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sabato 29 agosto 2020

Black Hate - Altalith

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Melechesh
Son passati ben otto anni da quando scrissi dei messicani Black Hate. Era il 2012 e il lavoro in questione 'Los Tres Mundos'. In mezzo, prima di questo 'Altalith', 'Through the Darkness', nel 2016, sempre per Dusktone. Il nuovo lavoro del quartetto di Città del Messico, ci conduce ancora una volta nei meandri di un sound oscuro e malato che da sempre contraddistingue i nostri. L'incipit, affidato alle percussioni di "The Gathering", sembra uno spaventoso rituale di morte azteco. Poco più di 90 secondi di suoni inquietanti che ci introducono alla follia sbilenca di "Hur/nin\ki-sag", caratterizzata da chitarre disarmoniche, ritmiche che rasentano il delirio e voci graffianti, il tutto deprivato però di una componente melodica. La song vede la partecipazione in veste di guest vocalist di Antithesis Ignis, compagno di merende negli Andramelech del frontman dei Black Hate B.G. Ikanunna; e nella song compare anche Antimo Buonanno (Hacavitz, Profanator tra gli altri) che dà il suo contributo a voci e cori. Un brevissimo intermezzo ambient e tocca a "Ir./Kalla", che ci conduce nell'antico e sotteraneo mondo mesopotamico con un sound finalmente ispirato, ove fa la sua apparizione il terzo ospite del disco, Paulina Suastegui, alla voce. La musica qui sembra ispirarsi ad un altro filone, quello mediorientale, con Melechesh e Arallu in testa, grazie all'utilizzo di quelle melodie orientaleggianti (corredate anche dalla soave voce femminile di Paulina) che caratterizzano il sound delle due band israeliane, senza comunque rinunciare alle tipiche sfuriate black. Un altro intermezzo e la strada verso la purificazione, secondo la tradizione sumera descritta in questo 'Altalith', fa tappa con "Nin\ ki /en-mhah", un brano stralunato, evocativo e cerimoniale, che miscela ancora una volta un black vorticoso con lontane contaminazioni progressive. L'ennesimo intermezzo tribale e si arriva a "Altalith-jamediu", un pezzo non semplicissimo da digerire che si muove su un mid-tempo schizzato che sembra chiamare in causa gli ultimi Deathspell Omega, soprattutto nella seconda parte dove il ritmo s'infervora notevolmente, muovendosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti da incubo, per il più classico degli stop'n go. In chiusura “Bleed 17-09”, che vede alla voce il featuring di Kim Carlsson degli Hypothermia, sembra consegnarci una band completamente diversa da quanto ascoltato sin qui grazie ad un sound inizialmente più atmosferico, ma comunque slegato da quegli influssi mediorientali apprezzati in buona parte del disco. La lunga traccia nei suoi 10 minuti e più, vede un'alternanza di momenti più nervosi e votati al depressive black di Lifelover o Burzum, con altri decisamente più delicati e sofisticati che la eleggono comunque a mia song preferita del disco. In definitiva, 'Altalith' è un disco complesso, di difficile assimilazione che necessita di molteplici ascolti per essere goduto per quel che realmente è. Ci vuole pazienza e perseveranza ma alla fine verrete premiati da una prova dotata di una certa maturità artistica. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

Suidakra - Command to Charge

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Folk
Iniziai ad ascoltare i Suidakra, quando nel 1999 uscì il loro terzo lavoro 'Lays From Afar'. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia con i quattro tedesconi che hanno dato alle stampe altri album, tra cui questo 'Command to Charge'. La qualità del sound proposto dal combo teutonico però, è andato via via peggiorando. Se tanto avevo apprezzato la band per la loro proposta death-epic-folk-power metal di 'Emprise to Avalon', non avevo di certo gradito la sterzata stilistica con il successivo 'Signs for the Fallen', che aveva abbandonato le caratteristiche atmosfere dei dischi precedenti, per lasciar posto ad un sound più aggressivo ma anche più anonimo. Con questo cd invece, i nostri hanno continuato sulla scia del precedente lavoro, perdendo però in cattiveria, probabilmente a causa di un uso più marcato di mid clean vocals, che mi hanno rievocato le performance vocali del singer dei Pyogenesis e che ammetto di non aver particolarmente apprezzato. Il guitar riffing, più raffinato rispetto al passato, paga spesso tributo allo swedish death metal dei Soilwork, ma rispetto ai colleghi svedesi, riesce fortunatamente ad essere più vario, passando da ritmiche incalzanti a piacevoli arpeggi, concludendo però con assoli poco convincenti. Ho dovuto attendere la decima traccia, la strumentale “Dead Man’s Reel” per ritrovare quel folk sound, a la Skyclad per intenderci, che tanto mi aveva colpito nei primi lavori, tuttavia si tratta di un episodio isolato. Il cd comprende anche due bonus live video tracks, “Reap the Storm” e “Morrigan”. Infine, vorrei segnalare che gli ultimi tre minuti dell'album riservano la classica ghost track, addirittura la cover “Moonlight Shadow” di Mike Olfield, completamente stravolta. Per quanto mi riguarda, questo 'Command to Charge' è più un album di transizione che porterà la band di Düsseldorf a ottimi traguardi già a partire dai successivi 'Caledonia' e 'Crógacht'. Qui ahimè semplicemente sconclusionati. (Francesco Scarci)

(Armageddon Music - 2005)
Voto: 55

https://www.facebook.com/Official.SuidAkrA

Dissection - The Past is Alive (The Early Mischief)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death
Credo che la Hammerheart/Karmageddon Media abbia riproposto 'The Past is Alive' ormai quattro volte, l'ultima nel 2018 per ricordarci di questa raccolta del primo leggendario 7” EP dei famigerati Satanized (la band dalle cui ceneri sono poi sorti i Dissection), con versioni demo e promo dei classici pezzi della band svedese capitana da Jon Nodtveidt. Mi sembra proprio che attorno ai quattro ragazzi di Goteborg si sia costruita una coltre di mistero che trovo ingiustificata. Però i Dissection sono stati ottimi interpreti di un filone, che probabilmente deve la sua nascita proprio a loro stessi, di essere stati gli autori di due fantastici album a metà anni ‘90, 'The Somberlain' e 'Storm of the Light’s Bane', ma da quei due episodi, di anni ed eventi, in ambito musicale e non, ne sono passati parecchi. Da allora, un mcd di materiale già edito, un live, una raccolta e un ultimo mediocre album, 'Reinkaos', prima dello split definitivo legato alla morte di Jon nel 2006. Nell'edizione del 2005 dello stesso lavoro (cosa che non accade ad esempio nell'ultima release del 2018), la band aggiungeva due brani, “Where Dead Angels Lie” e “Elizabeth Bathori” per rendere più appetitosa questa release. Ma francamente quello che potete ascoltare qui è un sound più crudo e primordiale rispetto a quanto poi i Dissection hanno prodotto, col loro sound a metà strada tra death e black fatto di quei fraseggi chitarristici pregni di malinconia, rabbia e malvagità, ma anche pieni di una melodia che mai prima aveva trovato posto all’interno di un genere così estremo. Ci sono comunque dei segni prodromi di quanto avrebbero generato in seguito nelle linee di chitarra di "Frozen" o "Mistress of the Bleeding Sorrow", ma altri episodi cosi grezzi rimangono agli atti solo per i fan più accaniti. Gli altri si vadano ad ascoltare il monumentale 'Storm of the Light’s Bane' per meglio capire il corso della storia. (Francesco Scarci)

(Karmageddon Media/Candlelight Records - 2005/Hammerheart - 2018)
Voto: 60

https://hammerheart.bandcamp.com/album/the-past-is-alive-the-early-mischief

venerdì 28 agosto 2020

Iiah - Terra

#PER CHI AMA: Post-Rock
Formatisi nel 2013 in quel di Adelaide, gli Iiah sono un quintetto dedito ad un fluttuante post-rock cinematico, fatto di catartici momenti ambient impreziositi da ottime linee di chitarra. Questo è almeno quello che ci dice "Eclipse", la song che segue a ruota la strumentale ed ipnotica opening track di questo 'Terra', secondo album per la band australiana."Eclipse" è un dolce affresco musicale guidato dai gentili tocchi di chitarra del duo formato da Ben Twartz e Nick Rivett (anche se in realtà pure il vocalist Tim Day si occupa di chitarra e tastiere). Il risultato che ne consegue è il classico post-rock senza particolari sussulti e che anche nella seconda traccia si conferma strumentale. E allora attendiamo di sentire la terza "Aphelion" per capire su quale modulazione si attestano le corde vocali del frontman e comprendere qualcosina in più dei nostri, che musicalmente potrebbero essere collocabili a fianco di formazioni tipo This Will Destroy You, We Lost the Sea o Sleepmakeswaves. La voce di Tim ha una buona timbrica (evocante il cantante degli Anathema) e in questo caso viene raddoppiata dalla voce soave collocata più in sottofondo, di Maggie Rutjens. Il risultato è suggestivo, quanto meno rilassante e ben si adatta con la melodia e le ritmiche sul finale più crescenti. "Sleep" prosegue il mood rilassato abbracciato dalla band che ricorda in un qualche modo le sonorità sognanti dei Sigur Rós, il problema semmai è che alla lunga rischi di divenire troppo ridondante e noioso e la tentazione a skippare al brano successivo si fa più forte che mai. E qui arriviamo a "20.9%", oltre nove minuti di musica che o mi danno una poderosa carica per risvegliarmi o mi spingono definitivamente verso le braccia di Morfeo. Fortunatamente, le chitarre in tremolo picking che esplodono quasi all'inizio del brano, mi fanno propendere per la prima soluzione, facendomi apprezzare le buone linee melodiche imbastite dai nostri, che rimangono tuttavia incellophanate in strutture un po' troppo limitate, senza mai tentare un vero e proprio azzardo musicale. Forse risiede qui il vero limite della band che per quanto sia piacevole, alla lunga stufa perchè privo di un vero e proprio guizzo vincente. Rimangono ancora da ascoltare le conclusive "Luminescence", morbida ma ancor priva di mordente, sebbene nella seconda parte si dia maggior risalto alle chitarre. In "Displacement" ricompaiono le voci in un background musicale fortemente malinconico che trova qualche spunto interessante nella seconda parte che ricorda nuovamente gli Anathema più emotivamente disperati, ma che comunque la elegge a mio brano preferito. L'ultima song è la lunghissima "Lambda", 13 minuti che si aprono con la tribalità del drumming e prosegue all'insegna di un post-rock sognante, emotivamente votato ad una straziante malinconia e che risolleva decisamente le sorti di un disco che nella prima metà stentava davvero a decollare. Sicuramente un passo indietro rispetto al disco d'esordio, ma sono certo che in futuro gli Iiah sapranno rifarsi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 68

https://iiah.bandcamp.com/album/terra

Meshuggah - Catch Thirty Three

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Swedish Death/Djent
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, 'Contradictions Collapse', un album che era pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Dopo 14 anni, 6 album e 4 EP, all'uscita di 'Catch Thirty Three', il combo svedese era già diventato una delle più importanti e influenti band in ambito estremo, e questo album avrebbe dovuto consacrare definitivamente il quintetto scandinavo. Tuttavia (e qui i fan più accaniti forse verranno a cercarmi a casa), quel lavoro mi deluse. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono molteplici ascolti. La musica poi non differisce più di tanto dai precedenti dischi: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato. E ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per minuti si intestardisce a ripetere gli stessi accordi) risulta noiosa e ridondante. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei cinque ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, i ritmi spezzati, con il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, non posso dire assolutamente che questo 'Catch Thirty Three' sia un brutto album, però all'epoca mi aspettavo qualcosina in più. Ma d'altro canto, lo sapete anche voi, i Meshuggah si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2005)
Voto: 67

https://www.facebook.com/meshuggah

The Pit Tips

Francesco Scarci

Dehà - A FLEUR DE PEAU - I - There is no home
Laetitia In Holocaust - Heritage
Рожь - Один сажень

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Alain González Artola

Ringarë - Sorrow Befell
Midnight Bethrothed - Indulgence in Eternity
Frienholt - The Lady of Light

Axis of Perdition - Deleted Scenes from the Transition Hospital

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Ambient
Gli Axis of Perdition in questa release riprendono la storia di un personaggio solitario imprigionato e condannato a vagare per l'oscuro labirinto del Transition Hospital, e guidato inesorabilmente verso il proprio e definitivo terrore rivelatore (tema già trattato nel MCD 'Physical Illucinations'). Ecco, riassunto in poche righe il concept che si cela dietro 'Deleted Scenes from the Transition Hospital', un viaggio all’interno dei meandri post apocalittici della band inglese. Potete quindi ben immaginare cosa la band ci riservi in questo disco: atmosfere al limite della rarefazione, ambientazioni dark, chitarre incorporee e sinistre in strutture disarmoniche, un cantato catartico e pieno di dolore. Questi sono gli Axis of Perdition, quattro ragazzi capaci di suggestionare la mente di chi li ascolta con pure visioni misantropiche. Gli otto brani inclusi in questo lavoro che risale ormai al 2005 riescono ad infondere una tale angoscia da dover sospendere ogni tanto l’ascolto, perchè in debito d’ossigeno. Sono oscuri, malvagi e apocalittici, capaci di frastornarci con suoni che nascono dall’ambiente urbano e poi integrati nella loro dimensione più mostruosa. Distorsioni, rumori, crepitii, rallentamenti ipnotici, terrificanti grida, gelano il sangue nelle mie vene. Se quest’album lo ascolterete di notte, nel buio della vostra camera, vi garantisco che sarete poi costretti a dormire con la luce accesa. Gli Axis of Perdition riescono a stupirci anche con un inserto jazz nel terzo brano “Pendulum Prey” e altre trovate d’effetto, sparse qua e là nell’album. Questa non è musica ma un incubo sonoro. (Francesco Scarci)

domenica 23 agosto 2020

Рожь - Один сажень/Остов

#PER CHI AMA: Funeral/Black/Doom
Quella di oggi è una one-man-band proveniente dalla Carelia, quella regione russa al confine con la Finlandia descritta peraltro nel lavoro 'The Karelian Isthmus' degli Amorphis. A parte queste divagazioni geografico-musicali, la band si chiama Рожь che in italiano starebbe per segale, quanto meno stravagante come moniker. Detto questo, il lavoro contiene in realtà 'Один сажень' e 'Остов', i due EP del mastermind russo e sembra narrare una breve storia su un vecchio morto che nessuno sapeva chi fosse. Purtroppo la lingua cirillica non mi aiuta a capire molto di più, e allora meglio concentrarsi sulla musica. I primi quattro brani sono estratti da 'Один сажень' e si aprono con le soffocanti atmosfere di "Один", il cui sound sembra immediatamente delineare la direzione funerea intrapresa dal polistrumentista sovietico. Si, stiamo parlando di funeral doom, in una versione che si avvale di corpose e melodiche linee di chitarra che evocano il duo Draconian/Saturnus con dei vocalizzi growl che a malapena si percepiscono in background. Grande spazio è lasciato a lunghe pause ambient che caricano di una certa tensione l'aria già di per sè rarefatta del disco e così, di quasi 10 minuti di musica, quasi il 50% è affidata a queste minimaliste parti atmosferiche, in cui sembrano esserci eteree voci in sottofondo. Il risultato è convincente e mi spinge a volerne sapere di più e quindi affrontare con maggior spensieratezza le successive tracce. Ecco quindi susseguirsi la brevissima "Платье под железом", ponte per la più abrasiva "Головы", vera tormenta post-black che evolve in sonorità più black doom oriented. A chiudere il primo capitolo la ritualistica "Сажень", affidata al solo cantato del musicista russo e a delle spettrali tastiere in background. La seconda parte del disco include le tre song di 'Остов', aperte dagli archi di "Пасха", sicuramente un bel biglietto da visita per l'ascoltatore. L'introduzione è sempre abbastanza lunga e sembra essere la virtuale continuazione della precedente traccia, prima che inizi ad infuriare il mastodontico sound delle sei-corde (prima lento e poi impetuoso) e l'efferato screaming del vocalist, in un altro pezzo tipicamente post-black, sebbene il finale riservi curiose contaminazioni. La pseudo strumentale "Рукава и сажа" rivela le influenze per il nostro polistrumentista derivanti, a livello chitarristico, dallo sludge che ben si coniugano col doom e il post che spopolano un po' ovunque all'interno del disco. In chiusura, la title track, altri quattro minuti di non musica, fatta da voci evocative e parti ambient affidate agli archi che stimolano non poco l'immaginazione di chi sarà pronto e senza paura ad immergersi in questo viaggio targato Рожь. (Francesco Scarci)

Laetitia In Holocaust - Heritage

#PER CHI AMA: Black Death Avantgarde
Già recensiti in occasione dei precedenti lavori e peraltro intervistati vis-a-vis ai tempi di Radio Popolare, mi ritrovo tra le mani il nuovo disco dei modenesi Laetitia in Holocaust, che per trovare un'etichetta che li supportasse, hanno dovuto questa volta "emigrare" in Canada, appoggiandosi alla Niflhel Records. Il misterioso duo italico (oggi trio in realtà) torna quindi con il quarto album, 'Heritage', che non fa altro che proseguire (e migliorare) quanto fatto con il precedente 'Fauci tra Fauci', uscito lo scorso anno per la Third I Rex. Il disco si apre con "The Moor", una breve intro noise che ci prende per mano e ci conduce nel labirinto tortuoso e stralunato di "Dissolution in Black Pastures", una song che si muove su ritmiche vorticose, deliri musicali, vocals schizoidi e giri di basso da paura, che dipingono surreali momenti d'atmosfera e ci consegnano una band in grande stato di forma che lascia ancora presagire ampi spazi di miglioramento. Tuttavia, a dire il vero, dopo il primo ascolto, mi sento di dire che questo è anche il brano migliore del lotto. Seguono però una serie di pezzi di indubbio valore: parto col disquisire la title track, un pezzo funambolico, che evidenzia la sempre eccelsa tecnica del combo emiliano che pone in primo piano il magnetico sound del basso, attorno al quale sembrano ruotare gli altri strumenti e la voce graffiante (in screaming ovviamente) del frontman S. Il risultato che ne viene fuori ha un che di originale che supera in qualità compositiva quanto uscì già di buono lo scorso anno. Le imprevedibili ma melodiche linee di chitarra, i frangenti acustico-atmosferici, i repentini cambi di tempo, ci dicono ancora una volta che la band è in uno stato di grazia e sa giocare sapientemente con partiture techno black/death avanguardistiche che elevano i nostri a punto di riferimento di una scena ancora poco popolata. Se dovessi citarvi un termine di paragone per descrivervi la proposta dei Laetitia in Holocaust, vi direi di immaginare i Sadist di 'Above the Light', miscelati ai Cynic e fatti suonare dai Deathspell Omega, avete presente che bel mix ne salta fuori? Questo si traduce in pezzi ricercati, talvolta talvolta ancora un po' complicati da digerire, come potrebbe essere "Exemplum", che di certo non gode della stessa accessibilità musicale dei precedenti pezzi, ma che mette comunque in mostra le qualità di un disco molto buono ma ancora perfettibile, soprattutto a livello produttivo, dove forse i suoni risultano un po' troppo crudi. Poi non si possono contestare i contenuti del lavoro: "Of Courage and Deity" è magnetica quanto basta, sempre merito di quel basso e di una voce che rimane un po' nelle retrovie, ma anche di un sapiente lavoro alla chitarra che regala quel tocco disarmonico che tanto ci piace. Fatto sta che il misterioso duo ha creato un proprio marchio di fabbrica che ne caratterizza enormemente la proposta e che in assenza di quelle piccole e marcate caratteristiche (un sound talvolta sospeso, il meraviglioso basso, le divagazioni acustiche quanto quelle jazzy) porterebbero la band sullo stesso piano di altre mille. E allora ben vengano le ferali incursioni apocalittiche di "Of Feathers and Doom" o l'oscura tempra di un brano come "B Minor", costruito interamente su una malinconica chitarra acustica che dona ulteriore interesse e curiosità per questo 'Heritage', album complicato ma da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

Blind Stare - Symphony of Delusions

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death
Al pari di Svezia e Norvegia, gli anni '90 e 2000 hanno visto arrivare dalla prolifica Finlandia una miriade di band, tra cui questa dei debuttanti, all'epoca, Blind Stare. Devo ammettere che la cover artwork (ad opera di Jan Yrlund degli Ancient Rites) mi aveva un po’ depistato per quanto riguarda lo stile dei nostri: immaginavo infatti, si trattasse di un power epic metal, poi fortunatamente ho realizzato che mi trovavo di fronte ad un platter di death metal melodico. Le dieci tracks ivi contenute (11 nella versione giapponese, che include addirittura la cover di Bon Jovi, "Runaway"), rappresentano un esempio di come le band, provenienti dalla “Terra dei mille laghi”, siano sempre più avanti rispetto le altre. Pur non proponendo nulla di originale, il sestetto originario di Turku ci propone un buon death melodico con clean vocals (che ricordano Michael Stanne dei Dark Tranquillity sull’album 'Projector'), ariose tastiere e preziosi arrangiamenti orchestrali capaci di dare una certa maestosità al suono (pur non avendo un’orchestra a loro disposizione, i nostri sono riusciti ad ottenere un risultato abbastanza simile). E cosi tutto questo 'Symphony of Delusions' si presenta ricco di spunti interessanti, anche se in taluni inframmezzi, i sei ragazzi peccano un po’ di inesperienza, mostrando il loro lato più grezzo, incaponendosi nel voler ostentare quanto possano essere cattivi. Anche l’utilizzo della tripla voce (clean, growl e scream) magari rende il tutto ancora grossolano, tuttavia confermo, che d’idee ce ne sono molte e soprattutto valide. L’abilità agli strumenti poi è indiscutibile (buone le chitarre, ottime le tastiere) e sicuramente con qualche ulteriore accorgimento, una buona dose di fortuna e una casa discografica decente alle spalle, i Blind Stare avrebbero potuto dar filo da torcere a chiunque. Purtroppo dopo questo lavoro, è uscito un altro Lp nel 2012, 'The Dividing Line', poi il silenzio fino al 2019 quando un singolo, "Broken Red", ci ha restituito la band in grande forma. Preludio di un nuovo album? Staremo a vedere. (Francesco Scarci)

(Arise Records - 2005)
Voto: 70

https://www.facebook.com/blindstare/

sabato 22 agosto 2020

Verikyyneleet - Ilman Kuolemaa

#FOR FANS OF: Black Old School
Verikyyneleet is a Finnish obscure project, which was founded in the '90s. As it often happens in the black metal underground, some projects decide to remain in the shadows, only releasing demos or extremely rare and limited EPs, which usually go unnoticed unless you are an expert carving the deeps of this genre. Verikyyneleet, which means "Bloodtears" is a one-man project that finally decided to take a step forward, recording an embryonal version of ‘Ilman Kuolema’, the debut album, six years ago. This obscure album saw the light in 2019, but it has officially been released in an extended version this year, including more songs which have been composed during the last twenty years.

Considering this aspect and when the project was founded, it shouldn´t be surprising that Verikyyneleet´s core sound is firmly rooted in the '90s pure black metal. Musically speaking, this is not a straightforward furious black metal record, though it contains a good dose of it, but a primitive soundtrack, where fury and a dark melancholic atmosphere are fused to create a quite hypnotic album. As mentioned, the compositions mix the natural aggressiveness of the genre with a strong atmospheric essence, as it is perfectly displayed in the homonymous track, which opens the album after a short intro. The speedy drums, raspy and distant vocals and pure black metal-esque guitars are excellently mixed with some keys and ambience arrangements, which balance the composition in order to achieve this primordial atmosphere of the old classics of this genre. Another fine example of this mixture, would be the longest track of this album, entitled "Ei Todellista Voimaa…", which includes the aforementioned characteristics, and in addition, a good dose of slow sections with a strong feeling of despair. Moreover, this track and the others incuded on this album, show a noticeable point of distortion and dissonance, which are the most experimental aspects of a theoretically classic album. These dissonant tones are especially present in the guitars in contrast to atmospheric arrangements. Personally, I am not a great fan of these experiments and I prefer the ambience sections made by the keys, which result more captivating. The vocals are the classic shrieks, quite high-pitched and with a truly raw nature. They are present in almost all the songs, though there is a little room for variation, with cleaner and dramatic vocals in a song like "Yhtä Luonnon Kanssa". The production is remarkably raw and primitive. The vocals sound distant though listenable, the guitars have a good amount of distortion and sound filthy, while the drums sound a little buried in the mix. This production is done on purpose and helps to reinforce the primeval atmosphere of this record, which could have been recorded in 1998 and you wouldn´t notice the difference.

All in all, ‘Ilman Kuolemaa’ is an interesting album of '90s black metal which will appeal the fans who miss those old times. Composition wise, the album has a good balance between fierceness and atmosphere, which makes it interesting. (Alain González Artola)

Sinisthra - Last of the Stories of Long Past Glories

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Charon, Him
Dalla terra dei vari Him, The 69 Eyes, Entwine e Charon (...e chi più ne ha più ne metta), arrivò nel 2005 un’altra band di gothic metal. Dalla gelida Helsinki ecco approdare sul mercato discografico i Sinisthra, conosciuti fino a pochi mesi prima con il monicker Nevergreen. 'Last of the Stories of Long Past Glories' è stato il loro disco di debutto, dove peraltro sondare all'epoca le doti canore del nuovo singer degli Amorphis, Tomi Joutsen, passato nelle file della band di Tomi Koivusaari, dopo la dipartita di Pasi Koskinen (che a sua volta era passato nelle file degli Ajattara). Ma parliamo di musica ora: il disco è un esempio di classico gothic metal, ispirato alle band sopraccitate, ma anche dai lavori più “pop” dei Pyogenesis, degli album degli Amorphis di quell'epoca e addirittura, in qualche passaggio, ho potuto scorgere l’ombra dei Red Hot Chili Peppers (quelli più intimistici però). I 40 minuti di questo lavoro ci offrono un po’ tutti i clichè del genere: malinconiche melodie sostenute dalle soffuse tastiere di T. Vainio, squarciate da momenti più aggressivi e dagli assoli dei due chitarristi. E poi la voce di T. Joutsen, che dire? Il fatto che passò a cantare sul prossimo disco di una delle mie band preferite di sempre, un po’ mi fece venire i brividi, ma poi ci ho fatto l’abitudine. La sua voce era infatti nasale, dotata di una buona estensione vocale, ma poco carismatica; sprigionava poca energia con l’album che scivola stancamente senza mai troppo coinvolgere l'ascoltatore. Cosa volete che vi dica, le premesse non sono state le migliori e se la band ci ha impiegato 15 anni per produrre un nuovo lavoro ('The Broad and Beaten Way') e ristampare questo per la Rockshots Records con un paio di demo tracks e unreleased tracks, un perchè deve esserci. Io da buon sentimentale, rimpiango ancora i tempi in cui il buon vecchio Tomi Koivusaari gorgheggiava su 'Tales From the Thousand Lakes', quindi fate voi. Per quanto riguarda le liriche trattano temi più che altro intimi e personali. Insomma all'epoca trovai questi Sinisthra abbastanza spenti e poco convincenti, ora sarei davvero curioso di ascoltare il nuovo album. (Francesco Scarci)

(Arise Records/Rockshots Records - 2005/2020)
Voto: 58

https://www.facebook.com/Sinisthra/

Aibag – A Day at the Beach

#PER CHI AMA: Psych Prog, ultimi Anathema, Radiohead
Descrivere un lavoro degli Airbag (band che ho sempre ammirato ma di cui non amo il nome che trovo incoerente con la loro splendida musica) non è mai stato facile. Nessuno degli album usciti fino ad oggi era stato di facile approccio e tutti prevedevano un certo background musicale per comprenderne appieno le varie fonti musicali e sfumature, racchiuse peraltro anche nelle note di questo nuovo capolavoro. 'A Day at the Beach' non vuole infatti essere da meno rispetto ai suoi predecessori e calca ulteriormente la mano sulle tante influenze, puntando su di un sound sentimentale, carico di espressività, unico e dai toni cromatici variegati. Gli Airbag sono una band magnifica, al confine tra liquido rock sofisticato e moderne escursioni elettriche/elettroniche, per un gruppo, purtroppo, ancora troppo sottovalutato dalla scena musicale mondiale. Hanno un suono affascinante i nostri e si presentano come una splendida anomalia, tra gli Anathema più sperimentali di oggi, i Radiohead più votati all'indie rock/elettronica, i Porcupine Tree per ciò che concerne la psichedelia e la perla, 'Marbles' dei Marillion, per quanto riguarda il rock progressivo. Una commistione di intelligenti intrecci musicali di grande spessore, dall'imponente "Machines and Men", brillante singolo di oltre dieci minuti posto in apertura di disco, alla conclusiva "Megalomaniac", lunga e malinconica ballata dalle tinte grigie, ma con intelligenti variazioni sul tema chiaroscuro. La band norvegese è una delle poche realtà che riesce ancora a far dilatare le pupille con il proprio sound, a creare sogni musicali per i propri fans e far scorrere brividi di reale malinconia sulla pelle di chi li ascolta. Inglobano nel loro sound particelle estratte da Placebo e Antimatter, sono raffinatissimi nella loro incessante ricerca di un suono senza tempo, accessibile ma complicato, maturo. Rielaborano sottigliezze pink floydiane e sono quello che gli U2 più recenti dovrebbero essere se solo avessero mantenuto lontanamente, la qualità e la sensibilità artistica di questa band scandinava. Ogni loro brano è una sorta di catarsi mistica, sensuale e profonda espressività musicale. In termini musicali è come elevare ed ampliare la forza emotiva del brano "Meteorites" degli Echo and the Bunnymen e portarlo alla massima potenza sull'intero lotto dei brani. 'A Day at the Beach' è un cd che a pieno titolo si conquista un ruolo da prima donna nell'immenso filone musicale, catalogabile solo con il termine neo progressive, una ricetta originale per un suono moderno, ipnotico, emotivo e tecnicamente eccellente, un'ulteriore affermazione positiva per una band in costante ascesa, che da anni sforna solo ottimi lavori e per cui giustamente, la sempre attenta Karisma Records, non se li è fatti scappare. Ascolto consigliatissimo, per questo ennesimo eccellente album! (Bob Stoner)

(Karisma Records/Dark Essence - 2020)
Voto: 84

https://airbagsound.bandcamp.com/album/a-day-at-the-beach

Far Beyond - An Angel’s Requiem

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Epic Black
I Far Beyond rappresentano il progetto solista di Eugen Dodenhöft. La band norvegese è stata fondata nel 2001 e dopo un solo anno ha rilasciato il primo demo-cd, 'Bleeding Rose', che ha ricevuto notevoli riscontri positivi dalla critica e ha catturato l’attenzione della label tedesca Source Of Deluge Records. Le dieci tracce che compongono questo 'An Angel’s Requiem' hanno saputo conquistarmi fin dal primo ascolto. Ad aprire le danze, c’è la solita “fantasiosa” (ma anche un po’ scontata) intro tastieristica, ma poi l’album decolla e si snoda attraverso nove emozionanti tracce, caratterizzate da un sound eclettico, capace di offrire momenti di delicata malinconia, altre di forte epicità (dove mi hanno ricordato vagamente i Summoning) e ancora grande rabbia con sfuriate black, in cui Eugen dà sfogo a tutta la sua collera. Le vocals alternano strazianti grida a voci pulite, passando attraverso momenti di toccante epicità (in cui sono udibili reminiscenze dei Bathory di 'Twilight of the Gods'). Le liriche contenute in questo lavoro toccano le esperienze dolorose, i sogni infranti e le surreali visioni di Eugen. Da segnalare poi l’ottimo gusto per la melodia da parte della band, peraltro assai convincente nelle parti solistiche. Non ho tanto altro da aggiungere, se non di riesumare questo vecchio ma validissimo prodotto proveniente dalla penisola Scandinava e calarvi nella foresta incantata narrata dai Far Beyond, immergendovisi nelle sue oscure atmosfere e lasciandovi conquistare da questo mondo lontano. (Francesco Scarci)

(Source of Deluge Records - 2005)
Voto: 80

https://farbeyond.bandcamp.com/album/an-angels-requiem