medio-lunghe, non stanchino realmente mai. Merito dei sapienti cambi di tempo, delle splendide melodie, dei caleidoscopici salti mortali che i nostri propinano, dell'utilizzo più o meno marcato dell'elettronica (perforante a tal proposito, il suono del synth in "Corrosion Juncture"), della tribalità inferta alle ritmiche dal mostruoso batterista, dalla fantasia, dalla veemenza e dall'assoluta padronanza strumentale dei quattro interpreti parigini che cuociono in ogni brano l'attento ascoltatore, che si ingolosisce sempre di più. Gli Stömb danno dipendenza e quando termini un pezzo ne vuoi immediatamente un altro per capire cosa avranno in serbo i quattro nel successivo. "The Crossing" è solo un interludio che ci prepara a "Under the Grey", song dalla ritmica psicotica e malata, asfissiante ma melodica, che mostra un break centrale con un parlato inquietante. "Terminal City" mi ubriaca immediatamente per quel suo giocare a ping pong con le chitarre tra una cassa e l'altra, mentre il mood della traccia è quello di continua emergenza, anche se nella seconda parte, il pezzo diviene più intimista nel sound. Questo ci salva dalla monotonia che altrimenti un disco lungo e complesso come questo, potrebbe produrre. "The New Coming" è una traccia che colpisce per le splendide linee di chitarra che assolvono quasi al ruolo di cantante e contribuiscono a dare maggiore dinamicità al disco. "Genome Decline" evidenzia quanto la band si senta a proprio agio nel trattare pattern strumentali di difficoltà medio-elevata, mostrando una enorme capacità nel districarsi in fraseggi selvaggi quanto "gentili", in una traccia dal forte temperamento e dall'approccio al limite del cinematico. "Only an Echo" rappresenta la chiusura ideale per un disco quasi perfetto, a cui manca solo la parola... (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

lunedì 2 febbraio 2015

Beyond the Dust - Khepri

#PER CHI AMA: Prog/Metalcore, Mathcore, Periphery, Tesseract, Dream Theater
Capiamoci subito: essere originali in questo genere è davvero dura. Se urli su lenti poliritmi ossessivi ricordi i Meshuggah; se fai pezzi iperveloci sembri i The Dillinger Escape Plan; se ci metti la melodia fai il verso ai Periphery o ai Dream Theater dei tempi migliori; se aggiungi un po’ di atmosfere sintetiche ecco i Tesseract. In mezzo a questi ipotetici estremi, trovano il loro habitat naturale i Beyond the Dust, quattro parigini al primo full lenght dopo un EP datato 2011. Chiamarlo habitat naturale forse è riduttivo: i Beyond the Dust, in questo crogiolo di tecnica e songwriting estremo, ci sguazzano proprio. C’è proprio tutto quello che serve: ci sono i riff granitici con leggero tono orientaleggiante su tempi tagliati e sincopati (“After the Light” o la splendida “Zero”); ci sono le inquietanti intro di voci campionate, effetti e batteria elettronica (“Rise”); c’è un’attenzione maniacale alla melodia, anche e soprattutto dove non te l’aspetti (“Clarity”: sei minuti e mezzo di puro capolavoro, sempre in tensione tra melodia catchy e riffing spietato, con aperture improvvise e cavalcate brutali, interamente giocata su intelligentissimi fraseggi di chitarre a diverse ottava di distanza). 'Khepri' si chiude con una lunga suite divisa in tre parti (in realtà, sembrano più tre canzoni diverse con il solo titolo in comune): “The Edge of Earth and Sea”, delle durata totale di oltre 20 minuti, che rappresenta la summa totale della visione dei Beyond the Dust. Ci sono arpeggi acustici che ricordano Dream Theater e Opeth, potenti cavalcate metalcore, abbondanti tastiere, assoli stile Petrucci e poliritmi in palm-mute stile Meshuggah. La voce, in piena tradizione metalcore, alterna scream e cantato – non potentissimo, ammettiamolo, ma sempre intonato e raramente banale – permettendo un’ampia varietà all’interno del lavoro. Il songwriting non è certo estremo come altri grandi del genere: c’è parecchio 4/4, intendiamoci. Poliritmi, cambi di tempo e terzine sono spesso nascosti dentro passaggi inaspettati o brevi interludi strumentali (sentite “Silence and Sorrow”, con le sue strofe solo apparentemente regolari e i bridge destabilizzanti): ma stanno bene così, sono dosati con perizia e rendono l’ascolto dell’intero disco un piacere per le orecchie più che una sfida per il cervello. Uno dei lavori migliori dell’ultimo anno. (Stefano Torregrossa)

(Dooweet Records - 2014)
Voto: 85

giovedì 25 settembre 2014

Seasons - Patriarch

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent/Metalcore, Opeth, Tesseract 
Il Pozzo lo seguono anche dalla Nuova Zelanda. Ecco quindi arrivarmi da Auckland il notevole cd dei Seasons, quartetto che si muove sulle coordinate stilistiche del djent/metalcore progressivo. Non vorrei però che queste mie etichette avessero una qualche valenza limitante per l'egregio lavoro fatto dai nostri. 'Patriarch' è un album di nove pezzi che dura la bellezza di 60 minuti. Un'ora che scorre via veloce come il vento, nonostante un genere come questo necessiti solo di una trentina di minuti per esplicare il suo effetto. 'Patriarch' no, richiede più tempo per essere assimilato, percepito, letto e gustato. Un po' come quando sorseggiate un ottimo rum invecchiato o un whiskey, 'Patriarch' lascia il suo forte retrogusto. L'intro ci inebria immediatamente con quel suo piacevole fare melodico ma deciso. Quando attacca "Eutopia" ho il timore che la song possa annoiarmi nel suo evolvere burrascoso. Nulla di più sbagliato: il brano esordisce con fare gagliardo e violento per poi imboccare una strada oscura, quasi drammatica, che prende le distanze da quel metalcore paventato all'inizio della recensione. Ci riprovano i nostri a spararci in faccia il loro armamentario metallico con "Nimbus"; all'inizio della traccia la band sembra anche riuscirci, ma poi ecco nuovamente che i nostri si avviano alla loro personale reinterpretazione del genere, cambiando mille volte il tempo, offuscando addirittura la mia mente con passaggi più plumbei, al limite del doom. I riffoni, quelli seri del djent, mica da femminucce, rombano pesanti in "Sunshine", con il bravo vocalist che ringhia a denti stretti il suo growling scorbutico e acido. La song, un po' come tutte, miscela furia metallica con una discreta dose di melodia, facendosi notare per l'elevato quantitativo di groove che si cela nei pezzi, che trovano addirittura il tempo di piccole divagazioni industrial e sfoggiano qualche tastierina stile primi Tesseract. Fenomenali. Per impatto e per perizia tecnica. Un po' meno per originalità, ma poco importa. Con "Odysseus" ci addentriamo ancor maggiormente nel sound intimista dei Seasons: un death metal illuminato, a tratti sperimentale, che saprà accendere l'anima inquieta che è celata dentro di voi. Non solo: estesi sprazzi post metal in un break di "tooliana" memoria che lascia vagare ampiamente la mente e inebria non poco i miei sensi. "Atlantis Rising" è un pezzo strumentale che ammicca ancora ai Tesseract più potenti e fantasiosi, con quelle belle chitarre polifoniche come i mostruosi Meshuggah insegnano ai propri adepti da più di vent'anni. Se avete per un attimo avuto il timore che i nostri avessero calato il tiro, niente paura, ci pensa la devastante "Lotus" a ripristinare il tutto con la sua verve, la pesantezza delle sue chitarre e l'eclettismo sonoro del suo drummer. L'eco dei maestri svedesi è forte più che mai, ma non stiamo certamente parlando di plagio, bensì di una rivisitazione alquanto interessante, che propone nuove soluzioni al tema, grazie all'inserto mai massivo di tastiere. Dopo 48 minuti di botte, sento che posso andare avanti e sfidare il limite dell'ora, dove molte volte la tensione tende a calare. I nostri non cadono nel tranello e anzi trovano il modo con "Flourish", prima di sfondarci il cranio con un ritmo infernale e poi di darci lo zuccherino con i passaggi più mansueti del cd, dove appaiono anche clean vocals e chorus ruffiani davvero azzeccati. Il suono del mare di "Marine Snow" ci accarezza per i cinque minuti finali di questo ottimo lavoro che mette in luce l'ottima prova canora del frontman in chiave pulita, un po' a rendere omaggio a Mikael Åkerfeldt degli Opeth, anche per quello che è l'aspetto musicale. Che altro dire di un album che ho incensato in lungo e largo, se non auspicare un vostro ascolto accurato. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

domenica 10 agosto 2014

Icosa - The Skies Are Ours

#PER CHI AMA: Djent Progressive, Tesseract, Meshuggah, Tool
Se due su tre membri della band hanno chitarre a 7 e 8 corde, voi a che genere pensate? Facile no, al djent. Ecco quindi già vagamente (ed erroneamente) circoscritto l'ambito in cui si muovono i notevoli Icosa, ensemble proveniente da Londra. Amanti di Meshuggah e dei primi Tesseract fatevi avanti, avrete di che ingozzarvi con le cervellotiche linee di chitarra del duo formato da Tom Tattersall e Stacey Douglas, con il primo anche vocalist e con Jack Ashley a completare l'esplosivo terzetto, dietro una farneticante batteria. "Ermangulatr" si presenta timida, ma a poco a poco cresce, fino a che non salgono in cattedra i chitarroni ultra tecnici delle due asce e le vocals urlate del bravo Tom. La song innalza splendidi muri di suoni arzigogolati ma sempre assai melodici che si alternano a paurosi stop'n go e a belle sfuriate death, senza tralasciare ipnotiche ambientazioni e fughe math, in una sorta di connubio tra i Tesseract più incazzati e i più meditativi Between the Buried and Me, il tutto improvvisato come nella migliore jam session. I territori esplorati con la successiva title track - part 1 - ci conducono in mondi ancor più bizzarri, in cui forse risiedono i The Mars Volta, il folletto Devin Townsend ma anche qualche deathster incallito. La voce di Tom si dirige verso toni più malati, mentre le ritmiche degli Icosa si spingono verso un suono ancor più stravagante, dotato di ritmiche sghembe dall'effetto asfissiante, che si muovono impazzite dalla cuffia destra a quella sinistra e viceversa. La psicosi degli Icosa mi entra nel cervello e con la title track - part 2 - i nostri non fanno altro che darmi il colpo di grazia con uno schizoide sound baritonale, che partendo dai più classici Meshuggah e Tool, trova modo di sfogarsi in divagazioni rock settantiane (King Crimson), merito anche del vocalist che va in cerca di vocalizzi meno estremi e più "cantabili". Con "Trepidation" gli Icosa chiudono egregiamente il loro EP, 'The Skies Are Ours', divertendosi con sonorità inizialmente mid-tempo, ma che cedono ben presto il passo ad un sound evoluto, iperbolico e totalmente imprevedibile, che ha modo di palesare a 360° tutti i pregi dell'act londinese, dall'eccezionale tecnica e padronanza strumentale, al favoloso gusto per le melodie e alla grande capacità di coniugare insieme queste incredibili doti. Per il momento, la mia votazione si limita a un 80, ma per il semplice motivo che ho potuto godere solamente di 22 minuti di musica; inoltre, meglio partire sempre dal basso se si vogliono raggiungere vette stellari. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 80 

domenica 20 luglio 2014

Torrential Downpour - Truth Knowledge Vision

#PER CHI AMA: Math Progressive, Dillinger Escape Plan, Between the Buried and Me
Prima delle mie ferie di agosto e dei suoi consueti Back in Time, meglio darsi da fare per segnalarvi le ultime proposte bollenti di quest'estate un po' timida a venire. Oggi è il turno degli statunitensi Torrential Downpour, quartetto sperimentale che ci offre undici caleidoscopiche tracce che sapranno catturare la vostra attenzione. 'Truth Knowledge Vision' è un album che inganna all'ascolto del suo primo brano, perché sembrerebbe di essere proiettati in una galassia vicina a quella di Devin Townsend. Errato. Quando "TKV", la seconda traccia entra in loop nel vostro cd, vi renderete subito conto che il New Jersey, stato di nascita di questi mattacchioni, dista anni luce dal mondo fatato del folletto canadese (anche se qualche rimando lo si ritroverà nel corso dell'ascolto). I Torrential Downpour ci investono con un sound spaziale, visionario e psicotico, in cui miscelano il math dei Dillinger Escape Plan con il progressive dei Between the Buried and Me, la genialità dei Follow the White Rabbit e la violenza del death, infarcendo il tutto anche con un approccio a la Meshuggah e una stralunata effettistica noisy. Tutto chiaro quindi? Inoltrarsi nel mondo di questi alieni sarà un'esperienza davvero unica: l'arrogante "Satan, Whatever...", la lunga, atmosferica e schizofrenica "Hyperion", la caotica "Basilisk" o la cervellotica e malinconica "The Offering" (la mia song preferita), vi sorprenderanno per tutto il loro armamentario di trovate che consente ai nostri di differenziare la propria proposta dalle altre band di cui sopra. Chitarre ribassate, percussioni tribali, clean vocals che si dipanano tra l'acido e l'isterico, ambientazioni horror, per un album che vanta anche un eccezionale mixering e mastering a cura di Kevin Antreassian (Dillinger Escape Plan) ai Backroom Studio. Torrential Downpour il nuovo nome da segnarvi sulla vostra agenda in quest'estate diventata improvvisamente torrida... (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

sabato 12 luglio 2014

Silence the Sky - Ancient

#PER CHI AMA: Hardcore, Metalcore, Djent 
Un po' di sano, crudo e ammiccante hardcore era da parecchio che non mi capitava tra le mani. Eccomi accontentato dai norvegesi Silence the Sky che con il loro 'Ancient' rompono gli schemi che vedono arrivare dalla Norvegia album prettamente black o death, proponendoci invece sonorità più alternative. Ci troviamo infatti di fronte a 15 tracce (forse troppe) che, partendo da una base estrema, vengono contaminate dal djent, dal metalcore e appunto dall'hardcore, senza tralasciare l'ambient e un pizzico di doom. A partire da "Atomos", non ci resta che farci investire dai riffoni quasi deathcore del quintetto nordico che ci scaraventa addosso una grandinata di riff distorti e ubriacanti che poco spazio concedono alle melodie, se non in quanto mai inattesi break centrali, in cui i vocalist si alternano tra l'acido/vetriolo all'emo, mentre le atmosfere piombano nella catarsi malinconica di riff melancolici. Tutto chiaro no? Va bene, provo a farmi capire meglio. "Ascendancy" è un pezzo di tre minuti e mezzo che attacca ringhiando sia a livello ritmico che vocale, con uno spazio risicatissimo concesso alla melodia; al minuto 1:30 ecco comparire le clean vocals di Magnus Granholt e le chitarre disegnano nell'etere splendide melodie. Si tratta di pochi attimi però perché i nostri tornano a ruggire, sebbene il flusso sonico si mantenga più vivace e ascoltabile. "Venomous" prosegue con il canovaccio già visto di furia-break-malinconia ma alla fine devo ammettere che il risultato che ne viene fuori non è affatto male. "Angel Rust" presenta una struttura invertita a quanto fin qui detto: l'inizio è malinconico e le ritmiche tendono piano piano ad ingrossarsi fino ad un break centrale che oserei dire al limite del doom, per poi proseguire tra schiamazzi nevrotici e delicati passaggi ambient. Il disco procede in questo modo mostrando il più delle volte i suoi muscoli senza dimenticare anche il suo lato più melodico e oscuro come proposto nella spettrale e piovosa parte centrale di "There is a Storm Coming" che aiuta certamente a non banalizzare i contenuti di 'Ancient'. Suoni cibernetici aprono "Nebula", la song più dinamica e che più si allontana dal resto del lotto. Qualche schitarrata potente e decido di soffermarmi su "The Dismemberment of Tellus", song intensa e dal forte, fortissimo impatto autunnale, complice l'egregio lavoro alle chitarre e alle brillanti vocals, con un duetto screamo/clean da brividi. Ultima citazione per la roboante "Jenova" in cui sembrano sovrapporsi 2 o 3 granitiche chitarre e l'ipnotica "Ion". 'Ancient' è pertanto servito, non vi serve sapere altro per far vostro questo concentrato pazzesco di musica carica di groove e melodie ruffiane. E bravi i Silence the Sky che testimoniano che oltre il black/death, in Norvegia c'è vita... (Francesco Scarci)

(Negative Vibe Records - 2014) 
Voto: 75 

domenica 18 maggio 2014

A Sense of Gravity - Travail

#PER CHI AMA: Death Progressive, Cynic, Meshuggah, Opeth
L'underground pullula sempre più di band fenomenali che riescono a malapena a farsi notare anche in circuiti underground come bandcamp o reverbnation. Non pare essere il caso dei A Sense of Gravity, cervellotica band statunitense, che dopo aver studiato a memoria la lezione di act quali Meshuggah, Cynic e ultimi Opeth, ha riadattato il tutto con personalità, proponendo un sound raffinato dall'inebriante gusto melodico. Ecco nascere 'Travail', meraviglioso debut (già sold out) di questo ensemble di Seattle, di cui sentiremo parlare in futuro, ne sono certo. Dieci tracce che decollano immediatamente con il corale inizio di "Wraith" e i suoi suggestivi arpeggi da cui irromperà il bombastico sound delle tre acrobatiche chitarre di David McDaniel, Brendon Williams e Brandon Morris (anche favoloso tastierista), che tracciano matematici riffs (se pensate anche ai Between the Buried and Me siete sulla strada giusta), irrobustiti dalla performance impeccabile alle pelli di Peter Breene. A completare il quadro, vorrei citare Chance Unterseher al basso e l'eclettico vocalist, C.J. Jenkins. Tracciato l'identikit del combo americano, potrei dilungarmi nel celebrare le qualità tecnico compositive dei nostri, ma mi limiterò solo a darvi qualche dritta e a farvi venire un po' di acquolina in bocca per spingervi a rimediare una copia di questa release, che sia in formato fisico o digitale, come preferite. La prima traccia sintetizza in maniera perfetta il sound delle tre band sopra citate, anche se sarebbe riduttivo limitare le influenze dei A Sense of Gravity a quelle sole. La seconda "Stormborn" si mette in luce per le ottime vocals (scream, growl, power e clean) ma anche per una tempesta ritmica, caratterizzata da gustose melodie su cui si impiantano deliranti riffs e blast beat da urlo; come non citare anche l'intermezzo pianistico e quel fantastico assolo prog conclusivo? Difficile trovare qualcosa che non funzioni in questo lavoro, grazie all'intensità delle sue tracce che potranno piacere agli amanti della musica metal a 360°: linee polifoniche prog suonano seguendo i dettami di scuola Meshuggah, andando addirittura oltre i gods svedesi. Divagazioni progressive, fraseggi jazz, i suoni djent, la perizia del techno death, l'aggressività dello speed, e la storia dell'heavy classico si amalgamano in modo assolutamente perfetto nel flusso dirompente di 'Travail', sfoderando una dopo l'altra, delle piccole perle musicali. Vibrante la malinconica e strumentale "Trichotillomania", vero esercizio di tecnica sopraffina, in cui Dream Theater e Gordian Knot si incontrano per una jam session da panico. "Harbringer" è una bella cavalcata death metal di cui vorrei citare la sezione solistica; mostruosa poi la psichedelica "Ration Reality" (il mio pezzo preferito) che si muove tra sonorità meshugghiane e di matrice Cynic, con le vocals ottime tra il dimenarsi tra forme estreme e altre più heavy oriented. Ultima citazione per "Weaving Memories", dark song di grande spessore ed eleganza, che palesa un'eccellente componente vocale e le sue chitarre sciorinano riffs che potrebbero ritrovarsi in grandi album di un passato glorioso. Che altro dire per convincervi della proposta dei A Sense of Gravity, non indugiate ulteriormente e procuratevi 'Travail'. (Francesco Scarci)

martedì 13 maggio 2014

Fake the Face - Everything Happens for a Reason

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore
Oggi cambiamo genere e ci dedichiamo al metalcore/alternative/djent con una band di Macerata, i Fake the Face (FTF). Il gruppo si è formato nel 2009 e questo è il loro debut album, quindi temo già per il prossimo! La completezza del prodotto lascia di stucco: registrazione impeccabile, artwork idem e composizione musicale sopra la media. Devo dire che questi anni di lavoro sono probabilmente serviti ai FTF per affilare le lame e mettere in cantiere del buon materiale per un debutto in grande stile. Tre chitarre che lavorano come una divisione di artiglieria pesante in modo affiatato a creare un muro sonoro veloce e in continua metamorfosi si rivelano una scelta rischiosa, soprattutto se a farne le spese è l'utilizzo delle tastiere (che comunque compaiono a tratti in "Everything Happens for a Reason") che avrebbero aiutato ad aumentare le atmosfere e l'impatto sonoro. "Behind the Glass" è una traccia potente, ricca di arrangiamenti belli pesanti, con un'ottima sezione ritmica di basso/batteria che contribuisce all'eccellente riuscita della canzone.Verso la fine il brano si addolcisce, lasciando intuire la vena melodica della band che cerca di conciliarsi con il suo lato più oscuro, dimostrando la voglia dei nostri di uscire dagli schemi. Passiamo a "Callista" che, sulla scia delle tracce precedenti, introduce una linea di canto pulita ed una screamo, combinando così il nuovo con il classico. Ottimi i riff di chitarra, che si sposano bene anche con una spolverata di elettronica che non guasta mai. "Synthetic Breath" è una traccia totalmente electro, ma che personalmente avrei reso più incisiva, sfruttando maggiormente suoni e arrangiamenti, in modo da non relegarla ad un semplice brano di passaggio tra il precedente e il successivo. Quello dei FTF è un genere che non prediligo, ma è indubbio che siamo di fronte ad un gruppo che merita la vostra attenzione e che mi auspico venga notato presto da una buona label. "Everything Happens for a Reason" è un ottimo Lp frutto di ottimo musicisti con parecchio entusiasmo. Ben fatto raga! Ci sentiamo quando uscirà il prossimo album, con l'augurio che a supporto ci sia un bella etichetta. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/FTF.it

domenica 27 aprile 2014

Desolace - Hopebringer

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent/Techno Death
Fin dalle prime note di questo 'Hopebringer', vengo scombussolato da una vastità non indifferente di suoni: è "Fear Me" a convogliarmi splendide orchestrazioni (sembrano addirittura i Dimmu Borgir) che si intrecciano con riffs di matrice deathcore intrisi di tecnicismi techno death, un cantato metalcore, break ambient e arrangiamenti da favola, il tutto poi avvolto da quel mood tipico del djent. "Cloudhunter", la seconda traccia, oltra ad offrire un sound pieno, pesante e cristallino, invoglia ad alzare notevolmente il volume, facendo scorrere quei riff ipnotici, elucubranti e deliranti tra i solchi del nostro cervello, mandandoci in crash neuronale. Se ascoltate la musica dei Desolace con le cuffie poi, preparatevi ad andare in grossa confusione (una sorta di hangover), in quanto la moltitudine di suoni arriverà un po' da tutte le parti, riempiendo quasi immediatamente la capacità di apprendimento della vostra mente. Splendido l'attacco di "Inner Circle", fatto di pazzeschi giri di roboanti chitarra, eccellenti arrangiamenti, sovrapposizioni vocali e godibili melodie. Un rabbioso grido apre "Chances", tipica song deathcore, che vanta delle linee di chitarra minacciose su cui ben presto si staglierà una componente solistica tagliente; un brevissimo break e poi un riffing poliritmico dall'effetto ubriacante satureranno le vostre orecchie. Ottime le growling vocals di Kriss Jacobs, mostruosa la performance alla batteria di Danny Joe P. Hofmann, da applausi la triade formata da Marco Bayati, Michel Krause e Maurice Lucas, rispettivamente i due chitarristi e il bassista del combo germanico, che con il loro modo di suonare, rendono ancor più piacevole il mio ascolto. La title track irrompe nel mio impianto hi-fi con il granitico drumming di Danny, sorretto egregiamente dal duo di asce (che quasi impercettibilmente, sembrano rifarsi anche ad uno swedish death) e dalle vocals al vetriolo di Kriss, che ogni tanto si concede anche la possibilità di un cantato pulito, simil disperato. La seconda metà dell'EP ripropone le 5 song in versione completamente strumentale: esperimento interessante in quanto consente di apprezzare ulteriormente il lavoro di questi abili musicisti di Karlsruhe, godendo di suoni, di per sé assai articolati, in modo pulito. Vorrei sottolineare poi un'ultima importantissima cosa per questa entusiasmante band germanica che vorrei proporre un po' a chiunque, anche solo per la loro nobile iniziativa di devolvere parte dell'incasso dell'EP al centro tumori pediatrico della loro città, Karlsruhe appunto. Stimolanti, creativi e molto intelligenti! (Francesco Scarci)

martedì 4 marzo 2014

Ethereal Logic - Opus Machina

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent, Meshuggah, Cynic
Non fatevi ingannare dall'esiguo numero di canzoni (4) associate ad un genere, il death metal (notoriamente mai prolisso), contenute in questo 'Opus Machina', opera prima dei britannici Ethereal Logic. Il dischetto dura infatti tre quarti d'ora e il suo effetto è a dir poco annichilente. Niente velocità disumane, ritmiche serrate, o quant'altro, ma un semplice rullo compressore, come quelli che si vedono in giro ad asfaltare le strade. E perfettamente allo stesso modo di quell'asfalto caldo e plasmabile mi sento io, dopo solo aver abbozzato l'ascolto della opening track, "Superior". La track esordisce infatti con un riffing possente e ritmato e il bel growling cupo di James Dorman (abile anche nell'ormai immancabile versione clean). Tre minuti di matrice 'meshugghiana' e poi un quanto mai inatteso break ambient con le chitarre, tastiere e una flebile voce in lontananza a sussurrare qualcosa. Niente paura, sono solo i preparativi dell'act di Glossop nell'invitarci alla loro festa. Il ritmo infatti sembra crescere in modo inesorabile con un riffing nevrotico che sicuramente paga dazio al djent. Ed eccolo un altro stop a creare un senso di ipnosi e angoscia, pronto però a ripartire alla grande per un finale mozzafiato. Wow! Parte "No Gods or Kings", song dal piglio veloce che in un qualsiasi altro album death metal, uno si aspetterebbe non superi i 3.5 minuti. I nostri la pensano invece in modo totalmente differente, prendendoci a bastonate per più di 12, con un sound che alterna un riffing quadrato, meccanico, tecnico e tagliente, che ogni tanto però ha il bel vizio di deviare dalla strada maestra, con elucubranti fuori programma. Non stupitevi pertanto se d'improvviso le rasoiate inferte dal terzetto del Derbyshire interrompano le comunicazioni e i nostri inizino a suonare come se si trattasse di una jam session. Agli Ethereal Logic piace gestire le cose in questo modo, e come dargli torto. Se tutto filasse via liscio come l'olio, ci troveremmo per le mani l'ennesimo clone dei Meshuggah, invece la personalità dell'ensemble inglese risiede proprio in questa sorta di anarchia, che in realtà dura sempre una manciata di secondi, ma che riesce ad avere un effetto destabilizzante per chi ascolta. Un rifferama portentoso in cui si alternano interferenze musicali di ogni tipo: un assolo schizofrenico di basso o uno eccellente di chitarra, un break atmosferico, divagazioni jazz e rock progressive, insomma di tutto un po', che sembra voler ricatturare l'attenzione di chi magari si è lasciato distrarre dal granitico portamento di questo scintillante trio. Io stesso avevo bollato ingiustamente 'Opus Machina' come uno dei tanti noiosi dischi djent-death, ma dopo pochi minuti mi sono dovuto ricredere. E mi raccomando non commettete anche voi il medesimo errore, se vi accorgete che l'inizio di "Incompatible" sembra un banalissimo pezzo di una qualsiasi band dedita al death. Ben presto nelle sue note troverete pane per i vostri denti: i soliti Meshuggah che si incontrano con i Cynic/Gordian Knot sotto lo sguardo vigile dei Tesseract; se le chitarre poi vanno in un senso, la batteria gioca su ritmi dispari, le tastiere disegnano melodie stralunate, capirete le potenzialità di questi folli ragazzi. Sono alla fine della terza song e sapete una cosa, non ci ho capito niente ma sono a dir poco entusiasta di questo lavoro. L'inquietante inizio di "Seven Winters Since" è solo un altro scherzo dei nostri, che sicuramente nel corso di questo album, mostrano di avere un bagaglio tecnico di tutto rispetto e un background musicale che vaga oltre le famigerate 'Colonne d'Ercole' dell'heavy metal. Direi che mi posso fermare nel decantare le doti del terzetto, suggerendovi caldamente di farvi trascinare dagli asfissianti arzigogoli degli Ethereal Logic. Sicuramente una new sensation from the UK! (Francesco Scarci)


(Self - 2014)
Voto: 85

martedì 4 febbraio 2014

Grorr - Anthill

#PER CHI AMA: Death Progressive, Meshuggah, Devin Townsend
Ci ero quasi cascato: una copertina tipica del progressive, una overture meditativa e un approccio vocale pulito quasi Stone Temple Pilots. Insomma ero già pronto ad assegnare questo cd a chi mastica quotidianamente questo genere di suoni. Invece poi il mio sesto senso mi ha imposto di andare oltre ed ascoltare almeno la prima traccia. Ed eccole fragorose le chitarre fare breccia nel mio cervello, deragliare come un treno fuori controllo, e le vocals tradire la loro prima apparizione, con un growling bello incazzato. Ma è il lavoro alle 6-corde che polarizza maggiormente la mia attenzione, con un riffing impetuoso (Sepultura), serrato (Meshuggah) e nevrotico (Devin Townsend), mitigato da suoni orientali di strumenti etnici indiani e giapponesi (sitar, hurdy gurdy e flauto), nonchè da vocalizzi puliti che rievocano il grunge di primi anni '90. Inebriato da cotanta inconsueta bellezza, mi lancio nell'ascolto dei capitoli che costituiscono questo concept cd che narra l'evoluzione vitale di un formicaio, dalla sua fondazione (“Once Upon a Time”), espansione e lotta (nella devastante “We - War”), fino al suo letargo autunnale e rinascita (“Once Upon Again”). Mi immergo in un nuovo mondo cercando di carpire ogni suo piccolo movimento con l'ausilio delle cuffie, capaci di trasmettere ogni piccolo particolare del suono naturale che ritroviamo in 'Anthill'. L'album nella sua interezza cita con grande carisma e personalità, le follie djent dei Ganesh Rao, superando poi di gran lunga gli ultimi prodotti di Tesseract e soci. Signori fermatevi, e ascoltate questo lavoro di una band che se non si perderà, avrà la capacità di farvi toccare il cielo con un dito. Il death metal dei ragazzi di Belo Horizonte (Sepultura) si unisce con un concentrato innovativo folk, il grunge si fonde con il djent attraverso l'utilizzo di partiture progressive; ritmi tribali, echi di una sacralità buddista, un minimalismo marziale, divagazioni celtiche ed il misticismo dell'induismo e del confucianesimo si coniugano inaspettatamente in un lavoro heavy metal. Sono incredulo, non pensavo fosse possibile arrivare a tanto. I francesi Grorr scavalcano e surclassano i loro conterranei Gojira, mettendo in mostra una notevole intelligenza compositiva, una buona dose di muscoli e tante meravigliose insane idee, toccando i punti più imprevedibili della musica, della tradizione e della religione, per un risultano finale più unico che raro, che metterà d'accordo, una volta per tutte, tutti i gusti musicali. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Self – 2013)
Voto: 90

https://www.facebook.com/pages/Grorr

venerdì 25 ottobre 2013

Achernar Dream – Hypocrisera

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Djent, John Petrucci, Chimp Spanner
Non si sa né da dove né come mi sia arrivato questo disco. Gli Achernar Dream, band formata dal duo A/s.i.de. e Bleeding Heartist, propongono con questo "Hypocrisera", una sorta di viaggio musicale, un’opera dedita ad un progressive metal, rattoppato da svariate parti ambient atmosferico avanguardistiche. Poche idee un po’ confuse, è così che si evolve questo lavoro: un patchwork di parti melodiche, dove prevale una voce femminile e più spesso una maschile (tutte rigorosamente in pulito), come in “I Breathed”, vari assoli che spuntano inaspettatamente, più varie sezioni che risultano spesso sconnesse dal tema principale, il tutto alternato a tracce ambient minimalistiche. Tuttavia la musica del combo italico evidenzia una certa perizia tecnica, velocità d'esecuzione e una composizione più fitta. La produzione, cristallina per gli intermezzi atmosferici, è invece secca e poco profonda nel resto del cd, perdendo mordente soprattutto nelle parti ritmiche che fortunatamente sono sostenute da un ottimo drumming, anche se reso opaco dalla produzione. Questo viaggio di una cinquantina di minuti termina com'era iniziato, ovvero senza nulla di concreto. Ci sono tante piccole parti, figlie l'una dell'altra concettualmente, le quali non fanno altro che sostituirsi man mano, creando un vortice apparentemente confusionale, ma che dopo svariati ascolti accusa un po’ di ripetitività. Tanta carne al fuoco sicuramente, io avrei giocato maggiormente sull'utilizzo delle parti atmosferiche che qui non sono sfruttate appieno, lasciate in mano troppo spesso a un piano mono tono o per colmare buchi e passaggi delle composizioni. Da rivedere. (Kent)

sabato 31 agosto 2013

In the Guise of Men - Ink

#PER CHI AMA: PER CHI AMA: Math, Djent, Periphery, Killswitch Engage, Meshuggah
I quattro francesi dietro al moniker In the Guise of Men devono essere dei dannati perfezionisti: attivi dal 2005, dopo un demo del 2006 sono stati in silenzio per quasi sei anni prima di sfornare l'EP "Ink", sei tracce che sembrano muoversi nelle coordinate del nuovo metal tardo-adolescenziale e cerebrale stile Periphery, Killswitch Engage e compagnia. C'è però un problema di aspettative, se vogliamo, o forse di maturità della band. Ascoltate il primo minuto di "Suicide Shop", l'opening track: pura follia matematica, cassa e riffing pressanti, un cantato potente e non scontato – tutti presupposti per un gran disco. Ecco, non fatevi troppe illusioni: a parte la bella "Drowner", i bridge di "Dog to Man Transposition" e qualche passaggio in "Blue Lethe", il resto del disco è un pastone poco chiaro di melodie banali e riff che dimenticherete prestissimo. L'impressione generale è che nelle parti strumentali la scrittura sia più libera e incisiva, ma quando si tratta di costruire un tessuto di base per la voce, gli In the Guise of Men mollino un po' la corda. Non ho sentito nulla di memorabile se non – purtroppo – dei ritornelli talmente pop da lasciarmi senza parole; e se pure la voce è potente e urlata per almeno metà disco, continua troppo spesso a ricadere nella melodia poco originale, di quelle che ai concerti fanno venire voglia di sventolare un accendino sopra la testa. C'è del buono, intendiamoci, considerato che è di fatto il primo disco della band e che, probabilmente, il margine di miglioramento è ancora tanto. Se siete alle prime armi col math, può essere un disco interessante: ma se avete già ascoltato abbastanza poliritmi nella vostra vita, Ink non durerà molto nel vostro lettore cd.(Stefano Torregrossa)

(Dooweet Records - 2013)
Voto: 60

http://www.intheguiseofmen.com/

domenica 7 luglio 2013

Boreworm - The Black Path

#PER CHI AMA: Brutal Death Progressive, Djent, Born of Osiris, Meshuggah
Spaventoso l'impatto che ho avuto con l'EP di debutto degli statunitensi Boreworm. Un 4-track di furioso e melodico brutal death metal che apre le danze con la title track e mi consegna una delle pochissime band, in territorio estremo, che sia stata in grado di conquistarmi fin dal primo minuto d'ascolto. Chitarre polifoniche, inserite in una matrice cosi ingarbugliata di cambi di tempo e velenosissimi stop'n go; una tessitura ritmica granitica, costellata di cosi tanti e interessanti intrecci strumentali da necessitare più e più ascolti. Ne sono innamorato e per me, amare questa forma di death brutale assai futuristica, è cosa assai rara. Con "Xenophagia" ritorno all'esclamazione che apre questa recensione: spaventosa! Suoni cupi e feroci, sorretti da atmosfere horror, suoni bombastici che possono richiamare il djent, il deathcore o il techno death. Meshuggah, Cynic, Born of Osiris e tutti gli altri messaggeri del sound progressivo in territori brutali, rappresentano le influenze riscontrabili nel corso di questo dinamitardo EP di debutto di questo splendido ensemble made in USA, che già fin d'ora eleggerò tra i debutti di assoluto valore doi questo 2013. Non vorrei pompare ulteriormente la band, è la musica a parlare egregiamente per loro: il death fuso con lo sci-fi, le opprimenti atmosfere di "The Black Path", l'esagerato tasso tecnico plaesato anche nella dinamica e travolgente "Hive Conduit", mi mandano al settimo cielo. Il growling cavernoso, il quantitativo infinito di melodia, mischiato alla cattiveria e al matematico (soprattutto in "Clandestine") sound dei Boreworm, completano un lavoro che non posso far altro che elogiare e consigliare a tutti gli amanti di sonorità estreme e non solo. Esagerati! (Francesco Scarci)

giovedì 4 aprile 2013

Gardenjia - Epo

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Vildjartha
Ecco il rischio della musica digitale: scaricarla, metterla in una qualche parte nell’hard disk e dimenticarsi totalmente di avere a portata di mano qualcosa di succoso ed interessante. Mi scusino i baresi Gardenjia, che già avevamo ospitato nelle pagine del Pozzo, in occasione del loro primo lavoro, quella volta però fortunatamente in cd. Tornano dunque con quello che dovrebbe essere il loro full lenght di debutto, un album che prosegue sostanzialmente la strada tracciata dal precedente EP, “Ievads”. Stiamo parlando ovviamente di djent, che tanto andava di voga nel biennio 2010-2012, ma di cui poi lentamente se ne sono perse le tracce, con alcune band che hanno virato il proprio sound verso altre sonorità più ruffiane. Non è certo il caso dei nostri che tentano immediatamente di anestetizzarci con l’ipnotica “Ante Rem”, song che oltre a fare il verso ai Meshuggah, ricalca anche le gesta dei vari Vildjartha e Uneven Structure. Gli ingredienti classici del genere ci sono tutti: le solite chitarre polifoniche e ribassate, che entrano da un orecchio e escono dall’altro, lasciandomi in uno stato mentale distorto e stordito. La tecnica sopraffina non può assolutamente mancare, se si vuole emulare le gesta dei gods svedesi o francesi, quindi anche la band pugliese, esce a testa alta sotto questo profilo. Da un punto di vista musicale, l’approccio alle song non è dei più semplici, dato che un po’ come è in casa Meshuggah, anche qui l’act italico rischia il più delle volte di (s)cadere nell’eccessiva reiterazione di alcuni riffs o poi, come accade nella lunga title track, le chitarre suonano molto disarmoniche e ubriacanti, rendendo il tutto di difficile digestione, ma forse conferendo un maggiore interesse al disco. “In Blue” è un bel pezzo, anche se il riffing suona ormai troppo simile ad altre mille release. Certo sarà anche il genere che lo impone, ma se dopo 3-4 anni di globalizzazione di questo stile, siamo già in una fase di saturazione, sarebbe il caso di trovare nuove soluzioni. La voce del vocalist spazia tra il pulito (non troppo convincente) ad una voce più incazzata, mentre interessante e spesso sottovalutato è il lavoro dietro alle tastiere. Menzione finale per “In Dusk”, in cui fa capolino anche un malinconico sax, che denota una voglia di maggiore personalità nel proprio sound da parte dei nostri. Forse la carne al fuoco è ancora molta, tuttavia, la strada intrapresa dal combo italico, sembrerebbe quella giusta. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

mercoledì 27 febbraio 2013

Tardive Dyskinesia - Static Apathy in Fast Forward

#PER CHI AMA: Math/Djent, Meshuggah, Textures, Tesseract
Quando penso alla musica greca, mi vengono in mente piatti rotti, cembali e balli grotteschi. La sorpresa nell'ascoltare questo quintetto ellenico al loro terzo album, quindi, è stata grandissima: un mix perfetto tra la poliritmia della scuola dei Meshuggah e le atmosfere più elaborate dei Textures o dei Tesseract, con l'aggiunta di un tocco personale che ho trovato davvero interessante. C'è energia, c'è molta tecnica, c'è groove, c'è velocità, ci sono ampie parti strumentali e la produzione è di ottimo livello. Rispetto ai Meshuggah, tuttavia, ci sono delle armi in più: la maggiore varietà nelle scelte di bpm dei brani, i colori della voce dell'ottimo Manthos (che non disdegna alcuni interventi melodici e in certi cori ricorda alcuni interventi orchestrali degli Strapping Young Lad) e i suoni delle chitarre, senz'altro più caldi e meno digitali del quintetto svedese. Il disco si apre con "Empty Frames", una delle mie preferite dell'album: l'intro è un capolavoro di poliritmica, una vera dichiarazione d'intenti riguardo lo stile dell'intero disco. "The Chase Home", dopo tre minuti di pattern variopinto, chiude con un riff violentissimo. "Smells Like Fraud" lascia spazio ad un cantato più melodico, che ritroviamo anche nei ritornelli di "Time Turns Planets", sorretta però da un riffing intelligente e perfettamente costruito. "Prehistoric Man" è costruita su riff a singhiozzo che pulsano come una ferita aperta, fino all'esplosione dello splendido assolo centrale e all'evocativa parte melodica finale. C'è tempo per prendere fiato con "Indicator", dove un sax si arrampica per scale impossibili su accordi distorti di chitarra. "Circling Around the Unknown" e "We, the Cancer" giocano entrambe sul contrasto tra ritmiche veloci e progressioni melodiche. La canzone più breve del disco, "Failed Document" è un intenso esercizio ritmico costruito sulle terzine che preannuncia il gran finale con "Limiting the Universe": quasi sette minuti in cui i Tardive Dyskinesia raccontano al meglio tutto ciò che sanno fare, spaziando da parti dissonanti a riffing veloci, senza tralasciare ritornelli melodici corali e un finale ambient in stile Tesseract. Un disco ben fatto, che dimostra pienamente la lucidità e le idee chiare dei Tardive Dyskinesia, che hanno saputo prendere il meglio del math metal e colorarlo con un'ampia varietà di interventi personali. (Stefano Torregrossa)