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domenica 19 marzo 2017

Aversio Humanitatis - Longing for the Untold

#PER CHI AMA: Black/Death, Unanimated, Bölzer, Deathspell Omega
Il mio sguardo volge ogni giorno verso ciascuna delle quattro direzioni cardinali, cercando in ciascun paese nuove realtà da ascoltare e promuovere. Quest'oggi faccio tappa in Spagna, a Madrid per essere più precisi, e non tanto per celebrare le vittorie di CR7 e compagni, ma per scoprire una band che si muove nel sottosuolo da sette anni e che forse solo con questo nuovo EP, sembra voler emergere dalle viscere della Terra. Sebbene gli Aversio Humanitatis abbiano alle spalle già un disco (datato 2011) e due split cd, francamente non ne avevo mai sentito parlare, ma si sa, il potere di bandcamp ha un che di prodigioso. Ed eccolo il loro 'Longing for the Untold' girare nel mio lettore, con la sua furia dirompente, il suono cupo e minaccioso con cui apre la title track e la cascata lavica che emerge dall'infernale bocca di fuoco di questo primigenio terzetto black. L'opener è furiosa, malvagia nelle sue parti più lente e misantropiche, violenta e devota alla fiamma nera del black svedese (citerei come termine di paragone gli Unanimated) in quelle più veloci, con il vocalist a vomitare tutto il proprio nichilismo verso l'esistenza umana, peraltro con un growling davvero convincente che ben si amalgama con la potenza del trio. "Prison of Shattered Glass" è la seconda song, che mette un po' da parte i blast beat della opening track per concentrarsi su un suono più sulfureo, che si muove su un sound mid-tempo, carico di atmosfere nefaste, ove a mettersi in luce è una prova del batterista davvero poderosa sia nei tempi medi che nelle accelerazioni tipiche del post black. Non c'è luce ma solo tenebre, riesco a percepire addirittura l'odore pungente dello zolfo e ad esaltarmi comunque con le cavalcate melodiche di una band che va dritta al punto, con una chiara consapevolezza dei propri mezzi. La forza detonante degli Aversio Humanitatis torna a colpire nella terza "The Ever Shifting Path", una canzone mossa da un'animosità perversa che ha un che dei Deathspell Omega, ma anche l'irruenza degli svizzeri Bölzer in un attacco death black frontale che non concede alcunché se non in un improvviso ed ipnotico break centrale che ha il merito di stemperare l'arroganza musicale di questi ragazzi spagnoli, non certo dei musicisti in erba peraltro. L'insania dilaga nell'ultima "Advent of the Inescapable", song che rievoca i fasti del black metal "made in Sweden" ma che è ancora in grado di regalare una piccola sorpresa, a voi scoprirla. Alla fine, pur non inventandosi una beata cippa, gli Aversio Humanitatis confezionano un gran bel disco, peccato solo che duri venti minuti e qualche spicciolo in più, motivo per cui mi sento di penalizzarli di mezzo punto. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, non posso altro che dire "bentornati dall'Inferno ragazzi!" (Francesco Scarci)

(Blackseed Production - 2017)
Voto: 75

sabato 18 marzo 2017

The Extinct Dreams - Fragments of Eternity

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
In Russia non ci sono solo BadMoodMan Music e Solitude Productions a dettar legge nel panorama funeral doom: Stygian Crypt Productions, MFL Records e più recentemente anche la GSP, si stanno facendo sempre più largo nel panorama dei suoni "apocalittici". La Stygian in collaborazione con la Backfire Productions, ha rilasciato sul mercato, sul finire del 2016, il nuovo e terzo album dei russi The Extinct Dreams, dal titolo rigorosamente in cirillico, fortunatamente tradotto anche in inglese in 'Fragments of Eternity'. Il genere è evidentemente quello death doom forgiato dagli insegnamenti dei maestri My Dying Bride e dai primi Anathema, quelli di 'Serenades', per intenderci. Quattro le tracce incluse in questo bel digipack, per una durata che sfiora i 48 minuti di sonorità per lo più decadenti, fortemente malinconiche, ma quella malinconia però, che almeno nel sottoscritto, genera pura gioia. Si lo so, sono abbastanza contorto, ma le note introduttive di "Karma", con quel loro mood non proprio gioioso, riescono comunque a infondermi un senso di pace; dopo poco meno di quattro minuti si sprofonda in un funeral doom non pervaso però dai sacri crismi catacombali che vuole il genere. E proprio qui sta il punto di forza della band, in quanto la pesantezza del doom viene smorzata da suoni più melodici, a tratti eterei, e la nefandezza dei gorgoglii vocali viene mitigata da vocals pulite ed evocative che rendono l'ascolto decisamente più piacevole oltreché agevole. Le aperture melodiche nella seconda parte di questa lunghissima traccia (di ben 18 minuti), volgono poi lo sguardo a sonorità di band quali Saturnus e primi Swallow the Sun, per un risultato conclusivo davvero soddisfacente per il sottoscritto. Il terzetto siberiano una certa esperienza nel corso degli anni l'ha accumulata e si sente soprattutto nella seconda traccia, "Damodara Stotra", la song decisamente più dinamica del disco grazie a quel suo incedere carico di groove che ancora una volta ha il pregio di regalarmi un sorriso e un po' di spensieratezza, pur continuando a crogiolarmi nella malinconia dei miei pensieri. Ottimo peraltro il break acustico a metà brano, che regala suoni che evocano inequivocabilmente la tradizione religiosa indiana e mostrano il lato più colto ed elegante dell'act di Barnaul che sul finire del pezzo trova modo anche di citare gli Anathema di 'The Silent Enigma'. Senza essermene accorto, mi ritrovo già al minuto trenta del disco a godermi la terza "In Searchs of Itself" e le sue spettrali tastiere iniziali che introducono ad una song capace di deliziare i palati con quel suo tremolo picking nostalgico e un seguente riffing più acuminato di chiara matrice death metal, che sembra quasi prendere le distanze da quanto suonato fino ad ora. Però la song è lunga e avrà modo di cambiare più volte umore lungo i suoi oltre dieci minuti tra bordate ritmiche, vocals evocative e splendide melodie che risuonano nell'aere. Si arriva alla canzone conclusiva, quella che dà il titolo al disco: credo sia il suono di un sitar quello che si diffonde vibrante nell'aria con quella sua magia derivante da culture lontane e che insieme ad un intrigante cantato (quasi vicino alla recitazione di una preghiera) sanciscono l'eccelsa prova di questa interessantissima band russa, da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Stygian Crypt Productions/Backfire Productions - 2016)
Voto: 80

Clouds Taste Satanic - Dawn of the Satanic Age

#PER CHI AMA: Stoner/Doom Strumentale
Al terzo album in completa autonomia, i newyorkesi Clouds Taste Satanic (CTS) si appropriano definitivamente di un posto rilevante nella scena musicale underground mondiale. Alfieri di un connubio stoner/doom/sludge dai forti connotati vintage ma al tempo stesso moderni ed attualissimi, il quartetto di Brooklyn riesce a fondere le varie correnti senza far gridare al plagio anzi, possiamo dire che la maturazione è completa, e che stavolta i nostri giocano su coordinate sicure senza rischiare troppo in sperimentalismi. Si sa, il terzo album è un traguardo importante per una band, ancor più se il materiale che propone è interamente costituito da brani strumentali. Il giro di boa è superato senza intoppi né passi falsi, tanto meno senza ripetersi nelle composizioni. Il disco viaggia a gonfie vele: ascoltate "We Die We Live" e godete al minuto 1:20 di un giro apocalittico che si ripete circa un minuto dopo e che porta il magma sonoro ad una forma spettacolare. Questa tipologia di composizione è usata spesso dai nostri paladini con la chitarra che si lancia verso il cielo alla ricerca di una posizione di rilievo e nel mentre viene soffocata da un riff pesante e compatto che diviene il simbolo dell'intero lavoro e l'ottica giusta con cui inquadrarlo ed apprezzarlo. Una copertina favolosa (con opere di Gustave Dorè e Samuel Coleman), rientra perfettamente nel loro stile, cosi ispirata all'Inferno de "La Divina Commedia", cosi come il vinile colorato e psichedelico. 'Dawn of the Satanic Age' si presenta cosi, nel migliore dei modi e devo ammettere che fa un certo effetto averlo fra le mani. I CTS in questa loro terza opera hanno affinato il proprio sound, proponendo una forma di stoner tra le più originali in circolazione, con una verve ed un mood assai singolari, risalente ai Black Sabbath quanto ai Monster Magnet, ma in realtà tanto originali da non riuscire ad etichettarli come figli legittimi di queste band. L'ottima produzione mette in risalto la preparazione dei musicisti che suonano all'unisono ("Retribution" ne è l'apoteosi) e sebbene il mantra sonico sia fortemente catartico, la musica risulta di forte impatto ed all'ascolto multiplo si apprezzano le mille sfaccettature e rifiniture che nascondono la grande esperienza acquisita nel tempo dai quattro cavalieri dell'apocalisse e il loro modo di creare una musica granitica assai particolare. Il doom, inteso come lo intende questa band americana, ha un sapore diverso, più colorato nelle sue oscure sfumature, i vortici sonori non ricadono su se stessi ma si evolvono sempre costantemente verso l'alto, mentre la psichedelia mostra sempre il suo lato più introverso ed heavy in "Just Another Animal", alternandosi con ricami e gemme rubate creativamente ai seventies. A differenza dei precedenti album, il suono degli statunitensi non è mai stato così spesso e corposo come in questo ultimo. Ora, non chiedetemi di identificarli ulteriormente, perché a mio avviso i CTS sono una delle realtà indipendenti più genuine, originali e meglio riuscite degli ultimi anni. Se ricercate un che degli osannati Kyuss o dei Fu Manchu, non cercateli in questo disco, rischiereste di rimanerne delusi. I Cloud Taste Satanic stanno proprio al centro di tutta la musica stoner e doom, vecchia e nuova, illuminati da luce propria, quasi irraggiungibili. Non potremmo mai proclamarli innovatori ma a gran voce li possiamo fregiare con l'appellativo di rigeneratori di incalzanti riff super stoner e vintage. Da amare o da odiare, niente vie di mezzo, niente deserti o cactus ma solo inferni danteschi. Con questo album, a mio modesto parere, i CTS possono aspirare all'onorificenza massima di cult band d'eccellenza, una vera e propria tentazione satanica! (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 85

venerdì 17 marzo 2017

Malefic Mist - Il Richiamo dell'Inverno

#PER CHI AMA: Depressive Black, Burzum
I Malefic Mist sono una one man band di Milano, guidata da tal Mors Taetra che ho avuto già modo di conoscere e recensire con l'altra sua creatura musicale, i The Undergrave Experience. Gli MM francamente non li conoscevo e scorgendo il numero di release a loro carico, sono rimasto davvero impressionato: una quindicina, tra demo e split album, sono inclusi infatti nella discografia del musicista lombardo, peraltro senza mai aver rilasciato un full length. Quello che ho fra le mani oggi è 'Il Richiamo dell'Inverno', un demo cd composto tra il 2008 e il 2012, rilasciato in modo indipendente nel 2012 e solo nel 2016 grazie all'Adimere Records. Due le song contenute in questo lunghissimo lavoro che dura la bellezza di quasi 50 minuti. E la prima traccia, nonché title track, è costituita da oltre trenta minuti di sonorità glaciali, mid-tempo, che potrebbero chiamare in causa il buon vecchio Varg Vikernes e le sue produzioni più minimaliste. Difficile indicare qualcosa di particolare in una traccia che poggia buona parte della sua durata sul lento defluire di un paio di accordi di chitarra e pochi tocchi di basso, con la batteria lontano in sottofondo. Burzum e tutto lo stuolo di band depressive black non possono che essere il punto di riferimento per il mastermind italico. Solo dopo un quarto d'ora si avvertono le prime variazioni nelle linee di chitarra, grazie prima a delle armonizzazioni e poi ad un rallentamento abissale del già di per sé lento flusso sonico di Mors Taetra, qui aiutato da Gionata Ponenti alla batteria e chitarra solista nella successiva "Cuore di Lupo". I minuti scorrono sfiancanti e asfissianti con una ridondanza a livello dei suoni che ha un che di paranoico come quello di un pendolo meccanico in un orologio a pendolo. Nell'ultimo terzo di canzone, le chitarre si fanno più piene, pur senza cambiare l'accordo su cui poggiano, dandoci il definitivo colpo del ko. Arrivo francamente stravolto alla seconda tappa di montagna de 'Il Richiamo dell'Inverno' consapevole che potrei trovarmi di fronte all'ennesimo ipnotico giro di chitarra che questa volta durerebbe una ventina di minuti. Sono tocchi delicati quelli che sfiorano le corde della chitarra nei suoi primi sette minuti di sonorità che rischiano di condurmi direttamente alla pazzia; compare poi il suono arrugginito di una chitarra elettrica ad affiancare il componimento acustico, ma il risultato delirante non cambia ed un senso di inquietudine mi attanaglia la gola fino al raggiungimento degli ultimi interminabili attimi d'ascolto di questo alienante, ma per certi versi affascinante, 'Il Richiamo dell'Inverno'. (Francesco Scarci)

giovedì 16 marzo 2017

Anthrax - For All Kings

#PER CHI AMA: Thrash Old School
Un calligrafico album di old-school thrash-metal (ascoltate i manicaretti di chitarra in apertura di "Suzerain", le fast-sbruffonate disseminate dappertutto, ma soprattutto in "Zero Tolerance" e nella robusta "Evil Twin") arricchito da ululanti incursioni nei grotteschi territori dell'old-school power-metal (i Rainbow/ismi della gustosa "Monster at the End", l'attacco Maiden/iano della title track "For All Kings", addirittura ruvidi teutonismi tardo-Scorpionici in "Breathing Lightning"). La carretta trainata dal marito della figlia di Meat Loaf si riavvicina cigolando a certo thrash pionieristico early '80s con un'attitudine compiaciutamente e moderatamente retroguardistica. Quanto ai contenuti, vi suggerisco di approfondire almeno il qualunquismo sdegnoso di Ian e Belladonna in merito agli attentati terroristici a Charlie Hebdo e Bataclan, leggendovi il testo di "Evil Twin" ("You represent your discontent slaughtering the innocent / insolence, you're no martyrs"). Tra le bonus, avete mai fatto caso che "Fight 'em 'til you Can't" clona spudoratamente "Master of Puppets". No? Sì? (Alberto Calorosi)

(Nuclear Blast - 2016)
Voto: 65

http://anthrax.com/

Scuorn - Parthenope

#PER CHI AMA: Black Symph/Folk, Inchiuvatu, Fleshgod Apocalypse, Rotting Christ
Vergogna. No, non vi sto invitando a provare quel senso di inadeguatezza che deriva dall'avvertire simile emozione, vergogna è semplicemente la traduzione in italiano di "scuorn", parola che arriva dal gergo napoletano e che da oggi non scorderò mai più, in quanto Scuorn è anche il moniker di una band proveniente proprio da Napoli, che dopo parecchie vicissitudini, arriva finalmente al debutto, con un album che definirsi bomba, potrebbe rivelarsi riduttivo. 'Parthenope' è il titolo del cd in questione, uscito per la Dusktone Records da poche settimane. Un album che francamente mi ha stupito per i contenuti, la cura dei particolari, l'inventiva, e mille altri motivi. Partendo da un'impostazione black metal, ci immergiamo in un lavoro che saprà spaziare dal death sinfonico al folk mediterraneo, passando attraverso l'epic, l'ambient, il progressive, l'etnico e diverse altre sfaccettature, che rendono già in partenza "Fra Ciel' e Terra" una traccia semplicemente meravigliosa, che si muove tra sfuriate black, pompose orchestrazioni in stile Fleshgod Apocalypse, spezzoni tribali, il tutto cantato rigorosamente in napoletano. Si avete letto bene: Giulian, il factotum mente della band, utilizza il dialetto della propria terra per accompagnarci in questo viaggio unico nella musica estrema campana. E la opening track (escludendo l'intro) entusiasma per le sue melodie, i suoi cambi di tempo, l'utilizzo degli strumenti tipici del folklore partenopeo, le vocals growl e quelle recitate in italiano e in latino, le frustate chitarristiche, i blast beat, le magniloquenti tastiere, quegli echi alla Inchiuvatu che si mischiano con il sound colto degli In Tormentata Quiete, il tutto trainato da un sound sinfonico alla Emperor. "Virgilio Mago" attacca di seguito con una chitarra che richiama suoni della tradizione campana, prima di lanciarsi in vorticosi giri ritmici ed aperture atmosferiche di scuola Dimmu Borgir/Old Man's Child, break di chitarra da brividi che esaltano le qualità del mastermind italico, epiche melodie classicheggianti, ed un drumming finale roboante che ammicca al sound ellenico dei Rotting Christ dell'ultimo periodo. Lo sottolineo nuovamente, è musica esaltante quella degli Scuorn. Il vortice sonoro prosegue con "Tarantella Nera" e il suo ritmo spezzettato da quei cori in napoletano, che mi spingono anche a concentrarmi sui testi che ci raccontano leggende del periodo greco e romano di Napoli. La musica spinge con tutta l'enfasi possibile, non stancando mai, anzi continuando ad esaltare per le trovate che costantemente emergono dalle tracce di quest'incredibile disco, che si candida già oggi, ad essere nella mia personale top ten di fine anno, se non addirittura sul primo gradino del podio. Si picchia, non temete: con "Sangue Amaro", i colpi inferti alla batteria, i riffoni di chitarra, le vocals maligne sono un esempio di come rendere una traccia selvaggia, pur stemperata successivamente da parti folkloriche più raffinate che si prendono interamente la scena poco più tardi con la magia dell'interludio "Averno", che ci piglia per mano e ci introduce a "Sibilla Cumana", la sacerdotessa di Apollo, colei che profetizzava nelle religioni classiche. La complessità dei pezzi, unita ad un innato gusto per le melodie e ad una produzione spettacolare, avvenuta ai 16th Cellar Studio di Stefano “Saul” Morabito, riescono a rendere interessanti anche quelle tracce che magari hanno un po' meno da dire, come poteva essere questo racconto sulla somma sacerdotessa, ma che in verità, si dimostra un pezzo parecchio interessante. Con calma si arriva a "Sepeithos", il nome greco del fiume che bagnava l'antica Neapolis, il cui significato è "andar con impeto", quello stesso impeto che contraddistingue l'ottava traccia di quest'intenso lavoro, che vede peraltro nelle sue diverse edizioni - che includono un disco bonus orchestrale - una serie di guest star prestar le proprie voci nella narrazione di questo gioiello musicale. Inclusi nel disco troviamo infatti tra gli altri, Tina Gagliotta dei Poemisia, Diego Laino degli Ade, Wolf dei Gort e Riccardo Struder degli Stormlord alle orchestrazioni. Nel frattempo siamo giunti alla lunga title track, pezzo clou dell'intero lavoro, in cui mi preme soffermarmi sul break centrale, in cui dialoghi in dialetto napoletano narrano le gesta di Ulisse incatenato legato all'albero maestro della nave a sfidare il canto delle sirene. Le atmosfere in sottofondo sottolineano l'epica drammaticità di questo momento, e di un disco carico di emozioni di ogni tipo, che lo rendono davvero unico ed imperdibile. (Francesco Scarci)

mercoledì 15 marzo 2017

Altar of Betelgeuze - Among the Ruins

#FOR FANS OF: Stoner Death Doom, Reverend Bizarre, YOB
Altar of Betelgeuze is an unusual group. Mixing some aesthetics of death metal with slower paced doom and grunge, this Finnish outfit creates an impressive and unique sound that is as dark and full of foreboding as it is a captivating and crisp adventure into a stoned drone zone.

Like a ship floating through deep space, Altar of Betelgeuze fits their consistent and gradual pace between Reverend Bizarre playing 'Burn in Hell' and YOB playing 'Quantum Mystic'. However, this band is quite contemplative in where to expound upon each movement and shrewdly bounces a change across the entire ensemble rather than jettisoning one element far out into the void. The doomy stoner sound has me thinking of slower style Sabbath songs like “Hand of Doom” or “Planet Caravan” with prominent guitar riffing that has that bluesy Iommi feel. Altar of Betelgeuze elaborates on this hypnotic structure with a mix of clean vocals reminiscent of Layne Staley's delivery in Alice in Chains and moments of growled vocals. “Sledge of Stones” stands clearly at the forefront as a single that could get plenty of airplay with an addicting rhythm, a great chorus, and guitar tones bringing diminishing gravel to uplift the lead guitar's contradicting melody. Escaping the grumbling dirge for a fleeting moment and halted at its apogee, the guitar is reeled back quickly as though spacewalking while tightly tethered to the main vessel. Growls are used sparingly in songs like “No Return” and “New Dawn” to balance with the higher cleans and though such a combination is a noticeable difference from the era, I could be convinced that much of this album had come out in the early '90s. The real focus in Altar of Betelgeuze's muddy rumble is their Sabbath-worshiping riffing with a grunge aesthetic like in “Absence of Light” that sounds as improvised as it is reveling in the amplified resonance. The band can riff with the best of them and the title track shows it with expertly crafted movements that harmonize in atonal resonance while a thick kick thunder urges on the guitar crash.

If you just sit back and let the journey take you, Altar of Betelgeuze will whisk you away with their crunchy guitar chugging, rattling bass guitar, and atmosphere thick with a deceptively lumbering drum gait stepping slowly to a haunting cadence. (Five_Nails)

(Transcending Obscurity Records - 2017)
Score: 80

https://altarofbetelgeuze.bandcamp.com/

martedì 14 marzo 2017

Partholón - Follow Me Through Body

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Centrare il bersaglio grosso al primo colpo non è affare per tutti. Gli irlandesi Partholón tuttavia, per quanto la loro musica possa essere definita derivativa, ci sono riusciti in pieno, ma andiamo con ordine e proviamo a capire qualcosa in più. A detta di Wikipedia, nella tradizione medievale irlandese, Partholón, nativo della Sicilia, era il capo del secondo gruppo di persone che colonizzarono l'Irlanda. Si dice che siano stati i primi ad arrivarvi dopo il mito biblico del diluvio universale. Ora questo moniker identifica anche un quartetto proveniente da Cork, fondato nel 2015 sulle ceneri dei Five Will Die (autori di due album doom tra il 2008 e il 2011), che propone un post metal che trae palesemente linfa vitale dai Neurosis. C'è chi potrebbe gridare addirittura al plagio, io utilizzerei piuttosto la parola rivisitazione, che nelle quattro tracce contenute in 'Follow Me Through Body', trova spunti davvero interessanti. Fin dalla opening track, "To the Stars", una song drammatica nel suo incedere sludge/post metal, che rivela la sua anima pulsante lungo i suoi oltre otto minuti, fatti di sonorità melmose che, a livello vocale, richiamano inevitabilmente Scott Kelly e soci, mentre da un punto di vista musicale allargherei il tutto anche a Isis e Cult of Luna, in una rilettura davvero convincente. "Jerusalem" è un tutt'uno con la prima song e nel suo magmatico avanzare, evidenzia certamente la somiglianza vocale tra il vocalist irlandese e il suo più famoso collega di Oakland, ma poco importa perché le atmosfere oscure e dilatate rendono giustizia ad un pezzo caratterizzato da pachidermiche chitarre fuzz. "Light" parte più lenta con la sola voce abrasiva del cantante in primo piano, ma sono comunque le melodie a guidare il lento camminamento tra fosche atmosfere apocalittiche. È forse però con gli oltre 14 minuti di "Hunt" che i nostri danno il meglio di loro stessi, una song in cui compaiono anche forti ammiccamenti al progressive, sebbene la musica si muova lenta e timida tra ripetitivi giri di chitarra in sottofondo e spirituali vocals corali. Dopo i primi cinque minuti c'è il primo strappo, con gli arrangiamenti che diventano più avvolgenti, le melodie si fanno più malinconiche, il cantato più personale e le atmosfere più cupe grazie ad un delicato breakdown armonico che lancia la musica dei nostri verso una fuga strumentale dal mood tipicamente post rock, contribuendo cosi a rievocare paesaggi nella mia mente che vidi recentemente durante il mio viaggio in terra d'Irlanda, per cui chiudendo gli occhi non posso far altro che vedere le spettacolari Scogliere di Moher col vento che soffia e il mare che s'infrange sulla costa. L'ipnotico batticuore finale sancisce la chiusura di un gran bell'album e l'inizio di una storia che in futuro, sono certo, ci potrà regalare grosse soddisfazioni. (Francesco Scarci)