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giovedì 16 marzo 2017

Scuorn - Parthenope

#PER CHI AMA: Black Symph/Folk, Inchiuvatu, Fleshgod Apocalypse, Rotting Christ
Vergogna. No, non vi sto invitando a provare quel senso di inadeguatezza che deriva dall'avvertire simile emozione, vergogna è semplicemente la traduzione in italiano di "scuorn", parola che arriva dal gergo napoletano e che da oggi non scorderò mai più, in quanto Scuorn è anche il moniker di una band proveniente proprio da Napoli, che dopo parecchie vicissitudini, arriva finalmente al debutto, con un album che definirsi bomba, potrebbe rivelarsi riduttivo. 'Parthenope' è il titolo del cd in questione, uscito per la Dusktone Records da poche settimane. Un album che francamente mi ha stupito per i contenuti, la cura dei particolari, l'inventiva, e mille altri motivi. Partendo da un'impostazione black metal, ci immergiamo in un lavoro che saprà spaziare dal death sinfonico al folk mediterraneo, passando attraverso l'epic, l'ambient, il progressive, l'etnico e diverse altre sfaccettature, che rendono già in partenza "Fra Ciel' e Terra" una traccia semplicemente meravigliosa, che si muove tra sfuriate black, pompose orchestrazioni in stile Fleshgod Apocalypse, spezzoni tribali, il tutto cantato rigorosamente in napoletano. Si avete letto bene: Giulian, il factotum mente della band, utilizza il dialetto della propria terra per accompagnarci in questo viaggio unico nella musica estrema campana. E la opening track (escludendo l'intro) entusiasma per le sue melodie, i suoi cambi di tempo, l'utilizzo degli strumenti tipici del folklore partenopeo, le vocals growl e quelle recitate in italiano e in latino, le frustate chitarristiche, i blast beat, le magniloquenti tastiere, quegli echi alla Inchiuvatu che si mischiano con il sound colto degli In Tormentata Quiete, il tutto trainato da un sound sinfonico alla Emperor. "Virgilio Mago" attacca di seguito con una chitarra che richiama suoni della tradizione campana, prima di lanciarsi in vorticosi giri ritmici ed aperture atmosferiche di scuola Dimmu Borgir/Old Man's Child, break di chitarra da brividi che esaltano le qualità del mastermind italico, epiche melodie classicheggianti, ed un drumming finale roboante che ammicca al sound ellenico dei Rotting Christ dell'ultimo periodo. Lo sottolineo nuovamente, è musica esaltante quella degli Scuorn. Il vortice sonoro prosegue con "Tarantella Nera" e il suo ritmo spezzettato da quei cori in napoletano, che mi spingono anche a concentrarmi sui testi che ci raccontano leggende del periodo greco e romano di Napoli. La musica spinge con tutta l'enfasi possibile, non stancando mai, anzi continuando ad esaltare per le trovate che costantemente emergono dalle tracce di quest'incredibile disco, che si candida già oggi, ad essere nella mia personale top ten di fine anno, se non addirittura sul primo gradino del podio. Si picchia, non temete: con "Sangue Amaro", i colpi inferti alla batteria, i riffoni di chitarra, le vocals maligne sono un esempio di come rendere una traccia selvaggia, pur stemperata successivamente da parti folkloriche più raffinate che si prendono interamente la scena poco più tardi con la magia dell'interludio "Averno", che ci piglia per mano e ci introduce a "Sibilla Cumana", la sacerdotessa di Apollo, colei che profetizzava nelle religioni classiche. La complessità dei pezzi, unita ad un innato gusto per le melodie e ad una produzione spettacolare, avvenuta ai 16th Cellar Studio di Stefano “Saul” Morabito, riescono a rendere interessanti anche quelle tracce che magari hanno un po' meno da dire, come poteva essere questo racconto sulla somma sacerdotessa, ma che in verità, si dimostra un pezzo parecchio interessante. Con calma si arriva a "Sepeithos", il nome greco del fiume che bagnava l'antica Neapolis, il cui significato è "andar con impeto", quello stesso impeto che contraddistingue l'ottava traccia di quest'intenso lavoro, che vede peraltro nelle sue diverse edizioni - che includono un disco bonus orchestrale - una serie di guest star prestar le proprie voci nella narrazione di questo gioiello musicale. Inclusi nel disco troviamo infatti tra gli altri, Tina Gagliotta dei Poemisia, Diego Laino degli Ade, Wolf dei Gort e Riccardo Struder degli Stormlord alle orchestrazioni. Nel frattempo siamo giunti alla lunga title track, pezzo clou dell'intero lavoro, in cui mi preme soffermarmi sul break centrale, in cui dialoghi in dialetto napoletano narrano le gesta di Ulisse incatenato legato all'albero maestro della nave a sfidare il canto delle sirene. Le atmosfere in sottofondo sottolineano l'epica drammaticità di questo momento, e di un disco carico di emozioni di ogni tipo, che lo rendono davvero unico ed imperdibile. (Francesco Scarci)

mercoledì 15 marzo 2017

Altar of Betelgeuze - Among the Ruins

#FOR FANS OF: Stoner Death Doom, Reverend Bizarre, YOB
Altar of Betelgeuze is an unusual group. Mixing some aesthetics of death metal with slower paced doom and grunge, this Finnish outfit creates an impressive and unique sound that is as dark and full of foreboding as it is a captivating and crisp adventure into a stoned drone zone.

Like a ship floating through deep space, Altar of Betelgeuze fits their consistent and gradual pace between Reverend Bizarre playing 'Burn in Hell' and YOB playing 'Quantum Mystic'. However, this band is quite contemplative in where to expound upon each movement and shrewdly bounces a change across the entire ensemble rather than jettisoning one element far out into the void. The doomy stoner sound has me thinking of slower style Sabbath songs like “Hand of Doom” or “Planet Caravan” with prominent guitar riffing that has that bluesy Iommi feel. Altar of Betelgeuze elaborates on this hypnotic structure with a mix of clean vocals reminiscent of Layne Staley's delivery in Alice in Chains and moments of growled vocals. “Sledge of Stones” stands clearly at the forefront as a single that could get plenty of airplay with an addicting rhythm, a great chorus, and guitar tones bringing diminishing gravel to uplift the lead guitar's contradicting melody. Escaping the grumbling dirge for a fleeting moment and halted at its apogee, the guitar is reeled back quickly as though spacewalking while tightly tethered to the main vessel. Growls are used sparingly in songs like “No Return” and “New Dawn” to balance with the higher cleans and though such a combination is a noticeable difference from the era, I could be convinced that much of this album had come out in the early '90s. The real focus in Altar of Betelgeuze's muddy rumble is their Sabbath-worshiping riffing with a grunge aesthetic like in “Absence of Light” that sounds as improvised as it is reveling in the amplified resonance. The band can riff with the best of them and the title track shows it with expertly crafted movements that harmonize in atonal resonance while a thick kick thunder urges on the guitar crash.

If you just sit back and let the journey take you, Altar of Betelgeuze will whisk you away with their crunchy guitar chugging, rattling bass guitar, and atmosphere thick with a deceptively lumbering drum gait stepping slowly to a haunting cadence. (Five_Nails)

(Transcending Obscurity Records - 2017)
Score: 80

https://altarofbetelgeuze.bandcamp.com/

martedì 14 marzo 2017

Partholón - Follow Me Through Body

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Centrare il bersaglio grosso al primo colpo non è affare per tutti. Gli irlandesi Partholón tuttavia, per quanto la loro musica possa essere definita derivativa, ci sono riusciti in pieno, ma andiamo con ordine e proviamo a capire qualcosa in più. A detta di Wikipedia, nella tradizione medievale irlandese, Partholón, nativo della Sicilia, era il capo del secondo gruppo di persone che colonizzarono l'Irlanda. Si dice che siano stati i primi ad arrivarvi dopo il mito biblico del diluvio universale. Ora questo moniker identifica anche un quartetto proveniente da Cork, fondato nel 2015 sulle ceneri dei Five Will Die (autori di due album doom tra il 2008 e il 2011), che propone un post metal che trae palesemente linfa vitale dai Neurosis. C'è chi potrebbe gridare addirittura al plagio, io utilizzerei piuttosto la parola rivisitazione, che nelle quattro tracce contenute in 'Follow Me Through Body', trova spunti davvero interessanti. Fin dalla opening track, "To the Stars", una song drammatica nel suo incedere sludge/post metal, che rivela la sua anima pulsante lungo i suoi oltre otto minuti, fatti di sonorità melmose che, a livello vocale, richiamano inevitabilmente Scott Kelly e soci, mentre da un punto di vista musicale allargherei il tutto anche a Isis e Cult of Luna, in una rilettura davvero convincente. "Jerusalem" è un tutt'uno con la prima song e nel suo magmatico avanzare, evidenzia certamente la somiglianza vocale tra il vocalist irlandese e il suo più famoso collega di Oakland, ma poco importa perché le atmosfere oscure e dilatate rendono giustizia ad un pezzo caratterizzato da pachidermiche chitarre fuzz. "Light" parte più lenta con la sola voce abrasiva del cantante in primo piano, ma sono comunque le melodie a guidare il lento camminamento tra fosche atmosfere apocalittiche. È forse però con gli oltre 14 minuti di "Hunt" che i nostri danno il meglio di loro stessi, una song in cui compaiono anche forti ammiccamenti al progressive, sebbene la musica si muova lenta e timida tra ripetitivi giri di chitarra in sottofondo e spirituali vocals corali. Dopo i primi cinque minuti c'è il primo strappo, con gli arrangiamenti che diventano più avvolgenti, le melodie si fanno più malinconiche, il cantato più personale e le atmosfere più cupe grazie ad un delicato breakdown armonico che lancia la musica dei nostri verso una fuga strumentale dal mood tipicamente post rock, contribuendo cosi a rievocare paesaggi nella mia mente che vidi recentemente durante il mio viaggio in terra d'Irlanda, per cui chiudendo gli occhi non posso far altro che vedere le spettacolari Scogliere di Moher col vento che soffia e il mare che s'infrange sulla costa. L'ipnotico batticuore finale sancisce la chiusura di un gran bell'album e l'inizio di una storia che in futuro, sono certo, ci potrà regalare grosse soddisfazioni. (Francesco Scarci)

lunedì 13 marzo 2017

Teleport - Ascendance

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive, Enslaved, Voivod, Deathspell Omega, BTBAM
Non c'è solo una certa animosità a livello politico in giro per il mondo, c'è anche un fermento artistico che fa spuntare come funghi band di qualità, un po' ovunque. Oggi la nostra attenzione si sposta in Slovenia, luogo da cui arrivano questi notevoli Teleport, con un sound che non è altro che una miscela intrigante di black avanguardistico unito a reminiscenze thrash/death, probabile retaggio dei trascorsi della band, il tutto affrontando tematiche sci-fi. Cinque i brani a disposizione del quartetto di Ljubljana, anche se "Nihility" è in realtà una intro che ci conduce a "The Monolith", fondato su delle ritmiche sghembe che per certi versi mi riconducono al sound deviato dei Deathspell Omega che si unisce con quello più progressive di Enslaved e perchè no, Voivod. Qui le chitarre si muovono infatti a cavallo tra cavalcate death e stilettate black, su cui si insinuano quei maligni stacchetti cigolanti che compaiono nella musica dei gods francesi, il tutto condito da vocals oscure e malefiche. La musica dei Teleport si arricchisce di devianze techno death nella terza "Artificial Divination", song contorta, di difficile ascolto ma che sputa fuori un lungo assolo di chiara derivazione aliena, che esalta le potenzialità delle asce, cosi come pure innalza l'asticella per l'act sloveno. I cambi di tempo si sprecano nella song dove a tratti diventa quasi arduo seguire il filo conduttore di un death black che sembra quasi basare il suo flusso sonico sull'improvvisazione matematica. Con "Realm of Solar Darkness" la musica non cambia, facendosi ancor più complicato star dietro ai deliranti giri di chitarra dell'ensemble, suggerendomi che all'interno del sound dei nostri ci siano anche influenze math di scuola Between the Buried and Me, questo a certificare anche un tasso tecnico davvero elevato, che forse toccherà la summa nella conclusiva "Path of Omniscience". Gli ultimi cinque minuti sono costituiti inizialmente da sonorità più meditative che presto saranno in grado di tradursi in un black progressive mid-tempo, sancendo cosi lo sbocciare di una nuova folgorante band estrema dalla piccola grande Slovenia. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

https://teleport1.bandcamp.com/

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

domenica 12 marzo 2017

Afraid of Destiny - Hatred Towards Myself

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Gli Afraid of Destiny nel 2017 rilasceranno il loro secondo full length. Cosa di meglio allora che recuperare il loro ultimo EP, 'Hatred Towards Myself' e fare la conoscenza di questa realtà nata come one man band e nel frattempo divenuta un quartetto? Nati nel 2011 come Vitam Nihil Est, la creatura guidata da Adimere cambia ben presto moniker in Afraid of Destiny, dando alle stampe in sequenza ad uno split album, al debut, ad un altro paio di split prima di giungere a questo EP, datato 2013-2014 ma uscito solo nel 2016 in 50 limitatissime copie, che include tre sofferenti tracce di suicidal black. Come vuole il genere, ci troviamo di fronte a song dilatate, con ritmiche mid-tempo, chitarre ronzanti (Burzum docet), qualche raro utilizzo di synth e screaming vocals che trattano tematiche legate alla depressione o al suicidio. Questo è quanto potrete ascoltare nella opening track "Reflecting Under an Ascending Moon" e più in generale in un disco che raccoglie ovviamente tutti i cliché di un genere e ricerca, per quanto sia possibile (e complicatissimo), delle variazioni al tema. Ecco perché la traccia nel suo epilogo emula il conte Grishnackh e le sue intuizioni di 'Det Song Engang Var'. Un lunghissimo arpeggio di oltre tre minuti, apre "I Reject Life" (un vero inno alla vita) che poi si abbandona in un crescendo melodico davvero succulento che mantiene tutta la mia attenzione all'ascolto di questa song strumentale che sfodera alla fine anche un attacco di matrice post black. Si arriva alla title track, traccia dal mood oscuro e paranoico, in cui il buon Ayperos alla voce sembra un Gollum travestito da cantante. La song preserva lungo i suoi sei minuti il suo abito grigio scuro, quello da colloquio di lavoro, l'abito delle giornate di pioggia, quello ideale per un giorno da funerale, si il proprio. (Francesco Scarci)

giovedì 9 marzo 2017

Evenline - In Tenebris

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore, Alter Bridge, A Perfect Circle, Papa Roach
Con questa release, uscita sotto l'egida della Dooweet Agency nel gennaio del 2017, i francesi Evenline confermano il loro stato di grazia compositiva. Dopo un ottimo precedente album ('Dear Morpheus'), recensito su queste stesse pagine, come album dai toni marcatamente post grunge, la band transalpina opta per un sound più raffinato e colto (ascoltatevi a tal proposito 'In the Arms of Morpheus', mini album acustico per capire l'evoluzione, l'apertura mentale e le potenzialità di questo gruppo). Pur mantenendo le forti radici nella musica di Seattle, il combo parigino riesce a fondere le sue composizioni con una forma più progressiva e d'atmosfera che tocca vertici di tutto rispetto. La musica, condotta dalla magistrale e dotata voce di Arnoud Gueziec (che canta sia in pulito che growl), è derivata da band di culto come Porcupine Tree ed A Perfect Circle pur mantenendo comunque intatta la propria originalità e freschezza. Passo dopo passo, i brani scivolano veloci, coinvolgenti e potenti tra manierismi del genere e vere e proprie chicche di tecnicismo progressivo: "Straitjacket", "Echoes of Silence" e la dirompente "Never There" con il loro sound spolverano inserti metalcore stimolanti ed energici, rievocando l'alternative metal delle ultime uscite degli In Flames, suonati a meraviglia da musicisti che sanno come farsi applaudire ed ascoltare, e che usano suoni duri in modo accessibile ed orecchiabile senza ammorbidire o commercializzare a dismisura la propria proposta. Neppure la cover di Jamiroquai (si avete letto bene) "Deeper Underground", fa cadere i nostri nel vortice della banalità in quanto, rivista nel loro stile, trova un suo perché nel corso del lungo album, non sfigurando affatto. Comunque preferisco le loro composizioni originali che risultano molto più intense, cariche e più personali ovviamente, come la supersonica "From the Ashes", e quel suo riffing iniziale "meshugghiano". Ottima la produzione con soluzioni moderne e accorgimenti degni di un album mainstream, con suoni azzeccatissimi ed un equilibrio perfetto dove poter assimilare e gustare ogni singolo suono e strumento. Dieci brani tutti da ascoltare ad alto volume senza respirare, carichi di intensità, d'atmosfera e interpretati con quella tensione mista ad un sofferto e arrabbiato romanticismo che da tempo non sentivo in un lavoro, forse paragonabile ai bei tempi dei Temple of the Dog. Una veste aggressiva e raffinata aggiunta a quello che potrebbe essere lo standard operativo degli Alter Bridge, citati dalla band tra le tante fonti d'ispirazione, un look alla Muse, una preparazione tecnica e una propensione al (prossimo) salto mainstream, sono attitudini che meritano di essere premiate. Questo album sono certo non vi deluderà! (Bob Stoner)

Ande - Het Gebeente

#PER CHI AMA: Punk/Post Black
Lo stuolo di one man band si fa più sempre più corposo qui nel Pozzo dei Dannati. La band di oggi arriva dal Belgio, parte fiamminga mi pare di capire dalla "durezza" del titolo, con un disco che rappresenta la seconda fatica per il mastermind Jim, dopo il positivo esordio 'Licht', di due anni fa. Non è certo una regola scritta, ma chi è parte di una one man band, notoriamente suona black metal e gli Ande infatti non sono immuni a questa legge non scritta. Sei le tracce incluse in questo 'Het Gebeente', di cui una è il prologo che fa da apripista al sound tortuoso e feroce di "Argwaan", che delinea per sommi capi la proposta del combo belga: un riffing efferato in salsa punk black costituisce il background su cui si muovono i nostri, da cui si ergono le vocals incomprensibili e spietate del cantante. La song, nei suoi oltre otto minuti, va dritta al sodo, tagliente più che mai con una crudezza vocale data da uno screaming che di umano ha ben poco, e in cui gli accenni di melodia si dimostrano merce assai rara. Non c'è spazio per sprazzi di luce o di un barlume di speranza nel sound degli Ande. Anche se "Gebukt" è più compassata nel suo incedere, le sue fattezze sono spettrali, amplificate poi da una voce dilaniata e da vertiginose accelerazioni post-black, interrotte da ipnotici giri di chitarra black doom. Non è proprio una proposta facile da digerire quella contenuta in questo primitivo e misantropico 'Het Gebeente'; c'è un che dei Darkthrone nelle linee di chitarra di Jim, anche se poi influenze post e una leggera vena atmosferica, contribuiscono a prendere le distanze dall'ensemble di Fenriz e soci. "Oud En Vet" è interessante per un tribale break down centrale ma anche qui poi la rigidità delle ritmiche, cosi come la mancanza di melodia o di qualche orpello stilistico che permetta un ascolto più easy-listening, rendono questa traccia cosi come la successiva "Leeg", davvero montagne insormontabili. Ci pensano ancora una volta gli ostici intermezzi ambient (a tal proposito complicato è il finale ambient drone affidato a "Uittrede") a dissipare qualche nube e rendere l'ascesa verso il picco, un po' meno difficoltosa. In realtà, ancor più che le pause atmosferiche, credo che siano le accelerazioni post black a conferire una maggiore accessibilità a questo disco. Buffo da credere, ma 'Het Gebeente' non è certo un album per tutti, neppure per molti a dire il vero, forse solo per pochi mefistofelici intimi. (Francesco Scarci)