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domenica 12 febbraio 2012

Corporation 187 - Newcomers of Sin

#PER CHI ASCOLTA: Detah/Thrash, At the Gates, Unanimated
La scena svedese non vive solo delle band provenienti da Gotheborg e Stoccolma, ma dalla piccola cittadina di Linköping, ecco riemergere dalle ceneri, gli ormai (dati per dispersi da un po' di tempo) Corporation 187, quintetto dedito ad un classico death/thrash senza compromessi, caratterizzato dalle classiche venature swedish death di At the Gates ed Unanimated. Undici cavalcate abbastanza tirate, all'insegna dell'headbanging sfrenato, con le tipiche ruvide chitarre svedesi a disegnare ritmiche incazzate, ma sempre comunque melodiche e le vocals corrosive del vocalist a ricercare di riprodurre il selvaggio latrato di Mr. Tompa Lindberg; graffianti assoli completano il quadro di “Newcomers of Sin”, che si rivela alla fine un discreto lavoro. Il solo difetto di questa nuova release dell'act scandinavo, è ahimé di essere uscito quasi tredici anni dopo “Slaughter of the Soul” e ciò ne penalizza enormemente la sua valutazione. Per chi è malinconico nei confronti di queste sonorità, un ascolto è per lo meno dovuto, gli altri si vadano a ripescare gli originali. (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 65
 

Hiverna - I. Folklore

#PER CHI AMA: Black Death Folk, Finntroll, Unanimated
Un’orda impazzita di vichinghi canadesi deve aver invaso il mio salotto in quest’ultimo periodo, infatti prima Crepuscule, poi As Autumn Calls ed infine questi indecifrabili Hiverna, sono arrivati a rinverdire la mia conoscenza di una scena, che fino a pochi giorni fa, ritenevo quasi del tutto anonima. E invece, eccomi smentito immediatamente, e con sommo piacere devo dire. Il sestetto del Quebec, che tra l’altro vede militare tra le proprie fila il buon Bardunor, che abbiamo già incontrato nei sopraccitati Crepuscule, propone un black metal dalle tinte folkloristico-sinfoniche. Iniziando ad ascoltare l’album, mi viene subito da pensare che di partiture sinfoniche nel sound dei nostri, ce ne sono davvero poche, per non dire nulle, un ampio respiro viene lasciato invece a simpatici stacchetti dal forte sapore folk, mentre la matrice portante della musica degli Hiverna è affidato ad un black tirato, con frenetici blast beat, un riffing gelido (sarà forse colpa del nome della band che vuole ricordare il freddo inverno e il vento gelido che soffia verso le terre desolate del Canada), coadiuvato da un selvaggio screaming, dove spesso e volentieri fa tuttavia capolino un flauto impazzito. La componente folkish diventa più preponderante man mano che procediamo nell’ascolto di questo “I. Folklore: “Le Fou qui se Croyait Sage”, mostra una progressione a livello degli arrangiamenti che divengono più strutturati, il suono si fa più corposo, pieno e vario nel suo incedere; l’opera destabilizzante del flauto schizoide di Doom, continua imperterrito a mietere vittime. Anche la musica dei nostri cambia vorticosamente ritmo e dal black furioso dell’inizio si passa a melodie più trollish, in pieno stile Finntroll. Ma si sa che con questo genere di band, la burla sta sempre dietro l’angolo, ed ecco che nella quarta “Dans les Profondeurs” a farsi strada ed investirmi è un mix tra death (per le growling vocals) e black (per le chitarre zanzarose), prima che rifacciano la loro comparsa le topiche melodie folk che si intrecciano facilmente con l’aggressività delle ritmiche. Un po’ Jethro Tull, un po’ Skyclad, un po’ Finntroll senza dimenticare il riffing assassino degli Unanimated, nella musica pagana dei nostri convoglia un po’ di tutto, per un risultato che alla fine non delude assolutamente ma anzi riesce nell’intento di soddisfare tutti gli amanti del black metal o forse nessuno… Provare per credere! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Septic Mind - The True Call

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Li avevamo lasciati ad inizio 2011, con un monolitico album di soli tre pezzi; li ritroviamo oggi alle prese con altri tre bei pacconi di funeral doom. Si tratta dei russi Septic Mind, fieri portabandiera di un genere che oggi sta vivendo la sua massima espansione, grazie anche ad act ben più famosi. Sarà forse l’immagine di un pianeta alla totale deriva o la percezione di fine del mondo imminente, ma sempre più presa sta avendo questo movimento cosi estremo, in cui la proposta del duo di Tver si inserisce. “The True Call” si apre con la consueta lugubre musicalità dei nostri, che rispetto al precedente “The Beginning”, sembra aver incupito ulteriormente (e di certo non era una missione del tutto scontata) il proprio sound, instillando nella già pesante aria, una ancor più profonda sensazione di morte. La opening, nonché title track, è una specie di marcia funebre, ma che più lenta non si può, che sembra essere influenzata anche da sonorità drone/sludge, per un risultato talmente tanto funesto, ipnotico e quanto mai eccitante, da entusiasmarmi non poco. Una sorta di Ufomammut rallentati (e ce ne vuole) che incontrano il drone dei Sunn O))), in un contesto apocalittico a la Neurosis, ovviamente il tutto rallentato di 100 volte. Sospesi in un infinito buco nero che risucchia pian piano ogni cosa, la mia anima viene inghiottita anch’essa rapidamente dal nefasto destino che ci attende, la morte. Tutto si oscura, il sole si spegne, un gelo galattico avvinghia il nostro insignificante pianeta, estinguendo quasi istantaneamente qualsiasi forma di vita. Ecco il panorama nichilista dipinto dalla musica dei nostri, che con la loro musica oscura e a dir poco opprimente, si pongono un solo unico obiettivo, cancellare l’uomo dal nostro pianeta. E il risultato, totalmente privo di ossigeno, riesce nell’impresa che i nostri si sono prefissati. La band prova anche a cambiare registro nei minuti iniziali di “Doomed to Sin”, con un suono decisamente più sperimentale e meno tetro, ma ammetto di preferirli nella loro veste più tenebrosa ed eccomi accontentato perché i suoni d’oltretomba ritornano per una quindicina di minuti buoni a confortarmi, con una buona dose di ferrea angoscia, sempre coadiuvata dal growling catacombale di Michael Nagiev. Chiude il disco “Planet is Sick”, la song più ammaliante, psichedelica e anche melodica del terzetto, a confermare che il nostro pianeta è malato e a sancire anche l’importante passo in avanti fatto dal duo russo. Magniloquenti! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80
 

Reido - Minus Eleven

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
L’esplorazione dell’underground musicale si ferma oggi a Minsk, in Bielorussia, per scoprire pregi e difetti del secondo album dei Reido, dopo il lustro trascorso dal precedente “F:\all”. E in cinque anni si sa, di cose ne cambiano parecchie. Dal funeral doom sporcato da influenze industrial degli esordi infatti, i nostri hanno virato la propria proposta verso lidi più melmosi, con un sound molto più affine allo sludge/post metal. Gli otto minuti di “Violence & Destruction” rappresentano un bel biglietto da visita per configurare la nuova direzione del duo bielorusso: un mid-tempo allucinato che dimenticati appunto gli influssi industrial del debutto, si lancia in ritmiche articolate, ripetitive, senza mai travalicare tuttavia la soglia della violenza. Il nuovo prodotto targato Reido sembra soffrire degli influssi dei Meshuggah, da cui certamente il duo della ex repubblica sovietica, prende in prestito il sound delle chitarre accordate a semitoni bassi, con l’aggiunta e la delezione di note, modificandone i valori, e sostituendoli armonicamente con altre fuori tonalità, in strutture sequenziali subordinate a logiche matematiche. Il risultato che ne deriva è estremamente ritmato, contraddistinto da accattivanti atmosfere create da distorte linee di chitarra, con il growling graffiante di Alexander, ad emulare quello di Jens Kidman, leader dei gods svedesi sopra menzionati. L’attitudine sludge dei nostri, la si può certamente percepire in “The Six-Day War”, la mia song preferita, anche se strumentale (cosi come pure la conclusiva “Flows & Eruption”), provvista di un feeling assai più vivace, spezzato solo da una glaciale atmosfera apocalittica, quella che d’altro canta, ammanta gelidamente questo “Minus Eleven”, ossia i gradi che si registrano in questi rigidi giorni di inverno. Curiosa la scelta di far uscire questo lavoro “-11” in data, 11/11/11, soprattutto quando anche la parola Reido è correlata alla condizione termica, essendo la traslitterazione giapponese di zero assoluto, intesa come la più fredda temperatura possibile. Artici! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 75

sabato 4 febbraio 2012

Rumors of Gehenna - Ten Hated Degrees

#PER CHI AMA: Thrashcore
Ok, ok, Franz, è vero ho fatto il Godot ma purtroppo sono un istintivo e come tale solo nel momento in cui l’ispirazione si impadronisce di me riattacco a scrivere… Finalmente mi decido e riparto da dove mi ero fermato e cioè all’ascolto dei Rumors of Gehenna. Schiaccio play ed ecco una pioggia di fuoco e fiamme uscire dalle casse, sparata a tutto volume da questi ragazzi friulani. Presi singolarmente, batterista e cantate uber alles, ci sanno fare, veloci, cattivi e cazzutissimi all’inverosimile: riffoni, bei solos, bei suoni, un’ottima produzione, ritmica eccelsa (il batterista è un vero killer) ma le prime quattro tracce sono piuttosto monotone (con la prima traccia, strumentale, sarebbero cinque, ma voglio essere buono) come il resto dell’album nel suo complesso. Per fortuna a risollevare le sorti di questo “Ten Hated Degrees” ci pensano “Human” (la mia favorita) e “My Hourglass Never Fails”, ma a mio modestissimo (e poco tecnico) parere purtroppo rimane poco altro degno di nota. Detto ciò, a chi non ha altro dio al di fuori di un metal fuoco e fiamme, a chi piace svitarsi il collo a furia di headbanging, questa release potrà certamente piacere. Bisogna fare un paio di doverose considerazioni: il genere in questione ha dato e ridato a più non posso e l’album è un po’ datato (2008); sembra però che ci sia una nuova release in cantiere con un nuovo cantante (fonte groovebox.it, notizia di settembre 2011) e i ragazzi sono piuttosto attivi nei live (pagina facebook per i social-utenti). Tutto questo lascia ben sperare che la line-up del combo del nord est riesca, almeno ai miei occhi di censore/recensore, a risollevare le proprie sorti e quelle del genere in questione. (Matteo del Fiacco)

(Worm Hole Death)
Voto: 60

Dark Domination - Rebellion 666

#PER CHI AMA: Swedish Black, Marduk
Magnifico. Un mirabile, fottutissimo esempio perfetto di quello che deve essere il black metal. Non ci sono altre definizioni che posso dare. “Rebellion 666” è un vero monumento e incarna totalmente l’essenza di un genere che non ha genere, un black metal puro di impostazione svedese senza devianza alcuna. Dico ‘svedese’, ed è l’unica precisazione che mi sento in cuore di dare. Sostanzialmente il black svedese si differenzia da quello norvegese per alcuni tratti tipici (ora generalizzo, quindi tratto elementi macroscopici): punta molto sulla violenza musicale e sull’impatto penetrante della registrazione in studio; riguardo le tempistiche è molto più veloce e presenta riff forsennati; concettualmente punta più sugli aspetti estremi del suono e delle liriche piuttosto che affrontare tematiche introspettive e spirituali care allo stile norvegese. Lungi da me definire una linea di demarcazione tra due aspetti della stessa natura. Mi pare comunque giusto specificare la natura intrinseca di questa creatura sonora. Svisceriamola insieme… Pur non spiccando di originalità (non è questo che il black metal delle radici cerca) l’album presenta melodie con una potenza davvero invidiabile e passaggi di scala stilisticamente ineccepibili. La feroce velocità che contraddistingue la maggior parte delle tracce è equilibrata dalla presenza pressoché costante di riff lenti tra una parte e l’altra di ogni canzone. Si fa un uso molto interessante degli intermezzi: sottofondi demoniaci permeano due minuti e trenta tra un traccia e l’altra, conferendo un’aura di enigmaticità non comune per una perla la cui tradizione (black) predispone un range di otto-nove tracce massimo ad album (qui ce ne sono sedici, cioè otto più i corrispettivi intervalli). Elementi di rimando si notano in quei pezzi di chitarra che evocano pericolose atmosfere orientali. Non è difficile leggere tra le righe. D’altronde sono i proprio i Marduk ad aver letteralmente ‘originato’ la variante storica del black svedese. Non mancano poi nemmeno gli aspetti più cupi e morbosi del genere, che contribuiscono a far entrare una band come questa nella leggenda: Frostmourne, uno dei primi componenti, fu trovato impiccato in una foresta l’8 giugno del 2004. (Damiano Benato)

(Evil Distribution)
Voto: 80

http://www.myspace.com/ddomination  

Götterdämmerung - Kin-Burst 9104

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Post Punk
Per chi si intende di gothic-rock e nell'ultimo decennio ha potuto seguire le proposte più interessanti che la scena europea ha offerto, il nome di questi tre olandesi non risulterà affatto sconosciuto. Sorti agli inizi degli anni '90 dal movimento gothic ispirato alle sonorità di Sisters of Mercy, Siouxsie e Big Black, i Götterdämmerung hanno prodotto diverso materiale che, nell'arco di dieci anni, ha visto la luce tramite svariate etichette discografiche. Per la precisione, fino a questo lavoro, il gruppo aveva pubblicato due ep, un vinile picture limitato e due full-length album: per alcuni pezzi in particolare, merce rara che oggi si trova nelle mani dei soli collezionisti o dei fan di vecchia data. In aiuto degli appassionati dell'ultima ora giunge invece la label austriaca Strobelight con la pubblicazione di questa bellissima antologia. In più di settanta minuti di musica "Kin-Burst 9104" ripercorre l'intera carriera dei Götterdämmerung, a partire dai loro primi passi negli anni '93-'94 (quando firmarono per la Dion Fortune Records e diedero alle stampe il loro album di debutto "A Body and Birthmark"), fino ad arrivare alle pubblicazioni più recenti, ovvero il secondo album del 2001 "Morphia" e il picture "The Nation had been Flirting with Forms of Götterdämmerung...". Un excursus temporale che prende inizio dalle radici post-punk del gruppo, passando attraverso le sperimentazioni electro/noise di metà carriera, per poi recuperare nuovamente il classico gothic-rock sound degli esordi: seguendo questo itinerario la raccolta esplora in maniera minuziosa le tappe fondamentali della band olandese e ci offre una collezione di brani carichi di un'energia davvero trascinante. Alla selezione estratta dalle uscite ufficiali si aggiungono poi le quattro canzoni inedite "Skincree", "Bodybag 04", "Rogues in a Nation" e "Fortress" (quest'ultima suonata dal vivo nel 1991). Il tutto completamente rimasterizzato, al fine di rendere più omogeneo l'insieme ed esaltare la genuina potenza degli strumenti. In definitiva, non si tratta certo di un'uscita destinata ai soli nostalgici! "Kin-Burst 9104" è piuttosto un'occasione da non farsi sfuggire, per riscoprire un piccolo frammento di storia della musica gothic e sorprendersi ancora una volta della sua immutata bellezza. (Roberto Alba)

(Strobelight Records)
Voto: 80
 

Starchitect - No

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge
Dall'Ucraina con furore direi, visto che gli Starchitect vengono da questo silente paese che pian piano sta emergendo, almeno musicalmente nell'ultimo periodo. Merito della Slow Burn Records che permette a molti gruppi di uscire dall'universo underground. Questo "No" è un' album a tutto Post direi, infatti i nostri affrontano il post-rock e il post-metal con grande naturalezza e una buona dose di freschezza artistica. Infatti oggi come oggi, fare il verso ai pilastri del genere ci vuole poco, ma trovare riff alternativi (qua aiuta la contaminazione prog) e cercare nuove sonorità, è indice del fatto che c'è impegno e voglia di fare un prodotto valido. L'atmosfera dell' album è come al solito sofferente e cupa, come in "Light" che entra con un riff di chitarra quasi leggero e poi il tutto si apre in una buona esplosione strumentale. La voce, growl e scream, imperversa in tutti i pezzi ed è questa peculiarità che appesantisce tutto l'album. "Yeah" a mio avviso è un piccolo capolavoro, il pezzo con la struttura più varia e dai riff meno cupi, che lascia intravedere un riscatto e un ritorno alla luce per questo album dal taglio classico per il genere. Nota interessante il fatto che il batterista sia anche il vocalist, aumentando la difficoltà in sede live ma che dai vari video sparsi nel web, sembra comunque portare avanti con buoni risultati. Posso dire che questo "No" è un ottimo debutto (senza tralasciare il precedente split con i Fading Waves) e se gli Starchitect sapranno disegnarsi un buon percorso, avremo delle belle sorprese per il futuro. (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 75
 

Frozen Ocean - Vestigial Existence

#PER CHI AMA: Black Ambient Electro, Burzum
Vi dirò, recensire per primo in Italia la release di una band, mi fa sempre un certo effetto; che si tratti dei Cradle of Filth o degli sconosciuti russi Frozen Ocean, poco importa, anzi trovo molto più eccitante scrivere qualcosa di qualcuno che nessuno conosce. Pertanto per me è quindi un privilegio descrivervi le emozioni suscitate dall’ascolto di “Vestigial Existence”, che rappresenta il primo vero full lenght (datato 2009, ma uscito solo nel 2011) della one man band moscovita, guidata da Vaarwel. Un eco lontano accompagnato da voci spettrali introducono questo cd, come se una nave con ancora i suoi passeggeri a bordo, si stesse inabissando nel mare. Poi, ecco le chitarre e le ruvide vocals di “Winter – Aelean Being” a condurci nell’esplorazione della profonda creatura di ferro ormai immersa nelle tenebre del più profondo degli abissi. Echi dei Burzum più ipnotici emergono forti, oscuri e ossessivi, dalle tracce di questo lp, che pur non proponendo nulla di originale, ha il forte pregio di proporre delle melodie che, pericolose e striscianti, penetrano prima nei nostri anfratti per poi radicarsi ben presto negli angoli più remoti del nostro cervello. Ma è solo il debito di ossigeno e l’accumulo di azoto nel mio sangue e da qui al mio encefalo, a crearmi dei profondi scompensi cerebrali, quando in “Lurker” fa la sua comparsa anche una componente elettronica. Seppur i suoni si presentino ridondanti e ripetitivi, accompagnati dalle solite deboli e timide chitarre, poste addirittura in terzo piano e dalle urla lancinanti di Vaarwel, la musica dei Frozen Ocean, inizia pian piano a salirmi anche dalle vene delle braccia, penetrandomi l’epidermide come un blob mortale. Sarà anche un sound semplice quanto mai banale, che fa della ripetitività di due accordi messi in croce, uniti a dei semplici samples di sintetizzatore, il proprio substrato, quel che conta è che il risultato alla fine sia valido ed in questo l’act russo coglie in pieno il proprio obiettivo. Chiaro, non abbiamo dei mostri di tecnica di fronte, la batteria è affidata al drumming sintetico del programmatore, la maggior parte sono suoni costruiti davanti ad un computer, ma se proprio la volete sapere tutta, non me ne frega nulla, la musica mi piace. Mi piace anche l’intro della malinconica “Steps Above the Silence”, che sembra più un pezzo di black doom nella vena degli ucraini Raventale, tuttavia contaminato da richiami post rock. La produzione è ancora abbastanza scarna e grezza, ma si ci può lavorare sopra: “Soil Pillows” nel suo incedere completamente strumentale ne gioverebbe notevolmente, cosi come pure la successiva “Human Magnet”, la mia song preferita, in cui è ancora la voce del sintetizzatore a sentirsi forte e nella sua totale semplicità, arrivare a toccarmi il cuore con le sue eteree, depressive e sospese melodie. L’underground brulica, pullula di migliaia di band, date loro la voce, date loro una piccola possibilità, ascoltateli solo un momento, non lasciateli inabissare sul fondo di un gelido oceano infinito, da cui non potranno mai più riemergere. Ascoltate quindi anche la voce dei Frozen Ocean! (Francesco Scarci)

(Deleting Soul Records)
Voto: 75

As Autumn Calls - An Autumn Departure

#PER CHI AMA: Death Doom, Saturnus, primi Katatonia
Anche la scena canadese inizia a mostrare un certo fermento al suo interno; complici forse le sterminate distese di boschi o i ghiacci invernali, la quasi totale assenza di anima viva su un territorio esteso migliaia di km, tutto questo forse stimola non poco l’immaginazione delle band che, pian piano, stanno emergendo dall’underground, non ultimi i Crepuscule, da poco recensiti e questi As Autumn Calls. Quando poi leggo Autunno nel nome del gruppo di quest’oggi, inevitabilmente mi viene da pensare a sonorità tipicamente death doom, intrise di una forte vena malinconica. E in effetti dopo che il consueto intro ha fatto il suo corso e la successiva “Closer to Death” attacca, mi accorgo di non aver sbagliato di una virgola il mio pronostico. Quello degli As Autumn Calls è infatti un death doom dalle inequivocabili tinte autunnali, basato su ritmiche mid-tempo, sorretto da arioso melodie di tastiere, qualche gradevole intermezzo acustico, lunghe cavalcate epiche che con la mente mi riportano a sterminate zone boschive, ambientazioni decadenti, con le growling vocals di James (non proprio eccezionali) che si alternano a quelle pulite di Andrew, anche chitarrista del trio dell’Ontario. E cosi una dopo l’altra, le song si avvicendano come la (poca) luce al Polo Nord d’inverno: qualche schitarrata furiosa di derivazione death (la luce) che si alterna con i tanti momenti di quiete (le parti acustiche o altri frangenti decisamente più cadenzati) che costituiscono il nostro buio; esempio lampante di questa mia descrizione potrebbe essere “The Demons Therein”. Le song poi più o meno si assomigliano tutte, magari variando solo in termini di lunghezza (dai quattro ai nove minuti), prendendo come punto di riferimento il black doom primordiale dei Katatonia. Katatonia si, che peraltro vengono addirittura coverizzati, anche discretamente bene, col brano “Murder”, confermando alla fine la bontà (ma ancora un po’ acerbo) del combo canadese. Un invito è quello di continuare a seguire gli As Autumn Calls, perché mostrano delle buone potenzialità in prospettiva. Tiepido esordio, ora attendo la bomba! (Francesco Scarci)

(Naturmacht Productions)
Voto: 70
 

giovedì 2 febbraio 2012

Detestor - Fulgor

#PER CHI AMA: Swedish Death, Metalcore, ultimi In Flames
Della serie “a volte ritornano” e mai come in questo caso, il ritorno ci riporta alle radici del sound proposto dalla band ligure, la cui origine risale addirittura nella notte dei tempi, il 1986. Stiamo parlando dei Detestor, una delle prime realtà italiane nell’ambito estremo, che iniziò la propria carriera come esponente della scena thrashcore del bel paese, per poi affermarsi con uno splendido debut, “In The Circle Of Time”, un secondo lp dai suoni cibernetici (era il periodo del boom dei Fear Factory), “Red Sand”, ed un Ep, “Ego”; stiamo parlando del 1999 quando l’act di Genova si trova al culmine del successo (parliamo ovviamente in termini underground). Nel 2001, mentre la band sta registrando “Fulgor”, decide di interrompere le proprie attività e da allora solo silenzio, prima che nel 2010 la bomba della loro reunion mi scuotesse e mi infervorasse di gioia. Eh si, sono sempre stato un fan della band, ricordo che tra i miei primi concerti figurano proprio i Detestor, in compagnia degli amici fidati Sadist. Ma veniamo ai giorni nostri quando “Fulgor”, dopo vari avvicendamenti nella line-up, finalmente vede la luce e arriva sulla mia scrivania; spazzo via tutto, lasciando il solo cd dei nostri, in una sorta di rituale sciamanico, preludio del tanto sospirato riascolto di una band di cui avevo perso le tracce, come se un caro amico fosse ricomparso dal nulla. Ebbene? Inserisco il cd nello stereo e vengo investito da una furia brutale, alquanto inattesa: “God is Empty” è una bomba che esplode veemente nelle mie casse, e che nel suo incedere lascia il posto ad inusuali inserti acustici, contaminati a livello di vocals (direi quasi post hardcore). Sono frastornato; le ritmiche del debut riecheggiano finalmente nelle mie orecchie e mi traslo temporalmente a quasi vent’anni fa e la prova più evidente del ritorno alle origini del sestetto italico è “The Wrong Way”. Percepisco chiaramente il rifferama tipico del vecchio swedish death metal; che goduria poi per le mie orecchie che le vocals di Jaiko siano ritornate ad imperversare, alternandosi questa volta con quelle di Niki. Riecco i Detestor che mi hanno conquistato quasi due decadi fa, e sebbene risultino chiaramente influenzati dai vari trend del momento, l’ensemble ligure ha sfoderato una egregia prova che trova, oltre alle song già citate, anche in “Free to Cry” (molto simile agli ultimi grooveggianti In Flames), la distruttiva “I Feel Disgusted” e l’arrembante “Finished”, altri momenti di elevato interesse. Certo non tutto gira per il verso giusto, ci sono ancora dei momenti di calo fisiologico, attribuibili forse all’assenza dalla scena per quasi un decennio. Tuttavia, l’aggressività che da sempre contraddistingue i Detestor non è andata perduta, il sound pur mantenendo lo scheletro di quel magnifico debutto, è stato modernizzano da influenze post e metalcore, per un risultato sicuramente positivo. Da seguire obbligatoriamente. Ben tornati, vi stavo aspettando! (Francesco Scarci)

(Buil2Kill Records)
Voto: 75
 

Crépuscule - Neant

#PER CHI AMA: Post Black Atmosferico, Blut Aus Nord, Agalloch
I Crépuscule non sono altro che il side project del chitarrista dei Csejthe, Mr. Bardunor, che forse annoiato dal black minimalista della propria band madre, ha deciso di mettere in piedi questa one man band dedita ad un sound oscuro, ma al contempo atmosferico. “Neant” rappresenta quindi il suo debutto, ma si intuisce immediatamente che l’act canadese non è decisamente di primo pelo. Dopo una intro dal flavour tipicamente drone, si passa a ”Un Fruit Mourant pour les Corbeaux de l'Immortalité”, in cui è una ritmica nervosa, secca e ripetitiva a dominare, contraddistinta da soavi tocchi di sintetizzatore, che arricchiscono gli arrangiamenti con un feeling alquanto oscuro. Peccato solo che non facciano la comparsa le vocals, per rendere un po’ meno statica la proposta, ma un tuono a fine brano ne sancisce fragorosamente la fine. Il nostro eroe si rilancia con la successiva “Die”, in cui finalmente le grida di Bardunor esplodono in tutta la loro bestialità, mentre le chitarre tracciano lancinanti linee melodiche che si interrompono solo per brevi breaks atmosferici, e la batteria corre forsennata per tutta la traccia. Un’apertura affidata a chitarra acustica e drumming ci introduce a “Brumes” e come potete immaginare già dal titolo, quello in cui ci si imbatte sono suoni che potrebbero essere riassunti in un quadro dalle tinte aranciate, magari un bosco di aceri nel bel mezzo dell’autunno canadese, con il vento a spazzare le nuvole minacciose, cariche di pioggia che sovrastano il cielo. Sebbene il sound possa dipanarsi tra suoni drammatici e depressivi (complice delle vocals al vetriolo e delle ritmiche infuocate), riesco comunque a vedervi delle immagini positive, una sorta di quiete dopo la tempesta. Cosa che non accade invece nella successiva “Mort” (forse un richiamo fortuito ai francesi Blut Aus Nord, a cui i Crépuscule vorrebbero tendere?), dove invece è una coercitiva atmosfera carica di morte ad imperare in un controverso sali e scendi emotivo, legato essenzialmente alla struttura del brano, con le chitarre che si rincorrono attraverso ritmiche serrate, ancora una volta nevrotiche (ma ancora un po’ banalotte) e lo screaming al limite dell’infernale. La conclusiva “Les Yeux Pleins de Boue” è un reprise dal “Demo 2009” ed in effetti si mostra come la song più acerba del lotto, complice se volete, anche una registrazione non propriamente all’altezza ed un utilizzo delle vocals (non proprio il vero punto di forza della band del Quebec) un po’ troppo accentuato. “Neant” alla fine si rivela come un discreto lavoro, costituito da ambientazioni a cavallo tra il drammatico e il sognante, intrise di una cupa malinconia, ma anche di quel folklore tipico nord americano, insomma una sorta di mix tra Burzum, Agalloch e i deliranti Blut Aus Nord. Non male direi, ma ci sono ancora ampi margini di miglioramento! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

domenica 29 gennaio 2012

Nordagust - In the Mist of Morning

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Änglagard ed Anekdoten
Circolato come demo nel 2007, rimasterizzato e remixato nel 2010, il disco dei Nordagust contiene brani che iniziarono a prendere forma già a partire dal 1996. Pare che il nome Nordagust abbia origini mitologiche, e sia riferito al vento del nord. Ed è proprio il vento l'elemento che impatta su di me e mi trascina via nei ripetuti ascolti di quest'album. Un vento che arriva ovunque, tutto incontra e parte del tutto porta via con sé. Un vento carico degli odori della natura, talvolta secco, altre volte ebbro di umidità, testimone delle cose del mondo e narratore di poesia antica. Non può che essere di natura emozionale l'approccio con questo disco, che fin dall'opening (e title) track, accarezza e scuote la memoria di sensazioni che non hanno più rispondenza nella quotidianità binaria che ci soffoca. E così si trova la giusta posizione, si chiudono gli occhi e si ascolta il vento del nord. Inizialmente la nostra natura ci induce alla diffidenza ed, immobili, possiamo solo accorgerci del vento su di noi, e provare a respirarlo. Scivolano così via echi di Änglagard ed Anekdoten, ma è solo una folata, impossibile da afferrare; ed è inutile voltarsi indietro, perché quel vento è già passato e nuove raffiche con un penetrante odore di mellotron ci suggeriscono Barclay James Harvest ed alcuni dei momenti più cupi di King Kimson; ed ancora un'interpretazione tipicamente watersiana e passaggi progressive tipicamente made in Italy. Poi pian piano si prende confidenza con il vento, e si prova a lasciarsi trasportare da esso. Ed ecco che danzando, scompaiono le immagini evocate precedentemente ed una brezza animista ci conduce attraverso squarci norvegesi, la bruma, i sentieri, i ruscelli, le foreste. E l'ultima, fondamentale intuizione: è natura ma è allo stesso tempo la descrizione di un paesaggio dello spirito. Non ci può essere una conclusione ad effetto in questa recensione; il vento, eterno, continuerà a soffiare, e “In the Mist of Morning” continuerà a rivelare nuovi affascinanti panorami. (Dalse)

sabato 28 gennaio 2012

The Undergrave Experience - Macabre: il Richiamo delle Ombre

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Sono felice di poter appurare che le band italiane, non trovando fortuna nella nostra penisola ormai alla deriva, stiano scorgendo un porto sicuro fuori dai confini nazionali e che la consueta label russa, Solitude Productions, sia cosi lungimirante nelle sue scelte, da aver potenziato il proprio rooster, con tanti gruppi provenienti dal nostro paese, non ultimi, questi The Undergrave Experience. Questa nuova realtà lombarda è tuttavia una one man band, capitanata dal factotum Marcel, qui supportato da A. Mephisto alla batteria (Hanged in the Crypt) e da Moerke al basso (Consummatum Est) che propone un funeral doom, dalle forti tinte orrorifiche. Questo per dire che nei due brani a disposizione (per un totale di 43 minuti!), i nostri non solo si cimentano, ripetendo pedissequamente la lezione impartita dai grandi act nord europei (i soliti Skepticism e Thergothon), ma integrano il tutto con sonorità riscontrabili nelle colonne sonore della cinematografia horror nostrana (e penso ai Goblin e ai film di Dario Argento), flebili narrazioni, a dir poco inquietanti, in italiano (scelta fatta anche nell’ultimo lavoro degli Aborym) e poi in latino, con risultati a dir poco esaltanti. Non posso dirmi un grande amante del genere, sebbene consideri il funeral una corrente che abbia innumerevoli cose da trasmettere a livello emotivo, ma devo ammettere di essere rimasto totalmente affascinato e ammaliato dalla proposta del combo di Milano, che fin dalla iniziale “Mater Mortalis Tenebrarum”, si apre con quel piglio del tutto funereo, lanciandosi poi nella seconda metà del brano, in atmosfere a dir poco spettrali, ma totalmente malinconiche, arrivando a strozzarmi un nodo alla gola, quando ho come la parvenza che quelle note siano oltre modo simili a quelle della soundtrack de “La Finestra di Fronte”, film di Ozpetek. Solo queste drammatiche e profonde suggestioni infuse nel mio io, bastano a tenere il voto molto alto. Immerso ancora nella pesantezza della rarefazione dei suoni (sia ben chiaro non sto parlando di pesantezza di chitarre ma di plumbee atmosfere invernali) e dal cavernoso growling di Marcel, mi appresto ad affrontare i 20 minuti di “Graveyard Zombie Horizon”. Ancora soffici tocchi di pianoforte, che ci accompagneranno per l’intera durata del pezzo, ancora una ritmica ultraslow, ancora musica che espande le nostre menti in un universo parallelo fatto di luci tenui e ambientazioni da incubo, tra l’altro ancora più rallentate rispetto alla opening track. L’ossigeno diminuisce man mano che si avanza nell’ascolto di “Macabre: il Richiamo delle Ombre”, la vista inizia ad appannarsi, il sudore cola dalla fronte mentre un forte senso di ansia e vertigine si fa breccia nella testa e preme a livello del petto. Gira, gira la testa, le litanie ossessive, quasi ambient, mi fanno perdere la ragione, fino a perdere del tutto i sensi. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 85