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giovedì 2 giugno 2011

Am Tuat - Inmotion

#PER CHI AMA: Death Doom
Dall’Olanda ecco arrivare un nuovo terzetto dedito ad un death doom assai ritmato che mi ha fatto ripensare alle vecchie glorie del passato della terra dei tulipani, Sad Whispering, Castle e Beyond Belief. Stiamo parlando di formazioni che offrivano il tipico sound rallentato, malinconico, corredato da vocioni brutali, qualche clean vocals e qua e là arieggi melodici, ma erano i primi anni ‘90. A distanza di quasi vent’anni, salgono alla ribalta gli Am Tuat che, prendendo spunto dalla tradizione fiamminga, rilasciano questo “Inmotion”, che probabilmente potrebbe fare la gioia di chi si ciba di dischi all’insegna della brutalità accompagnata da aperture melodiche, plumbee atmosfere invernali, inquietanti sussurri nel buio e drammatici arpeggi. Tanta carne al fuoco che potrebbe far ben sperare per il futuro, mentre per il presente, quello che abbiamo fra le mani, è ancora un prodotto abbastanza acerbo che poco, anzi nulla ha da dire a chi come me, ama questo genere di sonorità. Troppi, veramente troppi sono gli album che escono ogni giorno in questo ambito e molto elevata è la qualità delle band che affollano il mercato, soprattutto grazie alle band provenienti da Russia o Ucraina. E gli Am Tuat, per quanto si sforzino di trasmettere qualche apocalittica sensazione, passando attraverso atmosferiche ambientazioni e pachidermiche cavalcate, non hanno ancora quelle idee geniali o di classe capaci di permeare la loro musica, in quanto ancora intrappolati in sonorità death metal che appiattiscono il sound della band. Peccato, perché qualche sprazzo interessante ci sarebbe anche, troppo poco a dire il vero, per ritenere sufficiente questo album di debutto. Sarà sicuramente per la prossima volta… (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 55

Questo “Inmotion” mi ha dato da fare, nel bene e nel male. Gli olandesi “Am Tuat” muovono i primi passi nel 2003 e da lì incominciano a sviluppare la loro musica. Dopo due demo, nel 2009 danno alle stampe sopracitato album. Potrebbe essere catalogato nel genere “progressive death metal”, ma si percepiscono molte influenze musicali diverse. Ci trovo i “My Dying Bride” e qualche influenze thrash metal. La formazione attuale vede: Bauke Valstar (chitarra e voce), Nick Pel (chitarra), Arno Rensik (basso) e Sander Bosscher (batteria e voce). Al primo ascolto sono rimasto colpito da sensazioni contrastanti, quelli seguenti, a essere sincero, hanno originato lo stesso effetto. Si dice che l’importante sia colpire l’ascoltatore, creare in lui emozioni: in questo ci sono riusciti. Vi è mai capitato di percepire qualcosa come interessante ma, al tempo stesso, come gravemente sfregiata? Qualcosa che poteva essere notevole ma, rimasta incompiuta, ci offende in poco lo sguardo? Sì? Questo è quel che ho provato ed eccone le cause. Il growl utilizzato è ben oltre il mio limite di sopportazione, molto pesante, totalmente anonimo e appiattisce tutte le tracce. Queste perdono la loro singolarità e si confondono. Tutto ciò è accentuato da un’esecuzione che mi appare svogliata. Gli accordi, quando dovrebbero essere potenti, non lo sono quanto dovrebbero, le parti tirate appaiano troppo piatte quasi amorfe, persino troppo lente. Francamente li trovo più a loro agio nelle fasi più tranquille. Qui gli accordi risultano ben eseguiti, molto più melodici e le contaminazioni danno origine a un qualcosa di più rilassante ma più apprezzabile. Tra le track segnalo volentieri la strumentale “Ahead of Sadness”, che considero veramente piacevole (manca infatti il pernicioso growl). Vorrei spendere due parole sull’elefantiaca “A Cry... The Sound of a Tragedy”: 18 minuti! Ragazzi miei, io apprezzo l’impegno ma, insomma, si arriva alla fine annaspando. Non credo che tali fatiche siano nelle loro corde, almeno per ora. Le altre canzoni rimangono nell’anonimato del percepito ma subito rimosso. Nel complesso il lavoro risulta troppo annacquato: 66 minuti sono troppi, arrivarci in fondo è difficile. Vale il discorso fatto prima, per un avere un buon risultato con queste durate, occorre una certa maturità, che ancora non dimostrano di possedere. Da apprezzare il loro coraggio e la capacità compositiva non banale che si percepisce dal lavoro. Da piccolo la maestra diceva che, in certe cose, avevo le capacità ma non mi impegnavo a dovere. I miei allora si inviperivano da matti: “Se hai le doti usale!” (seguiva gragnuola di scopaccioni). Ecco lo stesso vale per questi olandesi. Potrebbero fare degli ottimi lavori al posto di dischi sì sufficienti, ma che lasciano un senso di amarezza per ciò che avrebbero potuto essere e non sono. (Alberto Merlotti)

(My Kingdom Music)
Voto: 65

lunedì 9 maggio 2011

Nowhere - M.O.U.W.

#PER CHI AMA: Crossover, Funk
Quante volte mi avrete sentito dire qualcosa del tipo “Sì, niente male ma un po’ troppo ripetitivi...”? No, fermi lì! Non andate a contarle. Sappiate solo che questa volta non lo dirò. Sì perché le cinque tracce di questo “M.O.U.W.” sono maledettamente eclettiche e, a parte una catalogazione un po’ generale nel genere metal, faccio fatica a darne una definizione. Direi vicino al crossover, ma con una certa libertà. I “Nowhere” mi hanno colpito molto positivamente; il gruppo rodigino riesce a creare un album dal suono relativamente meticcio, mantenendo una forza concussiva sonora niente male. A proposito: non fatevi prendere dalla tentazione di considerare la traccia di apertura, “No Song”, come metro dell’energia del disco. Risulta più tranquilla delle altre grazie a un passaggio raggamuffin’ azzeccato, ma orecchio alle linee di chitarra: già si sentono le loro intenzioni per il seguito. Ecco infatti la più tetra, incalzante e aggressiva “Arbeit Makt Sklaven”, il cui incipit la rende leggermente straniante.Veloce, diretta “Lula Pop” potrebbe sembrarvi subito scontata, ma i variopinti innesti (dal growl e a certi cantati che mi ricordano Elvis) evitano decisamente di annoiarsi. La seguente “Meaning of Unspoken Word” mi pare la più interessante del mazzo, ricca di spunti derivanti da diverse influenze. Qui ritorna in maniera più preponderante il raggamuffin, è un cavalcata tra percussioni martellanti, cambi e un cantato dalle metriche vertiginose (se devo essere sincero non ci ho capito granché, ma va bene lo stesso). Chiude l’album, introdotta da cornamuse su un ritmo da marcetta, “Indelible” la canzone più cruenta del platter. Grazie al featuring di Christian, dei Fear Flames, i nostri ci regalano quattro minuti durissimi, velocissimi fortemente improntati al core.Una parola va spesa assolutamente per l’ironica immagine usata per la copertina del ciddì. Un buon lavoro, personale, non scontato e, mi pare, con una buona dose di autoironia di fondo. (Alberto Merlotti)

(Akom Production)
Voto: 70

domenica 17 aprile 2011

Symbol Of Obscurity - n.N.i.M.m

#PER CHI AMA: Melo Death
Appena me lo passo tra le mani, rimango colpito da due cose di questo disco: l’artwork e l’ostico titolo. Sul primo tornerò più sotto. Per il secondo, l’arcano è spiegato all’interno del CD: “n.N.i.M.m” sta per “new Name in Metal mithology”. Alla faccia della modestia! Sono riusciti nell’intento? Sono davvero un nuovo nome da riportare nella mitologia metal? Vediamo... I nostri sono 4 moscoviti (ah, l’est quanto è particolarmente attivo) e la loro fatica si colloca nel genere melodic death metal. Ne seguono gli stilemi classici, ma qualche assolo, forse più melodico di quanto atteso, se lo lasciano scappare. Dalle sei tracce, dai ritmi martellanti e serratissimi, i ragazzi evocano nella mia testa atmosfere oscure, asfissianti ma energetiche. Secondo me il punto di forza risiede nella compattezza delle singole canzoni. In ognuna di loro, tutto si fonde abbastanza bene: dagli assoli ora melodici, ora più cupi, all'instancabile batteria. Mi lascia un po’ perplesso la monotonia della voce del cantante, forse bloccata dal volersi attenere rigidamente al genere. Le songs non eccedono in lunghezza. È un bene, si fossero lasciati andare sarebbero risultati stucchevoli e avrebbero perso forza subito. Ad essere sincero, qualche rifinitura qua e là avrebbe reso il tutto più godibile. Come promesso torno sul design del package e sull’artwork, molto intriganti. La cover è particolarmente bella e anche le immagini interne sono evocative delle arie del platter. Bravi. Torniamo alla domanda iniziale: “Sono davvero un nuovo nome da riportare nella mitologia metal?”. Per ora no. Quest’album piacerà certamente ai fans più legati al genere, ma i nostri dovrebbero puntare a qualcosa di più personale sia nella parte musicale (in particolare non mi spiacerebbe se riuscissero a portare in primo piano le linee di basso) che nel cantato (davvero la voce è un po’ troppo ripetitiva). Atmosfera e tecnica ci sono, la presenza di un nota caratteristica e di qualche variazione non potrebbero che fare bene ai lavori futuri. (Alberto Merlotti)

(Ghost Sentry Records)
Voto: 65

lunedì 11 aprile 2011

MG66 - In the House of Liv

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Metallica
Il buon vecchio Franz mi allunga il disco e, tutto convinto, mi dice: “Sono un gruppo thrash, dovrebbero piacerti”. Noto la copertina molto glam rock (a proposito: ho letto critiche negative sull’immagine, a me non pare male...) e penso: “Ma non si sarà sbagliato? Mah...”. Annuisco e me ne vado perplesso. Inforco le cuffie e mi sparo “In the House of Liv”: il buon Franz aveva ragione! Veniamo alle presentazioni: gli MG66 sono un gruppo trentino il cui nome prende origine dalla MG42 (mitragliatrice tedesca della seconda guerra mondiale, ancora in uso in alcuni eserciti, tra cui - ah ricordi di naja - quello italiano) e dalla Route 66 (strafamosa highway americana). Line up: Dee Mitra (Chitarra), Robert Pixx (Voce), Cla Vanza (Batteria), Steve C.H. (Basso) e Davidian (Chitarra). Certo che per essere il primo LP, oltretutto autoprodotto, c’è da rimanere sbalorditi. I nostri han fatto le cose davvero egregiamente, con una produzione impeccabile per dieci tracce che riprendono il thrash più classico, quello Metallica e dei Pantera per capirci. “In the House of Liv” troverete tutti i canoni del genere, ben assemblati ed eseguiti in maniera fedele alla linea. Tuttavia qualcosa di diverso si può sentire in certi brani. Prendete “I Will, I Can” ad esempio, dove si possono scorgere degli innesti provenienti da altri generi davvero azzeccati. In altre canzoni non riescono così bene e non convincono molto, per esempio le parti industrial in “Shut Up”. Finché rimangono nel genere ci sguazzano e si sente, mentre appaiono, per ora, ancora un po’ incerti alle contaminazioni. Però è una strada che gli consiglierei di seguire, in quanto nel complesso funzionano. Ho molto apprezzato il lavoro dei chitarristi, che passano dai canonici riffoni granitici, a parti più lente e melodiche con una naturalezza invidiabile. Mi lascia un po’ dubbioso il cantato, troppo monocorde e troppo debitore a James Hetfield. Niente male il batterista che detta i tempi giusti e picchia con un’altrettanta giusta rabbia. Un solo appunto forse va fatto per quanto riguardo i testi che andrebbero maggiormente curati. Il cd vola via che è un piacere, nonostante le song non siano corte, lasciandomi addosso un certo desiderio di uscire a far bisboccia: niente male. Io, a questi MG66, mi sento già di volergli bene. Hanno il carattere giusto, la passione trasuda e poi l’attenzione a dei suoni puliti è quel tocco in più. Piacevoli! (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto: 75

giovedì 17 marzo 2011

The Battalion - Head Up High


“The Battalion”... li scopro solo con questo loro secondo album: mi pento di non averli incontrati prima. Faccio il bravo, recupero la loro precedente fatica “The Stronghold of Men”, me lo sparo e quindi ripasso al loro ultimo “figlio”. Lo reputo all’altezza, se non migliore del precedente. Un po’ di biografia, giusto per capire un po’ meglio la mia sensazione al primo ascolto. La band si forma a Bergen, nell'estate del 2006, da musicisti di esperienza provenienti da alcuni dei gruppi leggendari della Norvegia: band come Old Funeral, Grimfist, Taake, Borknagar e St. Satan. Ora, se non li avete mai sentiti, secondo me, sarà il caso di informarsi. Chi ne avesse già dimestichezza, probabilmente, si starà facendo, come mi ero fatto io, una certa idea del disco: avete pensato ad un album black o death metal? Anch’io! Ci siamo sbagliati. Già, perché questo ensemble spariglia le carte e ci propone qualcosa di diverso. Un prodotto thrash metal, con fortissime influenze dei Motörhead; da qui la mia sorpresa. Stud Bronson (chitarra e voce), Lust Kilman (chitarra), Colt Kane (basso) e Morden (batteria) ci sbattono subito in faccia “Mind the Step”, una canzone thrash tiratissima. Ecco quello che sentirete per tutto il resto del platter. Undici tracce potenti, veloci, suonate molto bene, spietate nel loro incedere, nel loro ritmo e purtroppo maledettamente uguali tra di loro. Ma è un ciddì che non lascia per nulla indifferenti: trascinante, che nella rabbia mescolata alla tecnica, ha il suo punto di forza. Nulla da dire sulla bravura del quartetto. Chitarre, batteria, basso: tutto notevolmente ben fatto. Troverete anche assoli di chitarra niente male (né troppo lunghi, né troppo corti) e batteria a mille, che mi ha deliziato non poco. Mi lascia tuttavia un po’ perplesso la voce del cantante, troppo monocorde sia come stile sia nella varietà di soluzioni. Ottima infine la produzione: tutto si sente come si dovrebbe. Vi consiglio di soffermarvi maggiormente su “When Death Becomes Dangerous” e su “Bring Out Your Dead”, secondo me le migliori, per via di un certo loro carattere più aggressivo che non si ritrova nelle altre. Dicevo che ritengo le song molto simili ed è questa, alle mie orecchie, la pecca più grave. Però, se in altri casi è fonte di noia, in questo non lo è più di tanto. Le track sono brevi e la loro forte carica fa volare via liscio il disco. Bravi. Sarei molto curioso di vederli dal vivo, ma per ora preparo la crema contro gli strappi al collo, mi risparo “Head Up High” e mi lancio nell’headbanger più sfrenato! (Alberto Merlotti)

(Dark Essence Records)
Voto:80

sabato 5 marzo 2011

SKW - Numbers


Allora, partiamo subito col dire che il disco non è male. Ecco, magari lo senti una volta e non rimani fulminato, non si scorgono grandi segnali di originalità e alcune canzoni sono più lunghe del dovuto. È, però ben prodotto e ottimamente suonato. L’ultima fatica degli italiani SKW (ex Skywalker), prodotta da Frank Andiver (Labyrinth, Oracle Sun) e registrata in Italia, non ha molto da invidiare ad altri prodotti d’oltreoceano. L’idea generale che si ricava è quella di un disco molto compatto e che segna una successiva evoluzione dello stile della band verso un suono più duro. Le tracce, prese singolarmente, sono apprezzabili, ben suonate e la voce del singer Marco appare sempre pulita. Menzione per l’introduttiva “1Minute2Lie” e “Cow(ard)” che hanno in comune piacevoli inserti di chitarra. Più aggressive “C.U.C.K.”, “Hate3” e “2Muchwords”, anche se quest’ultima parte con una certa velocità per poi rallentare e ha certe parti vocali forse fuori luogo. Tranquilla e sognante “Sleep”, spicca come una piacevole pausa, con sonorità particolari che fanno da contraltare alle altre songs. Le altre canzoni, pur mantenendo il livello, paiono dotate di minor personalità, talvolta dilungandosi o perdendosi troppo: spiace davvero. Da notare anche il remix di chiusura di “Hate3”, che porta un certo sapore elettronico alla canzone originale. Batteria precisa e basso efficace: molto meglio di quello che si sente in giro. Impossibile non citare le chitarre di Simone (colleghi più rinomati dovrebbero sperare in sue lezioni), sempre potenti e con assoli di pregio. Un solo appunto sulla prestazione del frontman: la voce è un po’ troppo lineare, da rivedere in futuro. Niente di stupefacente riguardo ai testi delle canzoni, che seguono l’idea del titolo dell’ellepì. Una parola sull’artwork del CD che personalmente trovo molto ben curato dalla Carosellolab, ma qualcuno li avverta che su iTunes glielo hanno pubblicato a testa in giù… Un lavoro alla fine concreto, che sicuramente piacerà agli amanti del genere, ma se cercate qualcosa di mai sentito o qualche alchimia particolare, potreste anche non trovarla. (Alberto Merlotti)

(AdverseRising)
Voto: 65

domenica 13 febbraio 2011

Doppelgänger - Goat the Head


Carico il CD e me lo sparo tutto d’un colpo e il primo pensiero è: “mmm, mi sa che mi sono perso qualcosa...”. Allora decido di ripararmi il cd ma la sensazione è la medesima: “mmm, mi sa che ho ri-perso qualcosa...”. Terzo tentativo. Mi arrendo. I norvegesi Doppelgänger prendono tutto quello che riguarda melodia, eleganza, pulizia del suono, ricerca nella composizione e lo ignorano bellamente. Va bene divertirsi suonando, va bene non legarsi troppo a stili, ma qui si esagera. Eccovi un disco death metal tiratissimo, armato di un rudezza disarmante e aggravato da una cacofonia violenta di suoni e voci. Nel packaging si definiscono “cavernicoli primitivi contemporanei”: come dargli torto. Infatti, io me li vedo vestiti di pelli d’orso che eseguono i pezzi usando ossa e pellami di animali estinti mentre il cantante emette urla belluine. Eccovi un lavoro in cui tutte le tracce si confondono, tanta è la loro similitudine. La voce growl è adoperata oltre il mio limite di sopportazione; tutta la parte strumentale è completamente asservita ad una potenza selvaggia priva di schemi. Nessuna cosa è definibile come assolo o virtuosismo. Potrebbe essere anche divertente, sinceramente io userei questo “Goat the Head” come colonna sonora di una gara di headbanging. Vero poi che la sensazione di già sentito compare molto, troppo rapidamente. Due cose salvano il cd dal mio dimenticatoio istantaneo: la brevità e la terza traccia. Grazie a Dio, i nostri hanno creato song brevi; tutto il platter fortunatamente finisce in 33 minuti: se ne durasse anche solo 5 in più, credo che nessuno lo ascolterebbe più di una volta nella vita. L’unica canzone che spunta dall’anonimato è appunto la terza traccia, “This Tube is the Gospel”: qui una voce femminile pulita, veramente molto bella (assieme a cori lontani), insieme al growling di Per Spjøtvold, creano un contrasto spiazzante che ho trovato davvero piacevole. Un appunto volante anche sull’immagine in copertina: credo sia un omaggio “blasfemo” alla cover di “The Miracle” dei Queen, dove i volti dei componenti si fondevano in unico viso (Come dite? Quella era meglio? Sì, concordo). Un album quindi sconclusionato, grezzo, casinista e ripetitivo, ma attenzione, non tutto è da buttare. Solo per veri amanti del death metal tout-court, senza troppe pretese. E ovviamente, indicatissimo per le gare di headbanging! (Alberto Merlotti)

(Aftermath music)
Voto: 50

mercoledì 9 febbraio 2011

Sweet Insanity - Believe in Some Kind of Truth


Apprezzabile il gesto, ma darci dentro! I Sweet Insanity sono una band della provincia di Bologna che si forma del 2005. Registrano il loro primo EP autoprodotto, "Welcome To The Theater", tra il novembre 2006 e il febbraio 2007. Nel 2008 vengono messi sotto contratto dalla loro attuale etichetta, l’Hurricane Shiva. Mi capita tra le mani questo loro primo lavoro di ampio respiro. Inforco le cuffie e si parte. Si sente subito chi ha influenzato lo stile di questi ragazzi: il debito nei confronti dei “Four Horsemen” mi fa venir voglia di lasciare stare. Superato questo momento d’impaccio, mi rituffo però nell’ascolto. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole: le canzoni sono suonate bene, le chitarre e le percussioni ci sono, i ragazzi ci sanno fare, con assoli puliti e la batteria bella potente quando serve. Ecco, la voce del cantante, molto melodica per il genere, mi lascia un po’ perplesso: s’incunea bene nelle sonorità ma pare non essere abbastanza potente e caratteristica. Il disco ha una sua linea, seppur non originale. “Believe in Some Kind of Truth” si apre con un’arpeggiata “Zeia Mania”, cui segue poi “Ready to Burn” un po’ più tirata (chi dice che ricorda “Fuel” dei Metallica?) che dà il “là” per i brani seguenti. “Conflict” è la prima traccia che si discosta dalle altre, con una parte melodica che permette alla voce del singer di poter spaziare liberamente. Questa vena meno potente si ritroverà più avanti anche in “Angel”. ”Libido”, con parti vagamente orientaleggianti e un finale particolarmente veloce, ha un qualcosa di personale e caratteristico cosi come pure “Funeral Lullaby” che prende le distanze dal resto delle song; melodica con arpeggi, in altri tempi sarebbe stata indicata come la “power ballad” del disco. Senza infamia e senza lode le altre tracce di questa release, a parte “Sons of the Dust” che ha l’aggravante della lunghezza. I testi delle canzoni sono semplici e diretti, cosa apprezzabile, ma forse un po’ troppo. Grossa pecca di questo lavoro è ahimè la bassa qualità di registrazione, davvero una produzione migliore avrebbe meglio portato alla luce le doti della band. Pur con questi limiti, mi sento di considerare questo LP positivo. Chi cerca le sonorità di “Re-Load” (sempre che esistano persone che ne siano in cerca), potrà trovare questa fatica addirittura divertente. Possono fare di meglio e sganciarsi magari dal lavoro e dalla forte dipendenza di altre band, sempre che lo vogliano e non si divertano già abbastanza così. Migliorabili! (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 65

giovedì 27 gennaio 2011

Ancient Dome - Perception of this World


Se mi chiedessero “qual è la percezione di questo mondo che hanno gli Ancient Dome?”, risponderei con un “beh proprio ottimistica non direi”. Non crediate, però, che i nostri abbiano fatto un prodotto triste. Rabbia, energia, forza: queste le mie sensazioni dopo aver ascoltato le tracce del disco. Scopro qui per la prima volta questa band italiana, corro ai ripari e mi ascolto anche il loro, unico, precedente lavoro: “Human Key”. Un bel miglioramento, su tutto il fronte. Questo cd mi piace; mi piace per la carica, l’anima e la grinta che ci infondono. Sono curioso di vedere un loro performance dal vivo. Abbiamo 11 canzoni strutturate partendo dal thrash metal, con qua e là qualche lieve accenno ad altri generi più melodici e techno. Le tracce sono quasi tutte dirette. Batteria martellante, accelerazioni, cambi di ritmo, stacchi seguiti da ripartenze immediate: queste le cose che più balzano al mio orecchio. Niente male le chitarre: i riffoni, le scale e gli assoli sono ben fatti e non buttati lì a caso, solo per far sentire che la band ci sa fare con i propri strumenti. Ho però il dubbio che le chitarre non si sentano come dovrebbero, gli assoli in particolare. Apprezzabile anche il singer, abbastanza personale nel suo operato vocale. A proposito delle parti vocali, ascoltatevi con calma la power ballad “Dream Again”. Sì, va bene, è un lentone, non è il massimo dell’allegria, anzi ha al suo interno una decadenza strisciante che stride molto col resto del disco, ma detto tra noi, a me quelle sezioni vocali piacciono. Testimoniano, inoltre, la volontà del gruppo di uscire dal solito schema compositivo e ciò è decisamente un bene. Trovo nella title track un vero compendio dell’idee dell’album mescolate tra loro in maniera funzionale. La considero come la traccia più riuscita dell’ellepì. Più tirate invece "Predominance” e “Liar”. Le altre song sfoderano un po' meno personalità, cosi come pure le due solo strumentali che rimangono in secondo piano seppur ben eseguite. Ah, una nota divertente la potete trovare nel fumetto, che ha come protagonista la band, all’interno del booklet, ma non ve la svelo, andate a dare un'occhiata voi stessi. Alla fine del platter una certa stanchezza affiora, non per carenza tecnica o compositiva, ma per l'ipertrofia delle canzoni stesse. Qualche asciugatura non avrebbe tolto una virgola alla loro fatica e avrebbe reso il tutto più fluido. Da mantenere totalmente la loro attitudine ed energia. (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 records)
Voto: 70

lunedì 17 gennaio 2011

Starlight Extinction - Twilight of Darkness


Ascolto questo “crepuscolo delle tenebre” e mi vien subito da dire che il titolo è una buona anteprima del piatto. Iniziamo con le presentazioni: gli “Starlight Extinction” sono un quintetto trevigiano formatosi nel 2004. Tra il 2007 e il 2008 hanno registrato e quindi dato alle stampe (nel 2009) il qui presente “ Twilight of Darkness”. Si tratta di un album che farei ricadere nella categoria del melodic death metal, quello di provenienza svedese per intenderci. Se pensate che questo tipo di musica non abbia molto più da dire, se credete che sia ad un punto morto, in cui si auto-celebra per mantenersi sempre uguale, forse non avete torto. Ecco però che questo quintetto di bravi musicisti introduce qualche cambiamento, qualche influenza heavy e di altri generi che potrebbero farvi ricredere. Sia chiaro, lo stile è quello convenzionale: ritmiche tirate, voce straziante, mancanza di speranza, atmosfere opalescenti, cupe, appena addolcite da alcuni brevi momenti più melodici. Una bella ventata di sensazioni maligne, inquietanti e disperate, portata da una musica rabbiosa e asfissiante. Quindi: cosa trovare di diverso in questo lavoro rispetto agli altri? Direi una certa eleganza. Oltre alla rabbia, all’aggressività, al pugno in faccia, i nostri si adoperano anche per un’anima di ricerca e raffinatezza, che non si può fare a meno di notare. In questo senso mi han molto colpito le chitarre, in particolare gli assoli, che richiamano molto all’heavy classico e, devo essere sincero, difficilmente rimango insensibile a queste cose. I riffs introducono quegli attimi più luminosi nel complesso oscuro del platter. Bisogna dare atto alla bravura di questi ragazzi, mi pare che tutto sia suonato bene. Come non indicare il lavoro del batterista: ascoltatene il martellamento quasi incessante, specialmente nei passaggi veloci di “High Voltage”. In secondo piano i giri di basso, travolti dal resto. Un appunto sul bravo singer, forse troppo continuo nel modo di cantare. In alcune tracce, ad esempio “Back Off” o “Rejoining”, spazia con altri toni, dimostrando di poter fare qualcosa di più. Nell’insieme, il cd si lascia ascoltare fino in fondo, le songs si alternano abbastanza bene (anche se l’unica che si stacca un po’ dalle altre per carattere è la già citata “Back Off”) e non soffrono di pesanti ipertrofie. Nulla da dire a livello di produzione: si sente come si dovrebbero sentire questo genere di lavori. Un parola sull’artwork, all’inizio mi ha lasciato freddino, ma poi mi ha riconquistato. Qualcuno potrebbe dire che qua e là manca un po’ di spinta e di energia, forse avrebbe ragione ma vabbé, per questa volta li perdono... gli “Starlight Extinction” conoscono i propri mezzi, ci sanno fare e se lo meritano. (Alberto Merlotti)

(Bunker Production)
Voto: 70

sabato 15 gennaio 2011

Potential Threat - A New Threat


Arrivano dalla città santa del thrash, San Francisco, e si sente. I Potential Threat SF apprendono (anche troppo) dai grandi del genere e ci scodellano questo dischetto, non privo di spunti interessanti. Fedeli del thrash, vi sentite un po’ orfani del genere? Pensate: ma un ciddì tipo quelli dei Pantera, se ne fanno ancora?! Questo qui potrebbe interessarvi. Il lavoro ricalca tutti gli stilemi del genere, inoltre ci aggiunge qualche suggestione di gruppi new-metal (i Machine Head in particolare), le quali rendono il tutto meno scontato. Nulla di veramente nuovo quindi, tutto già sentito e digerito; a dire il vero nell’ascolto mi prende un po’ la nostalgia degli anni passati. Sì perché il ritmo potente, le chitarre tiratissime, l’energia, la rabbia e la batteria martellante che scaturiscono, a me piacciono. Mi piace sentire il muro sonoro che sorge dalle tracce, il continuo rullare della batteria, i giri di basso tellurici e gli stacchi. Mi piace un po’ meno lo stile del cantante, bravo per carità, troppo monotono e ispirato a James Hetfield (fatto che, di per sé, non sarebbe male, ma qui un po’ troppo ispirato). Ho molto gradito il gran lavoro del batterista, che picchia come un fabbro e bene. Prendete la opening track “Remember the Violence”: ecco lì c’è la somma dei pregi e dei difetti del platter. Una canzone tirata, con aperture, stacchi rapidi e concessioni melodiche. Ha nella ripetitività il suo punto debole. “Watch it Fade Away” è più violenta nei suoni, ma più calma nel cantato ed è giocata sull’alternarsi di queste parti. Stesso discorso si potrebbe fare per “For Our Nation”. Piacevole l’inizio sincopato della violenta “Far from the Truth”, quella che più mi ha colpito del mazzo. Un vero dispiego delle capacità tecniche del trio. Le altre songs rimangono al palo, ma non mancano di potenza e velocità. Nota super positiva, la lunghezza delle canzoni. Non si va mai oltre i 5 minuti e questo aiuta contro la reiterazione dei suoni. Ben realizzata la produzione, non mostra pecche. Alla fine dell’ascolto, ho avuto 50 minuti di energia, di musica potente, veloce, meno prevedibile di quanto avessi immaginato, ma anche meno di quanto sperassi. Lo stomaco è soddisfatto, l’orecchio vorrebbe qualcosa di più vario, ma questa volta può bastare. Promossi con sufficienza piena. (Alberto Merlotti)

(OSM Records)
Voto: 70

Atlantic Tide - Bad Acid Queen 7"


Come vi immaginate che sia un’onda atlantica? Vi dico la mia (ma voi non copiate): ecco, più che ad un’onda di quelle gigantesche da film di surfisti (tipo “Un Mercoledì da Leoni”), io ho pensato ad una corrente forte, un vortice marino caldo, difficilmente prevedibile ma non troppo intenso da divenire pericoloso per la navigazione. Ora, io non saprei dire se il trio svedese avesse in mente questo quando han deciso di chiamarsi “Atlantic Tide” e di suonare questo demo, però le due canzoni qui contenute, si adattano molto bene alla mia immagine. Secondo me i nostri ci sanno fare. Non sono di primo pelo: il cantante e il batterista hanno militato in altri gruppi e insieme nei “Terra Firma”, mentre il chitarrista ha un passato nei Blackshine, death’n roll band. Mi piace il suono di queste due canzoni, mi piace lo spirito che ne esce, mi piace l’alchimia sonora che scaturisce. Sono tracce raffinate, ricercate nella composizione, con presenza di melodie complesse, ma non stucchevoli. Tecnicamente capaci, trovo un po’ incerta la voce del vocalist in alcuni passaggi. Poco male, si è talmente coinvolti dalla musica che non lo si nota poi cosi troppo, ma su un lavoro di questo respiro stona un pochino. Trovo “Eyestroids” particolarmente elegante, ne apprezzo la fluidità trascinante, come l’onda atlantica che avevo inizialmente immaginato. La mancanza di stacchi netti facilita questa sensazione, la fusione di suoni elettrici con altri più classici, origina un effetto quasi psichedelico. Meno fluida, più ruvida la title track “Bad Acid Queen”, che ha in sé, come prevedibile dal titolo, un certo gusto acid-rock. Presenta un carattere più aggressivo e un po’ meno melodico rispetto alla precedente: cambi di ritmo, accordi più tirati, batteria più dura e il finale sfumato rendono l’onda atlantica qui più frizzante, ma non meno avvolgente. La lunghezza delle canzoni non è eccessiva e mi sembra un buon compromesso per dare sfoggio delle capacità del terzetto senza cadere nella noia. Sarei molto curioso di vedere cosa sarebbero in grado di fare su 33 giri. Per ora mi basta perdermi un attimo in queste due onde. (Alberto Merlotti)

(High Roller Records)
Voto: 70

martedì 28 dicembre 2010

Fear Factory - Obsolete


La guerra tra macchine e umani continua! Ricordo che quando ho avuto il cd fra le mie mani, ero scettico. Dopo “Soul of a New Machine” e “Demanufacture”, mi sono detto: “mmm... mi sa che questo concept non mi piacerà come gli altri due”. Ho guardato l’artwork del grandissimo Dave McKean in copertina e mi sono deciso ad ascoltarlo. Ha girato subito bene, i Fear Factory avevano sfornato (ricordo che era il 1998) un nuovo album fedele al loro stile, ma non uno pseudo-clone. Idealmente una release che chiudeva una trilogia con i due precedenti, quindi ne segue il solco, tuttavia mostrando una sua personalità. Mi sbilancio: una sua originalità. Procede con una sua linea e le canzoni si alternano piacevolmente dando una sensazione di non ripetitività, non semplicissimo considerando il genere. Undici tracce di un eclettico industrial metal con forti infiltrazioni elettroniche, tra cui si alternano pezzi molto duri (“Hi-tech Hate”, “Edgecrusher”) a pezzi più melodici (“Descent”). Interessante l’evoluzione del cantante Burton C. Bell, che riesce ad alternare sempre più parti growl ad altre più pulite in maniera efficace. Gli altri componenti rimangono a ottimi livelli di esecuzione, forse meno tirati che nei lavori precedenti: non fraintendete, spaccano lo stesso. La chitarra di Dino Cazares, in particolare, suona più bassa del solito. La finezza dell’album risiede nella commistione sempre più profonda con i suoni elettronici: davvero più ricercati che nei lavori precedenti. Il risultato migliore di tale miscela si può trovare nella bella (ma non velocissima) “Resurrection”: davvero si ha la sensazione di perdersi e ritrovarsi. I testi sono coerenti con il concept dell’album: la guerra tra macchine e umani. Sebbene già presente in precedenza, in questo lavoro si concretizza e si dispiega completamente in tracce come “Securitron”, “Smasher/Devourer” e “Obsolete”. Quest’ultima davvero manifesto di questo lavoro. Da notare la finale “Cars”, cover dell’omonimo pezzo del 1979 di Gary Numan che partecipa anche a questa interpretazione. Come riportato all’inizio, menzione speciale per tutto l’artwork di quest’album, veramente coerente con la parte musicale ma per nulla scontato. Confermatissimi! (Alberto Merlotti)

(Roadrunner)
Voto: 75

The Dark Shine - Last Chance


Adesso mi ricordo cosa odiavo delle band anni ’90 tipo “Elastica”. E pensare che avevo rimosso. Qui siamo alla clonazione, o giù di lì. Parto con tutta la buona volontà, sono italiani, vicino alle mie parti (bergamaschi) e hanno una cantante che suona la chitarra. L’adolescente che è in me si risveglia! Dopo due minuti, l’adolescente saluta tutti e va vedersi un film di Edwige Fenech e Lino Banfi (senza offesa). Il primo lavoro di ampio respiro di questo gruppo non ha niente di originale: tutto già sentito, voce femminile da ragazzina tipo Avril Lavigne, con qualcosa di più ambiguo anche se ci prova con qualche acuto, specie nella quasi punk “Haunting”. In altre songs la vocalist esagera e scopre tutti i propri limiti. Sonorità un po’ buttate lì, accordi semplici che, purtroppo, non hanno il pregio di incastrarsi nella mente. Il pentolame è in linea col resto delle sonorità, semplice lineare, anonimo. Discorso simile per gli assoli di chitarra, messi quasi come una foglia di fico, anche nelle canzoni più tirate (vedi “Redrum”). Da dire che alcune volte funzionano, ad esempio nel lentone “Cries Cries”, dove tuttavia le linee di chitarra non nobilitano la canzone più di tanto. Meglio nella più intimista “City” dove alcuni giri sono azzeccati. Schema compositivo classico, che funziona da scheletro da canzoni altrimenti destinate all’amorfismo ameboide totale. Cosa si può salvare? Bé, diciamo che sono coerenti, nel senso che lo stile quello è, e quello rimane per tutto il lavoro: ne consegue che se a uno piace il genere, è a posto per tutto il CD. Ascoltate anche la ghost track in italiano in coda alla traccia dieci. Ecco cosa potrebbero esplorare: un ritmo più classico, suoni più caldi e meno arrabbiati. Come dite? Vi ricorda vagamente “Down by Law” dei SuperB? Anche a me. La produzione è buona, rispetto a lavori che sembrano registrati in una grotta (non volutamente), qui tutto si sente decentemente. Le liriche passano come acqua. Un “ni” per l’artwork e il packaging: qualcosina di buono colpisce, ma poco. Spero che il titolo “Last Chance” non sia profetico: cioè, se questa era la loro ultima possibilità, mi sa che se la sono giocata. Forse può essere utilizzato per una festina tra ragazzini... adesso provo con i figli dei miei vicini... (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 40

mercoledì 8 dicembre 2010

Mechanical God Creation - Cell XIII


Avete presente la copertina di “Vulgar Display of Power” dei Pantera? Quella con l’uomo che si prende un pugno in faccia? Togliete il pugno e metteteci una mazza ferrata. Questo per descrivere la sensazione di violenza e orrore che mi ha evocato quest’album. Un disco veloce, adrenalinico, dominato dal growl e dal ritmo del doppio pedale. La melodia è roba per altri gruppi, così come la calma. Se siete deboli di stomaco, se siete in una fase un po’ depressa, se non siete sicuri di voi stessi... lasciate perdere. Pena: incubi. Io vi avevo avvertito. E anche lo band lo fa con l’incipit del disco. Fidatevi. Primo 45 giri per il combo milanese, il quintetto ci spara nelle orecchie, senza remore, senza pietà, quello che sanno fare. Nove tracce, nove note di sofferenza che tendono a confondersi, uno scotto da pagare per questo genere musicale. Appare una certa sensazione di violenza musicale fine a sé stessa, ma bisogna dire che, qua e là, qualche variazione, qualche accenno a cambiamenti compositivo-stilistici appaiono. Bravi, non è facile farli “sentire” in questi casi. Un esempio, l’attacco e l’evolversi della conclusiva “Death Business”. Prima cosa che colpisce: la voce androgina della cantante Lucy (già “Art of Mutilation”). Bravissima, mostruosa (artisticamente parlando, ci mancherebbe) poche donne cantano in gruppi simili. Lei lo fa in maniera molto convincente, sfoggiando una gamma di cantati terrificanti, da rimanerci di stucco. Riesce a mettere in secondo piano il growl dell’altro singer (anche chitarrista) della band Simo. Molto solido, ispirato, tirato, il lavoro del bassista Veon: fondamentale per l’aria insalubre di questo cd. Si stempera la buona fattura delle chitarre, forse un po’ ripetitive, ma potenti, continue, prive di fronzoli. Sono perfette per l’atmosfera grand-guignolesca. Ascoltate con attenzione “Divinity” a riguardo. Batteria, ecco la batteria, suonata a ritmi ultraveloci, dominata dall’uso del doppio pedale... forse risulta troppo piatta. Chiariamoci: non che addormenti, anzi. Non che manchi la tecnica, tutt’altro (prendete l’inizio di “2012”). Credo che in questo tipo di lavori, la parte ritmica dovrebbe cercare di dare dei cambi, dei punti di stacco marcati; così da spezzare una continuità, che potrebbe risultare indigesta verso la fine. Il platter gira via liscio e le songs non sono troppo lunghe (bravi). In generale si può trovare un buon equilibrio tra le parti cantate e quelle solo strumentali, non solo nella traccia singola, ma in tutto il lavoro. Minimalista l’artwork del booklet, ma con un’aura sinistra, giusto complemento a questo viaggio nell’orrore. Da notare l’interessante featuring dell’italica horror band Cadaveria in “I Shall Remain Unforgiven”. Grazie per averci regalato questa terrificante odissea, suonata in modo davvero convincente (e anche per aver reso insonni le notti di chi non ha seguito il mio monito iniziale). (Alberto Merlotti)

(Worm Hole Death)
Voto:75

domenica 21 novembre 2010

Tears of Martyr - Entrance


Pensate di portarvelo in un castello, magari diroccato, magari con la nomea di essere infestato da vampiri (quelli di una volta, non quelli moderni), con concubine succubi dalla voce magnifica: ascoltatelo. Avete un po’ di pelle d’oca? Ecco la dimostrazione della forza evocativa di questo gruppo. Primo full lenght per l’ensemble spagnolo. Dopo due demo, questa mutevole formazione si cimenta in un lavoro dal più ampio respiro. Questa la line-up attuale: la soprano Berenice, Miguel Angel: voce e chitarre, J.M. Astur: chitarre e Doramas: batteria. Molto ben suonato e registrato, “Entrance” porta tutti gli stilemi classici del genere Symphonic Gothic Metal, con le sue forze e debolezze ovviamente. Tecnicamente i Tears of Martyr sono molto superiori alla media nell’esecuzione con quei loro assoli di chitarra potenti e puliti, la batteria, incalzante e martellante, un crescendo di potenza e suoni gotici. Tra tutto questo assurge la splendida e pulita voce di Berenice che con quei suoi vocalizzi che captano l’attenzione. Contraltare alla potenza roboante, ma oscura di tutto il suono, ne amplifica le caratteristiche, accompagnata spesso da cori notevoli. La voce maschile, rispettosa della linea potente, spesso troppo bassa, cerca di esaltare ancora di più il contrasto con la parte femminile. Ma alla lunga questo gioco si rivela ripetitivo (troppa la differenza tra le due voci e tra le capacità vocali dei cantanti) e si sfora nell’inutilità. Ecco i limiti quindi, i soliti insiti in questo genere: ripetitività del metodo della composizione e nello schema delle canzoni con la partenza evocativa potente, il cantato melodico accompagnato da un tappeto solido, gli assoli conclusivi. Punto. Poche variazioni allo schema insomma. Unica eccezione: “Violence in Red”. Da dove salta fuori? Un incipit parlato, poi violini, un intermezzo sorprendentemente piacevole, il segnale che se vogliono, i nostri sanno osare e staccarsi dalla linea, perché ne hanno le capacità, la stoffa. Che dire del lavoro nel complesso? L’atmosfera che fuoriesce da ogni song è davvero evocativa, ma attenzione a non farsi traviare dalla intro, assai piacevole ma che non indica lo stile di questo lavoro. Molto ben fatto il packaging, il booklet con tutti i testi, foto e ringraziamenti; per un feticista e nostalgico dei supporti solidi come me, è sempre una bella cosa. Molto ben studiato l’artwork della copertina e le immagini (da notare la splash-page centrale). I testi delle canzoni ci stanno tutti, coerenti con le tematiche del genere. Il gruppo c’è, il suono pure, la tecnica non manca e la voce femminile è davvero splendida. Tuttavia manca ancora un’impronta personale, una firma, un tratto distintivo. Una situazione a metà via, una moneta lanciata, una scommessa. Hanno la potenzialità di essere una bella scoperta o una delusione. Dateci dentro per la prima vi prego... (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 70

Modern Funeral Art - Doom With a View


Avete presente quelle immagini dove sembra di vedere un calice, ma anche due profili? Questo è quello che mi è saltato in mente dopo il primo ascolto di “Doom With a View”. Secondo full lenght per questo trio francese, che qui ritorna alla sua line-up originale: Arnaud Spitz voce e basso, Benoît Sangoï alla batteria e Pascal N'Guyen alla chitarra. Il titolo richiama, con un gioco di parole, il libro “Room with a view” (in Italia “Camera con vista”) di E.M. Foster. Citazione confermata dall’artwork (una camera con vista particolare) del packaging super minimalista. Nel sito del gruppo, si descrivono le tracce come “ninne nanne”: ora non so quale bambino potrebbe addormentarsi ascoltandole (e che sogni farebbe nel caso), ma se si intendevano canzoni un filo monotone ci può stare. Il lavoro è stilisticamente molto lineare e coerente, tanto che mi risulta difficile trovare una canzone che si stacchi chiaramente dalle altre; il che in questo caso non è un male assoluto, ma un probabile punto di forza. Attenzione, è anche un forte limite. A chi non sia già avvezzo al genere musicale, o ci si avvicina per la prima volta, può essere noioso, ma dategli una possibilità. Provate: fatelo partire e lasciatevi prendere. Sonorità oscure, forti ma non oppressive. Questo è il prodotto della fusione del suono potente, pulito degli strumenti e della voce volutamente monotona, ruvida quasi sgraziata del cantante. L’opening track dà immediatamente l’idea dell’album e poi ecco arrivare “State of the World”. Chitarra, basso e batteria subito potenti, l’inizio possente si stempera nella voce malinconica del singer e questa carica rimane sottotraccia per il resto della canzone. Questo animo duale si ripete, anche se diversamente modulato, nelle altre songs. “Sol Invictus” possiede questo carattere, ma ha nell’intro e nelle sonorità con tastiere assai scure, un carattere più decadente. Trovo nella calmissima “Mary Jane Kelly” sonorità più calde e anche il cantato di Arnaud si ingentilisce, una specie di speranza più forte a metà del viaggio. Un po’ annacquata dalla lunghezza “Dante in the Dusty Woods”. A chiudere molto teatralmente ci pensa “The Dance”, che trova nel suo finale sfumato, un modo elegante di porre fine al platter. Risultato: una sensazione gotica fusa con energia, un senso di tristezza ma con una forza particolare sempre pulsante... Insomma, avete presente quelle immagini dove sembra di vedere un calice, ma anche due profili? (Alberto Merlotti)

(Apollon Record)
voto: 75

sabato 6 novembre 2010

Side C - Stati d'Alienazione


Piacevolmente curioso e interessante questo esordio. Il quintetto di ragazzi veronesi riporta, come punto della loro origine “in nuce”, il 2006. Considerano però il 2008 il vero e proprio anno di nascita del progetto, quando si ha il definitivo cambio di stile compositivo: da qui sorge questo demo autoprodotto "Stati d'Alienazion". Attualmente la formazione vede Laura alla voce, Michele alle chitarre, Thomas al piano, tastiere e voce, Paola al basso e voce, Andrea alla batteria. I Side C si definiscono un progetto musicale di rock progressivo e si propongono di comporre in maniera libera da schemi e preconcetti tipici dei generi musicali, facendosi però influenzare da tutti. Questo EP dimostra che i nostri ci riescono appieno. L’immagine che mi è apparsa al primo giro di tracce è quello di un’amalgama variopinta di generi che va dal rock, al jazz., passando dal progressive al blues. La varietà di suoni, la duttile e piacevole voce della cantante Laura, i cambi di ritmo e di stile frequenti anche all’interno di una sola track danno la sensazione di  avere di fronte un gruppo giovane, ma con una grande padronanza del mezzo e una buona conoscenza delle proprie capacità. Quattro canzoni, quasi 29 minuti. In questi casi penso: mmm saranno mica troppo lunghe? Risposta: ni! Partiamo dalla opening track “Radio Alienazione/Imperfezione”. Ok, l’inizio con l’effetto “sintonia radio” e la citazione sull’infinità della stupidità (e pensare che c’è chi la usa per la pubblicità dei vestiti, la stupidità) non brillano per originalità. Poi però si parte con un ritmo vagamente jazz, poi un cantato, un giro di piano, assolo della cantante, chitarra elettrica distorta, suoni elettronici e per finire chitarra classica. E siamo solo a 3’40’’. Questa anima mutevole si ritrova, diversamente declinata, in ogni song e rappresenta il vero punto di forza di questa band. Si prosegue con “L’Altro Lato”, a mio avviso la migliore. Particolarmente equilibrata nei cambi, con interessanti inserti elettronici e di tastiere, un assolo molto jazzy e con la bella voce di Laura che si esprime in tutta la sua gamma di tonalità. In “Slowly Dies”, il cui testo è ispirato ad una poesia di  Pablo Neruda, i nostri insistono un po’ troppo sulle tastiere all’inizio, ma la parte melodica centrale risulta davvero emozionante. Chiude il poker “Nuova Speranza”, niente male, bei giri di piano ma già la stanchezza affiora, peccato. Alla fine ho la pancia piena e sono abbastanza soddisfatto. Ci sanno fare, la varietà dei gusti c’è e la voce della cantante è veramente notevole. Ce ne fossero di gruppi così. Passiamo a cosa mi ha convinto meno. La registrazione dell’album, non proprio buona, nasconde molto: peccato. Come tutte le prime opere, si tende a strafare: canzoni lunghe ed esposizione completa del repertorio. Credo sia tutto legittimo per carità, devono pur farsi sentire. Credo anche che alcune sforbiciate qua e là non sarebbero state male, avrebbero tolto quella sensazione di “uffa ancora così” in alcuni punti, alleggerendo il tutto. Inoltre avrebbero reso più fluido il lavoro, annullando quel “senso” di scatto che ho provato certi passaggi. Peccati veniali, direte. Vero. Purtroppo, in un lavoro di breve respiro, pesano. C’è di buono che non oscurano quel molto di buono che hanno espresso. Un plauso per l’artwork del cd: molto bello e originale. Ad uno sguardo distratto potrebbe sembrare bambinesco, ma guardatelo per bene e non vi lascerà indifferenti. Le liriche sono minimaliste, funzionali ai lunghi momenti solo musica. Qui potrebbero osare di più, anche come originalità. Promossi sicuramente, rimango in attesa del LP. Non fatemi aspettare troppo però... (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto: 75

sabato 23 ottobre 2010

Leafblade - Beyond, Beyond


Consigli per l’ascolto: toglietevi le scarpe, coricatevi su un letto (o un divano), rilassatevi, chiudete gli occhi, premete “Play”, lasciate fuori tutto il resto... Non è un album facile: se non avete voglia di lasciarvi andare ad una musica particolarmente evocativa, eterea e sognante, cercate altrove. Sì perché quest’opera degli inglesi “Leafblade” (formati da Sean Jude, Daniel Cavanagh e Daniel Cardoso) non ha nulla di metal. Ma è maledettamente brillante. Suoni, voci, melodie, arpeggi di chitarra: tutto elegante, curato. Sonorità ricercate, con qua e là richiami new age e inserti di suoni della natura, che portano un che di bucolico in lontananza. Il cantato melodico, confidenziale, in alcuni casi quasi sussurrato, si sposa con gli accordi raffinati e la parte ritmica mai sopra le linee. Ne esce un’alchimia sonora, che è quasi un incantesimo. Il senso di fascinazione, che nasce da ogni singola traccia, nell’ascolto filato dell’album purtroppo si stempera... e quasi le songs non si distinguono, si amalgamo in un continuo sospeso. Sicuramente è voluto, sicuramente è evocativo, sicuramente crea una specie di ostacolo all’ascolto. Ecco dove è il lato debole dell’album. Per mantenere l’incantesimo, il tono diventa un po’ troppo monotono, e così si presta il fianco alla noia. Non perché le canzoni abbiano tutte le stesso schema compositivo, anzi mi pare che gli autori non lo considerino per nulla (non troverete ritornelli o strofe veri e proprie), ma per lo stile mantenuto senza accelerazioni improvvise o fughe. Però, come non apprezzare il ritmo e i suoni di flauto di “A Celtic Brooding in Renaissance Man”? Come non lasciarsi trasportare dalla armonia e dalle parole (sono in inglese, ma cercate di trovarle se non le capite ad orecchio) della conclusiva “Sunset Eagle”? E come non trovare davvero equilibrata “Rune Song”? Quest’ultima rappresenta al meglio l’anima di questo platter, con i suoi pregi e difetti. Una mia nota particolare: il lavoro si apre con il suono di un ruscello e con lo stesso si chiude. Ho un debole per questi espedienti, quando son fatti bene. Trovo molto azzeccata l’immagine in copertina del disco, dal packaging davvero essenziale. Un CD apprezzabile, non immediato, che ha bisogno di qualche ascolto e della voglia di seguire il viaggio propostoci dagli artisti senza remore. Fidatevi. (Alberto Merlotti)

(Angelic Records/Aftermath Music)
Voto: 75

Et Moriemur - Lacrimae rerum



“Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt” (Virigilio - Eneide)

Gli “Et Moriemur” prendono una celeberrima citazione del grande poeta (mio conterraneo), e ne fanno il titolo del loro primo EP. Nella frase, si fa riferimento al momento dell’opera in cui Enea, osservando, in un tempio a Cartagine, un murales ritraente scene della guerra di Troia con la morte di suoi connazionali e amici, piange al loro ricordo. Una scelta a dir poco azzeccata per le atmosfere del disco. L’ensemble ceco si forma nel febbraio del 2008, e a oggi sono: Zdenek Nevelík (voce), Fedor Furnadžiev e David Viktorin (chitarre), Honza Stinka (basso), Albert Fiala (tastiere) e Michal “Datel“ Rak (batteria). Il prodotto di questa formazione è un cd di quattro intermezzi e cinque tracce: un buon lavoro, con una buona produzione, ben suonato e con spunti assai interessanti. Difficile, per noi italiani, non notare l’inserimento di una strofa di Ungaretti che richiama alla citazione di Virgilio nella prima “Shadows”. Ma anche altre citazioni poetiche sono presenti, come un pezzo in tedesco di Goethe in “Chimeras”e uno in inglese “At Memory’s Gate”. Musicalmente le canzoni sono pervase da un’atmosfera decadente e romantica, con la presenza di accordi barocchi, da accelerazioni di ritmo, con cambio di voce del singer, ora seguite ora alternate da parti più melodiche. Poche sbavature nella parte esecutiva strumentale: i nostri ci sanno davvero fare. Sono rimasto colpito dalla varietà di suoni e dagli strumenti utilizzati: viola, xylofono (“Memory’s Gate”), organo. Alla fine risultano tutti ben amalgamati e funzionali all’anima delle canzoni, che rimangono comunque pervase dalla classica potenza del genere. Sempre di metallo si parla. Ecco, una perplessità sulla scelta di usare una voce più growl da parte del cantante nei passaggi più veloci di alcune track (“Shadows”) o nei climax di altre (“Silence”). Mi pare che non sia sufficientemente potente e alla fine convincente. Ben diverso è il risultato quando le vocals sono usate in maniera più melodica (ad esempio in “Chimeras”, con l’accompagnamento dell’organo): davvero molto suadenti e calde. Piacevoli anche gli intermezzi strumentali, evocativi nel loro incedere e non inutili dimostrazioni di capacità. Magari il primo “Marcia Funebre” è un po’ debitore alla musica della doccia di “Psycho”, ma va bene lo stesso. Una parola per le liriche, curate e i brani poetici che ben si adattano all’intero lavoro. Spero che in un album dal più ampio respiro, siano in grado di trovare spunti sufficienti per non cadere nella ripetitività, come qualche volta capita in questo EP. Piacevole sorpresa, per me, questi ragazzi di Praga. Non banali, con una buona vena compositiva, tecnici e con buone idee. (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto: 70