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martedì 7 aprile 2015

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

giovedì 2 aprile 2015

The Owl of Minerva - Bright Things Turn Gray

#PER CHI AMA: Dark/Alternative, Tool, Katatonia
Ne avevamo saggiato le potenzialità già nel 2013, quando incontrai la band a Milano a un concerto e mi lasciò un promo di quattro pezzi. Sto parlando degli Owl of Minerva, band formatasi nel 2008, originaria di Padova, di cui da sempre si parla un gran bene. E allora andiamo a tastare il polso dell'act patavino, alla scoperta del tanto atteso debut album, 'Bright Things Turn Gray'. Il platter consta di dieci pezzi che si aprono con il sound decadente di "Crown of Gold" che mi ha fatto immediatamente pensare ad un altro esordio di qualche anno fa, quello dei Klimt 1918. E il sound degli Owl of Minerva per certi è accostabile a quello della band romana: atmosfere decadenti inserite in un contesto alternative che a più riprese richiama il sound dei Tool in salsa "katatonica". Il nostro quartetto non si limita a ripetere la lezioncina dei soli maestri americani, ma prova a rileggere il tutto sotto una luce diversa, alla ricerca di una propria direzione in cui mostrare la propria personalità, che in più punti sembra davvero emergere. Se nella prima traccia, è anche l'anima di Maynard e soci a venire a galla, nella successiva e più meditativa "Distance" è un mix di sonorità nordiche che echeggiano nelle note dei nostri. Penso ai Warm of the Sun o ai The Isolation Process, bands che probabilmente i nostri Owl of Minerva non conosco neppure, ma che per chi legge ed è ben edotto, potrebbe essere invece un buon punto di riferimento. Con “Bag of Stones” ci avviciniamo al sound dei Deftones, per le sue saturazioni ritmiche e per quel cantato che talvolta rischia di essere il punto di debolezza dei nostri. "Sender" è una song apparentemente tonante (almeno per la pesantezza delle ritmiche) che tuttavia si muove sul binario di un mid-tempo melodico, il cui unico punto debole è rappresentato dalle urla del vocalist, che peraltro in questa traccia sfodera, almeno per un secondo, un growling selvaggio. "The Kite" è una traccia che parte piano, ma poi va ad irrobustirsi, offrendo una prova più convincente dell'ensemble veneto, attestandosi su influenze più vicine ai Katatonia. Le melodie di 'Bright Things Turn Gray' si confermano interessanti per l'intera durata del disco, e questo vale anche per "House of Birds Gone Mad", song ammiccante che prosegue sulla linea tracciata dalle precedenti, con il dualismo spiccato tra il robusto riffing portante della chitarra ritmica, su cui va a schiantarsi quello della lead guitar che si diverte in fraseggi acustici molto spesso assai ruffiani, un po' sulla scia di quanto fatto dagli Amorphis o dagli svedesi Sarcasm (con gli Owl of Minerva decisamente più depotenziati). Il disco ci accompagnerà con questa vena fino alla sua conclusione, passando tra l'acustica tribalità di "Your City by the Snow" e la tenue "The Lake" (song piuttosto anonima per lunghi tratti, a dire il vero), fino alle conclusive "The Well", traccia che sembra ancora richiamare sonorità nu metal/alternative per giungere alle pulsazioni frastornanti della title track. 'Bright Things Turn Gray' alla fine si dimostra un lavoro dotato di una certa caratura, ricco di sfumature, ritmi e sonorità dalla matrice sperimentale, assolutamente apprezzabile a volume e non. Ora vi attendo per l'intervista radiofonica. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 75

mercoledì 1 aprile 2015

Inexorable - Morte Sola

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Gorguts, Immolation
Making it to their second EP, this release from the German act bearing the name Inexorable is quite a blend of Technical and traditional Death Metal. The technical side of the band is a bit more avant-garde than the usual assortment of bands in the genre as there’s a heavy swarm of Gorguts-styled sweeping riff-patterns that contain all manners of off-beat, discordant patterns. These creates a discomforting feeling throughout the album by still featuring the more nominal style of riff-work found in Technical Death Metal of wanking lead rhythms and swirling, dazzling riff-work fueled by complex, dynamic arrangements dive-bombing throughout the music, yet when all of this is put alongside the darkened atmosphere it leaves a rather disorienting experience. By featuring these rather unfamiliar elements together in terms of mixing highly-complex and technical work alongside simplistic arrangements that evokes a darker, rawer tone with the kind of atmosphere that’s hardly been used by the genre as this type of atmosphere is more in-line with traditional Death Metal acts. As the clanking, raw drum-tone accompanying this also generates, there’s an even more pronounced feeling of the dirty, guttural qualities that make for an overall impressive-seeming mixture. While this makes for an intriguing listen, it also leaves an incredibly disjointed feeling overall as there’s never really any focal point in the music. Whether it’s the rather impressive technical chops on display or the primordial atmosphere present, one of these matters should be the main mark of the band yet each one manages to undercut the other. By having this drip with a dark evil atmosphere, it really drowns out the technicality by turning it into a thick, muddy mess which lets the technicality get overshadowed into these darker sections, and likewise the technicality manages to distract from the atmosphere with all sorts of wanking and dive-bombing throughout in incredibly discordant patterns so it inevitably loses the attempts at creating those harsher rhythms. If these issues can be solved, the band could be onto something here as the music itself isn’t band. Intro ‘Praeludium Mortis’ is all eerie and discordant riffs that charge along with build-up drumming and dark vocals into an ominous start. Proper first song ‘Pantheon's Demise’ has a fine technical display dive-bombing through the varying tempo changes fueled by those discordant riffs, raging patterns and dexterous drumming which makes for a rather impressive showing here. Likewise, ‘Disenthrallment’ is all charging patterns, swirling leads and discordant riffs before blasting through the finale for an even more impressive effort. ‘Media Vita’ is all complex blasting through a more mid-tempo offering that offers deep chugging along the discordant riff-work drops off for a pounding finale that is a bit blander than the rest of the songs as that mid-section isn’t all that interesting. Easing off the speed, ‘In Morte Sumus’ utilizes the angular, discordant riff-patterns and rather laid-back atmospheres with the occasional complex patterns bursting through the sprawling paces which makes for an overall decent offering. Finally, ‘Futility’ sweeps all notions of technicality for utterly frantic patterns, battering drumming and tight chugging before being swept aside further for meandering, pointless minutes of discordant fade-out noise which leaves this quite frustrating and puzzling. Otherwise, this one does have some room to work with but does have some flaws within. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 70

Hands of Orlac - I Figli del Crepuscolo

#PER CHI AMA: Doom Rock, Mercyful Fate, Candlemass, Black Sabbath
Ispirati all'omonima pellicola horror del 1924, gli italo-svedesi Hands of Orloc, fanno uscire il loro secondo LP a distanza di tre anni dal disco che gli diede un po' di visibilità. Il five-piece (in parte) nostrano torna con un album nuovo di zecca che esce per l'etichetta danese Horror Records in compartecipazione con la Terror From Hell Records. La proposta di questo mistico 'I Figli del Crepuscolo' non si muove poi di troppo rispetto al precedente lavoro, offrendo un sound all'insegna dell'esoteric doom rock, che rompe il ghiaccio della solita intro, con "Last Fatal Drop". E qui si inizia ad apprezzare alla grande il sound di questi misteriosi ragazzi che con una ritmica non troppo sofisticata, danno inizio alle loro danze diaboliche. Fin qui però nulla di trascendentale: dopo un minuto, gli arrangiamenti si fanno più interessanti grazie ad una splendida melodia di flauto e alle impetuose vocals di Ginevra (aka The Sorceress), che si collocano su delle linee di chitarra che richiamano suoni prog rock dai tratti palesemente seventies. Chitarre che sul finire del pezzo si prenderanno la scena, scatenando una tempesta magnetica di fluttuanti melodie cosmiche, per un risultato da brividi. L'impatto con la band è certamente dei migliori. "Burning" sembra essere sospinta da un impulso stoner, ma è solo apparenza, perchè gli Hands of Orlac si lanciano in psichedelici fraseggi che si muovono tra il doom dei Black Sabbath e sfuriate tipicamente metal, in cui trovano posto le vocals spettrali della cantante e l'immancabile suono del flauto. Ma il flusso sonoro dell'ensemble è in costante evoluzione: non pensate di trovare lo stesso arpeggio o lo stesso accordo per più di qualche secondo perché le atmosfere sono assai mutevoli nell'arco di questo disco. Ancora una citazione cinematografica all'inizio (e poi alla fine) di "A Coin in the Heart" con un pezzo di dialogo estrapolato da "Operazione Paura" di Mario Bava (1966) con le chitarre che irrompono citando i primi Iron Maiden. La song prosegue poi lungo i binari sin qui percorsi dai nostri, mostrando i notevoli punti di forza della band: le atmosfere criptiche da film horror anni '60 che si miscelano con stralci progressivi e fughe di flauto a la Jethro Tull. Quello che magari faccio più fatica a digerire è la voce della "sacerdotessa", troppo pulita e un po' priva di personalità. Per molti di voi che apprezzano la band sin dagli esordi, questa mia affermazione potrebbe risuonare nell'aria come una bestemmia, ma sinceramente una voce maschile, un po' più carismatica, avrebbe giovato maggiormente nel mio giudizio globale. Le tracce rimanenti, "Noctua" e "A Ghost Story", confermano quanto di buono fatto sin qui dal combo italo-scandinavo, grazie alle ottime doti individuali dei due chitarristi che sciorinano riffoni profondi e assoli stentorei, mentre Jens Rasmussen (aka The Clairvoyant), si mostra come un batterista preparato ed eclettico sia su velocità sostenute che più rilassate. La conclusiva "Mill of the Stone Women" aperta da un altro spezzone di film degli anni '60, "Il Mulino delle Donne di Pietra", garantisce altri sette minuti di matrice occult doom che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti del genere rock. Pollice alto per questa ottima formazione dal sicuro avvenire. (Francesco Scarci)

(Terror From Hell Records/Horror Records - 2014)
Voto: 80

martedì 31 marzo 2015

The Raven King - Red

#PER CHI AMA: Death/Doom
Giunge in una limitata edizione cartonata (100 copie) questo primo lavoro dei The Raven King, band di Gran Canaria la cui musica sembra riprendere gli stilemi di un death/doom profondamente mancante di oscurità, nebbia e solitudine. La produzione prevede suoni estremamente limpidi e brillanti, su tutti si notano le chitarre educatamente distorte le quali danno, insieme alla struttura compositiva alquanto basilare, un'impronta sonora tendente al rock, dirigendosi verso la strada intrapresa da alcuni gruppi del sopracitato genere della seconda metà degli anni '90. La prima “I, Bringer Of Death” ha una sconfortante partenza in quanto per i suoi quasi nove minuti è largamente monopolizzata da un riff anonimo, capace quasi di recare fastidio per la sua prolissa ridondanza, mentre le vocals di Eduardo Rodriguez ringhiano che è un piacere. Nella successiva “Walls Of Flesh” le idee si rivelano già più apprezzabili anche se non scompare quella estrema semplicità compositiva già evidenziata nella opening track, virando il sound maggiormente verso passaggi “tradizionali” in chiave doom classico e ove compare anche un notevole intermezzo atmosferico. Si ha il proverbiale cambio di passo con la terza “Black Light, Red Death”, song incentrata su una placida atmosfera che progredisce ossessivamente culminando in un trascinante riff ripetitivo. Forse la traccia più riuscita del disco, capace di combinare in modo equo, seppur ancora embrionale, le varie idee del gruppo. La chiusura affidata a “The World in His Eyes”, consiste in una traccia, a mio avviso molto piacevole, che vede protagonista una solitaria chitarra che affronta, con un mesto arpeggiare, il compito di dare degna sepoltura al Re Corvo. Complessivamente l'opera mostra una leggera verve malinconica che va più ampiamente esplorata, che si va ad unire a un doom tendente al death in cui fanno capolino anche sprazzi di post metal e alternative. Un patchwork di sonorità non ancora del tutto sviluppate da un punto di vista compositivo, che lasciano ancora un alone di immaturità sul gruppo. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 60

sabato 28 marzo 2015

Orden Ogan - Ravenhead

#FOR FANS OF: Heavy/Power, Grave Digger, Running Wild
Along with the likes of Sabaton, Mystic Prophecy, Blind Guardian, Firewind et al. German powerhouses Orden Ogan have been leading the march of European power metal acts who shun the uber-melodic methods of more light-hearted bands like Freedom Call or Power Quest. Instead, they favour a more direct kick-to-the-throat barrage of heavy riffage within their huge timbre. Orden Ogan have been gradually darkening and beefing up their sound throughout their first 4 albums (previous effort 'To The End' being an apparent peak), but the Teutonic quartet may have hit a creative pinnacle with the epic 'Ravenhead'. I may have fibbed slightly up there; Orden Ogan don't really 'shun' melodic methods. In fact, the melodies woven throughout 'Ravenhead' are some of the finest the genre has ever produced. Each chorus will implant itself in your head after only one listen, and in some cases, chill your spine with the sheer beauty of the intervals between each note (the chorus of "The Lake" being particularly noteworthy). However, they differ from the typical euro-power Helloween clones by employing their arsenal of hefty, grinding riffs which are, at some points, heavier than cannonfire. The middle section of "F.E.V.E.R." and the first twenty seconds of previously-mentioned "The Lake" are enough to snap your neck. The key essence that makes this album so addictive, is the epic male choir which is never underused or ignored. This has been an essential characteristic of Orden Ogan since their very first album, and it has only gotten more impressive and majestic. It turns every chorus into an absolute highlight, as opposed to a repetitive refrain. The production contributes to this element, bringing the choirs to the forefront of the mix, whilst backing it up with a rumbling and colossal bass/drum combination. This album revels in a dark mood and depressing atmosphere, despite the triumphant tone of the choruses. This could be due to the lyrics, the grim but brilliant artwork, or maybe the ever-improving broody vocals of Seeb. But certainly, the closing track "Too Soon" is sure to wash over you with a beautiful sense of melancholy. I think it's important to immerse yourself in the bleak atmosphere 'Ravenhead' emanates, using the powerful melodies and heroic choruses as lamps in the darkness. The only moderately minor qualm about this new release, is that they didn't quite make enough of their name's sake. The intro, as it is named after the band itself, should have been huge - though the theme it expresses is repeated in the following title-track, which is a lovely touch. There's no such thing as a less-than-brilliant Orden Ogan album. "Easton Hope" buffed up the heaviness, "To The End" coated their sound in ice, now 'Ravenhead' brings it to a magnificent peak. The twin guitar attacks are mesmerising, the riffs are hard-hitting, the choirs are massive and "The Lake" is power metal song of the month! Germany does it again. "In the light of a midnight sky, I have found one good reason to die. Take me down to the quiet place, In the lake, where she sleeps in grace..." (Larry Best)

(AFM Records - 2015)
Score: 90

https://www.facebook.com/ORDENOGAN

mercoledì 25 marzo 2015

Volahn - Aq'Ab'Al

#FOR FANS OF: Black Metal, Gorgoroth, Nargaroth
Sometimes you come across a band that based on sheer ingenuity and creativity alone it demands your attention, not just because of the general musicianship or talent involved but more for curiosity sake which is what’s going on here in these California-based Black Metal warriors’ second release. While on the surface it would seem to be a rudimentary raw Black Metal release, however a closer look at the bands’ efforts reveals them to be completely focused and intent on ancient Aztec society for both lyrical inspiration and sonic accents. A similar approach is taken with Nile and Ancient Egypt or Melechesh and Mesopotamia, and the results here are just as inviting since not only is it an untapped source of inspiration that makes the choice quite innovative but also because the subject matter is distinctly relevant to the music on hand with potentially scores of works to be created that delve deep into such sources. Mind you, all this doesn’t serve as a way to avoid mentioning the music on display for anyone with even basic knowledge of Aztec society knows that a vicious, violent attack is necessary to convey that society properly and it is delivered here in spades. Vicious, jagged tremolo-picked riff-work for the main attacks stand alongside ambient, atmospheric droning that accounts for more direct lyrical passages and sampled effects that clearly demonstrate this facet of their sound quite clearly with this making for a combined whole here in raw, blasting Black Metal with native touches and accents, which is topped off with wholly destructive drumming and rabid vocals. Finally, add in the ethereally keyboards into the appropriate sections and some fine spoken-word snippets that conveys their story rather well, overall this becomes quite a stellar package. True, the raw low-fi production here might be somewhat too harsh for those to take but that’s the way the game is played with this being no exception to that rule at all with the static hiss blaring through at several opportunities and the bass being non-existent to the point of it being questionable as for if it was even on the album to begin with. Still, this one isn’t all that bad at all as intro 'Najtir Ichik' starts this off immediately with scorching tremolo-picked riffing and furious drumming whipping through up-tempo passages with delirious melodies flowing through the blistering tempos full of violent, angular rhythms for a violent and dynamic but slightly overlong introduction. 'Halhi K'ohba' again features unrelenting drumming and furious blasting through a frenzied series of riffing with tremolo-styled rhythms and furious, blasting drum-work for a more chaotic, condensed and therefore more enjoyable effort, while 'Bonampak' gets more out of its swirling tremolo riffing with a strong series of raw-edged blasting and nimble rhythm variations that feature rabid pace changes and dynamic atmospherics into the chaos that makes for a surprisingly enjoyable epic offering. A slightly-more experimental take on their trademark sound, 'Quetzalcoatl' attempts to use melody in their riffing for the first time which is quite nice considering the raw production really does a number on this style of music, but the chaotic blasting, mournful wailing and ardent attempts at producing actual riffs make for another surprisingly enjoyable if somewhat overlong track. 'Koyopa' changes that up by being the album’s most intense and unrelenting track with raging drum-blasting and intense rhythms with the furious tremolo melodies flourishing in the chaos with an unrelenting charge throughout that makes for a truly nonstop assault and is the albums’ quintessential highlight piece. Somewhat expectedly, 'Nawalik' uses furious blasting and scorching guitar-work with technical melodic injections within the unrelenting frenzy of the drumming blasting for an appropriately cacophonic finish to this. For the most part, this one is just a tad too overlong at times as some of the arrangements could’ve been trimmed by a minute or two so it’s not wandering around so much but for the most part this is a thoroughly enjoyable, violent release just the way the Aztecs would’ve wanted it. (Don Anelli)

(Crepúsculo Negro - 2015)
Score: 85

Liquido di Morte - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal, Psichedelia
Vi piacciono gli origami? No, perché all'interno del digipack dei milanesi Liquido di Morte, avrete di che sbizzarrirvi grazie all'elaborato ed elegante booklet. Quel che si evince comunque dal meraviglioso artwork di questo lavoro, è che non abbiamo di fronte una band del tutto ordinaria. L'ho capito subito, appena ho lanciato nel mio lettore "Ozric Pentacles", traccia di otto minuti e trenta di sonorità malefiche che immediatamente si instillano nella mente come un agente venefico, che non lascia scampo. Le sonorità assai imprevedibili del quartetto milanese, si districano tra il post-qualcosa, un catartico doom psicotropo e il kraut rock. Impressionanti. Anche se il disco è privo di cantato, gli strumenti sostituiscono alla grande le vocals, cosi quando "In Death Of Space / Of Death In Space" divampa nel mio stereo, con la sua furia micidiale, la brutalità delle sue chitarre post-black sembra voler emulare efferate screaming vocals, ma solo per pochi attimi perché il sound disturbato dei nostri, si tramuterà ben presto in un precario equilibrio tra vita e morte, prospettando funesti presagi da fine del mondo. Apocalittici, angoscianti, deviati, i Liquido di Morte sono dei pazzi furiosi, che supportati dal genio di Nicola Manzan (Bologna Violenta), dispensano alterate sonorità aliene, che si dipanano tra psych rock, post-, ambient e drone in una musicalità perversa, dilatata e ansiogena. Quest'ultima caratteristica si palesa in tutto e per tutto nei 18 minuti di "144", song dall'incedere asfissiante, cerebralmente instabile che shakera il suono di Black Sabbath con Neurosis, Ufomammut e Swans, in un delirante e allucinato space rock stile primi Pink Floyd (anche per un cantato-parlato), che sottolinea l'eccelsa qualità di un ensemble di cui sentiremo parlare in un futuro non troppo lontano. Morbosi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

Arcade Messiah - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Post-rock, Porcupine Tree
Questo non è un disco post-rock: è un disco prog-metal – o al limite prog-alternative – senza cantante. Solo vedendolo in questa luce è possibile coglierne la vera direzione. Dietro a tutto c’è un uomo solo: l’iperprolifico John Bassett, frontman dei KingBathmat, al suo debutto solista con un lavoro che lui stesso definisce “oscuro e apocalittico”. Al centro di tutto ci sono le due chitarre: una costruisce ritmiche mai banali, spesso su tempi dispari e incostanti; l’altra dipinge quasi costantemente assoli o arpeggi che diventano melodie, non sempre memorabili ma di grande effetto. Basso e batteria sono i due strumenti forse meno rifiniti: più che buoni nel complesso – ma specialmente la batteria, pur fantasiosa e indovinata, soffre di un suono fin troppo digitale e innaturale. L’evolversi dei brani segue la tradizione del post-metal, pur assestandosi su una abbordabilissima durata media di circa 5 minuti per brano: segmenti più ispirati, spesso costruiti su indovinati arpeggi e linee melodiche (la dolce e brevissima “Aftermath”, o la lunga introduzione di “Roman Resolution”), che presto esplodono in riff più pesanti e distorti (sentite che botta di metal “Traumascope” o l’oscura “Everybody Eating Everyone Else”), raddoppi di batteria e architetture più complesse; qualche linea di tastiera (soprattutto archi) fa da legante qua e là e aggiunge colore alle parti. C’è una certa ossessione nella ripetizione dei fraseggi, sui quali di battuta in battuta si aggiungono note, strumenti, dettagli: il risultato è pesante, apocalittico, curato nella progressione geometrica del suono sia prima che dopo l’esplosione del brano. “Your Best Line of Defence is Obscurity” è il capolavoro del disco (che segue l’opening “Sun Exile”, a mio avviso il pezzo più debole). L’ingresso sottile e arpeggiato ricorda – come parecchie altre parti più tranquille di “Arcade Messiah” – alcuni lavori dei Porcupine Tree; l’evoluzione è in una melodia di chitarre davvero memorabile, che trasporta di livello in livello fino allo splendido finale, con quei controtempi di batteria ad arricchire un pattern già superlativo. 'Arcade Messiah' è in definitiva un lavoro dove è facile percepire la maturità di Bassett, musicista e compositore navigato. Se cercate il post-rock intelligentoide e analogico dei Mogwai o dei Karma to Burn, questo disco non fa per voi; se cercate il gelido prog-metal ipertecnico fine a se stesso stile Liquid Tension Experiment, lasciate perdere. Se invece volete uno splendido punto di incontro tra i due generi, ascoltate 'Arcade Messiah' e non ne rimarrete delusi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

martedì 24 marzo 2015

Unhold - Towering

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Isis, Neurosis
Diavolo, e io che credevo che gli svizzeri Unhold fossero gli ultimi arrivati, mi riscopro ignorante dopo quasi 30 anni di musica. E invece, la band si forma a Berna addirittura nel 1992 e rilascia quattro album nel giro di vent'anni. Ecco la prolificità non è di certo il punto di forza dei nostri: sette anni sono infatti passati dal precedente 'Gold Cut', però un tempo per cui forse è anche valsa la pena attendere. 'Towering' è un signor album che sposa sonorità sludge/post-metal tanto care ai Neurosis, vero primo punto di contatto per il combo bernese, a cui aggiungerei immediatamente i Kylesa. Il quintetto elvetico, dopo varie vicissitudini a livello di line-up, si presenta con una nuova formazione, in cui spicca il nome di Miriam Wolf, famosa per far parte anche dei Crippled Black Phoenix. Le song, 11 contenute in questo disco, esordiscono con "Containing the Tyrant" che svela immediatamente la direzione sonora dei nostri che si muovono lentamente tra riff torbidi, limacciosi come il fango e vocals che evocano lo spettro di Scott Kelly. Un intermezzo drone e poi tocca a "I Belong" intorpidire i nostri sensi con un temperamento languido e contorto, che mi conquista anche per una certa cura a livello di arrangiamenti. "Southern Grave" suona più rock stoner e mette in mostra un impianto vocale in cui spicca il dualismo tra Thomas Tschuor e Philipp Thöni, l'uno pulito, l'altro più selvaggio. Con "Voice Within" torniamo a calcare solo in apparenza i sentieri del post metal, perché nel giro di un paio di minuti la song si indirizza verso lidi più meditativi, addirittura shoegaze (grazie anche al cantato di Miriam), in stile Alcest (mancano solo i testi in francese), però la bravura dei nostri risiede nel non ripetere pedissequamente quanto fatto da altri ma reinterpretarlo in modo abbastanza originale e con risultati davvero interessanti. E se qui forti erano i richiami shoegaze, la storia nella title track vira verso un post rock strumentale assai malinconico che vede in Mogway o Explosions in the Sky, grandi interpreti di riferimento. L'album è in continua evoluzione e in "Hydra" mi pare di avere a che fare con un'altra band, molto più essenziale e minimalista. Se fino a pochi istanti fa, stavo fluttuando nello spazio con una musicalità cosmica, qui mi lancio in una cavalcata di sporco hard rock. Ma niente paura, nulla è come sembra, "(Ascending)" mi riporta sui binari del post, quello di memoria bostoniana, ovviamente scuola Isis. Ottimi suoni, splendide melodie, interessanti frangenti acustici e atmosfere ipnotiche che ci restituiscono una band in ottima forma, che nella conclusiva "Death Dying" regala un'ultima vibrante perla musicale grazie alla magnetica voce di Miriam che invita voi tutti ad ascoltare questo entusiasmante 'Towering', un album assolutamente da far vostro. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2015)
Voto: 85

Echoes and Signals - V

#PER CHI AMA: Progressive Post Rock
Accendevi lentamente una sigaretta. Se non fumate fate ardere il vostro camino. Se non avete un camino, date fuoco alle polveri della vostra coscienza. Ho bisogno del vostro ardere indistinto, per farvi viaggiare in questo album dei russi Echoes and Signals. Partiamo con una fiammella tiepida, quasi impercettibile che soffonde da “I”. Un numero romano che ci introduce alla seconda traccia. “Over the Lethe”. 6.57. I minuti ed i secondi che imprigionano il mio ascolto. Percussioni di tastiere elettriche mi ipnotizzano. Ridondanze melodiche giurano melodia. Distorsioni fanno contorcere il brano, sporcandolo di ritmicità anni '80 accuratamente occultate. Un sottofondo che cerca il metal, ma alieno dal nostro dark ambient. Versiamo l’attenzione sul secondo numero romano “II”. Un altro intercalare. Graffi gutturali, lugubri di chitarre elettrificate. Incedere. Poi nulla. Ora d’improvviso, distoglie “Caught By The Water”. Bianco nero. Nero bianco, e così via. L’intro gioca con le dita sulla tastiera. L’evoluzione sorprende con una voce pulita e fondente come cioccolato spalmato sulla pelle tiepida. Batteria e voce ancora ci portano a convulsioni nostalgiche del periodo d’oro dei Rolling Stones. Ritmo. Batteria. Chitarra. Voce. Estrosità musicalmente semantiche in chiusura in vocalizzi ripetuti che fanno della pelle, brivido. Non possiamo procedere senza un altro numero. È il momento di “IV”. Addentriamoci romantici ed anafettivi in questo intermezzo, intenso, ma sfuggevole. Meglio farci invadere da “Hadal Pelagic”. La musica di questa song è quasi commestibile, tanto è corposa ed impregnata di strumentalità un po’ ostentate, un po’ ritmiche. Il brano è metamorfico. Se foste su una gondola nel mezzo della laguna veneziana, circondati da queste sonorità, credetemi, vorreste toccare terra per tornare al sicuro. Non mi sorprende si affacci sul nostro cammino un’altra romanità. “V”. Pochi tocchi di questa cordata sonora, bastano a persuadermi. Chiudo occhi e mente. Riapro la serranda emozionale per “The Waiting Room”. Ne vale la pena. La batteria mi fa finalmente vibrare l’anima. Il climax ritmico mi graffia l’attesa. Le pause tra i battiti sonori sono enfasi al reiterare di queste musicalità, così saporite da volerle assaggiare ripetutamente. 7.07. minuti e secondi per cui vale la pena vivere di musica. Mangiate alla mia tavola. 'V' si conclude con “When the Time Has Come to Sail Away”. Mi chiedo se con questa ballata la band voglia sublimare gli stili variegati che sparge nei propri brani. Mi chiedo se in questo brano strumentale, struggente e vivo di sonorità eclettiche, vi sia la voglia ed il compendio ad un lavoro, a una esperienza, a una passione intrinseca per la musica strumentale, vocale, epocale. Ascoltate. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 70

Dawn of a Dark Age - The Six Elements, vol​.​2

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, In Tormentata Quiete, Pan.thy.monium
Una grafica minimalista, un moniker quasi illeggibile e un digipack molto essenziale, mi hanno fatto presagire all'ascolto di un lavoro del tutto votato alla devastante furia iconoclasta black metal, in stile Darkthrone. E invece nulla di tutto ciò, perché i due loschi figuri che si celano dietro al nome Dawn of a Dark Age, sono dei geni... si dei geni del male. Con l'obiettivo di rilasciare un'esologia (a cadenza semestrale) che tratti gli elementi concreti, ecco trovarmi al cospetto del secondo lavoro  dei nostri, quello che tratta l'acqua. I due artisti molisani, Eurynomos e Burian, ci conducono in un delirante trip estremo dalle movenze etnico sinfoniche. Le sei tracce contenute in 'The Six Elements, vol​.​2 Water' aprono con la criptica "Intro-The Gates Of Hell (In The Deepest Dark Abyss)", traccia che coniuga con classe, l'approccio sinfonico degli austriaci Angizia con quello teatrale degli In Tormentata Quiete, il folklore degli Inchiuvatu e un'aura rock progressive anni '70, il tutto logicamente riletto in chiave estrema. Tutto chiaro no? Esaltato dall'ingresso epico dei nostri, mi spingo oltre, alla successiva "Otzuni (The Black City In Apulia)", song assai cupa che mi consente di aggiungere ulteriori elementi caratterizzanti il sound del duo di Isernia. Ricordate il capolavoro 'Dawn of Dreams' dei mai dimenticati Pan.thy.monium, folle creatura di Dan Swano, in cui strumenti a fiato e ad arco collidevano in sound granitico? Bene, se quel disco è diventato anche per voi una pietra miliare nella vostra personale discografia, il secondo capitolo dei Dawn of a Dark Age vi saprà conquistare altrettanto, poiché tutti quegli elementi che si trovavano in quel lavoro del 1992, coesistono e vengono elaborati attraverso una splendida rivisitazione moderna, in cui jazz e musica classica si fondono all'unisono con sonorità malvagie e vocals che si muovono tra il growling e lo screaming, mentre arabeschi da brividi si dischiudono nell'ipnotica "The Old Path Of Water (Where You Rot Slowly)", song che alterna essenziali sfuriate black/death, (in stile ultimi Enslaved) ad assoli di sax, clarinetto, violino e viola (questi ultimi due grazie al supporto di P-Kast). Oserei dire incredibile, sebbene nei momenti più selvaggi, il suono risulti un po' troppo elementare e le vocals poco convincenti nella loro veste più growleggiante. "The Verrin's Source (On MountField)" è un'altra bella cavalcata di grezzo black metal in cui le arcigne vocals di Burian si ergono su una ritmica ferale che richiama i Mayhem, mentre per il break centrale, i due si lasciano andare a bucolici arpeggi, fino ad un finale a la Inchiuvatu. Le citazioni che compaiono in questo disco non si limitano a quelle fin qui descritte, ma proseguono con gli epici suoni dei primi Ulver, noise, cinematica e atmosfere di Pink Floydiana memoria, quest'ultime condensate tutte nella lunga "Outro n.2". Che altro dire se non invitarvi all'ascolto attento di questo secondo capitolo dei Dawn of a Dark Age, riscoprire il loro debutto 'Earth' e attendere luglio per godere del terzo lavoro 'Fire'. Molto buoni! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

lunedì 23 marzo 2015

Nocturnus - The Science of Horror

#FOR FANS OF: Death Metal, Malevolent Creation, Deicide
Long-revered and long-since-disbanded, Floridian legends Nocturnus are rightly regarded as one of the better-kept secrets in the scene and are widely considered the originators of keyboard use in Death Metal which is ably demonstrated by this release which packs together the bands’ first two demos. While the release itself might be questionable considering it’s a reprint of a similar compilation from a decade ago (which was simply called ‘The Nocturnus Demos’) and even manages to run the same critical foul of using the same running order so their second demo, the one named for this release, is given top-billing while their debut, self-titled demo is on Side-B the fact remains that for those that missed out on that release this one will surely suffice quite well by managing to introduce fans to this off-the-wall mixture of spacey keyboard theatrics and solid, dependable Floridian-inspired Death Metal. There’s certainly a sound disparity between these two demos as the first one, being the more-recent-recorded effort comes off quite well with solid drum-tones if too heavy on clattering cymbals and a deep thudding guitar tone that isn’t crystal clear but works well for the material at hand while the second half is light, fuzzy and features the kind of sound normally found on garage-style rehearsals though they still come with the same intensity and ferocity normally found in their regular, professional works. Beyond these issues, the other major difference between these two releases is the fact that the second demo doesn’t have the keyboards found on the first one, as in between recordings the band hired a keyboardist into the group so the first four tracks come complete with their penchant for trippy, celestial keyboards while the second half is straightforward. ‘Before Christ/After Death’ is a true trip and one of their better numbers, the howling winds and swirling keyboard intro serving up a spectacular base for churning riff-work and thudding drumming that delivers maddening tempo changes and furious riff-work which makes this a much better version than the earlier version that appears on the first demo. ‘Standing in Blood’ is another of their true classics and comes off incredibly well here with pounding drumming and savage riff-work slicing through jagged patterns with effective keyboard nuances just like the true album version making this another stand-out effort. The stand-out effort on this release, ‘Neolithic’ comes off the most like the album version with swirling riff-work and dynamic tempo-shifts with frenzied patterns and full-on keyboard solos against the thrashing Death rhythms at its heart for the best example yet of their wildly-creative fusion of dissonant keyboards and savage Death Metal which is certainly one of their finest works at the demo stage. ‘Undead Journey’ starts with more spacey keyboard work before turning into a rabid assault of furious riffing, relentless drumming and intense tempo shifts that accounts for the unusual keyboard theatrics on display which tends to really rob sections of the Death Metal sound here for a track mostly noteworthy more for fans than anyone else. Switching over to the second demo, which is actually their first release, the self-titled ‘Nocturnus’ features simple riff-patterns and languid pacing tempos that tends to rob the rather intense rhythms and drum-work of their rather rabid later half which makes this probably the best on this demo but clearly below the upper tracks. ‘B.C. - A.D.’ omits the intro and sticks to the main rhythms with pounding drumming and intense riff-work that really manages to come off incredibly well as the furious tempo throughout here covers up the sloppy play and energy-sapping recoding quality. The last two tracks are quite a surprise being unrecorded elsewhere, though ‘The Entity’ is for good reason with a dreary pace and lethargic double-bass runs that really struggles to get the tempo up or engaged during the first half while the cacophony of drum-blasts and frenzied riff-work in the second half is wasted with a series of shifts back-and-forth into varying tempos trying to make a better song out of this. ‘Unholy Fury’ comes off better with a more cohesive sound and seems to really have a driven template rather than the aimless riffing of the previous effort, which is nice if only two short as the shortest one here doesn’t really allow it a lot of room to grow. Still, this is a wholly impressive collection of material that really shows where the band came from and why they’re so well-regarded in the scene, especially for those who missed out on the previous compilation release. (Don Anelli)

(Nuclear War Now! Productions - 2015)
Score: 80

domenica 22 marzo 2015

☉ - L'Effondras

#PER CHI AMA: Post rock strumentale, Ahkmed, 35007, Mogwai, Pink Floyd
Forza, ripetiamolo insieme ancora una volta: il post-rock strumentale ha rotto le palle. La musica che cresce e cala per tutto il disco, i brani infinitamente lunghi, quel piglio intelligentoide e intellettuale, l’autoerotismo musicale e soprattutto il grande nemico per eccellenza di questo genere: la noia, inesorabile, che vi assale dopo i primi 50 secondi di ascolto. Beh, iniziate pure a ricredervi: perché il trio francese L’Effondras (ma il loro nome in realtà è un punto con un cerchio intorno, simbolo del sole: non a caso, sul pack c’è un leone che divora il sole), con questo debut omonimo, ha realizzato un gioiello come non ne ascoltavo da tantissimo tempo. Sette brani per più di 70 minuti, con quattro pezzi ben oltre i 10 minuti, sono un bel po’ di roba da ascoltare: ma arriverete in fondo chiedendone ancora, e ancora, e ancora. I L’Effondras pescano a piene mani dalla tradizione post-rock più moderna (mi sono venuti in mente i Mogwai o alcuni lavori dei 35007), ma condiscono il lavoro con suoni curatissimi, sporchi senza essere mai davvero distorti, dannatamente emozionali, che mi hanno ricordato gli Ahkmed di Chicxulub. Ma c’è di più: “La Fille aux Yeux Orange” indugia su un riff che sa di folk/blues americano; la splendida “L’Ane Rouge” sembra suonata dai Pink Floyd di Barrett (lo sentite lo slide e l’indovinatissima ritmica sui timpani?). Alcuni passaggi di “L’Aure des Comètes” hanno il gusto settantiano dello space-rock degli Hawkwind e – nella reprise – il fascino noise dei Sonic Youth più groovy. Si sente che i quattro suonano davvero: l’attenzione alla dinamica è spaventosa. I brani si gonfiano e poi spariscono; le chitarre costruiscono arpeggi delicatissimi, si fermano e poi ripartono; esce il delay, entra un leggero distorsore; la batteria (vero capolavoro dell’album: tecnica, scrittura e registrazione) suona prepotentemente in faccia per poi nascondersi tra giochi sottili di piatti e rullante. L’equilibrio tra tecnica e sentimento del trio è pazzesco: nessuno sfoggio tecnico a sé stante, nessun onanismo strumentale, persino negli oltre 22 minuti della doppia “Caput Corvi” (Part I e Part II) non c’è una nota in più, un passaggio superfluo, un’esagerazione. Ascoltare 'L’Effondras' è come respirare: il fiato va e viene, a volte è più veloce, a volte più profondo, a volte lo si trattiene aspettando l’esplosione – ma tutto scorre naturalmente, senza sforzi. E non ci si annoia mai. Aggiungete una produzione perfetta (assai migliore di tanta robaccia professionale che capita di ascoltare oggi) ed un packaging pulito ma evocativo, e la ricetta è completa. Il mio nuovo gruppo preferito, da ascoltare. (Stefano Torregrossa)

(Dur et Doux - 2014)
Voto: 90

giovedì 19 marzo 2015

Aphonic Threnody – When Death Comes

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Cosa aspettarsi da un album che vede la collaborazione di membri di alcune tra le migliori doom band mondiali? Funeral doom all'ennesima potenza composto e suonato alla perfezione. Una band multinazionale che in tutte le sue uscite ha visto l'avvicendarsi di numerosi musicisti provenienti da Gallow God (UK) e Dea Marica (UK), Astor Voltaires (CHI), Pantheist (UK), Urna (ITA) e Leecher (HUN) e ospiti d'eccellenza come Jarno degli Shape of Despair e Greg Chandler dei mitici Esoteric, a cui si aggiungono altri fuoriclasse del calibro di Josh Moran dei Vacant Eyes e David Unsaved degli ENNUI. Una collaborazione che da qualche anno, sotto questo moniker, tiene alto l'onore del doom senza scendere a nessun tipo di compromesso, mettendo a dura prova compositiva, il geniale collettivo di artisti. 'When Death Comes' è stato il loro penultimo album uscito nel 2014, mentre inizio 2015, ha visto la luce anche 'Of Poison and Grief (Four Litanies For The Deceased)', altro ottimo prodotto contenente un unico, lungo ed intenso brano. 'When Death Comes' racchiude un'aura depressiva, malinconica, progressiva, intellettuale, ritualistica, introspettiva e una pesantezza accostabile per alcuni aspetti, all'effetto di certa musica classica. Questo album rasenta la perfezione in materia funeral doom, con brani tutti sopra i dieci minuti ("Death Obsession" supera addirittura i 17), cadenzati e funebri, rigorosamente gelidi, melodici e profondi. Durante l'ascolto dei pezzi, scaturiscono emozioni assai contrastanti tra loro: da un lato un senso oppressivo di vuoto e impotenza, dall'altro il raggiungimento di una forza interiore capace di affrontare anche l'ultimo respiro prima del trapasso. Doomentia Records ha percepito alla grande questo modo di intendere la musica estrema, dando sfogo a questo progetto sonoro di grande dignità artistica. Tutti i canoni del genere si susseguono a dovere, il suono è ricercato e controllato nei minimi dettagli, raffinato all'eccesso come da copione, mentre le lunghe composizioni dal volto cinematico, si intersecano con le evoluzioni di matrice progressive senza mai falsare il risultato finale. Le parti vocali di Roberto Mura sono lodevoli, profonde e drammatiche all'inverosimile. La varietà dei suoni usati (cello, keyboards), supera la classica strumentazione rock e le affascinanti atmosfere create, non intaccano mai l'onnipresente senso di caduta che avvolge l'intero album, amplificando quell'aura oscura, romantica e decadente, che finisce per lasciare nell'ascoltatore un solco profondissimo e un bel nodo in gola. Cinque brani stupendi per soli amanti del genere, difficili da spiegare, difficili da interpretare ma dal fascino ancestrale senza tempo, proprio come la morte. Tutti gli album della band li trovate su bandcamp, pertanto non fateveli scappare, ne vale davvero la pena! Divinità! (Bob Stoner)

(Doomentia Records - 2014)
Voto: 90