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lunedì 16 gennaio 2012

Raven Tide - Ever Rain

#PER CHI AMA: Gothic, Dark
Ricevo l'album, guardo la copertina e il retro cd e noto che sono italiani. Bene! Dopo i miei “giri” per l'Europa del nord, mi accingo a recensire una band di Prato, per di più composta da una bella fanciulla e tre cavalieri di nero vestiti, formatisi nel “vicino” 2009. Si parte con "Stillness", song caratterizzata da sonorità elettroniche e da melodie ricordanti tematiche medievali (l'immagine che traspare è un castello merlato con attorno campi sterminati brulli, su cui si svolgono le tipiche battaglie). Tralasciando l'ettronica, con "Alfirin Alagos" si prende il sentiero del gothic metal, caratterizzato da tastiere che accompagnano la suadente voce di Cheryl, mentre Shark, Fred e Mark (rispettivamente chitarra, basso e batteria) rimangono sullo sfondo, senza essere mai troppo invadenti. Il risultato è un brano di facile ascolto, tranquillo e dolce. Con "Doom Reveil" il sound cambia radicalmente, tornando all'elettronica della opening track: un connubio, quello con la voce dolce e pulita, che risulta molto commerciale e adatto ad un pubblico più femminile. Con "End to the Flame" i toni rasentano la calma e l'acustica più assoluta, con il pianoforte e la voce di Cheryl, per un brano in cui a trasparire c'è solo tanta tristezza e malinconia, sottolineate anche dall'assolo di chitarra che si presenta solo da metà brano in poi. Con "Lucifer Bliss" il sound si fa più duro, grazie all'apporto di Giovanni Bardazzi, vocalist proveniente dai Raze and Symbiotic; ovviamente l'aria dolce e femminile di tutto l'album non ne risente in alcun modo, ma viene semplicemente confrontata con il growling di Giovanni, in quello che risulta una sorta di “la Bella e la Bestia”. Si chiude così questo primo lavoro, più adatto - come detto prima - ad un pubblico di giovincelle che si accostano per la prima volta al mondo del metal, senza traumi. Sebbene per i più metallari questo album possa sembrare fin troppo leggero, questa band ha della stoffa per creare altri album di impatto e qualità maggiore. Staremo a vedere (e sentire) i prossimi lavori. (Samantha Pigozzo)

(UK Division)
Voto: 60

Torsense - World of Harmony Without You

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Ritorniamo a recensire un buon cd di un gruppo di origine russa, i Torsense: “World of Harmony Without You” contiene 10 brani. Dopo i consueti preamboli iniziali, parliamo in dettaglio delle song. Il cd sin dal suo inizio suona potente, deflagrante, dannatamente ritmico e brutale, scevro di qualsiasi momento di rilassamento ma anzi tutto il contrario; questo è un lavoro che coinvolge, ti trascina con sé, nel suo mondo, nella sua dimensione. Detonanti mi viene da pensare. Le armonie musicali non sono mai scontate anche se legate strettamente al genere, tuttavia il combo russo ha trovato una propria dimensione, un proprio mondo, una propria strada e questo non ci può fare altro che un gran piacere. Il cd scorre veloce, musicalmente e ritmicamente potente e cattivo. In tutto il lavoro, si percepisce la voglia di dare una propria impronta, senza per forza scadere in quella sensazione di noia da ripetitività; in ogni brano, in ogni ascolto c’è da scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa di piacevole. Qui troveremo chitarre pesanti, una batteria che esplode in una ritmica selvaggia; ci sono poi le parti orchestrali e la suadente voce femminile, sempre assai elegante. “World of Harmony Without You” è un uragano nel cervello, come pochi... Pezzi come “Thunderstorm”, “Aridization”, “Immersion In To Darkness” o “Quake Of The Earth“, sono pezzi che danno l’idea della brutalità dei nostri con un sound devastante, ispirato ai maestri del genere, Cradle Of Filth (dei primi lavori), e Dimmu Borgir, per quelle atmosfere cupe contrapposte alla pomposa sinfonia che popola questo lavoro. Cosa interessante dei Torsense è poi il cantato, rigorosamente in lingua madre (russo), che rende il tutto ancora più particolare ed affascinante. Il decimo pezzo è una bonus track, e devo dire che, anche se è la song che chiude il lavoro, arriva dritta nella testa e nello stomaco. Questo lavoro sintetizza in sé, bravura musicale e creatività, il che vi farà venire voglia di riascoltarlo, sicuramente acquistarlo e tenerlo nella nostra discografia. Non vi annoierete di certo ad ascoltarlo, in quanto i ragazzi russi hanno preso la strada giusta e meritano di essere seguiti; in attesa di un loro secondo lavoro (non fateci aspettare troppo però), il mio pollice vira verso l’alto; bravi ragazzi, andate forte, i nostri occhi sono puntati piacevolmente su di voi. Alla prossima. (PanDaemonAeon)

(Grailight Prod.)
Voto: 75

http://www.myspace.com/torsenseband

Funeral - As the Light does the Shadow

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Yearning
A distanza di poco più di un anno dal fortunato “From These Wounds”, tornano alla ribalta i norvegesi Funeral, portatori di suoni oscuri, malinconici, a tratti catacombali, che tuttavia, rispetto alle origini hanno saputo fare modificare qualche aspetto del proprio stile, rivedendo in primis, ad esempio, l’uso della voce, non più growl come nel loro debut, ma che si rifà chiaramente ai maestri del doom, gli svedesi Candlemass. Questo lavoro della band scandinava continua pedissequamente quanto proposto nel precedente lp: sonorità assai rallentate al limite del funeral, atmosfere ossessive e claustrofobiche, sorrette dai classici riffoni ultra distorti delle chitarre. Una voce lamentosa, a tratti epica (in stile Yearning), contribuisce poi ad accentuare il lato più melodico dei nostri, senza però tuttavia convincermi del tutto. Quello che invece più mi ha affascinato sono le terrificanti orchestrazioni che la band costruisce, ambientazioni drammaticamente laceranti l’anima, con quel loro incedere funereo. Tristezza, desolazione e dolore, ma anche eteree orchestrazioni gotiche, sono le armi vincenti di questo disco, che sicuramente non rappresenterà un masterpiece per le generazioni future, ma che comunque piacerà a chi non riesce a fare a meno della profonda oscurità della notte. Criptici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 70
 

domenica 15 gennaio 2012

Enslaved - Vertebrae

#PER CHI AMA: Death Black Avantgarde
L’esplorazione musicale fa parte del DNA di uno dei gruppi storici della scena black norvegese, gli Enslaved. Nati come una black metal band, il quintetto nordico, ha saputo evolvere il proprio sound attraverso un percorso stilistico senza precedenti, miscelando prima il black al viking e poi volgendo la fiamma nera verso sonorità progressive, che hanno contribuito a definirli i “Pink Floyd dell’estremo”. E cosi, ci troviamo finalmente tra le mani questo “Vertebrae”, che riprende sostanzialmente il discorso iniziato in “Monumensium” (l’album a cui s’ispira maggiormente questa nuova release) e poi proseguito brillantemente, attraverso i vari “Below the Lights”, “Isa” e “Ruun”, che tra l’altro portò alla vittoria la band, nei Grammy Awards norvegesi. “Vertebrae” non rinnega le radici black dell’act scandinavo (soprattutto nell’uso delle vocals più ruvide che si alternano alle clean vocals), ma è un viaggio psichedelico, in cui i nostri ci accompagnano alla scoperta di sonorità sempre più sperimentali, tenendo come punto di riferimento gli epocali Pink Floyd (meravigliosa “Ground”, con quel rifferama che ricalca lo stile di Dave Gilmour e soci e con quel nostalgico apporto dell’hammond che ci catapulta direttamente negli anni ‘70), arricchendo inoltre il proprio bagaglio stilistico, di una componente alternativa, che ci riporta alla mente i Tool. L’atmosfera che si respira in questa nuova release (la decima per la band) è cupa e angosciante, secondo me grazie al lavoro alla consolle di Joe Barresi (Tool e Queens of the Stone Age), in grado di enfatizzare il lato più malinconico del combo norvegese. Non mancano le sfuriate estreme, basti ascoltare la quinta traccia “New Dawn”, vera e propria cavalcata nei meandri del black metal, interrotta soltanto dai vocalizzi cibernetici di Grutle. La cover artwork visualizza il concept lirico di “Vertebrae”: una vertebra nel mezzo della copertina che simbolizza la potenziale forza dell’umanità e al tempo stesso il proprio fragile centro nevralgico; le vene che dipartono da qui, rappresentano poi la connessione tra mente e carne. Insomma, ennesima brillante uscita per i poliedrici Enslaved, che inanellano un successo dopo l’altro, proponendo un suono avanguardistico, che non potrà non piacere né ai fan dell’ultima ora, né ai vecchi black supporter della band, né a chi col black metal ha ben poco da spartire. Eclettici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 80
 

Flauros - Monuments of Total Holocaust

#PER CHI AMA: Black Symph. Dimmu Borgir, Thyrane
Era il 2000 e il titolo altisonante non lasciava presagire niente di buono su questo mcd, ma una volta inserito il disco nel lettore i finlandesi Flauros si sono rivelati una piacevole sorpresa. Sebbene il gruppo non proponga nulla di eclatante in quanto a originalità, riesce comunque a farsi apprezzare, assestandosi su standard ben al di sopra della media. "Monuments of Total Holocaust" è un mcd di cinque brani dal sapore molto epico, supportati da un sound ruvido e da una ferocissima prestazione vocale che finalmente non ha niente a che vedere con l'imbarazzante gracchiare di tanti altri singer. Non mancano melodia ed inserti di tastiere che comunque sono usati con parsimonia e trovano il loro spazio qua e là, senza apparire "ruffiani" o stravolgere la struttura del brano. Se dovessi azzardare un paragone, senza scomodare le inevitabili influenze di nomi più storici, accosterei lo stile dei Flauros a quanto fatto dai conterranei Thyrane sul debutto "Black Harmony". Devo ammetterlo, questi finlandesi mi hanno colpito ed era da tanto che non sentivo una band così valida tra le nuove leve! (Roberto Alba)

(The Twelfth Planet Rec.)
Voto: 70

Firewerk - Circuit and Curses

#PER CHI AMA: Industrial Metal, KMFDM
Sorprendenti questi Firewerk! Sorprendenti quanto sconosciuti, verrebbe da aggiungere. Eppure “Circuits and Curses” rappresenta il loro secondo album autoprodotto e a quanto pare vantano anche un discreto seguito all'interno della scena underground di Detroit, la loro città d'origine. John e Matthew Cross, Tony Hamera e Alex Bongiorno: un gruppo di ragazzi estremamente affiatato che con sè porta delle idee molto chiare sulla direzione stilistica da seguire e non fa segreto nemmeno delle proprie fonti ispiratrici, mettendo in musica un bagaglio di influenze che vanno dai Ministry agli Skinny Puppy, da Gary Numan ai KMFDM. In particolare, è proprio del marchio KMFDM che il gruppo si dimostra debitore, offrendone però una variante piuttosto personale che evita qualsiasi tentativo di "plagio" nei confronti della storica band tedesca. “Circuits and Curses” segue di due anni l'uscita del debutto “Amplified Fragments” (datato 2002) ed è composto da undici brani di industrial metal suonato divinamente, così divinamente che ci si chiede per quale motivo un gruppo tanto capace sia costretto ad autoprodurre i propri lavori. Difatti, alla luce di quanto si poteva ascoltare già nel loro primo album, il fatto che nessuna casa discografica abbia dimostrato interesse verso i Firewerk appare quanto meno strano e rafforza ancor di più la convinzione che l'attenzione verso l'underground musicale sia sempre meno focalizzata a setacciare i talenti laddove vi è qualcosa di realmente valido. Ad ogni modo, “Circuits and Curses” non necessita dell'appoggio di una grossa label perché emerga il suo valore, basti ascoltare brani come “Chase Scene”, “Illusions” o “Pray” per accorgersi di una produzione dal suono limpido e impeccabile, di una programmazione dei synth intelligente e addirittura invidiabile per la sua perfetta integrazione nello scheletro ritmico dei pezzi, ma soprattutto si evince una dote rara, quella di riuscire a trasformare la semplicità strutturale del proprio songwriting in una collezione di brani potenti e dal refrain irresistibile, la cui energia è sempre convogliata ai centri nervosi più ricettivi. Contattate il gruppo e ordinate una copia di “Circuits and Curses”, non ve ne pentirete! (Roberto Alba)

(Self)
Voto: 75
 

Faith and the Muse - The Burning Season

#PER CHI AMA: Gothic/Dark Wave
Un colpo di frusta: comincia così il nuovo album dei Faith And The Muse, che si apre con la breve e tirata “Bait & Switch”. “The Burning Season” rappresenta il quarto lavoro in studio, se si vuole escludere il doppio cd “Vera Causa”, uscito nel 2001 a celebrare la carriera di William & Monica, album che era stato presentato come un lavoro completamente diverso da ciò che avevano proposto in passato e addirittura in grado di destabilizzare i vecchi fan, che avrebbero anche potuto far fatica ad accettare un mix di generi così variegato e bizzarro per un gruppo che nel corso di dieci anni ha fatto del proprio stile un punto di forza. Da grande ammiratrice dei Faith And The Muse, che sono IL mio gruppo preferito praticamente dal loro debutto “Elyria” del 1994, avevo finito con l'attendere quest'album addirittura più di tutti gli altri lavori da loro pubblicati ed ero pronta a tutto... tuttavia, non era necessario corazzarmi di buona disposizione, dal momento che non è stato affatto difficile per me innamorarmi subito di “The Burning Season”, un album sì estremamente vario, ma anche decisamente riuscito! I Faith And The Muse si muovono con sorprendente disinvoltura e naturalezza tra generi tanto diversi tra loro, senza mai risultare eccessivi o sgraziati, ma anzi, evidenziando una versatilità davvero notevole... dodici canzoni infuse di un'energia fresca, ispirata, canzoni assemblate in modo da saltare da un genere all'altro e tuttavia capaci di creare un tutt'uno organico che ha un senso intrinseco indipendentemente dalle parti delle quali è composto. Un mosaico di stili, una tavolozza di colori, un album sentito intensamente, dal quale traspare tutta la passione che il duo americano ha messo in questo lavoro. Se non sorprende, per chi conosce le origini della carriera di Monica Richards, l'abilità con cui la sua voce riesce ad adattarsi in modo perfetto agli aggressivi ritmi punkeggianti di canzoni quali “Sredni Vashtar” e “Relic Song”, colpisce invece la sua predisposizione anche per un genere apparentemente ben distante da quello che ci si potrebbe aspettare siano le sue influenze principali, e così stupisce la carnale sensualità con cui affronta una lenta canzone jazz, “Gone to the Ground” (la quale vede la partecipazione di Matt Howden al violino). Forse “Bouddicea” e “Willow's Song” sono le canzoni che richiamano in modo più incisivo lo stile più tipicamente Faith And The Muse del passato, di album quali “Elyria” ed “Evidence of Heaven”. Nella eterea e severa “In the Amber Room” si possono riconoscere echi lontani dei Cocteau Twins. Ma le canzoni che preferisco in assoluto sono la title track, “Whispered in Your Ear” e “Visions”, calde ed avvolgenti e con una spruzzata di morbida elettronica, donano nuovo spessore alla voce di Monica e sono i momenti più esaltanti e indovinati di tutto l'album, assieme a “Failure to Thrive”, cantata da William Faith e molto darkeggiante. Ritengo che a questo punto della loro carriera William & Monica non potessero che sentire il desiderio e la necessità di dare nuova luce e nuova freschezza alle loro canzoni e questa decisione non può che essere rispettata, data l'esperienza ormai acquisita dai due, che ha permesso loro di affrontare con eleganza e sicurezza un cambiamento così drastico, del quale, tuttavia, si era già visto qualche accenno, a mio avviso, nella scelta delle canzoni che dovevano far parte del primo dei due cd di “Vera Causa”. Per tutti coloro i quali si possono essere sentiti traditi da un album come “The Burning Season”, consiglio di ascoltarlo bene e senza pregiudizi, cercando di entrare nello spirito vero delle canzoni, senza timore di trovare troppi elementi estranei a ciò che hanno sempre riconosciuto nei Faith And The Muse. “The Burning Season” è davvero un bell'album. (Laura Dentico)

(Out of Line)
Voto: 80

martedì 10 gennaio 2012

Black Flame - Septem

#PER CHI AMA: Black Death, Behemoth, Incantation
Diabolica paura agghiacciante! È forse la combinazione di queste tre parole a riassumere il contenuto del come back discografico dei torinesi Black Flame. Da sempre Torino, rappresenta la culla della magia e dell’occultismo, delle forze soprannaturali, vertice di due triangoli magici: il primo, quello bianco, con Lione e Praga, mentre il secondo, quello nero, assieme a Londra e San Francisco. Tutte queste forze si incontrano o forse si scontrano già nel triangolo letale posto sulla cover cd (ad opera peraltro di Niklas Sundin dei Dark Tranquillity) e poi nelle note di questo feroce, oscuro e malvagio lavoro che segue a distanza di tre anni (ancora ricorre questo numero) “Imperivm”. La musica dei nostri è un connubio di black death votato alla fiamma nera, che riprende la violenza della precedente release, inasprendola forse in termini di potenza piuttosto che di ferocia. “Septem” è una estenuante cavalcata che si apre con delle angoscianti vocals, che sanno molto di una ritualità ancestrale, che lasciano ben presto il posto al riffing agghiacciante emesso dalla chitarra di Cardinale Italo Martire (responsabile anche delle vocals maligne dell’album). La ritmica si fa brutale più che mai nella seconda parte del brano dove allucinanti blast beat iniziano a piegarci le gambe. Il riffing si fa più malato in “The Seventh Star”, dove anche le vocals appaiono inizialmente più effettate, mentre la batteria picchia come un’invasata macchina da guerra, prima di un finale in cui le chitarre, si rivelano affilate come rasoi e creano raggelanti atmosfere da incubo; eccitante tutta questa malvagità che scola dalle corde del chitarrista. La corroborante devastazione del combo piemontese continua in “Endless Duality”, dove le atmosfere si fanno cosi pesanti e rarefatte da richiamarmi un che degli australiani Disembowelment, prima di esplodere ancora nel fragore della tempesta death metal, che riporta ai maestri polacchi Behemoth. “Septem” non lascia scampo, incalza nervosamente, penetrando lentamente le nostre menti con i suoi suoni diabolici, spaventosi e terrificanti. E ancora oscuri rituali primordiali aprono “I Am the Vortex” (che vede il contributo dei Satanismo Calibro 9, cosi come pure nel finale industriale di “Matrix of Cosmic Light”) che dopo 3 minuti di ataviche litanie, cede il passo di nuovo alla distruzione death perpetrata dai nostri. Annientato dalla furia dei Black Flame, mi appresto ad ascoltare la seconda parte dell’album che con un terzetto annichilente di song, mi dà il colpo di grazia: prima la rabbia di “The Morbid Breed”, che si fa notare per la sua estenuante velocità e un break centrale cadenzato, dove vorrei esaltare l’eccezionale lavoro di M:A Fog dietro le pelli; “Zombies Without Hunger” è forse la traccia più selvaggia dell’album, anche se il finale è a dir poco ipnotico, sinistro e completamente schizoide, una vera bomba. A chiudere questa malefica release, ci pensa la già citata “Matrix of Cosmic Light”, song di un demoniaco e posseduto death metal ultra tecnico (come tutto il lavoro del resto) che ci conferma che quello dei Black Flame si candida ad essere uno dei prodotti più interessanti, in ambito estremo, di tutto il 2011. Oscuri e affascinanti! (Francesco Scarci)

(Behemoth Productions)
Voto: 80

http://www.black-flame.net/

lunedì 9 gennaio 2012

Ecnephias - Inferno

#PER CHI AMA: Black Dark Gothic, Rotting Christ, primi Death SS
Non poteva mancare sulle pagine del Pozzo, il come back discografico degli Ecnephias, band lucana che seguo sin dal loro primo cd, che con questa nuova release, li vede tra l’altro, al loro esordio su Scarlet Records, brava nel sottrarli alla Code 666. Il digipack si presenta inquietante fin dalla lugubre copertina, dove una Madonna (deduco) lacrimante sangue giace su un letto, con in braccio un bimbo (Gesù Cristo?). Poche note di pianoforte introducono “Naasseni” e poi ecco esplodere l’urlo di “A Satana”, dove a colpirmi immediatamente, è la forte connessione musicale con gli ultimi Paradise Lost, con un bel riff di base avvolto da orientaleggianti melodie create dalle tastiere di Sicarius e con il buon Mancan ad alternare il suo growling ad una voce non del tutto pulita, passando tra l’altro con estrema disinvoltura dall’inglese all’italiano (da sottolineare che il ritornello peschi dall’”Inno a Satana” di Giosuè Carducci). La parte finale è poi da stropicciarsi gli occhi, cosi come la successiva “A Stealthy Hand of an Occult Ghost”, dove i nostri riprendono il loro vecchio amore per i Rotting Christ, contaminato però da una verve cibernetica tipica dei The Kovenant, per abbandonarsi ancora una volta ad una chiusura da brividi, affidato ad un basso slappato e a delle fantastiche melodie. Sono entusiasta nel sentire che la band non si sia persa per strada, nonostante i molteplici cambi di line-up, ma abbia anzi continuato la propria evoluzione sonora, sfoderando un’altra prova degna di nota, che spero non lascerete passare inosservata. “Buried in the Dark Abyss” apre con un’altra strofa in italiano (sinceramente, le parti che adoro e che conferiscono quel quid in più alla proposta dei nostri) e poi grandi come sempre a creare atmosfere orrorifiche in stile primi Death SS, grazie a fantastiche keys, intelligenti chitarre, brillanti cavalcate gravide di malinconiche melodie e grazie soprattutto alla voce di Mancan, sempre carica di teatralità, che lo elevano a mio avviso, tra i migliori cantanti in circolazione oggi, grazie al suo spiccato eclettismo. Il disco procede con un altro pezzo interessante, “Fiercer than any Fear”, che dimostra nuovamente quanto i refrain in italiano siano più facili da essere memorizzati e cosi eccomi cantare “Oh Dio del Male della Sorte”. La malinconica “Voices of Dead Souls” (una sorta di semiballad, una bestemmia lo so, perdonatemi ragazzi), rappresenta un altro esempio di quanto i nostri abbiamo enfatizzato maggiormente l’utilizzo della nostra madre lingua a livello di liriche, emerga una spiccata ecletticità nei brani, sempre estremamente vari; ciò che mi esalta rispetto ai passati lavori è, a parte una eccellente cura negli arrangiamenti, anche la componente tecnica del quartetto, talvolta straripante e che esula completamente dal contesto estremo. La fiamma nera brucia ancora nei solchi di questo “Inferno” e non solo per ciò che concerne il titolo: l’anima black continua a permeare di una cupa atmosfera questo magnifico lavoro, che sicuramente ha il pregio di aprire la musica dei nostri a frange decisamente meno estreme del black ma che allo stesso tempo, corre forse il rischio di perdere gli amanti di sonorità più old school. Tuttavia chi segue la band sin dagli esordi, è abituato alle sonorità accattivanti dell’ensemble italico (splendida a tal proposito la sezione ritmica di “In my Black Church” con un profondo basso, quei delicati tocchi di pianoforte, e un sound grondante un groove pazzesco) o alle trovate geniali di Mancan e soci. “Lamia” chiude infine il cd e ancora una volta rimango stupefatto dalla epicità di un brano che starebbe bene nel “Notre Dame de Paris” di Cocciante (va bene, ora ho forse esagerato, ma non vogliatemi male ragazzi, non vuole essere un insulto, ma anzi vorrebbe esaltare il lavoro egregio svolto, che si completa con una bombastica produzione). A chiudere la versione digi ci pensa la bonus track “Chiesa Nera”, che non è altro che la versione in italiano di “In my Black Church”. Che dire ancora? Lasciarsi scappare questo lavoro, sarebbe una delirante follia. Da avere ad ogni costo! (Francesco Scarci)

(Scarlet Records)
Voto: 85

Enid - Seelenspiegel

#PER CHI AMA: Black Epic, Summoning
Gli Enid, fondati da Martin Wiese e Florian Dammasch, muovono i primi passi nel 1997 e inizialmente si pongono come unico intento quello di proporre uno stile musicale del tutto simile agli austriaci Summoning. La band, grazie ai due album usciti per la label australiana CCP ("Nachtgedanken" e "Abschiedsreigen"), comincia gradualmente a sviluppare un suono più personale ed è con questo terzo lavoro "Seelenspiegel" che l'identità della formazione tedesca appare maggiormente definita. Lo stile del quartetto di musicisti (che qui si avvale di un quinto elemento alla batteria, ossia Moritz Neuner degli Abigor) può essere definito come un metal dalle forti connotazioni epiche, in cui le parti aggressive toccano l'asprezza del black metal e vengono alternate a momenti più rallentati e sognanti, caratterizzati dall'uso di una voce pulita e da cori dal sapore folk. Una proposta non molto originale ma che, ad ogni modo, risulta apprezzabile per la cura negli arrangiamenti e per l'interpretazione vocale di Martin Wise che sa essere sempre impeccabile e melodiosa nelle parti pulite. Meno convincente è invece la prova nel cantato black che, a mio parere, si rivela incerto e tutto sommato superfluo. 'Seelenspiegel' è un album che pecca di qualche ingenuità ma che risulta comunque piacevole. Consigliato agli amanti delle sonorità epiche e fiabesche. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70
 

Lunar Portals of the Astral Mirror - Незыблемая власть тоски

#PER CHI AMA: Funeral Doom
…e a volte ritorni alle origini, rendendoti pienamente conto del perché certe melodie sono definite ‘spirituali’, della capacità che hanno nell’evocare nel tuo subconscio energie contrastanti e infinite. Come posso non spingermi in riflessioni filosofiche quando sono davanti a questo tipo di eccellenza musicale? Questo non è “un album”, questo è “l’album” per definizione di come dovrebbe essere un depressive-funeral doom. Dovrà entrare per forza di cose negli annali di storia del genere. Non può essere altrimenti. Signori, abbiamo tre singole tracce (di lunghezza variabile) che racchiudono in esse lo spirito di un’inquietudine talmente profonda da non poter essere espressa a parole. Mantenendoci sul piano puramente musicale si evidenzia un uso sistematico di riff tradizionali slow doom, un uso spasmodico dei piatti (non in senso di oppressione, ma di onnipresenza), pesanti corde di chitarre che creano l’atmosfera per le melodie delle tastiere, e il basso (non ci credo ancora) che si espone in desolati assoli. Un suono potente ma non pressante. Passaggi di melodie che trasportano in universi distanti, in antri dimenticati pervasi da un senso di disperata impotenza. Non vi è ostilità in queste note. Ed è bellissimo. Ecco la musica che prende il ruolo di Madre, che incarna il Bene e il Male allo stesso tempo, che sprigiona una forte volontà di riemergere dagli abissi ma che resta salda nella consapevolezza di essere in un guscio protettivo, mentre si dimora nelle tenebre. E quando senti l’armonia che pervade il tuo spirito ti rendi conto che in tutto il disordine è solo la piccola, debole melodia di una tastiera che apre le porte della speranza… come un’anima, sola, che agogna al termine del samsara in quest’epoca di oscura decadenza. Non ve lo scorderete. (Damiano Benato)

(NitroAtmosfericum Records)
Voto: 90

domenica 8 gennaio 2012

Serment d’Allégeance - Serment I & II


#PER CHI AMA: Dark-Ambient
Opera musicale dai forti tratti magico-cabalistici per il factotum celato dietro Serment, un essere mistico che si autodefinisce “La Masque d’Ames”, lasciando intendere all’ascoltatore molto più di quello che può essere un nome. One-man band proveniente dai merovingi territori al di là dei Pirenei, essenza dolce di un genere ancora poco frequentato nei nostri lidi e adatto (anzi, drasticamente consigliato) ad una fruizione esclusivamente personale. Musica composta da e per un singolo soggetto, magia teatrale senza attori né recitazione, excursus di gran classe attraverso adunate di occultisti. “Serment I” e “Serment II” sono da considerarsi come gemelli di un unico parto, creature generate per un fosco black-metal totalmente di stile ambient, dove pressanti tastiere incombono nichilistiche su melodie che hanno in sé qualcosa di terribilmente metafisico. Non aspettatevi andamenti eccessivamente lenti o riff melanconici spudoratamente depressive. “La Masque d’Ames” ci presenta un compendio magico di sublime capacità evocativa, un connubio di temi e suoni da affrontare con lo stesso rigore che potrebbe avere un cabalista. Il progetto rientra in uno studio che non lascia nulla al caso: entrambi gli album presentano nove tracce, suddivise rispettivamente a gruppi di tre (il numero perfetto triplicato) e identificate fin da subito come “Aesthetic Ambient Art”. Se per forza dobbiamo trovare un parallelo storico, questo di sicuro è Burzum. Badate però: siamo lontani dalla violenza sonora e graffiante di un black metal tradizionale o slow; ciò a cui mi riferisco è più il Burzum dei tempi recenti (e, dato che ci siamo, al Mortis degli inizi). Tastiere perduranti e pianoforte a corde; chitarre dai riff brevi, dai passaggi semplici ma perfetti; percussioni quasi assenti; effetti di suono che reinterpretano i rumori attraverso l’eco di sale sconosciute… Pensate a “Serment” come a un magnifico progetto dark-ambient con influenze black presenti a tratti, quasi totalmente strumentale. È opera occulta, certo, ma interpretata con una coerenza, una serietà e uno stile che non mi era mai capitato di affrontare. Più di una volta mi sono tornati alla memoria degli spezzoni di vecchie pellicole cinematografiche dall’inquietante reputazione: Rosemary’s Baby, Omen, la congrega di streghe in Suspiria, le orge mistiche di Eyes Wide Shut… “Serment” è l’opera ideale per una serata occulta… (Damiano Benato)

(Mort-Né Editions)
Voto: 80

Psycroptic - Ob(Servant)

#PER CHI AMA: Death/Mathcore, Heaven Shall Burn, Cryptopsy
Feroci! Questo è l’aggettivo che si può attribuire al quartetto australiano che con questo “Ob(Servant)” giunge al traguardo del quarto lavoro. Fondati nel 1999 dai fratelli Haley, con il nome di Disseminate, la band approda meritatamente alla Nuclear Blast, rilasciando questo energico cd, capace di miscelare sonorità brutal death a malsane influenze metalcore. Il risultato non è proprio originalissimo, visti i tempi che corrono, però si lascia ascoltare anche perché dal muro sonoro eretto dal combo, si riescono a scorgere influenze ben più intriganti, come quelle di The Dillinger Escape Plan o Meshuggah. Sappiate che la furia qui ha trovato casa, con ritmiche sempre estremamente tirate, che si inframmezzano a debordate psicotiche di scuola Dillinger e mathcore in generale. Violenti mitragliate attaccano l’ascoltatore da più parti, costringendolo all’angolo, finendo per metterlo Ko con cupi e dilatati rallentamenti degni della scuola Meshuggah. La band è sicuramente mostruosa dal profilo tecnico, peccato che la batteria suoni in modo un po’ troppo artificiale; rabbiose growling vocals (ma anche spietati screaming) si intrecciano poi a schizoidi e ultraveloci riffs di chitarra e assoli taglienti come rasoi. Credo che il cd pecchi però alla fine, non tanto per il genere proposto, ma per una quasi ossessiva ricerca di suoni articolati al limite del virtuoso che con questo genere magari hanno ben poco ha che fare: le vorticose scale di chitarra hanno infatti il solo effetto di ubriacare l’ascoltatore e niente più. “Ob(Servant)” avrebbe tanto da offrire, forse troppo, ma gli spunti talvolta scadono in eccessive ricerche di tecnicismi fini a se stessi. Selvaggi! (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)
Voto: 70
 

Wormfood - France

#PER CHI AMA: Avantgarde, Fleurety, Arcturus
La prima, e ce ne saranno tante, ve l’assicuro, delle molte stranezze in cui m’imbatto nell’ascoltare questo concept, è venir accolto da una voce che non canta. Assisterò invece ad una lezione di francese. Butto l’occhio sul Cd che ruota veloce nel lettore. Lo guardo. No, non appartiene alla serie del corso di lingua che mi hanno prestato, è proprio “France” dei Wormfood. Aspettate, ora che lo guardo bene, mio Dio sta cambiando aspetto! È diventato un disco flessibile rovente e diamantato che sta smerigliando l’ultimo dettaglio di “Sfera dentro sfera” di Arnaldo Pomodoro: sono investito dalle scintille. Noooo, è cambiato ancora! Adesso è diventato la ciambella glassata rosa pralinata dei Simpsons. Ne vedo cadere a pioggia dal cielo. Ma torniamo a noi: avete mai assaggiato una di quelle caramelle “tuttigusti più uno”, quelle che compra Harry Potter sull’Hogwarts Express? Beh, io l’ho fatto. L’ultima volta che l’ho incontrato, perché siamo ottimi amici, sapete, ne ha offerta una a me e un’altra ad Hermione. Anche in quell’occasione ho ravvisato lo stesso stupore. Questo per darvi un’idea della varietà musicale che caratterizza questa release e di come questa band mi abbia impressionato. Positivamente. Si perché questo è uno di quei casi in cui è sbagliato etichettare la band con “un genere”. Mi trovo piuttosto a passeggiare in una galleria che espone opere d’arte delle più divergenti e disparate correnti musicali: dal doom, thrash, french variety, death, gothic, punk, pop, classic, al baroque, com’è precisamente indicato sul foglietto informativo posto sul retro del disco. Mi chiedo a questo punto se non ci siano controindicazioni. Non ce ne sono di indicate, ma fatevene voi un’idea dopo che avrete finito di leggere queste mie righe. Torno ad ascoltare quella voce, (ah si, il titolo della song è “Lecon de Francais/French Lesson”) dice che mi trovo sulle strade di Parigi. Vengo quindi gettato a capofitto, come risucchiato da un buco nero, in questo onirico viaggio nella perversità francese, nella metropoli parigina per la precisione, dalla voce di un barbone, si proprio un barbone. Ha una voce gutturale, lo sento prima vomitare, sputare per terra poi, ed inveire contro non so chi, non so perché. La sua voce rivela senza alcun dubbio che è completamente ubriaco: a conferma di ciò, il trillare della bottiglia vuota che evidentemente si è appena scolato e che rotola per terra, che gratta sull’asfalto, urtata di sicuro da uno dei suoi passi nel suo incedere incerto. Osservo attorno a lui un và e vieni di auto, un traffico vero e proprio. E lo sento anche, non sto scherzando. Lì vicino passa anche un treno, d’altronde siamo nel bel mezzo di una grande metropoli, Parigi appunto, eppure in un posto del genere, che dovrebbe straripare di gente, avverto la sua solitudine, non c’è anima viva, è completamente solo. Poi un colpo. Secco. Oddio è stato travolto dal convoglio in arrivo. Vedo il suo corpo martoriato rotolare, credo senza vita, in prossimità dei binari. Nessuno lo ha visto, né tantomeno se né accorto. Da vivo esisteva di per sé ma non esisteva per nessuno. Adesso che è morto, poi, almeno credo, non è cambiato, nella sostanza, nulla. La seconda traccia è una canzone vera e propria, “Bum Fight” s’intitola. Parte lenta, con solo chitarra e batteria. Lunghe pause e poi un assolo heavy metal seguito da un growl rabbioso, come se a cantarlo fosse proprio quel barbone: ma allora ancora non è morto... Eh no! Ecco di nuovo le sue invettive. Un rullo in quarti ben scandito ne accompagna la voce che si fa pulita. La traccia continua tra battiti di mani e una fisarmonica prende il sopravvento. Torna la voce ancora growl, la canzone rallenta un’altra volta, stop alle telefonate, e non solo: anche alla voce, si, perché passa un’ambulanza, sento la sirena. Si ritorna quindi a cantare, incazzati neri, ad urlare fino a ferirsi le corde vocali. La traccia si conclude con lo scricchiolio come quello emesso dalla punta del braccio meccanico di un giradischi nella pausa tra una canzone e l’altra. E siamo solo all’inizio. Segue “Ecce Homo”: una folla acclama qualcuno. Squillano addirittura le trombe. E poi una voce intona “…Les Sodomie!” a cui si accodano dei diabolici grugniti che sembrano quelli di un demone, delle frustate con applausi al seguito, il tutto dura poco meno di un minuto, ma mi ha lasciato così, con la mia faccia a sembrare “L’urlo di Munch”. Era quindi l’intro per la successiva “TEGBM (Fantaisie Galante du Grand Siècle)” che parte tra violente scariche di chitarre distorte e un drumming molto pesante. Veloci colpi di charleston aperto introducono un organo e la voce tituba tra il growling e un pulito a tratti. Ancora una volta, gente che ride di gusto, che commenta. Segue una frase in francese che non comprendo, sono sincero, introduce qualcosa che ha a che fare con niente poco di meno che Jean Baptiste Moliere. Riparte il growl, una fantasia di tastiera talvolta solista, accompagna distorsioni di chitarra e un’incipiente batteria. Segue “Daguerréotype”, altro breve inframezzo che mi fa pensare, per i cori femminili, alle vecchie fiabe per bambini e che introduce la successiva “Miroir de Chair”. La song parte incazzata poi s’incupisce; un sonaglio introduce qualcuno che piange, nel silenzio. La voce si fa parlata ma tremante, tristissima, accompagnata da una sapiente tastiera e poi risfocia ancora una volta nel growling, tra gli eterei cori femminili. Il grugnito di un elefante e poi una musichetta a mo’ di circo con tanto di banditore. Che storia, non mi sono mai imbattuto in niente di simile prima d’ora. Altro breve intermezzo con “Comptine”, che stavolta ci propone un motivetto fischiettato. A questo punto sto ridendo di gusto da solo, proprio non me l’aspettavo. Segue l’incazzosa “Vieux Pèdophile” che descrive il decadimento umano nella versione forse più atroce e cattiva, quella della pedofilia, che ci viene proposta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta. La successiva “Dark Mummy Cat” parte con una litania cantata che mi rammenta l’Islam. Anche questa come le altre è sicuramente da ascoltare. Come le precedenti, intercala tra le note le sue chicche. Questo filo di perle si conclude con le successive “Omega = Phi” e “Love at Last”. In definitiva, quindi, l’immagine che mi resta dopo l’ascolto di “France”, è quella di un diamante che sfaccettatura dopo sfaccettatura, song dopo song, brilla sempre di più. Ogni singolo pezzo ha qualcosa da raccontarmi, ogni racconto non è mai banale, non c’è qualcosa che non mi abbia stupito. Una pietra preziosa che merita di essere incastonata nella più meravigliosa delle parure regali. (Rudi Remelli)

(Code 666)
Voto: 90