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giovedì 28 marzo 2019

Sunless Dawn - Timeweaver

#PER CHI AMA: Prog Death, Opeth
Da quando gli Opeth si sono dati al rock progressivo, il prog death ha visto un più grande sviluppo nell'ultimo periodo, quasi la band di Mikael Åkerfeldt e compagni rappresentasse un ostacolo un po' troppo ingombrante per la crescita di altre realtà musicali. L'ultima mia scoperta arriva da Copenaghen e si chiamano Sunless Dawn, e 'Timeweaver' rappresenta il loro album di debutto. E che debutto. La band, che ha vinto il concorso Wacken Open Air Metal Battle nel 2016, propone un qualcosa davvero fresco che fin dall'opener "Apeiron" alle tracce successive, lascia intravedere le molteplici influenze dei nostri. Nella breve opening track ci sento una versione estremizzata di Devin Townsend, suonata con classe e cura certosina. Questa mia percezione positiva si conferma anche con la successiva"Aether", un brano che evidenzia il bagaglio tecnico di cui è dotato l'ensemble nordico fatto di cambi di tempo, ottimi assoli e melodie, senza dimenticare la prova convincente alla voce (costantemente in growl) di Henrik Munch ad impreziosirne i contenuti. Devo essere sincero però che una versione pulita di Henrik avrebbe reso ancor meglio l'output musicale di questo 'Timeweaver', ma sono quasi certo che dal prossimo disco ci sarà qualche novità da questo punto di vista, è fisiologico. "The Arbiter" sciorina una bella ritmica di scuola Opeth e un approccio solistico intrigante (sono pazzo o ci sentite anche voi un che degli Amorphis?). Con la strumentale "Biomorph I: Polarity Portrayed" si apre una sorta di mini concept all'interno del disco: il brano è raffinato, delicato, e apre a deviazioni sperimentali in stile greci Dol Ammad. Con "Biomorph II: Collide into Being" si torna invece a veleggiare nel death "opethiano": interessante qui il bridge iniziale ma in generale sono gli arrangiamenti a fare la differenza e poi beh, quell'assolo a metà brano è semplicemente da applausi e da solo vale l'acquisto del cd; poi il celestiale chorus a fine brano individua probabilmente quella che sarà il mio pezzo preferito del disco. Ma le sorprese sono dietro l'angolo perché strani cori aprono anche la terza parte "Biomorph III: Between Meadow and Mire", in una song dal funambolico incedere black melodico, preso in prestito da altri mostri sacri, i Ne Obliviscaris, a farmi probabilmente cambiare idea sulla mia song favorita. Ragazzi che bomba di album, qui ce n'e davvero per tutti i gusti (anche per chi apprezza gli Scar Simmetry o i Raunchy), soprattutto andando verso il finale della traccia dove la sezione ritmica ne pensa una più del diavolo e a mettersi in luce non sono solo le due asce, ma anche il basso tonante di Eskil Rask. Classe sopraffina confermata anche da "Grand Inquisitor", un pezzo più classico e tortuoso, ma che ha ancora modo di riversare tonnellate di riffs (soprattutto nel finale) e quintalate di groove, grazie all'apporto azzeccatissimo di synth mai invasivi. "Erindringens Evighed" al di là dell'eccelsa qualità musicale che ormai non fa più notizia, la citerei piuttosto per l'utilizzo a livello lirico della lingua madre dei nostri; però visto che ci siete ascoltatevi attentamente anche il finale mozzafiato della song che ci conduce a "Sovereign". Questa è la canzone che era stata scelta come singolo nel 2016, quindici minuti che sublimano il concetto di musica death progressiva, attraverso una scoppiettante prova, corredata da una complessità musicale davvero elevata, in cui mi sembra di percepire a livello di chitarre anche un che degli Edge of Sanity di 'Purgatory Afterglow'. Non so se siano clamorosi abbagli dovuti all'entusiasmo scatenato dall'ascolto di 'Timeweaver', ma ragazzi, un unico consiglio, fate vostro questo disco, non ve ne pentirete assolutamente, soprattutto se siete fan di Opeth, Ne Obliviscaris, Enslaved, Amorphis, Ihsahn, Porcupine Tree, Devin Townsend e compagnia, insomma quanto di meglio la scena abbia da offrire. Che altro state aspettando? (Francesco Scarci)

martedì 19 marzo 2019

Stormhaven - Liquid Imagery

#PER CHI AMA: Prog Death, primi Opeth
Originari di Tolosa, gli Stormhaven sono un quartetto prog death che non va confuso con l'omonima band americana. I quattro francesi tornano a distanza di un paio d'anni dall'LP di debutto 'Exodus' con questo nuovo 'Liquid Imagery', dieci pezzi per farci capire come il sound dei nostri sia evoluto in questi 24 mesi e quale sia il loro attuale stato di forma. Il lavoro, che dovrebbe essere una sorta di concept album, narra la storia di un uomo in barca pronto ad affrontare la furia della tempesta. Il cd si apre con l'intro "A Wayward Course", che sembra proprio riflettere la narrazione del protagonista mentre si trova in mezzo alle onde del mare. Poi ecco palesarsi la burrasca attraverso il riffing di "The Storm" e la prima associazione mentale che mi viene spontanea è con il sound degli Opeth periodo di mezzo, anche se in questa traccia, le sfuriate ritmiche sfociano in un techno death talvolta parossistico che prende un po' le distanze da Mikael Åkerfeldt e soci. C'è da dire che comunque la proposta del quartetto transalpino è comunque varia in fatto di cambi di tempo, ed un certo cambio stilistico è da denotare anche a livello delle vocals, che si sbrogliano attraverso un growl possente e a delle altre più graffianti ma pulite. Interessante la porzione solistica con un intreccio di chitarre dal forte sapore classic metal. "Tides", il terzo brano per il quale la band ha peraltro rilasciato anche un video (peccato solo che si vedano i quattro musicisti suonare su sfondo nero e non ci sia alcuna attinenza con quanto dovrebbe richiamare il titolo), sottolinea la capacità di ricerca melodica che appartiene alla compagine originaria dell'Occitania. Dopo i suoi quattro minuti, arriva l'apertura acustica di "Starless Night" a narrare come il cielo stellato sia oscurato dall'incessante pioggia, quasi un parallelismo con la vita tormentata del protagonista. La traccia si presenta elegante e raffinata con ottime malinconiche melodie sia a livello vocale che di linee di chitarra. Poi l'esplosione di "Contemplation", l'unica tappa strumentale del disco, robusta ma sicuramente ispirata, pronta ad introdurre la lunga "Sirens", nove minuti in cui il progressive sembra avere la meglio sugli estremismi sonori della band. La song è di certo assai ritmata, qui gli Stormhaven non lesinano sulle rincorse della sei corde, le parti atmosferiche e i chiaroscuri ritmici, in quella che a mio avviso è la mia song preferita del disco. Ferocissima e dal piglio black è invece "Abyss", una scheggia incontrollabile di ritmiche frenetiche e schizoidi. Ancora un'intro acustica per i secondi iniziali di "Aurora", poi la song vira verso un sound atmosferico a cavallo tra death e black, che vede i nostri ammiccare pesantemente, in un altro break centrale acustico, sia a livello vocale che musicale, agli Opeth. Il disco va migliorando con le partiture prog death di "Vesper", una song piacevole e al contempo più ostica da ascoltare per quel suo rifferama destrutturato e contorto che trova un attimo di quiete nella parte centrale dove le clean vocals si affiancano all'acustica in una parte delicata, malinconica e decisamente più accessibile al pubblico. Il momento di quiete non dura però troppo, il growling maligno e il muro ritmico sono pronti a riprendere là dove avevano sospeso, pronti a ripartire con l'ultima "Echoes", dodici minuti in cui la compagine transalpina mette in campo tutto il proprio repertorio, passando più volte dall'acustica al black epico fino al prog death. Insomma, 'Liquid Imagery' è un disco ben architettato, ben concepito ed in ultimo anche ben suonato, che vede gli Stormhaven proseguire il loro percorso ripercorrendo le orme degli Opeth che furono. Speriamo solo non facciano la stessa fine. (Francesco Scarci)

venerdì 1 febbraio 2019

Loneshore - From Presence To Silence

#PER CHI AMA: Prog Death Doom, Opeth
In Brasile, il Sole deve ormai aver ceduto il passo alle tenebre. Solo in questo modo si spiegherebbe la ragione dell'uscita funerea degli Helllight e ora di questi Loneshore, provenienti addirittura dalle spiagge assolate di Rio de Janeiro. Il quintetto di Rio però, a differenza dei più illustri colleghi dediti al funeral, offre un sound che, per quanto nelle propria struttura veda l'utilizzo di qualche partitura doom, ammicca principalmente agli Opeth di 'Blackwater Park', quale influenza primaria. La cosa è chiara fin dall'opener "The Quiet Visitor", undici minuti in cui i carioca giocano con fraseggi prettamente progressivi, pur mantenendo intatta una certa asprezza a livello ritmico e propinando un dualismo vocale tra growling e screaming vocals davvero intrigante. In tutto questo, non mancano alte dosi di melodia che si sprigionano attraverso le sei lunghe tracce contenute in 'From Presence To Silence'. Detto degli undici minuti iniziali dell'opening track, ne seguiranno altri dieci con l'oscura "Effigy", un pezzo che ben si muove tra riffoni tosti, strutture articolate, ma soprattutto dove il pezzo forte, oltre alle splendide melodie di chitarra, è rappresentato dalla comparsa di clean vocals che poggiano sui vari cambi di tempo che contraddistinguono il pezzo, un buon pezzo. L'arpeggio in apertura di "Winds Of Ill Omen" ricorda inequivocabilmente gli innumerevoli brani degli Opeth che furono, quelli che iniziavano brillantemente le loro canzoni in questo modo tra le melodie gentili di una chitarra acustica e le proseguivano anche meglio, in pezzi ben calibrati tra melodia e aggressività. E i Loneshore non sono tanto distanti dall'emulare le gesta del periodo di mezzo degli eroi svedesi capitanati dal buon Mikael Åkerfeldt, alla stregua di quanto fecero agli esordi gli statunitensi Daylight Dies. Questo per dire, che fondamentalmente la band brasiliana non inventa nulla di nuovo, ma quello che suona, non cosi facile da proporre, mostra comunque le qualità di una band già rodata e che vanta un buon gusto per le melodie, un'ottima preparazione tecnica e qualche idea non proprio da buttare. Se in tutto questo ci mettessero anche un pizzico di personalità, credo che mi ritroverei quei ad osannare 'From Presence to Silence' anzichè dire che di strada da fare per trovare un proprio stile personale ce n'è da fare ancora parecchia. Nel frattempo se siete dei nostalgici dei vecchi Opeth, e vi piacciono anche le accelerazioni post black (ascoltatevi la title track), beh credo che il lavoro dei Loneshore possa supplire egregiamente a questa vostra mancanza nell'attesa che prima o poi Mikael e compagni rinsaviscano. (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music - 2018)
Voto: 75

https://loneshore.bandcamp.com/releases

sabato 19 gennaio 2019

Moss Upon the Skull - In Vengeful Reverence

#FOR FANS OF: Prog Death, Gorguts
The way a band presents itself can sometimes be a perfect prelude for how it will sound. Inky details across a blank canvass show Belgium's Moss Upon the Skull as a band elaborating on a sound as filled in by the noise of generations as it is emblazoning itself on a new fiber. Moss Upon the Skull does its death metal well, not brilliantly with the frills that many a band may use to seem out of the norm and stretch its streaks across the death metal soundscape, but this band brings more a methodical and appropriately concocted conclusion able to burn slower and baste in its ideas. Smooth brilliance striped through simple motions make for calligraphy upon this tapestry of guitars that is seldom seen in a world of jagged edges and sharp poignant pieces. This band's jazz is as potent as its catastrophe and both work beautifully, intermixing each to form a disillusioning and disorienting world as seen through lucid eyes the burdens of horrific fate.

Technical, intricate, and intoxicating in its disorientation, Moss Upon the Skull festers and grows as harmonic leads are entangled and choked by an imposition of malignant bass, contorting each pleasant moment into an impending horror. Relentless rhythmic interchanges and an everflowing river of creativity ensure a consistent tension accompanies this bewildering Lethean journey as progressions meet ruination, animation is governed by decay, and each new structure builds off the last while simultaneously denoting the large swaths of time that elegantly acknowledge crumbling old pillars and the rises of new monuments sprouting up like mushrooms on the rotting carcasses of fallen giants. True to its name and album title, Moss Upon the Skull shows in its genetic coding the filth of the past generations of the metal milieu, playing 'In Vengeful Reverence' many terrifying twists on the harmonies of old to shore up a new technical monument to the past decades of abnormal progress.

Gritty and chewy guitars in “Disintegrated” masticate a rhythm, like a toothless hunger gumming down on a steak with sinew slowly dissolving in a wave of saliva, each enzyme breaking down molecules and reconstituting them in squalid squelching strings. However, that gushing sound is not an uncommon rejoinder to these unusual structures but a consistent foil to the burgeoning beauty behind these laborious deconstructions. Compelling harmonies and riffing in “Impending Evil”, searing guitar chords with prickly sprays of black metal sleet employed in an almost grunge fashion through “Lair of the Hypocrite” before a dingy disorienting harmonic breakdown, and, in an interlude as funky as it is contorted by the preeminence of evil in this band's sound, gorgeous riffing at the end of “Serving the Elite” show that these scraping riffs are the estuary from which spout intricate tributaries culminating in swamps of filth from elaborate contortions through rich mindful landscapes.

Unlikely to longingly linger on a nostalgic note or allow a breakdown to fester in its deterioration, the title track ensures that its fury retains an amorphous structure as it engineers a guitar bridge while under fire from volleys of blast beats. “In Vengeful Reverence” molds a monstrous amalgamation of prominent death metal structures while laying bare their bones as though witnessing the construction of Parisian catacombs. Throughout this album is an ever-focused timeless eye, one that utilizes its alchemy to piece together these contorted monuments and finally, by the time of reaching “Unseen, Yet Allseeing”, arrives with such fanfare akin to the metal standard that it sounds like a renaissance movement unearthed while exploring underground.

Homage finds itself imbued in the details among these intricate abnormalities. It comes through well in the end of “Peristalith” with the accursed Demilich round as it awkwardly walks through a storm of blast beating reminiscent of “The Echo”. This filthy and elaborate delivery expounds upon the technical squeals of a caged race enduring the bidding of its captors as songs flow with impressionistic fluidity underscoring the roles of numerous notes added to each flowing sound and the sharp grotesquerie of a structure when stripped down to its most basic components. Through a calculated mid-paced punch accentuated by a dragging lead guitar, “The Serpent Scepter” shows these swaths coming through in delirious distortions of chords and scrambles the harmony with scratchy technicality as it increases in intensity backed up by long drumming fills and crafty changeups. The anarchical desire to punch through these riffs with such funky drumming ensures that even the most rote moments of rise and drop smoothly worm their ways into impactful routines of technical exercise.

Gritty, cavernous, and intricate Moss Upon the Skull intermixes fierce technicality with gorgeous harmony to journey through its awkward and inverted 'In Vengeful Reverence'. Laying a groundwork of horror from which harmony must claw makes this inversion of every modern musical sensibility come through with elaborate and slyly perverse enjoyability. Esoteric curling harmonies and aggressive amorphous drumming show off a band unable to find contentment in sitting on a structure for too long while the decaying delay on the guitars works well to sharpen the impact of each note and also ensures a simultaneously dreary and dreamlike delivery. A flow that is as debilitating as the jarring madness of traversing the Leth river and humbling in its simultaneously haunting and enchanting, familiar and esoteric offerings, the cleanliness of the band's production compliments the relentless interchanges and ever-flowing creativity typifying an album that shows death metal remaining ripe in 2018. (Five_Nails)

mercoledì 19 dicembre 2018

Gravespell - Frostcrown

#PER CHI AMA: Black/Death, Windir, Opeth, Dragonlord
Dall'assolata California, San Diego per la precisione, ecco arrivare i Gravespell e il sound dinamitardo contenuto nel loro secondo full length, 'Frostcrown'. Il riffing compatto dell'opener, nonchè title track del disco, ci ricorda perché il thrash metal abbia avuto la sua massima diffusione là dove Testament, Metallica, Slayer ed Exodus, si davano battaglia negli anni '80. La song che esordisce con questo thrashy mood, in realtà muterà in seguito, in una serie di cambi di tempo, stile e generi che arrivano ad abbracciare il techno death (a livello ritmico) e il black metal nord europeo. I cinque californiani picchiano duro, mantenendo però intatta la forte componente melodica che li contraddistingue, sempre gradevole, attraverso epiche cavalcate che scomodano un ulteriore paragone con un'altra realtà del luogo, i Dragonlord, creatura di Eric Peterson dei già citati Testament. Otto minuti quelli di "Frostcrown" per cercare di inquadrare la proposta dell'act statunitense, sempre in bilico tra scorribande black e velleità death progressive. Il disco è davvero buono, il che è certificato anche dall'arpeggio iniziale (una sentenza in quasi tutti i brani) di "Imprisoned", una traccia che ammicca agli Opeth, prima di esplodere in un riffing serrato che troverà successivi rallentamenti in atmosferici break acustici che si sovrappongono al rifferama compatto dei nostri e ad una sezione solistica di primo livello. Un breve interludio acustico ci dà modo di rifiatare, prima di imbatterci in "Shadows of the Underdark", song ben impostata a livello ritmico, che gode sempre di una certa libertà esecutiva, a testimoniare che i Gravespell non vogliono essere rinchiusi in un filone ben preciso. Le vocals di Garrett Davis poi sono un ibrido tra growl e scream e le chitarre qui si agitano rincorrendosi, in scale ritmiche da urlo. Se c'è una cosa su cui non discutere è pertanto la porzione ritmica dell'ensemble americano, cosi come l'ottimo gusto per le melodie. Forse c'è da lavorare un pochino su quei pezzi che suonano più come dei classiconi: penso a "Intrinsic Frost", un macigno, forse un po' troppo ancorato agli stilemi di un genere e quindi più suscettibile a giudizi perentori prima di godere di un finale in cui le chitarre si lanciano in aperture in stile Windir. Beh, tanto di cappello alla band che riesce a controvertere ogni pronostico, a fronte di commenti un po' troppo severi, con una prova di spessore. Lo stesso dicasi di "Occam's Razor", un pezzo che ha da offrire un diligente esempio di death metal tecnico, dotato di harsh vocals e di ottimi assoli conclusivi, l'altro punto di forza dei Gravespell. Sonorità più anguste sono quelle che compaiono nella più fosca e claustrofobica "Fear of My Vengeance", una traccia che per certi versi si avvicina come veemenza e compattezza del riffing a "Intrinsic Frost" ma che in taluni frangenti, fa riecheggiare quell'epicità, marchio di fabbrica dei Windir. Il disco ha le ultime cartucce da sparare e lo fa con gli ultimi tre belligeranti pezzi: "Ignis", spettacolare per quel rincorrersi delle sei corde. "Deadhand" è un brano dalla forte indole death thrash, un robusto omaggio alle grandi metal band del passato, che trova in un break acustico centrale un punto dove concedersi il meritato riposo, prima del conclusivo sprint, affidato alle stilettate della nervosa "Redemption", traccia che evidenzia una componente atmosferica più strutturata ed individua gli ampi margini di miglioramento in cui la band potrà muoversi in futuro. Insomma, 'Frostcrown' è un buon lavoro che vanta ottimi colpi, soprattutto a livello solistico ma che soffre ancora di qualche ingenuità. Ma le possibilità di crescere per i nostri sono davvero interessanti, basta solo coglierle al volo. (Francesco Scarci)

venerdì 19 ottobre 2018

Dallian - Automata

#PER CHI AMA: Symph Death, Septicflesh, Therion
Se nel nostro paese è dura proporre musica estrema, nel piccolo Portogallo non sembra che il grande successo ottenuto dai Moonspell abbia spalancato le porte anche alle nuove leve. E probabilmente proprio per questo i lusitani Dallian, formatisi appena nel 2017 da ex componenti dei Madame Violence, non hanno lasciato nulla al caso nel produrre il loro primo album 'Automata'. Ambizioso è l’aggettivo che calza a pennello per descrivere questo lavoro, e non si tratta assolutamente di una critica. Il quartetto ci propone infatti una miscela esplosiva di death, progressive e symphonic metal, mentre le tematiche dell’album variano fra la spiritualità, la critica sociale e lo steampunk. La cosa che colpisce fin da subito è la produzione di grande livello, che garantisce un impatto sonoro degno dei lavori di band più quotate e valorizza la tecnica individuale di ogni strumentista. La band non si risparmia nulla ed infarcisce quasi tutti i pezzi (ben 13!) di elementi orchestrali, tastiere e persino quella che potrebbe essere una chitarra portoghese. Complessa anche la linea vocale, che vede l’alternarsi di un cantato in growl e uno in scream, con sporadici interventi di una voce lirica femminile. Caratteristica principale dell’album è di poter soddisfare qualsiasi palato della sempre più esigente platea del metal estremo: dunque spazio alle grandiose atmosfere sinfoniche alla Therion, a momenti orientaleggianti che richiamano un po’ 'Sumerian Daemons' dei Septicflesh, a cavalcate death metal di pregevolissima fattura e grande groove e ad alcune costruzioni maggiormente complesse vicine ai tempi d’oro degli Opeth. Tutto questo su più di un’ora di musica. Alla lunga ci si rende conto che tutto questo è sia il punto di forza che la debolezza dell’album: gli spunti sono parecchi, forse troppi per essere apprezzati appieno, e ognuno di essi rimanda a questo o a quel gruppo di riferimento che abbiamo già citato. Già verso la mezz’ora qualcuno potrebbe iniziare a chiedersi quando finiscano i tributi e quando inizino i “veri” Dallian. L’ascolto scorre liscio, ma la fine arriva lasciando una fastidiosa sensazione di aver perso qualche passaggio. In conclusione: lavoro straordinariamente ben fatto, ambizioso, ma è con ben altra personalità che si lascia il segno. Anche al di fuori del piccolo Portogallo. (Shadowsofthesun)

domenica 7 ottobre 2018

Aeolian - Silent Witness

#PER CHI AMA: Folk/Death/Black, Amorphis, Insomnium
Siete fan dei Dark Tranquillity, degli In Flames o forse degli Opeth? Avete detto che vi piacciono anche Dissection, Amon Amarth e Amorphis? Siete incontentabili, ma anche tanto fortunati perché oggi arrivano in vostro aiuto i maiorchini Aeolian, che convogliano tutte le influenze di cui sopra, in questo interessante 'Silent Witness', un concentrato di death black folk assai melodico. L'incipit è da urlo visto che "Immensity" ingloba un po' tutte le band citate con una certa eleganza che si concretizza in ottime linee di chitarra, pregevoli growling vocals e assoli da paura che valgono da soli il prezzo del cd. Le melodie folkish a la Amorphis o nella vena dei primissimi In Flames, si materializzano in "The End of Ice", song assai matura che vede sul finale esplodere un altro brillante assolo con dei vocalizzi epici davvero intriganti. Insomma, ci siamo già capiti, a me quest'album mi prende e non poco. Un rifferama stile Nevermore irrompe in "Chimera", un bel pezzone thrash che mi ha rievocato una sfortunata ma altrettanto brava band di fine anni '80, gli Anacrusis, votati ad un thrash progressivo veramente speciale. Questa song ha echi di quell'ensemble, anche se poi ovviamente i nostri nuovi eroi di Palma di Mallorca prendono una strada differente che ammicca anche agli Insomnium. Tanti i punti di forza dell'album per cui eviterei un track by track per soffermarmi invece su quei brani che più mi hanno sconfinferato, a partire dall'intro acustica di "Return of the Wolf King" e da una traccia che segue i dettami degli Amorphis in modo piuttosto personale, coniugando il folk con intemperanze black e divagazioni prog. Bravi, ben fatto. Se l'inizio devastante di "Going to Extinction" mi ha ricordato, per quel suo urlaccio, i Cradle of Filth, la song comunque conferma quanto di buono ascoltato sin qui. Ancora un bel folkish thrash death con "Elysium", cosi come entusiasmante è l'altra intro austica di "Wardens of the Sea" che con il esotismo, evoca gli Orphaned Land, per poi tramutarsi in una più normale canzone death, sicuramente carica di un buon groove. "The Awakening" è la classica quiete prima della tempesta scatenata da "Black Storm", dirompente blackish song tra incessanti ritmiche tiratissime e splendide melodie. Ci sono ancora un paio di brani ad attendervi per il gran finale dove a mettersi in luce sono le ottime linee di basso e un sound che strizza l'occhiolino agli Opeth ("Witness") e in parte ai Cradle of Filth ("Oryx"), per quel suo screaming che si alterna con tutte le linee vocali sin qui godute, in una song oscura ma parecchio variegata. Diavolo, mi ero detto di evitarmi il track by track, ma ci sono cascato in pieno e allora visto che ho saltato solo "My Stripes in Sadness", sappiate che si tratta di un buon brano che vede una rilettura da parte del quintetto delle Baleari, degli insegnamenti degli Insomnium. Alla fine che dire, se non che 'Silent Witness' è un lavoro ben fatto, ben curato, ottimamente prodotto (ma qui c'è lo zampino di Miguel A. Riutort Cryptopsy, Hirax e The Agonist), di cui ne posso solo fortemente consigliare l'ascolto. (Francesco Scarci)

(Snow Wave - 2018)

domenica 30 settembre 2018

Æthĕrĭa Conscĭentĭa - Tales From Hydhradh

#PER CHI AMA: Black/Prog, Sear Bliss
Con un moniker del genere, mi aspettavo una qualche band proveniente da Serbia o da Bulgaria, invece gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa arrivano da Nantes, con quello che è il primo album della loro discografia, 'Tales From Hydhradh'. Quattro pezzi per quasi tre quarti d'ora di musica black progressive con tematiche sci-fi, come testimoniato da un titolo che si rifà al concept spaziale qui contenuto e anche al futuristico artwork che ha colpito immediatamente i miei sensi. Diamo poi uno sguardo più dettagliato sul perché porre la nostra attenzione su questo combo transalpino. Innanzitutto direi per l'utilizzo nelle sue trame psicotiche, ancora un pochino acerbe, del sax, che irrompe già dall'iniziale "Mystic Temples Of Hydhradh", in una song violenta e corrosiva che mette in mostra tante idee, ma che ancora non sono focalizzate nel migliore dei modi. Mi spiego meglio. L'utilizzo del sax lo trovo estremamente originale e piacevole, ma sembra faticare nell'amalgamarsi con quel ronzio di chitarre o con lo screaming urticante del vocalist. Eppure, è lo strumento portante della musica del quintetto francese, con quelle sue lunghe fughe solistiche, non troppo ben supportate però dagli altri strumenti. "Sacrifice of the Connected Ones" è la seconda traccia; cosi acida e nevrotica nel suo incipit, sembra esser uscita da uno dei primi album degli ungheresi Sear Bliss, mentre man mano diventa dapprima doomish per poi virare sul versante post black, senza disdegnare anche qualche ammiccamente al death metal. Ecco, in questa trascrizione della prima trasmissione ricevuta dalla città spaziale di Hydhradh, troviamo essenzialmente una miscela black/death contaminata da momenti atmosferici, sprazzi progressivi e avanguardistici che non possono far altro che consentirmi di mantenere l'attenzione costante sulla proposta dei nostri, soprattutto quando a dettar legge è il sax. E voglio essere estremamente franco: senza l'utilizzo di quel portentoso strumento, gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa si perderebbero verosimilmente nel marasma infinito di band mediocri, invece con quel magico strumento aerofono, i cinque si trasformano in una realtà interessante da seguire. Abbandonate le malinconiche melodie della seconda traccia, ci addentriamo nelle melodie sinistre, e un po' selvagge, di "Cleansing The Siraxas - The Exalted Ones", in cui di nuovo a farla da padrone è il suono infuocato del sassofono di Simon che si diverte col suo strumento un po' come il nostro Vittorio Sabelli faceva nei suoi Dawn of a Dark Age (anche se lui suonava il clarinetto) o il folle Äag nel mitico 'Dawn of Dreams' dei Pan.Thy.Monium. La song è bella veloce, dinamica, e affonda certamente le sue influenze nella musica classica ma anche nella musica etnica. Arriviamo alla conclusiva "Along The Uncertain Paths Of The Maphoros" ormai frastornati dal delirio musicale dispiegato. Apre manco a dirlo il sax in un brano dal sapore un po' gitano, un po' balcanico, anceh se alla fine si tratta di musica estrema che necessita ancora una bella ripulita prima di mostrarsi in tutta la sua eleganza. C'è ancora parecchio da lavorare per raggiungere alti livelli, ma la strada intrapresa è sicuramente quella giusta. (Francesco Scarci)

sabato 29 settembre 2018

ISA - Chimera

#PER CHI AMA: Progressive Death, Atheist, Between the Buried and Me
In questo momento sembra che le one-man-band stiano spopolando alla grande. L'ultima giunta sulla mia scrivania arriva dagli Stati Uniti ed è opera dell'artista visionario Dan Curhan. La band si chiama ISA mentre l'album, intitolato 'Chimera', contiene nove tracce più intro e outro, dedite ad un death metal psichedelico e dalle tinte progressive, senza comunque tralasciare le radici acoustic folk nelle quali affonda la musica dell'artista del Massachusetts. "Stage I: Descent" ne è infatti testimone, combinando musica prog con suoni estremi e rudimenti folk. Con "Stage II: Fear", le carte in tavola vengono completamente sparigliate e ci troviamo di fronte ad un techno death che trova attimi di tranquillità in un arpeggio poco prima della parte centrale, prima di rilanciarsi in un aggrovigliarsi di ritmiche, voci tortuose, chitarre e percussioni funamboliche, che evocano un che degli Atheist di 'Unquestionable Presence'. Il disco non è proprio facilissimo da essere assimilato, ma la cosa non mi spaventa, anzi mi stimola ad ascoltare con maggiore attenzione le prodezze del musicista di Somerville che in "Stage III: Heathens", si ritrova a sussurrare su partiture rock, a dimostrare l'enorme quantitativo di carne al fuoco contenuto in 'Chimera'. I ritmi sono decisamente più blandi, anche quando Dan pesta maggiormente sul pedale dell'acceleratore o si diletta nell'incrociare screaming, growling e clean vocals. Ma con "Stage IV: Evil", i suoni si fanno ancora più lugubri quasi al limite del funeral doom, sostenuti da un dualismo vocale aspro e profondo. La musica tuttavia persiste nel suo gioco di chiaroscuri, cambi di tempo e fasi disarmoniche che verosimilmente hanno il pregio (ma anche il difetto) di disorientare l'ascoltatore. È qui che emergono più forti le influenze techno death della band, tra Atheist e Pestilence, in un tortuoso cammino di belligeranza cerebrale che porta ad estendere i confini musicali della band dell'East Coast anche verso Between the Buried and Me e The Dillinger Escape Plan, in quella che probabilmente risulta essere la traccia maggiormente cervellotica del lotto. Non lasciatevi però ingannare dalle movenze "pink floydiane" in apertura di "Stage V: Reflection", abbassare la guardia permetterà a Dan e ai suoi ISA di aggredirvi con maggiore semplicità nella seguente "Stage VI: Lust", folle, brutale ed atmosferica quanto basta per definirla la traccia più idiosincratica dell'album. Bravo il buon Dan a dare ampio sfoggio di sperimentazioni musicali e originalità, seppur manchi ancor quel pizzico di fluidità in grado di conferire una maggiore accettabilità (o digeribilità) del prodotto. Rimane qualche altro episodio alquanto interessante da ascoltare: il lato progressive di "Stage VII: Freedom" ad esempio o l'imprevedibilità di "Stage VIII: Ocean" per un album che ripeto, si rivelerà per i più alquanto arcigno. Ma questo per il sottoscritto è sempre un segno che si è lavorato bene... (Francesco Scarci)

mercoledì 22 agosto 2018

Extremities - Gaia

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Tesseract
Orfana dei Textures, la scena djent trova gli eredi della band olandese nella stessa Olanda con gli Extremities. Esordienti nel 2016 con un EP, 'Rakshasa', il quintetto di Eindhoven sbarca in questo 2018 con un debutto sulla lunga distanza, 'Gaia'. Otto pezzi di durata più o meno cospicua ("The Inward Eye" dura addirittura 18 minuti) che identificano la proposta musicale del quintetto tulipano che vede in Meshuggah, Gojira e gli stessi Textures, i riferimenti principale per il proprio sound. L'apertura è affidata alla granitica "Colossus", che strizza inevitabilmente l'occhiolino ai godz svedesi con le immancabili chitarre poliritmiche ed un vocione che richiama il buon Jens Kidman, mentre la musica vede alcune variazioni di natura electro-grooveggiante che permettono ai nostri di meglio caratterizzare la propria proposta e non risultare dei puri emuli delle band sopra menzionate. E il risultato non può altro che beneficiarne, visto anche un break dal sapore post-rock che si staglia a metà brano. Le ritmiche si confermano, come da tradizione, sghembe e disarmoniche sul finire dell'opener ma anche in altri pezzi successivi, e penso alla devastante "War" o alla più ritmata e "Reanimate", forse la song più legata al djent dell'intero lotto. Più ruffiana invece "Circular Motions" con quell'utilizzo di vocals pulitissime in stile Tesseract, per una song che si muove in territori più alternativi (e che tornerà anche successivamente in "Hydrosphere" e nella melliflua "Through the Dreamscape") e che peraltro vanta una sezione solistica da urlo. Violento l'attacco di "Emissary", con uno stile a cavallo tra death e thrash che cita indistintamente Pantera e Nevermore. Arriviamo all'ultima "The Inward Eye", un mattone di quasi 18 minuti, in cui le chitarre duettano con un sax mostrando la vena sperimentale di cui sono dotati i nostri in un saliscendi emozionale che arriva a chiamare in causa anche i Pain of Salvation, per una traccia che miscela abilmente deathcore progressive, jazz, dream-pop, djent e post rock e che non pone limite alcuno alla proposta musicale degli Extremities, forse i veri designati eredi dei Textures. (Francesco Scarci)

(Painted Bass Records - 2018)
Voto: 75

https://extremitiesnl.bandcamp.com/

lunedì 9 luglio 2018

Coexistence - Contact with the Entity

#PER CHI AMA: Techno Death, Death, Cynic, Obscura
In periodo di Palio di Siena, ecco arrivare proprio dal famoso capoluogo toscano i Coexistence, un quartetto di musicisti che conta tra le proprie fila tra gli altri, membri di Coram Lethe e Vexovoid. Quest'EP di debutto, intitolato 'Contact with the Entity' è una gran bella sorpresa per tutti gli amanti di sonorità estreme influenzate da una forta vena tecno-progressiva. Lo dimostra la splendida apertura di "Origin" e dei suo giochi di chitarra che si sprigionano nei primi due minuti e mezzo di un brano che evolverà successivamente in un sound corrosivo ma atmosferico quanto basta per scomodare non proprio facili paragoni con 'Individual Thought Patterns' dei Death, soprattutto per ciò che concerne la serrata sezione ritmica (col fretless basso in testa ad emulare le gesta del bravo Steve di Giorgio). Il quadro musicale dei nostri si completa poi con un growling che richiama lo stridore vocale di Chuck Schuldiner, mentre le chitarre s'intrecciano come spade brandite in cielo. Nonostante le molte affinità musicali con la band dell'indimenticato Chuck, non voglio affibbiare l'appellativo di band clone ai bravi Coexistence: in "Ultimatum" ad esempio, le atmosfere si fanno più cupe, con le bordate ipnotiche di basso (assoluto protagonista del disco) e batteria che provano a contrapporsi ai brevi fraseggi di chitarra creati dal duo di asce formato da Mirko Battaglia Pitinello e Leonardo Bellavista, che con i loro chiaroscuri ritmici, chiamano in causa un altro masterpiece, 'Focus' dei Cynic. È fuor di dubbio che per proporre simili sonorità, la band debba vantare poi un'indiscutibile preparazione tecnica e questo lo si percepisce lungo tutti e 23 i minuti di questo EP. La terza traccia è un intermezzo di carattere sci-fi, che prepara all'ascolto della conclusiva "Contact with the Entity II", una song ultra tecnica che vede nuovamente le pulsioni al basso di Christian Luconi dettar legge e duettare con il drumming (talvolta troppo triggerato) di Alessandro Formichi. Verso metà brano poi, irrompe uno splendido assolo (il primo di due in questo pezzone) che per un minuto infiamma gli animi dei pochi rimasti ancora scettici di fronte all'ascolto di un simile lavoro che probabilmente risuona ancora un po' troppo derivativo ma che francamente mostra una marcia in più per tutti gli amanti di tali sonorità techno death. Speriamo a questo punto che 'Contact with the Entity' sia solo un gustoso antipasto a quanto i nostri possano riservare in futuro. Io un po' di acquolina in bocca ce l'avrei già... (Francesco Scarci)

(Earthquake Terror Noise Records - 2018)
Voto: 75

https://coexistence.bandcamp.com/album/contact-with-the-entity

giovedì 5 luglio 2018

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)

giovedì 28 giugno 2018

The Old Dead Tree - The Water Fields

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Gothic
Avevo particolarmente amato gli esordi dei The Old Dead Tree, per quella ventata di freschezza, portata nel panorama gothic death, che di certo non stava vivendo una fase positiva della sua storia. Continuando con il loro stile personale, la band transalpina continua a proporre il perfetto connubio tra heavy gothic emozionale e una spruzzatina di death metal. Devo ammettere però che l’inizio di 'The Water Fields' non mi ha convinto più di tanto: i primi due pezzi infatti, sono abbastanza scontati e sconclusionati; dalla terza traccia “Dive” in poi però, la situazione inizia a migliorare sensibilmente. La band ritrova l’ispirazione degli esordi, quando 'The Nameless Disease' sconvolse il mondo con quelle sue splendide melodie graffianti e per la calda voce di Manuel Munoz. In questo terzo lavoro, ormai datato 2007 che rappresenta ancora l'ultimo album per i nostri, le chitarre continuano a tessere linee dure e malinconiche al tempo stesso, con la voce di Manuel che si rincorre alternando il raro growling con la sua incredibile timbrica pulita. Trattandosi di un concept album sull’autoironia e sulla necessità da parte di alcune persone di fuggire dalla realtà o rimanere passive in stati d’ansia, l’album rispecchia umoralmente questi argomenti, passando da momenti di rabbia ad altri più meditativi, dove spesso, l’unico vero strumento rimane la voce di Manuel. Disperazione, angoscia e rabbia si alternano in una girandola di emozioni, un’altalena di suoni e colori gravitanti attorno ad atmosfere decadenti e ad altre più incalzanti. Gli Old Dead Tree si confermano cosi ottimi musicisti, dalle idee valide e abbastanza originali. Per i nostalgici del gothic, per i metallari classici e per coloro che ancora attendono un nuovo album targato The Old Dead Tree. (Francesco Scarci)

martedì 26 giugno 2018

Stortregn - Emptiness Fills The Void

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection, Dispatched
Dalla Svizzera con furore mi verrebbe da dire: l'ensemble proveniente da Ginevra, giunge al ragguardevole traguardo del quarto lavoro, e dire che io non li avevo mai sentiti nominare prima di oggi. 'Emptiness Fills The Void' esce per la Non Serviam Records, interessante etichetta olandese votata alla promozione di black band melodiche. E questi Stortregn non sono da meno, con una proposta costituita da nove pezzi di black death melodico di scuola svedese che chiama in causa, più o meno, band del calibro di Dissection e Unanimated, anche se i cinque ginevrini non riescono ancora a raggiungere le vette dei gods scandinavi. Certo, non posso rimanere impassibile di fronte all'aggressività di "Through the Dark Gates", song sparata a tutta velocità e tra le cui linee efferate di chitarra elettrica e blast beat, si celano partiture acustiche che vanno a mitigare la tempesta sonora scatenata dai nostri. Come non sottolineare poi una song come "Circular Infinity", cosi irrequieta, ma dotata di un azzeccatissimo assolo che ne spezza il carattere funambolico, anche a livello vocale, dove il growling/screaming del frontman Romain Negro, diviene una calda voce pulita. Un arpeggione sinistro apre "The Forge", pezzo dalla ritmica ondivaga che anticipa "Nonexistence", la mia traccia favorita, questo perchè qui i solismi si sprecano: le chitarre delle due asce Johan Smith e Duran K. Bathija infatti s'inseguono in una song dal forte sapore classicheggiante, ricordandomi i Dispatched di 'Motherwar' ma anche un che dei giochi di prestigio del buon vecchio Yngwie Malmsteen. La lezione è stata appresa alla grande dagli Stortregn che sul finale tirano un po' il freno a mano, lanciandosi in una malinconica chiusura. "The Chasm of Eternity" dura poco meno di tre minuti: è strumentale e ha il ruolo di mostrare la vena progressive rock dei nostri facendo da ponte tra la prima metà del disco e la sua seconda parte che esplode con il fragore deathcore di "Lawless", quasi un pezzo alla Fallujah, almeno all'inizio. L'evoluzione non è poi cosi positiva come per la band americana visto che raddrizza il tiro tornando al black death dei primi pezzi. "The Eclipsist" ha un altro inizio affidato alla chitarra acustica che poi evolve in un attacco di oscuro death dinamitardo fin troppo quadrato. Fortunatamente, tornano in nostro aiuto le partiture acustiche che minimizzano l'eccessiva monoliticità di una proposta talvolta troppo precisa, troppo lanciata su dei binari che non troveranno mai un punto d'incontro. Certo, non posso fare finta di nulla davanti alla perizia tecnica dei musicisti, e spaventoso a tal proposito è Samuel Jakubec dietro le pelli. Tuttavia alla band manca quel calore avvolgente che hanno reso grandi album capolavori quali 'Storm of the Light's Bane' o 'Ancient God of Evil'. Arrivare infatti al gran finale di questo disco e trovarsi di fronte gli undici minuti di "Children of the Obsidian Light", non è proprio cosa da poco da affrontare: già annichiliti dalla robustezza di "Shattered Universe", ci sono ancora gli arpeggi in apertura della track finale da assorbire, le ritmiche sincopate, le grida del vocalist e ancora tanta, troppa carne al fuoco, tipo le ubriacanti scale ritmiche e i trasognanti assoli, tanto per dirne un paio. 'Emptiness Fills The Void' alla fine è comunque un buon disco, forse assai ostico da affrontare, tant'è che mi ci sono voluti davvero parecchi ascolti per arrivare a stendere queste conclusioni. (Francesco Scarci)

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

mercoledì 9 maggio 2018

Gigantomachia - Atlas

#PER CHI AMA: Epic Death Metal, Bolt Thrower
"La Tauromachia" inneggiava un De Luigi un bel po' di anni fa quando impersonava il cinico Guastardo. Perché questo incipit? Perché leggendo il monicker di questi italiani, ossia Gigantomachia, il primo assurdo pensiero che mi è venuto in mente è stato quello del comico italiano a Mai Dire Gol. Certo il significato dei due termini è piuttosto simile, nel primo caso si riferiva al combattimento tra bovini e uomini, nel secondo a quello dei Giganti contro gli Dei dell'Olimpo. Me ne rendo conto, sto digredendo e sottraendo tempo prezioso ai frusinati Gigantomachia che arrivano al loro debutto grazie al supporto dell'Agoge Records, attraverso un disco potente di death (piro)tecnico, epico e potente, volto a raccontare la rivolta dei Giganti contro gli Dei. 'Atlas' apre con un'intro che ci conduce proprio a questo tema, "Rise of Cyclop", e che prepara il terreno alla prima tempesta affidata all'oscura "Eye of the Cyclop", una traccia arrembante che mette in mostra le caratteristiche del quintetto di Alatri: ritmica pesante ma dotata di un discreto pattern melodico, la coesistenza tra growling e screaming vocals, una cupa atmosfera di fondo creata da ottimi arrangiamenti. Si passa a "Liberate the Titans", song spigolosa, complice una matrice ritmica il cui suono è assai vicino a quello del cingolato di un carro armato. La traccia è pachidermica nel suo incedere, sebbene i cambi di tempo dovrebbero aiutare a renderla più leggera, niente da fare, è solo l'assolo finale a sollevarci per una ventina di secondi dalla monoliticità di un suono davvero pesante, che per certi versi sembra richiamare quello degli inglesi Bolt Thrower. E che continua ad essere pesante e minaccioso anche nella successiva "Immortal", in cui il giro di chitarra iniziale si rivelerà piuttosto ipnotico e ridondante almeno fino a quando strali di luce nella notte (le chitarre) prendono il sopravvento e rompono ancora una volta una proposta che rischia di peccare in eccessiva coriaceità. Più convincente "Aldebaran", un po' più dinamica e carica di groove, e comunque sempre brillante in fase solistica. "Leviathan" è un'altra song che evidenzia suoni solidi e pesanti, che peccano ancora un pochino in fase costruttiva ma che nella fase solista, trovano invece ottimi spunti. La title track è decisamente più compassata, anche se il riffing "panteroso" conferisce una certa verve al brano che comunque non travalica mai in fatto di velocità. Ultimo plauso per la conclusiva "Scylla & Cariddi", ove ancora una volta, la mitologia si mette a disposizione della musica per un'ultima cavalcata di progressive death dalle tinte epico-sinfoniche che sigilla una performance più che soddisfacente da parte di questa neo band italica. (Francesco Scarci)

domenica 22 aprile 2018

Pestilence - Spheres

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death, Atheist, Cynic
È sicuro che non avete mai sentito una definizione più cretina di "death-jazz". Vi viene voglia di indagare. Frastornanti cambi di ritmo trituraossa, un marcescente piede nel culo a qualunque, anche blanda, ambizione melodica (con la notevole eccezione della nebulare "Personal Energy"), dissonanti architetture tastieristiche intrusive ("The Level of Perception") o batteriologicamente ambientali (gli interludi di "Mind Reflections" ma anche le tre strumentali "Aurian Eyes", "Voices from Within" e "Phileas", rigenerati da strumenti a corda) e un chitarrismo alieno, groove ("Changing Perspectives") o un prog-metal quasi generalizzato. Il tutto sinterizzato nella conclusiva, onnicomprensiva "Demise of Time", senz'altro la canzone più straordinariamente vitale e autolesionista di un'intera carriera. Niente più soffocamenti e purulente lacerazioni: 'Spheres' si presenta come una sorta di concept sulla percezione e la conoscenza (non perdetevi la scemenza new-age di "Personal Energy") emananti dalle misteriose sfere cosmiche raccontate in "Spheres" (la canzone), sorta di tondeggianti monoliti di kubrickiana memoria. L'album fu massacrato dai critici e odiato dai fans. Di conseguenza la band rimase inattiva per quindici anni (e non per sempre, come avrebbe invece dovuto). Se al pari del sottoscritto non sapete nulla e non volete sapere nulla di death metal, ascoltate comunque questo album: non vi sarà difficile individuare comunque la sua intrinseca specificità. E magari apprezzarla. (Alberto Calorosi)

(Roadrunner Records - 1993)
Voto: 75

https://pestilenceofficial.bandcamp.com/album/spheres

giovedì 12 aprile 2018

Persefone - Core

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death/Black Symph, Opeth, Dimmu Borgir
E anche il piccolo stato di Andorra ha la sua band metal: si tratta dei Persefone, che oggi ha parecchia notorietà nel circuito underground ma che nel 2007 rappresentavano forse una curiosa realtà proveniente dal piccolo stato immerso nei Pirenei. 'Core' è il loro secondo lavoro (originariamente rilasciato nel 2006 solo in Giappone, poi anche nel resto del mondo, attraverso la Burning Star Records e ristampato anche nel 2014 visto il sold-out originario), dopo 'Truth Inside the Shades' datato 2004. Il sestetto, formatosi nel 2001, propone un sound a cavallo tra il death (per ciò che concerne le ritmiche) e il black sinfonico (per quanto riguarda gli arrangiamenti e le orchestrazioni). Sicuramente molte sono le fonti di ispirazione per il combo ritrovabili in acts quali Borknagar, Arcturus o Old Man's Child, senza tralasciare neppure le sonorità di Opeth, Orphaned Land e Symphony X. A leggerla così, sembrerebbe di trovarsi fra le mani un bel pacco bomba, in realtà, la proposta dei nostri a quei tempi non si mostrava ancora del tutto matura, anche se s'intravedevano ampi margini di crescita. Le idee ci sono, e anche buone devo ammettere, mancavano forse i mezzi adeguati e una guida esperta, che potesse indicare la giusta via a questa giovane band. 'Core' è un concept album, diviso in tre parti, narranti la storia di Persefone, la mitologica dea greca dell'oltretomba. La musica dicevo, è un mix di death metal, con originali divagazioni in ambito progressive (stile Dream Theater) grazie ad eccelsi virtuosismi dei singoli e ad una generalizzata complessità delle ritmiche (ascoltare la bellissima quarta traccia “To Face the Truth” per capire di cosa stia parlando); accanto al prog death metal sono udibili gli accenni al black sinfonico, con chiare orchestrazioni di scuola Dimmu Borgir ed un elegante avantgarde di matrice Arcturusiana. La presenza di una vocalist femminile ammorbidisce lo screaming feroce (da rivedere) del cantante (che si trova a ringhiare sia in formato growl che clean). Eccellenti le tastiere, a testimoniare la vena progressive dei nostri, cosi come le parti semi-acustiche e le oscure melodie, che completano un lavoro assai articolato e sicuramente di non facile presa, ma certamente già di grande interesse. (Francesco Scarci)

(Burning Star Records - 2007)
Voto: 70

https://persefone1.bandcamp.com/album/core

sabato 10 febbraio 2018

Fragarak - A Spectral Oblivion

#FOR FANS OF: Techno Death
One of the things I really like from Internet, is the chance of discovering bands from unusual metal scenes. Back in time, it was almost impossible to find them, but nowadays, it’s great to be aware about bands coming from very far countries. Something I also realized is that quality doesn’t know about political or geographic limits, which is great. 

A good example of this fact is given by the Indians Fragarak. The band´s initial inception goes back to 2011, when two young musicians, called Karikeya and Ruben, co-founded Fragarak, deciding to express their musical ideas. The band didn’t become a complete entity until the arrival of Arpit and Supratim. From the very beginning, the aim was to create a very intense sound, technically and melodically complex. Ideas were flowing constantly so in less than one year, the act was capable of releasing a very solid debut entitled 'Crypts of Dissimulation'; it was 2013. Their first effort received very good reviews which strenghtened their ambition to push the sound forward. 

Two thousand and seventeen was the year of Fragarak comeback, with the release of their sophomore album called 'A Spectral Oblivion'. The improvement is clear since the very first moment, even the artwork looks more elaborated and complex. Another aspect which is clear as soon as you listen to the album, is that the guys had tons of ideas to propose, considering that the new Lp contains eleven long songs, lasting more than 80 minutes. I am not a huge fan of such a long albums, but I must admit that Fragarak is capable of maintaining a good level through the whole work, which is something very respectable. Musically speaking, the release is a more refined work, although their early ideas haven´t changed. Their offering is a technical death metal with progressive metal influences, very rich details and with a gloomy and an atmospheric touch. Each song has many changes of time and twists, which made this album a gem, though it requires several listens to be fully enjoyed. “This Chasing Masquerade” is a good example of what I am saying, being one of my favourite tracks: Supratim´s powerful and solid growls are accompanied by excellent and intricate riffs with great melodies. Those melodies change from time to time, from the most brutal and complex sections to the most melodic ones. Apart from that, the ensemble tries to enrich their songs with some good arrangements, like acoustic sections or some choirs with quite somber clean vocals, as in the opener, “In Rumination I-The Void”, or in the epic track “Of Ends Ethereal”, that could represent fine examples of this. I do enjoy those arrangements because they give an atmospheric touch to the album. Due to its length, I imagine as a part of the concept behind the music, the band includes some short interludes which look like moments of calm in the middle of an oceanic storm. Those tracks are mainly acoustic and sometimes include also female vocals (the closer “Ālūcinārī IV-The Fall”) with an interesting ethnic touch. It’s really nice when a band coming from a country with a very different culture tries to include in their music, a slice of their heritage. 

In conclusion, Fragarak´s sophomore album is a step forward in every aspect. Both musically and composition wise, this is a very elaborated and consistent work. Furthermore, the production, which is excellent, only enhances the strongest aspects of the band´s music. My only little complain is related to the album´s length which in my opinion is a little bit excessive, but who can complain if the level is very good from the beginning to end? (Alain González Artola)

(Transcending Obscurity India - 2017)
Score: 85

venerdì 22 dicembre 2017

Kera - Hysteresis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Meshuggah, Opeth, Death
Album di debutto per i transalpini Kera questo 'Hysteresis', che conferma come la Francia sia diventato un territorio di artisti dotati di una creatività fuori dal comune. No, non sto già incensando questo lavoro, faccio pure e semplici constatazioni in base al numero di uscite discografiche di elevata qualità che ogni giorno escono dal paese dei nostri cugini. Ma non divaghiamo e torniamo ai Kera, quintetto di Parigi, che ha all'attivo un EP omonimo uscito nel 2015. Il genere dei nostri è un death progressive che dopo una breve overture, irrompe con "Harbinger of Doom", una traccia che si muove su ritmi sincopati, che potrebbero strizzare l'occhiolino ai Meshuggah, cosi come pure ai Death, ma che in realtà non lo fanno fino in fondo. Questo perchè dai solchi di questo lavoro, escono sonorità diverse che provano a mischiare la veemenza del death poliritmico forgiato dai gods svedesi con la tecnica sopraffina di altre divinità, i Dream Theater, in un sorprendente sound in grado di fondere rabbia, melodia, tecnicismi e ancora death, hardcore e progressive. La proposta corrotta da varie influenze, si traduce anche nell'utilizzo di vocals sia growl che pulite, qui decisamente meno convincenti. Quello che invece convince e non poco, è l'apparato solistico che delizia le orecchie con assoli deliziosi e fantasiosi, cosi come in aperture acustiche (spettacolari a tal proposito, gli ultimi tre minuti di "Silence") che suggeriscono gli ultimi Opeth quale punto di contatto con i nostri anche se in realtà sono gli anni settanta ad aver sospinto la voglia di stupire di questi musicisti. Con "Sanity Fails" si torna a far male con un approccio votato ancora a Chuck Schuldiner e compagni, con un altro pezzo dritto verso il bersaglio che trova modo di rompere il suo disarmonico incedere, solo attraverso un altro spettacolare assolo. Si arriva cosi alla semi-acustica (nella prima metà) "Epiphany of a Lunatic", in cui sembra aver a che fare con un'altra band, un altro genere, altri musicisti, un altro cantante, prima che si torni a pestare sull'acceleratore, dimenticandosi di quelle soffuse melodie che avevano deliziato in apertura di brano. Poi ci si può solo accomodare in poltrona e lasciarsi stupire dalle scale ritmiche su cui si arrampicano i nostri, in un climax ascendente ricco in emotività e sorprendenti divagazioni che sembrano uscire dalla chitarra del buon Carlos Santana, in una miscela di rock, blues e fusion, tenendo sempre ben presenti le radici estreme della band. Con "Sirens" si torna sui ritmi sincopati "death-meshugghiani" iniziali, in un altro vortice sonoro in cui a mettersi in luce oltre all'onnipresente apparato percussivo, anche un ottimo basso, in una sequenza impressionante di stop'n go e schitarrate elettriche da lasciare a bocca aperta. C'è ancora tempo e modo per lasciarsi impressionare da questo ensemble francese: mancano infatti a rapporto "Delusion", "Compos Mentis" e "Silence (Slight Return)". Se la prima non mi convince più che altro per la performance vocale urlata o meglio strozzata in gola di Ryan Salahou, o per dei cori non proprio azzeccatissimi, non si possono certo sollevare grosse obiezioni alla seconda in fatto di irruenza, melodia e comparto solistico, un po' meno per via della voce, che probabilmente rappresenta a questo punto, l'elemento debole dell'ensemble francese. Non tradiscono infatti gli assoli, sempre ficcanti e travolgenti. Il disco dopo quasi 50 minuti, giunge alla conclusione con un'ultima perla di rock semi-acustico che paga decisamente dazio a Mikael Åkerfeldt e soci con un'altra preziosa performance di death carico di groove. Ben fatto, non c'è che dire. (Francesco Scarci)