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martedì 7 gennaio 2020

Dead Hippies - Resister

#PER CHI AMA: Electro Rock/Noisy Dance
Il nuovo disco dei Dead Hippies è una buona release, curata e ben fatta, come tutte le loro produzioni ma, a dir il vero, un po' carente in fatto di novità. I brani intersecano strade già percorse da artisti come Gorillaz, Amaury Cambuzat con i sui seminali Ulan Bator, Chumbawamba laddove predomina una forte somiglianza nel canto del nuovo arrivato Dylan Bendall (in "Resister" appare addirittura il rapper americano Mr. Jason Medeiros), fino allo stile del funambolico John Lydon nell'album 'Psycho's Path', senza dimenticare l'hip hop e le cadenze punk alla Jello Biafra. Tutto questo è poi unito ad una sorta di tributo ai The Prodigy e alla techno dance degli anni '90, fondendosi ad una certa dose di dub alla Basement 5, neanche poi così interessante sotto il profilo artistico. Comunque, resta una buona prova, dove il rock assume mille venature, anche se manca il vero senso del rock, quello sbandierato "wall of sound" che non caratterizza granchè questo lavoro, tenuto in sordina da un qualcosa più di tendenza, quasi ad imitare in maniera più soft e meno hardcore, quel fenomeno americano che risponde al nome di Ho99o9, laddove l'elettronica abbraccia la spinta e il furore dell'hardcore in un'orgia di assalti frontali. Non siamo di fronte nemmeno al mito creato dagli Atari Teenage Riot ma la band francese non si è imposta di raggiungere quel tipo di vette, così mi sento di premiare la composizione che porta il nome di "Laugh in Sadness", vero e proprio gioiellino, un cupo e drammatico brano strumentale riuscito alla perfezione. Posto a metà del disco, il pezzo conquista la vetta e surclassa il ritmo in levare di "The Little Ones" che ricorda un mix tra Beastie Boys e Les Négresses Vertes, cantati da un Lydon in gran spolvero. Da questo punto la dance tende a prevalere nelle restanti canzoni, valida ma poco innovativa e senza idee di rottura, con le chitarre a far da contorno e con l'ombra dei Public Image Limited (strepitosa qui la somiglianza vocale!) sempre in agguato. L'ultima traccia, "Dramatic Control", ridà voce al disco, sperimentando un po' di più e lasciando correre le chitarre sulla scia di un poderoso elettro/kraut/post-rock molto sonico e spaziale, grazie all'utilizzo di filtri vocali in stile Kraftwerk. Un melting pot di suoni quello dei Dead Hippies, musiche e ricordi musicali espressi bene ma che non danno la classiva ventata di novità, mantenendo ancorata la band francese alla media delle sue produzioni, sempre interessanti per l'accostamento e il crossover tra i diversi tipi di generi ma in alcuni casi rasenti il plagio, e penso soprattutto alle parti vocali che sono belle e ad effetto ma lontanissime da una genuina originalità. Buon disco per chi si accosta alla loro proposta per la prima volta, ma per chi li ha amati con i precedenti lavori, potrebbe non rimanere del tutto soddisfatto. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Bruillance/Kshantu - 2019)
Voto: 64

https://www.facebook.com/deadhippiesdead/

lunedì 6 gennaio 2020

Mesmur - Terrene

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Cosa c'è di meglio se non iniziare il nuovo anno con una bella colata lavica di musica funeral doom? Ad aiutarci in questa impresa, arrivano i Mesmur, combo internazionale formato da membri che arrivano un po' da tutti gli angoli del globo, Russia, Australia, US e anche la nostra piccola Italia, senza contare le partecipazione al flauto di Don Zaros degli Evoken e al violoncello della russa Nadia Avanesova. 'Terrene' è il terzo disco per il quartetto mefitico che si ripropone con quattro song che durano la bellezza di 54 minuti. E allora, se le vostre vacanze natalizie sono state fin troppo felici, meglio farsi investire dalla totale assenza di voglia di vivere dei nostri che già con l'iniziale "Terra Ishtar", ci fanno letteralmente sprofondare nella palude dello Stige, laddove gli accidiosi rimangono sommersi nell'immobilità del loro spirito. Immobilità appunto, la parola chiave che descrive le movenze a rallentatore della band, cosi ritmicamente pesante nella propria proposta da richiamare i paladini Skepticism o Esoteric, due capostipiti di un genere che raccoglie ogni giorno sempre più consensi. La proposta dei Mesmur non si raccoglie però tutta qui nella riproposizione dei dettami dei maestri, ma è impregnata di atmosfere eteree, quasi sognanti che tutto di un tratto sembrano farci risollevare verso quei cieli estatici descritti da Dante nella sua 'Divina Commedia', prima di essere avviluppati da una tragica sensazione di fine del mondo, quella appunto descritta dalla compagine multietnica in questa loro terza fatica. È tempo di "Babylon", la seconda song che narra della città ormai fantasma di Babilonia appunto e dei demoni che la abitano ora e di tutto il sangue di santi e profeti che invece è fluito nel corso dei secoli. Le tematiche aiutano ad enfatizzare un sound permeato solo di gelida morte come quella sprigionata dalla catacombale voce del frontman Chris G nel mortifero incedere odorante di solo zolfo infernale. La chitarra di Jeremy Lewis cosi come il flauto del tastierista degli Evoken, provano a stemperare la pesantissima aura che ammanta la song, ma il risultato persiste nel mantenersi in equilibrio con le sue apocalittiche melodie. Si procede sulla falsariga anche con "Eschaton" e altri 13 minuti in cui è la pesantezza intrinseca esalata dall'ensemble a farla da padrona, anche se qui un barlume di luce sembra affiorare dall'iniziale malinconica (quanto dissonante) melodia di chitarra e in generale da un accenno di dinamismo mostrato in sede ritmica, con un drumming che sembra (ma non accadrà mai) via via aumentare i giri del motore, anzi l'evoluzione della song assume quasi connotati psichedelico-orchestrali, vista la presenza al violoncello, della brava Nadia che adorna e contribuisce a variare il tema proposto dai Mesmur. Arriviamo all'ultimo baluardo da superare, ossia la quarta "Caverns of Edimmu", una song introdotta da una mefistofelica quanto sinistra melodia, accompagnata da una voce che verosimilmente è quella di un demone Ekimmu, uno spettro dei morti riuscito a fuggire dagli inferi per tormentare gli esseri viventi. La song pertanto sulla scia del suo stesso titolo, sembra avvolta da un'atmosfera criptica sospesa tra sogno (o incubo che sia) e triste realtà, in uno sfiancante incedere di oltre 13 minuti. 'Terrene' è alla fine un album tanto interessante quanto complicato da affrontare, una discesa nelle tenebre da cui forse non far mai più ritorno. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2019)
Voto: 77


https://mesmur.bandcamp.com/album/terrene

Daughters Of Saint Crispin - S/t

#PER CHI AMA: Psych/Slowcore/Post, Neurosis
Singolare scegliere come moniker quello di un sindacato del calzolaio femminile americano, i Daughters Of Saint Crispin appunto. La band, che nasce dalla precedente esperienza del suo leader nei Tyranny Is Tyranny, si propone di offrire un sound che loro stessi definiscono arrogantemente "doomy Big Black" o una sorta di "Godflesh che suonano song dei Codeine" (band newyorkese ispiratrice dello slowcore). E proprio da quest'ultimo genere, caratterizzato da ritmi rallentati, arrangiamenti minimalistici ed atmosfere rarefatte che i nostri partono, coniugando ovviamente il tutto con gli insegnamenti dei Neurosis, una costante aura psichedelica, un pizzico di punk (soprattutto nella seconda ridondante "Debt Grief") ed il gioco sembra fatto. Le tracce da "Ex-Spies" a "Head And Heart", si susseguono proponendo un vortice di lente emozioni e turbamenti interiori. Se ho particolarmente apprezzato l'opener, devo ammettere di aver fatto più fatica ad accogliere la seconda song, desiderando più volte di skippare alla traccia successiva. Solo il chorus mi ha evitato di cambiare brano. "Blue Light" è un brano a rallentatore, con la voce del frontman che sembra quella di un accanito bevitore di whiskey. La song striscia poi come un serpente a sonagli nel deserto, tra ruvide scarnificazioni sludgy, ammiccamenti post e una verve blues rock. L'ultima song dell'ensemble del Wisconsin suona come una ninna nanna per un bebè, con la sola differenza che al posto del latte, al bimbo viene somministrato un cicchetto di ottimo distillato. Alla fine l'EP è un buon punto di partenza per sviluppare in futuro nuove alternative sonore. (Francesco Scarci)

Devilish Impressions - Postmortem Whispering Crows

#PER CHI AMA: Black/Death, Behemoth
I Devilish Impressions li seguo fin dai loro esordi, in quanto sono da sempre affascinato dal loro sound all'insegna del black sinfonico. 'Postmortem Whispering Crows' è un EP di tre pezzi che serve a saggiare lo stato di forma del quartetto guidato da Quazarre, dopo il full length datato 2017 e intitolato 'The I'. Dicevo tre song che si aprono con "Dvma", una traccia estremamente ritmata, che mostra la solidità ormai collaudata del combo polacco nel proporre un genere non certo originalissimo, ma che combina con autorevolezza black, thrash ed heavy metal soprattutto a livello solistico, concedendo ampio spazio anche a parti atmosferiche ed acustiche, il tutto guidato dalla rugosa voce del frontman che nell'ultimo anno ha rinnovato completamente la line-up. "Cingvlvm Diaboli" ha un approccio ben più feroce, palesando soprattutto una certa similitudine con i compaesani Behemoth nella loro veste black death, ma anche con qualche realtà americana, stile Nile; francamente li preferivo nella loro veste iniziale, mid-tempo ma di sicuro più ispirata. L'ultima episodio di questo EP è dato da "Interregnvm", forse la song più blackish del trio, quella decisamente più tirata, più oscura, ma anche quella più in grado di mostrare i molteplici aspetti del nuovo sound dei Devilish Impressions, un mix tra black, doom, gothic e perchè no anche rock (sempre a livello di solo). C'è sicuramente ancora da lavorarci sopra, ma limando qua e là un po' di ruggini e cercando di aggiustare il tiro, forse la band si potrebbe anche togliere nuove soddisfazioni. (Francesco Scarci)

venerdì 20 dicembre 2019

Martriden - S/t EP

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Black, Hypocrisy, Immortal
Originari del Montana ma ora trasferitisi in Colorado, ecco una band che stranamente non suona metalcore o qualsiasi altra cosa alternativa tipica degli Stati Uniti. Quello dei Martriden (nome che trae origine dal folklore scandinavo ossia gli spiriti femminili maligni responsabili degli incubi) è un quartetto death metal, le cui sonorità sono fortemente ispirate ai suoni del nord Europa, al black contaminato dei norvegesi Enslaved, al death degli Hypocrisy, al prog degli Opeth e al movimento swedish in genere. Nonostante i nomi altisonanti, non ci troviamo però tra le mani un lavoro eccelso: forse la band ai tempi di questo debut EP, era ancora troppo acerba per dimostrare le sue effettive qualità. E cosi nei 25 minuti a disposizione, il quartetto di Denver ci propone quattro discrete tracce, in cui i nostri fanno conoscere la loro musica al mondo. L’iniziale “Blank Eye Stare” è un mix black-death, tipico scandinavo, con un break acustico centrale niente male e un discreto finale emozionante. Tutte le influenze dei nostri, dagli Emperor ai primi Katatonia, passando attraverso Immortal e My Dying Bride, convogliano inevitabilmente nel loro sound. Nel secondo brano, un mid-tempo ragionato e cadenzato, si percepiscono anche reminiscenze thrash, stile Nevermore, per un brano francamente un po’ insignificante. Con “In Death We Burn” emergono le influenze swedish death, così come pure nella conclusiva “Set a Fire in our Flesh”. Ottimi i suoni, bravi i musicisti, più che discreta è la personalità del vocalist, ma un senso di già sentito e scontato pervade le mie orecchie. Qualcosa di poco convincente caratterizza l’intero lavoro per cui alla fine fatico a venirne a capo. Dategli un ascolto e aiutatemi a capire. (Francesco Scarci)

(Siege of Amida Records - 2007)
Voto: 60

https://www.facebook.com/martriden

Tholus - Constant

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Carcass, Meshuggah
L’inizio di questo Cd mi ha subito riportato alla memoria gli inframmezzi inquietanti che introducono ogni brano di 'Necroticism' dei Carcass. Ma chi sono i Tholus? È la band del polistrumentista Dave Murray (Estradasphere, Deserts of Traun), qui accompagnato dai migliori musicisti della scena estrema statunitense (e si sente), con lo scopo di riportare ai fasti di un tempo, quel death iper-tecnico e fantasioso, che ben poco fu compreso negli anni novanta con Cynic e Atheist. Quel che è certo, è che non è semplice neppure un approccio così immediato a 'Constant', album che ruota attorno ad un concept alieno. La musica dei nostri è infatti parecchio ostica, e se pensate, che nella loro biografia, i Tholus descrivono il loro sound, come un improbabile incrocio tra il death metal di Death e Carcass e l’avantgarde-fusion di Frank Zappa e Chick Corea, capirete quanto la musica dei nostri sia assai complessa. Montagne di riffs intricatissimi vengono innalzati dai due axemen (ci sono poi altri due chitarristi, uno solista, l’altro acustico), giri di chitarra claustrofobici e ridondanti, richiamano palesemente il mood dei Meshuggah (ascoltatevi “Staring Black”, canzone pazzesca, la migliore del disco). Il drumming fantasioso ed imprevedibile traccia ritmiche allucinanti, ipnotiche e psichedeliche, le chitarre, nonostante la loro brutalità, esplorano territori sconosciuti al metal (jazz, fusion, musica etnica); le growling vocals (forse la vera pecca del lavoro) rappresentano forse l’unico legame con la musica metal, mentre i tre(!) bassi dipingono, in modo magnificente, desolati paesaggi marziani. I Tholus hanno mostrato classe sopraffina ad elevatissimi livelli, un vero peccato poi siano scomparsi nel nulla. Un unico consiglio va dato però, prima di avvicinarsi a questo disco: aprite la vostra mente, perchè questa musica non è di questo pianeta... Allucinanti! (Francesco Scarci)

(Goregorecords - 2007)
Voto: 76

https://tholus.bandcamp.com/releases

Scent of Flesh - Deform in Torture

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Monstrosity, Cannibal Corpse
I finlandesi Scent of Flesh sono dei brutti ceffi, capaci da sempre, di unire all’estremismo sonoro tipico del loro brutal sound, con quel pizzico di melodia che non guasta e anzi ne migliora notevolmente la proposta. Ma si sa, in Finlandia le cose non capitano mai per caso e l’uscita di 'Deform in Torture' datata 2007, terza e ultima release del combo guidato da Matti Viisainen, non fa che avvalorare la mia tesi. Questo capitolo dopo l’EP 'Become Malignity' del novembre 2005, riconsegna una band in strepitosa forma, abile, quanto basta, nello spaccare qualsiasi caso gli capiti davanti. Mezz’ora (ci risiamo) e poco più di musica estrema, violenta, brutale e maligna, un concentrato dinamitardo, che raccoglie il sound dei precedenti lavori, amalgamandolo in modo sapiente ed intelligente. Le otto tracce contenute, sono accomunate dal desiderio di devastare il mondo: veloci crushing riffs pestano dal primo all’ultimo minuto sull’acceleratore non lasciando via di scampo; la batteria, martellante e precisa, che sfocia spesso in territori grind, segna il tempo che scorre, con il malvagio growling di Matti a vomitare tutta la sua rabbia. L’influenza della scuola americana c’è e la si percepisce interamente nella musica del quartetto finlandese: ottima tecnica individuale, unita a fantasia compositiva (merce assai rara nel brutal death). L’attitudine splatter/gore dei nostri è poi sempre ben radicata nei loro testi, così come accade per i maestri di sempre Cannibal Corpse. Proposta convincente, peccato solo che il quartetto di Imatra sia ai box ormai da 12 anni. (Francesco Scarci)

(Firebox Records - 2007)
Voto: 71

http://www.scentofflesh.com/

giovedì 19 dicembre 2019

Rose Funeral - Crucify, Kill, Rot

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind, Job for a Cowboy
Una pioggia minacciosa apre questo cd; poi una scarica di metallo incandescente invade le casse del mio stereo con il coro “Crucify, Kill, Rot” urlato a squarciagola dal vocalist. Inizia cosi il lavoro di questi sconosciuti Rose Funeral, autori di un sound caratterizzato dall’alternarsi di lentissimi e pesantissimi riffoni di chitarra, a brevi sfuriate death-grind. Diciamo subito che la parte predominante del cd sono proprio i breakdown che relegano in secondo piano tutto il resto, rendendo alla lunga (anzi dopo brevissimo tempo) il lavoro abbastanza noioso. La band di Cincinnati, influenzata da sonorità proprie di The Black Dahlia Murder, Job For A Cowboy, Arkangel e Prayer for Cleansing, non inventa nulla di nuovo, anzi, distrugge ciò che di buono è stato fatto fino ad ora da altri act statunitensi. La ritmica, violentissima, è interrotta troppo spesso dai già citati breaks; l’aria che si respira si fa asfissiante e tutto, alla fine, puzza di già sentito. Le doppie vocals, in screaming e growl, completano un quadro, visto fin troppe volte. Suggerito solo agli amanti di sonorità di questo tipo, gli altri si tengano bene alla larga. (Francesco Scarci)

(Siege of Amida Records - 2007)
Voto: 50

https://www.facebook.com/rosefuneralmusic

mercoledì 18 dicembre 2019

Chthonic - Seediq Bale

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black, Cradle of Filth, Sad Legend
Quando si legge “Made in Taiwan”, si tende spesso a pensare a tutti gli oggetti tecnologici prodotti in quella piccola isola dell’Estremo Oriente, ma non solo. Io la ricordo pure come la patria dei Chthonic, band in giro dal 1995 e per cui vale la pena parlarvi di 'Seediq Bale', album numero quattro. I nostri propongono un black sinfonico selvaggio e assai melodico, che gode di un’ottima produzione, in grado di accrescere notevolmente la qualità delle orchestrazioni inserite. Quando uscì il disco, sinceramente non li conoscevo, e ricordo di essere rimasto favorevolmente impressionato dalla dinamicità del combo asiatico. La fonte d’ispirazione dei Chthonic di quegli anni era chiaramente il black vampiresco dei Cradle of Filth, ma devo ammettere che l’act orientale si dimostrava già abile nel creare soluzioni alternative alla band di Dani Filth e soci, con l’impiego di strumenti tradizionali asiatici, ad esempio l’er-hu, una sorta di violino a due corde, capace di donare un’aura funerea al proprio sound. La produzione bombastica conferisce poi, una certa potenza alla musica dei nostri; in alcuni frangenti il richiamo alle tradizioni del proprio paese è cosi forte, che le sonorità si avvicinano ad un mix tra i coreani Sad Legend e i giapponesi Tyrant. In alcuni brani si respirano atmosfere gotiche, in altri si captano quelle tipiche melodie orientali (ascoltate attentamente “Bloody Gaia Fulfilled”) sentite spesso nei film cinesi. Il cd è una cascata di emozioni, note selvagge che non lasciano scampo all’ascoltatore nel rifiatare un attimo, una scarica adrenalinica che ci accompagna lungo le nove tracce contenute. I chitarristi elaborano intricate linee di chitarra, mentre il vocalist Freddy, segue le orme di Dani, tra screaming e growling vocals. Da segnalare l’ottima performance operistica della singer femminile, Doris. A livello lirico 'Seediq Bale' narra la tragica storia di Manarudao che ha portato il suo popolo alla guerra d’indipendenza contro Cina e Giappone, un inno alla libertà che i nostri hanno raggiunto, dopo il distacco del loro paese, dalla legge marziale cinese. Nel cd sono inoltre contenuti diversi video, sia in studio che live. Grande band, che ho supportato da quel giorno in avanti lungo tutti i loro album, anche quelli più controversi, per cui mi sento di consigliare il cd a tutti gli amanti di sonorità sinfoniche siano esse estreme oppure no. (Francesco Scarci)

(Down Port Music - 2006)
Voto: 77

https://chthonic.tw/

Despised Icon - The Ills Of Modern Man

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore/Grindcore
I canadesi Despised Icon (band che vanta tra le proprie file membri dei Neuraxis), freschi peraltro di una nuova uscita, nel 2007 hanno rilasciato la loro terza release con tutte le intenzione di farci del male, ne ho le prove. 'The Ills of Modern Man' (titolo peraltro sempre attuale) si affacciò sul mercato dopo il tanto acclamato 'The Healing Process' e quindi con la difficoltà di superare qualitativamente quell’ottimo disco deathcore. Il six-piece canadese non si è perso d'animo, avendo tutte le carte in regola per poterci sorprendere con una proposta selvaggia e senza compromessi. Così, dopo aver messo il cd nel lettore, non ho più avuto dubbi: il sestetto è sempre pronto per saccheggiare il mondo intero. Dieci tracce brutali, con riffs taglienti come rasoi, stop’n go, cambi di tempo vertiginosi, iper blast-beat, growling vocals e urla animalesche, ritmiche impazzite che corrono a cavallo tra death e grindcore; il risultato? Un disco malato che trasuda rabbia da ogni suo solco. Prodotti egregiamente dal loro chitarrista Yannick St-Amand (Beneath the Massacre, Ion Dissonance e Neuraxis) e mixati ancor meglio da Andy Sneap (Megadeth, Opeth), i Despised Icon per un certo periodo (visto la successiva pausa di sette anni) si sono candidati ad essere i numeri uno nella scena estrema. Brutale, cattivo e fottutamente incazzato, ecco come suona 'The Ills of Modern Man'. Se avete bisogno di scariche di adrenalina pura, questo è il disco che fa per voi. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2007)
Voto: 75

https://www.facebook.com/despisedicon

Calendula - Hiveminds - De Brevitate Vitae

#PER CHI AMA: Post Metal/Stoner
Li avevamo lasciati su queste stesse pagine in occasione dell'uscita di 'Aftermaths': era il lontano 2012. Ora i Calendula tornano sulla scena con un po' di novità in seno alla band. A quanto pare infatti, i nostri sembrano aver virato il tiro primordialmente black/crust/hardcore di quel disco, verso un sound più intimista. Questo è ciò che si evince dall'ascolto dei primi minuti di questa single track di oltre 25 minuti, che dà il nome al lavoro, ossia 'Hiveminds – De Brevitate Vitae'. Certo, il retaggio passato vive sempre nelle note di questi musicisti, palesandosi qua e là sottoforma di riff post-metal, atmosfere melmose in pieno stile sludge, schitarrate stoner, o più rade e sguaiate grida hardcore, senza tralasciare anche una certa vena psych che va a collidere con un più atmosferico post-rock. Insomma, l'avrete capito, saranno pure venticinque minuti di musica, ma quella dei Calendula è una proposta un po' atipica, che ha modo di strizzare l'occhiolino anche all'alternative, soprattutto in ambito vocale, con il frontman a testare nuove linee vocali che vanno ad affiancarsi anche a momenti di spoken words. La proposta della band è davvero interessante, stralunata quando al quattordicesimo minuto le chitarre sembrano in preda al delirium tremens o quando la band ricorda di essere transitata in passato in territori black, che al minuto sedicesimo diventano doom, in quella che resta comunque una nevrotica cavalcata corredata da molteplici stili musicali, e che al diciottesimo (sembra quasi una telecronaca di una partita di calcio) sembrano sforare anche nel math e poco dopo nuovamente nel black. Questo per dire che alla fine 'Hiveminds - De Brevitate Vitae' è un lavoro complesso che necessita di grande attenzione e pazienza per essere goduto appieno. Forse non vi piacerà subito, ma dategli più di un'opportunità e non ve ne pentirete affatto. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Moanaa - Torche
Celtefog - Outlands
Vukari - Aevum

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Alain González Artola

Fen - The Dead light
Obsequiae - The Palms of Sorrowed
Ofdrykkja - Gryningsvisor
 

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Shadowsofthesun

Vanessa Van Basten - Ruins Sketches and Demos
Norma Jean - All Hail
The End Of Six Thousand Years - Perpetuum

Luna - S/t

#FOR FANS OF: Instrumental Death/Doom
This Ukrainian project has been around since 2013, and released their debut album 'Ashes to Ashes' in 2014. I became aware of their existence only early this year, and was intrigued by the mix of Doom and Death Metal elements. This album proves that they are still able to incorporate new sounds into their realm of sadness. Mastermind deMort has his way of delivering massive cuts of raw, uncompromising instrumental tracks. The opening track goes like a waltz of slowly decaying corpses on their way to eternal damnation. Dragged out into extreme porportions, there’s little room for variety. The drums are relentlessly bashing my eardrums, while the violin suite hangs in the background. It rises and falls in key like waves of the ocean washing over a deserted beach. An endless symphony of destruction and death lingers upon us for nearly twenty minutes, and the subtle alternations underway makes it worthwhile to listen to in full. Part two of the three-piece symphony is much lighter, focusing more on strings than anything else. It’s almost like a gleam of hope is protruding from the previous dark territory, but when an electric organ sound is introduced we are reminded that we’re still there. The organ continues to take up much of the soundscape during the section, and gives life to a number of different parts. The outro is played like a series of long chords accompanied by a number of short bursts of soft synth. The final installment is far heavier than the rest, and a simple sad melody plays with long guitar riffs. While this is by far the brightest tune on the album, the organ and the violin keeps it in the dark. There’s a small overture section about halfway through which serves as a end marker for the album. After a brief pause, there’s a bonus track which is more upbeat than the rest. What the rest of the album lacks in versatility, this track makes up for. There’s instances of double drums and experimental riffs for a brief while, before the sound returns to its point of origin: Slow, menacing guitar riffs draped over an organ skeleton. (Ole Grung)

(Solitude Productions - 2019)
Score: 80

https://lunametal.bandcamp.com/

Ad Nemori - Akrateia

#PER CHI AMA: Atmospheric Death/Black
Dalla Baviera ecco giungere il full length di debutto degli Ad Nemori, intitolato 'Akrateia', lavoro che arriva a tre anni di distanza dall'EP 'Pyre'. Il cd include nove tracce di death melodico che con la delicatezza del pianoforte dell'introduttiva 'Miasma', si fa poi largo con le successive e più dirompenti tracce. Che i nostri abbiano uno spirito guerrafondaio appare chiaro sin dalla tellurica apertura di 'Tellurian Doom', un pezzo che prendendoci a calci nei fondelli, mette in luce le qualità compositive dei nostri, nel coniugare un sound potente con frangenti più atmosferici e decisamente melodici, che per sei minuti avranno di che solleticarvi i sensi, soprattutto quando sembra far capolino una melodia orientale in un notevole break acustico. Con "Above the Tide", la proposta del sestetto di Monaco sembra quasi incupirsi, concedendo ampio sfogo al growling possente di Raphael, accompagnato sempre dalle eccelse linee di chitarra confezionate dal duo formato da Stephen e Oliver, che qui sembrano concedersi anche lo sfizio di una sgroppata black, mitigata poi dalle keys di Milos, vero mattatore nell'erigere splendide ambientazioni. Vocals pulite compaiono invece nell'antemico intro di "Kenosis", una traccia di quasi dieci minuti che mette in scena una versione più edulcorata degli Ad Nemori, almeno in termini di potenza, qui assopita a favore di un sound più mellifluo, almeno nella prima metà. Poi è un suono dinamico a venir fuori, quasi a strizzare l'occhiolino agli Insomnium e a tutta la frangia melo death nord europea. "Obey Thy Sovereign" mostra tempi dispari a livello di drumming, ma la sua attitudine ha un che del symph black, il che dimostra anche una certa capacità di spaziare da parte del combo teutonico. Interessante sottolineare come tendenzialmente le seconde parti di tutte le song presentino una parte decisamente più atmosferica, qui anche con annesso un ottimo assolo di chitarra. L'incipit di "Diverging From The Black" mi ha evocato invece lo spettro degli Amorphis, e ditemi se anche voi non ne avete percezione. Lo svolgersi della song poi non riflette proprio i canoni dei gods finlandesi in quanto gli Ad Nemori sembrano qui un po' più caotici, errori di gioventù mi verrebbe da dire. "Guidance" è un intermezzo musicale dal forte sapore etnico che prepara a "The Stars My Destination", oltre otto minuti di sonorità frenetiche, al contempo epiche, a cavallo tra black (lasciatemi dire che qui la batteria non mi piace granchè) e un death doom dai tratti sinfonici. "Enkrateia" chiude l'album là come lo aveva aperto, ossia con soavi e malinconici tocchi di pianoforte che sanciscono la buona prova dei sei musicisti tedeschi. (Francesco Scarci)