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giovedì 16 novembre 2023

Wrathrone/Necrodium/Spiral Wounds - Back To 90​’​s Old​-​School Death Metal

#PER CHI AMA: Death Old School
E io che pensavo che il death old school fosse ormai morto, quanto di più sbagliato. La Great Dane Records mi sta infatti facendo scoprire un sottobosco estremo che pullula di band cattive e incazzate, spesso non di grande valore a dire il vero, ma che comunque meritano la nostra attenzione e le vostre riflessioni. Quello di oggi è uno split album tra i finlandesi Wrathrone e Necrodium, in compagnia dei sardo-calabresi Spiral Wounds, per una compilation all'insegna di un sound marcescente che richiama alla memoria act del calibro di Dismember, Grave e primi Entombed, almeno nei primi tre pezzi targati Wrathrone. Un vero e proprio ritorno alle origini del male con un riffing che evoca quello delle band svedesi citate, con tanto di growling infernale sopra e assoli super taglienti in coda, per un clichè sicuramente consolidato e che fondamentalmente rinverdisce i fasti di un passato sta andato scomparendo. I nostrani Spiral Wounds si presentano con quattro pezzi, che altro non sono che il loro EP omonimo del 2021, e che evocano in questo caso, il sound primordiale degli At the Gates, con tanto di chitarre ultra taglienti e vocals iper caustiche. A questo aggiungiamo qualche influenza black che permea il mood indiavolato della band che esplicherà al meglio il proprio talento in un brano più equilibrato quale "Uber Feral Winds". Ribadisco, niente di originale da segnalare, ma sicuramente per chi amasse il genere e non conoscesse la band italica, beh si faccia avanti. Con i Necrodium si torna ad un death in stato putrefattivo, questa volta di scuola americana, e penso ai Cannibal Corpse, per gli ultimi quattro pezzi all'insegna della devastazione più totale tra voci demoniache, ritmiche schiacciasassi che trovano anche modo di rallentare, come accade all'inizio di "Compulsive Mutilating Disorder", nel cui riffing ho percepito addirittura un che dei Metallica della primissima ora. Ecco, l'ho scritto, spero non me ne voglia la band finlandese che nel frattempo prosegue la sua carneficina con altri pezzi grondanti tanta rabbia e tonnellate di odio e che vanno a completare una release adatta ai soli nostalgici di un genere che pensavo ormai morto e che invece si conferma ancora vivo e vegeto. (Francesco Scarci)

Wojtek - Petricore

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore
Li avevamo lasciati nel 2021 con 'Does This Dream Slow Down, Until It Stops?', li ritroviamo oggi con un album nuovo di zecca, 'Petricore', dietro al quale si cela una metafora legata alla sensazione olfattiva di quando la pioggia viene a contatto con la terra arida da tempo, metafora che evoca temi etici ben più profondi che vi invito ad approfondire. I veneti Wojtek, freschi di una rinnovata line-up, arrivano quindi con sei nuovi caustici pezzi che si muovono nei paraggi di uno sludge/hardcore, anche se l'opener "Hourglass" sembra dirci altro del quintetto patavino. Si parte con una galoppata al fulmicotone tra voci abrasive e ricami di chitarra che oltre ad affiancare un rifferama sferzante, danno una parvenza di melodia a un pezzo che potrebbe invece risultare alquanto indigesto. Invece, dietro alla furia velenosa dei nostri, mi sembra addirittura di percepire un tono malinconico, sia nelle linee delle sei corde che nella voce del frontman. La medesima sensazione l'avverto anche nella successiva "Dying Breed", song che palesa subito in apertura un chorus che va a confermare questa mia ipotesi, anche se poi il brano abbraccia influenze più post hardcore oriented, mostrando qualche tiepido rallentamento verso metà brano, da cui ripartire più ritmati che mai, e dove a mettersi in luce è il growling incisivo di Riccardo Zulato, grazie a degli urlacci ben assestati, coadiuvato poi da altri cori. "Now That You Are Gone" si presenta invece decisamente più intimista: le cupe atmosfere sono straziate dalla disperata voce del vocalist, le melodie si palesano in sottofondo in una progressione che porta le chitarre a gonfiarsi, l'aria a dilatarsi fino a lasciare le sole chitarre a ringhiare solenni nell'etere, prima che gli altri strumenti tornino a unirsi alle ambientazioni sludgy costruite dall'ensemble italico e sfoggiare sul finale, una specie di primordiale assolo chitarristico. "Giorni Persi" rappresenta il singolo del disco, rigorosamente cantato in italiano (una prima volta per la band questa), sembra essere una miscela tra punk, hardcore e ancora rallentamenti sludge, anche se il muro ritmico appare mutuato dal riffing possente degli IN.SI.DIA, periodo 'Istinto e Rabbia'. La song poi evolve, nella sua brevità, verso lidi emo/post hardcore. Si torna a durate più consistenti (stabili sempre tra i sei e i nove minuti) con la melmosa "Inertia Reigns" e un sound pachidermico che non fa troppi prigionieri nella sua psicotica progressione musicale che tocca il doom più ipnotico nel suo corso e che la suggellano a mia song preferita del disco. La chiusura è affidata al noise disturbato ed ipnotico di "Hail the Machine", costituita da un paio di riff che s'intersecano con una voce sempre più convincente e un drumming marciante, interrotto solo da un brevissimo break acustico, poi costantemente accompagnato dall'acidissima prova gutturale di Mattia Zambon e dai cori di Morgan Zambon e Riccardo Zulato, che chiudono una prova sicuramente convincente dei Wojtek, che potrebbe aprire a una certa internazionalizzazione della band nostrana. Bene cosi. (Francesco Scarci)

(Flames Don’t Judge/Fresh Outbreak Records/The Fucking Clinica/Dio Drone/Shove Records/Violence in the Veins/Teschio Dischi - 2023)
Voto: 74

https://diodrone.bandcamp.com/album/petricore

martedì 14 novembre 2023

Grift - Dolt Land

#FOR FANS OF: Neofolk
The Swedish solo-project Grift was founded by Erik Gärdefors more than a decade ago. Erik has been a quite active member of the extreme metal scene in Sweden. His previous and also current projects are closely tied to the black and death metal subgenres, where he has shown his talent. With Grift, we can appreciate a further vision of Erik’s musical interest as he brings a strong folk influence on the ‘creation table’, where Grift was crafted. Since its inception, Grift’s music has been a quite palatable mixture of black metal and neo folk influences. As it usually happens the first opus entitled 'Syner' already had a very solid mixture of both genres, although the black metal elements sounded a bit harsher than in the subsequent releases. With albums like 'Arvet' or 'Budet', the intrinsically melancholic influence of the neo folk music impregnated the full compositions of Grift and even the blackest metal elements had a strong influence of the aforementioned subgenre. That led to the creation of something unique and, therefore, forged Grift’s own musical vision.

With the new opus entitled 'Dolt Land', Grift leaves behind all the black metal elements, at least for this release, as it seems that the artist contemplates the beauty of its land’s nature and consequently, tries to create an appropriate musical experience for the listeners.  So, 'Dolt Land' is logically a folk/neo-folk album with a strong melancholic touch, which is so present in the purely folk albums that metal projects release in Scandinavia. The album is an immersive experience and a very pleasant listen if you like this kind of slightly gloomy form of folk music. The nature-related ambience of the album opener "Silverne Sitg" is a fine example of what you can listen to here. The nature sounds are elegantly missed with folk instruments, which slowly gain the main role, creating a nice bridge from the wild sounds to the man created ones. Erik’s voice sounds great as he has a deep and emotional tone which is very appropriate for this type of music. Even though an album like this may not have greater variations in the tone and pace, this composition shows that some variations are possible in order to enrich the composition and make the song more interesting. Another aspect where Erik tries to add some different touches in his own voice, as he adds a raspier tone in several compositions, for example in "Nattens Pilgrim". This addition, alongside the use of different folk instruments and variation in the intensity of the structures, help to create folk songs which are not so monotonous. Another song which I enjoy quite a lot is "En Hemskog", that is an acoustic guitar-driver composition, maybe with less variation than other compositions, but with  a very nice work with this instrument that makes me appreciate it a lot.

In conclusion, 'Dolt Land' is a temporary departure from Grift’s fusion of neo-folk and black elements, and although this may disappoint some of its fans, I personally urge all of them to give a chance to this album, as it is a very tasteful and enjoyable listen. (Alain González Artola)

(Nordvis Produktion - 2023)
Score: 75
 

Closure in Moscow – Soft Hell

#PER CHI AMA: Alternative Pop Rock
Devo ammetterlo, questo nuovo album degli australiani Closure in Moscow, mi ha creato molti conflitti, fin dall'uscita dei primi singoli. Premetto che ho adorato le uscite precedenti reputandole geniali e molto sottovalutate, però questo album non me lo aspettavo fatto in questo modo. I nostri hanno fatto una scelta stilistica simile all'ultima fatica dei Coheed and Cambria, oppure l'ultima uscita dei The Mars volta, o al tempo, 'Pitfalls' dei Leprous, dove delle ottime band in odor di hard rock progressivo moderno e ad alto tasso tecnico, si spostano verso ambienti più pop, alla ricerca di notorietà e un più vasto pubblico. In fatto di tecnica, questa band ha già dimostrato di non essere seconda a nessuno e, anche in quanto a produzione, ha sempre avuto standard altissimi. Ricerca dei suoni ed eleganza sono una prassi per la band di Melbourne, però in questo disco i nostri calcano tanto la mano su innesti funk, pop, dance, il tutto a discapito delle fughe nel rock prog che rendevano gli album precedenti pazzeschi. Immaginate gli Incubus ancora più tecnici, ma più goliardici, che giocano con il funky dei migliori FFF (French Funk Federation), si esaltano in assoli ma non entrano mai in un'atmosfera diversa dallo scanzonato rock che ricorda certi gruppi funk metal degli anni '90. Il disco è pieno di idee sullo stile dei progetti di Omar Rodriguez Lopez, ma come nell'ultima opera dei Coheed and Cambria, passo dopo passo, ci si avvicina sempre più ad una deriva elettro/indie/pop rock, con buone intuizioni ed ottime sonorità, al passo con certe cose di Saint Vincent, ma che guasta con il passato dei Closure in Moscow, per come si sono proposti in precedenza e i dischi che hanno fatto fino a questo punto. Certo, cambiare rotta fa parte di un artista e la ricerca, seppur avanzata in generi nuovi ed inusuali, non si è fermata anzi si è espansa, però qui la band ha cambiato registro e cercato una soluzione più appetibile per un pubblico più ampio. Resto tuttavia dell'idea che per la caratura di questi musicisti, inseguire le orme di band come i Red Hot Chili Peppers, che in cambio di un grande successo hanno perso grinta, carisma e freschezza nelle composizioni, non sia la strada giusta, almeno dal punto di vista artistico. Tornando all'album, non posso far altro che dire che è un buon disco, suonato troppo bene per restare nel calderone del pop, carico di buone idee, belle sonorità e tecnica sopraffina ma troppo pop, soul e funk, per emergere tra i seguaci del progressive rock e dell' alternative rock, che potrebbero rimanere delusi da quel velo di leggerezza che pervade l'intera opera. Cosa, comunque, che non intacca minimamente le qualità di composizione e di esecuzione di questi musicisti, che rimangono spettacolari, con un vocalist eccezionale che risponde al nome di Christopher de Cinque. 'Soft Hell' è il titolo di questo loro quarto album, quasi un presagio che avverte i fans di un'imminente sconvolgimento dei piani, con una forma musicale sempre ricercata ma più melodica e meno selvaggia, un disco tutto da interpretare che creerà pareri contrastanti tra i fans dei Closure in Moscow. "Don Juan Triumphant" è la mia preferita perchè porta nella sua composizione molti richiami al loro passato, "Jaeger Bomb" ha un tiro pazzesco, mentre in "Lovelush" vi trovo persino qualcosa degli '80s al suo interno e con la sua vena sognante e romantica, per quanto ricca di curiosità soniche, mi sconcerta più di tutti gli altri brani. Un album che deve essere ascoltato e studiato da mille angolature per capirlo e dargli il giusto apprezzamento, una nuova veste per questa band, che ha sempre e comunque, saputo mettersi in risalto ad ogni uscita. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 70

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/soft-hell

venerdì 10 novembre 2023

Jemek Jemowit - Zemsta

#PER CHI AMA: Electro/New Wave
A giusta ragione viene riproposto nel 2023, completamente rimasterizzato, quest'album che ha visto la luce nel 2011. L'artista in questione è il berlinese Jemek Jemowit. Una sorta di ritorno alle origini delle sonorità della musica elettronica europea che trovava l'asse Berlino/Sheffield, il giusto mezzo di comunicazione tra Germania e Gran Bretagna, alla fine degli anni '70 e inizio '80 del secolo scorso. Scandagliata al setaccio, da gruppi di culto internazionale come gli Skinny Puppy, e passando obbligatoriamente dal movimento sperimentale Geniale Dilettanten. Niente di nuovo musicalmente, neppure se valutiamo questo lavoro nella sua prima data di uscita, nessuna nuova strada, nessuna nuova idea sonora, ma è proprio per questo che 'Zemsta', è da considerarsi un'ottima uscita, un'opera stoica e prolifica di mantenimento del genere, messa in atto da un nipote di quei mostri sacri, che l'elettronica l'hanno veramente plasmata. Prendete il tocco pop di Falco, il cupo dei Clock Dva, i Cabaret Voltaire, il glam oscuro e sintetico dei primi D.A.F., il taglio robotico dei precursori Kraftwerk, uniteli al genio tossico di Alec Empire e soci, aggiungete poi la forza d'urto della prima techno da rave devastanti, scarnificatela e rendetela a tratti gotica e molto dark, e avrete finalmente solo una vaga descrizione della radice sonora di questo disco. Spesso ideale per un night club oscuro e sinistro, una fede incrollabile, votata ad un suono freddo tra cemento e acciaio, al digitale, e per finire un'attrazione per l'industrial dei Rammstein, tolte le chitarre distorte e attitudine metal. "Jeans und Leder" apre le danze ed assieme a "Maenner Meiner Heimat" e "In Shoeneberg", formano un trittico di pura goduria elettronica, timbrica dura, pulsante e suoni sgraziati, poca melodia e ritmi rigidi, glaciali e industriali. "Meine Tabletten" si apre a certo post punk con un ottimo ritornello/filastrocca che parte al minuto 2:47, degno di un film horror, inaspettato e geniale, sulla scia di autorità irraggiungibili del calibro delle Malaria!, che sancisce definitivamente anche il legame storico di questo disco con il movimento Neue Deutsche Welle, costola evoluta e ibrida tra punk e new wave tedesca, nato qualche decennio prima dell'uscita di 'Zemsta'. Tra sussulti alla Depeche Mode epoca 'A Broken Frame', e pulsazioni techno sperimentali ("Liebe, Krass und Ass" e "Am Boden Zerschmettert") , rumori e synth a gogo, si avanza senza perdere un solo colpo. "Sad Ostateczny" è forse la meno interessante del lotto sotto il profilo sperimentale, mentre la successiva "Angst vor Feuer" è un esempio di come dall'utilizzo di un classico tempo techno, si possa, con gusto ed intelligenza, creare un ottimo brano, con un effetto sulla voce che ricorda alcune cose cantate da Tom G. Warrior nei Celtic Frost! "Zemsta" presta il titolo all'intero album ed è techno, macabra e noir, pulsante, con presenza di voci agghiaccianti sempre perfettamente in linea con la trama di qualche film horror. "Internist und Internet" torna al sound elettronico del dark/synth wave di inizio anni '80, con un riff di tastiera che in qualche accento richiama, per assurdo, "N.I.B" dei Black Sabbath, come fosse suonata dai Devo. Si chiude con "Chce Zostac Twoja Matka", un brano dalla struttura tipica del post punk elettronico vicino ai conterranei Grauzone. Cantato sia in lingua tedesca che polacca, penso che 'Zemsta' sia uno degli apici più alti di questo artista, innamorato dell'estetica sonora e della potenza sovversiva intrinseca della musica, dell'alternativo che lo ha portato ad utilizzare il verbo della techno e della new wave come mezzo espressivo per la sua arte. Quindi, musica ad effetto, interessante e destabilizzante, per una carriera che dura ancora oggi dal lontano 2007. Bisogna dire anche che, ad oggi, la musica di Jemek Jemowit, è mutata ed ha spostato la bilancia più verso lidi dance e techno, relegando i canoni più dark e post punk ai fasti del passato. Un artista comunque originale, che in questo specifico caso, ha superato ogni aspettativa, raccogliendo e rinvigorendo il seminato ed il raccolto già ricco, dei padri putativi del genere. Un disco che potrebbe finire nella vostra collezione di musica elettronica senza se e senza ma e per cui vale solo esclusivamente l'obbligo d'ascolto. (Bob Stoner)
 
(Greek Label Fabrika Records/Atypeek Music - 2011/2023)
Voto: 75

https://jemekjemowit.bandcamp.com/album/zemsta

Treebeard - Nostalgia

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Ci impiegano più di cinque minuti ad ingranare la marcia gli australiani Treebeard per venire fuori dall'opening track di questo 'Nostalgia', lavoro uscito due anni fa e riproposto dalla Bird's Robe Records su cd in questi giorni. Quando lo fanno però, il quartetto di Melbourne colpisce per i suoi suoni accattivanti ed attrattivi, in grado di miscelare post rock e sonorità progressive. Che la band sia pigra ad emergere dai propri trip cosmici è confermato anche dalla seconda e lunga "The Ratcatcher", che piano piano ci racconta qualcosa di più di questa band di cui ho scoperto solo oggi essere nella pila dei cd da recensire. Le sonorità molto intimistiche sono quelle che hanno il sopravvento nell'economia del disco con il post rock e tutti i suoi orpelli (suoni riverberati, tremolo picking e atmosfere soffuse) a farla da padrone e a conquistare nemmeno troppo lentamente, la mia fiducia. Si perchè i Treebeard mi affascinano per le loro sonorità che evocano altri artisti dell'etichetta di Sydney (penso ai We Lost the Sea), ma trovo abbiano anche qualche punto in comune con gli Anathema più crepuscolari e malinconici. E non posso che apprezzare, io che sono fan della band inglese, ma che seguo da vicino anche le attività della label australiana. Se poi aggiungete il fatto che finalmente una band post rock si proponga in una veste non strumentale, potrete capire il mio piacere nell'assaporare le note, a tratti pesanti, di questi gentiluomini. Sempre piuttosto criptico è l'inizio anche in "Pollen", quasi fosse un marchio di fabbrica dei nostri, con atmosfere shoegaze che si combineranno successivamente con sonorità più oniriche e liquide, prima dell'esplosione delle chitarre che ristabiliscono una sorta di status quo emozionale ove poggiare le voci stralunate del frontman. Mentre la titletrack si configura come un ponte con la successiva "8x0", quest'ultima mostra influssi cosmici nei suoi contenuti, da quel basso apocalittico che si prende la scena a inizio brano, al rifferama di estrazione quasi thrash che da li in poi fluisce nel corso del pezzo, che forse va a confermarsi come il più pesante del lotto, con il post metal che sembra venarsi di sfumature post hardcore in una progressione sonora strumentale che ci condurrà a "Terra". Qui, sembra coglierci un barlume di speranza, come se avessimo scoperto un nuovo mondo grazie alle tastiere in apertura, in realtà stiamo solo scoprendo quanto bello sarebbe il nostro pianeta se non lo stessimo distruggendo con le nostre mani insanguinate da guerre, inquinamento, odio e quant'altro. Un pezzo quasi ambient che sembra sottolineare malinconicamente quanto tutto stia andando a rotoli senza che fondamentalmente non ce ne importi nulla. Splendide qui le melodie delle chitarre, che sanciscono la cinematicità di questo ensemble. "Dear Magdalena" e "Nostalgia II" chiudono il disco, la prima con voci e atmosfere di "radioheadiana" memoria, almeno fino al quarto minuto quando i nostri sterzano verso sonorità più roboanti che ci accompagneranno al finale di "Nostalgia II", dove spoken words aprono un brano intenso e drammatico che non può far altro che imporci mille riflessioni di qualunque tipo. Nel frattempo, non posso far altro che consigliarvi l'ascolto del qui presente. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 75

https://treebeard2.bandcamp.com/album/nostalgia

sabato 4 novembre 2023

Dead Twilight - Fall of Humanity

#PER CHI AMA: Brutal Death
Quanto ascoltato nel devastante incipit di "I Hate", mi ha ricordato alcune cose dei Nocturnus che erano a loro volta mutuate dai Morbid Angel, vista la militanza del buon Mike Browning nella band di Tampa. Tuttavia non ci troviamo nè in Florida, nè negli Stati Uniti, visto che i Dead Twilight hanno origini siciliane e 'Fall of Humanity' rappresenta il loro terzo lavoro. Trattasi di un disco votato al brutal death di stampo americano in grado di annichilirci, grazie a dio, per soli 27 minuti, grazie alle otto brevi tracce qui contenute. Una serie di schiaffoni in faccia propagati da ritmiche death marcescenti, vocals cosi gutturali che ho fatto quasi fatica a identificarle (e non sto parlando di testi). Poi per il resto, è un continuo martellare ritmico che talvolta trova una pausa in un qualche bridge, come accade ad esempio a metà di "Rage from the Dead". Le influenze, oltre a quelle citate in apertura, potrebbero convogliare i nostri verso i lidi di Malevolent Creation o Deicide, altre due band che devono aver contribuito alla formazione stilistica dei fratelli Bellante che formano la band. A chi poi indirizzare l'ascolto di questo disco è molto facile: si raccomanda ai soli consumatori di brutal death e nessun altro, altrimenti rischiereste di lanciare il disco sotto le ruote della vostra macchina. E pensare che anch'io trent'anni fa mi entusiasmavo al rumore di un martello pneumatico e ora invece i miei padiglioni chiedono pietà, un qualcosa che in 'Fall of Humanity' non è assolutamente contemplata. (Francesco Scarci)

Hidden Orchestra - To Dream is to Forget

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali
Sognare è dimenticare? Benvenuti in questo oblio targato Hidden Orchestra, interessantissimo collettivo (o dovrei di,re orchestra?) britannico, guidato dal polistrumentista scozzese Joe Acheson, che affonda le proprie radici musicali nel jazz, IDM, drum & bass, rock, trip hop e musica classica. La prima song di 'To Dream is to Forget', è teutonica, possente, masticata dalle percussioni elettroniche, fuorviante, intersecata a sonorità distopiche connesse tra loro e sfuggenti alle altre tracce. Con "Hammered" disintegriamo un macigno facendolo irraggiare in pillole avvelenate, volatili. Pace convulsa, ossimori corrotti, graffi malcelati. "Little Buddy Move": è una traccia vivida, essenziale, imperlata da sonorità prismatiche. Fugge e rifugge la musica che nostalgica ritorna tra bit arroganti travestiti da ballerine provocanti in preda al reiterare di un loop buio senza luci strobo. E facciamo partire "Skylarks". La traccia parte fredda come il ghiaccio. Vi arriveranno stilettate di stalattiti dritte tra la giugulare e l’anima e finirete per esser preda di un gioco elettronico in cui perderete il vostro protagonista. Ora siete voi il centro del gioco. Copritevi bene se temete l’incendio per assideramento. Copritevi bene perché il vostro Matrix personale dura otto minuti e cinque secondi! Con "Nighfall" siamo nel mezzo dell’album. Inaspettatamente ci addentriamo in una radura fatta di suoni melliflui, di flora e fauna, di tastiere lentamente ascendenti. Il suono diviene circolare. La natura si trasforma in plastica alle pareti. La rete è in agguato per prendervi se mai precipiterete per esservi troppo rilassati. Silenzio. Patos. Monete che cadono sull’acqua. Un sound multidimensionale. Eccola "Scatter". Mi piace come mi piace fare su e giù con la testa ad un concerto intimamente ipnotico. Lasciate fuori di casa la mente. Portatevi solo i vizi per questo ascolto. Non vi dico altro. Vi rovinerei il circolo vizioso. E se non vi basta ora vi mando "Ripple". Soffia un vento del sud. Danzano le gitane intorno al fuoco virtuale, illusorio, poderoso, trepidante, fumante delle illusioni erotiche. Stacco le emozioni con "Broken". Sassi d’oro che vengono macerati in suoni. Ripercussioni in tre quarti. Ripercussioni ancora zingare e delizianti. Corse immobili all’oro che ci scende nella gola semi solido. Questa song corrompe l’anima. Filtra il buio solo se avevamo la luce dentro. Porta così lontano da…vedete voi se riuscite a tornare indietro dalle sabbie mobili a 24 carati. Ed ora benvenuta a "Cage Then Brick". Un minuto e cinquantasette di battiti fuori scala. Percussioni alterate, semicoscienti. Legno che scalda. Sibili di serpenti, cobra che avvolgono le arterie e d’improvviso sfumano. Non l’ho nemmeno assaporata. Come un morso letale. Piove adamantio. "Reverse Learning". Questa traccia inizia oltraggiosa e benevola al contempo. Ritmata quanto basta. Spezzata quanto basta. Avvolgente quanto basta. Sussultante quanto basta. Invece è una trappola per la mente. Esoterica. Pulsante. Accattivante. Egocentrica. E chiudiamo il nostro viaggio virtuoso con il titolo che dà il nome all’album, "To Dream is to Forget". Davvero? Perché? E se fosse? Gli Hidden Orchestra sono coraggiosi. Sfrontati. Enigmatici. Timidamente erotici. Futuristi. Capaci di pura proiezione nella loro arte. Ci lasciano con questo epilogo malinconico, filtrante, con suoni al rallentatore, espliciti, nostalgici, danzanti. E ora ricominciate l’ascolto e capirete la bellissima circolarità dell’album. (Silvia Comencini)