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sabato 17 settembre 2011

xARKANEx - Arcane Elitism

#PER CHI AMA: Neoclassic, Ambient, Dark
xARKANEx è il progetto solista di Pantelis, un musicista già noto nell'ambiente neofolk per la sua militanza nel gruppo greco Daemonia Nymphe, il cui album di debutto "The Bacchic Dance of Nymphs" uscì nel 1998 per l'etichetta tedesca Solstitium Records. Mentre i Daemonia Nymphe esplorano il lato più tradizionale della musica ellenica facendo uso di fedeli riproduzioni degli antichi strumenti greci, xARKANEx sembra invece voler seguire un percorso più intimista e meditativo attraverso una cupa dark ambient dalle venature neoclassiche. Nell'animo di Pantelis (che qui si fa chiamare xIkonx) permane comunque sempre vivo l'interesse per il misterioso passato della sua terra d'origine e tale passione risulta più che mai evidente in "Arcane Elitism", un lavoro completamente incentrato sui culti dimenticati della mitologia greca. Non v'è dubbio che come opera concettuale l'album si presenti invitante e che la sobria ed elegante confezione simil-DVD che racchiude il disco faccia subito gola, ma è anche vero che basta qualche minuto d'ascolto perché tutta la pochezza musicale del cd venga smascherata, facendo crollare miseramente ogni entusiasmo iniziale. Inutile andare per il sottile, "Arcane Elitism" è un album che appare deludente sotto molti punti di vista: innanzitutto, tra i diversi momenti di uno stesso brano manca spesso quella soluzione di continuità capace di rendere scorrevole l'ascolto e l'ovvia conseguenza di quest'aspetto è un fastidioso andamento a singhiozzo, un susseguirsi scostante di atmosfere che paiono legare poco l'una con l'altra. Se questa è l'impressione che brani come "Vacchia" e "Dryades of Selene" trasmettono, altri episodi evidenziano invece una maggior coerenza, ma a questo punto sono la disarmante banalità delle partiture e la scarsa ispirazione di xIkonx a lasciare con l'amaro in bocca. Fermo restando che xARKANEx si trova ancora molto distante dalla classe compositiva degli artisti di "scuola" Cold Meat Industry, alcuni punti di riferimento possono comunque ricercarsi tra i Puissance più neoclassici, oppure tra le ambientazioni sinfoniche di The Protagonist (si notino ad esempio i campionamenti d'archi in 'Mesmerism of the Temptresses' Sirens'). Ancora una volta, però, le emozioni che "Arcane Elitism" concede sono veramente poche perché il paragone possa reggere fino in fondo. In sintesi, un lungo sbadiglio di 37 minuti... nient'altro da aggiungere. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 45 
 

venerdì 16 settembre 2011

Lamb of God - Wrath

#PER CHI AMA: Thrash, Metalcore, Pantera
Dopo il mezzo passo falso di “Sacrament”, i grandi Lamb of God erano attesi con il loro sesto album, “Wrath” a rispondere alle critiche ricevute in passato. Il lavoro fortunatamente ci riconsegna una band in un più che buono stato di forma che di sicuro pare essere più ispirata che in passato. Abbandonata la monoliticità che li contraddistingueva nelle vecchie produzioni, questo cd ci regala 11 tracce di velenoso e furioso death thrash, che strizza l’occhiolino anche al metalcore, ma che va a decisamente a pescare dal thrash dei primi anni ’90. Le songs si susseguono granitiche fin dall’iniziale “In Your Words” (tralasciando l’arpeggiata intro di 2 minuti) che apre con quel suo riff stoppato, su una batteria forse un po’ troppo “plastificata” e con la voce del buon vecchio Randy ad alternarsi tra il growling e una voce più “sporca” in pieno stile Soilwork. Grande inizio che mi fa ben sperare per il resto del cd: aperture melodiche, chitarre graffianti e ottime vocals confermano lo stato di grazia dei nostri. La furia si abbatte più violentemente con la successiva “Set to Fail”, toccando il suo apice di devastazione con “Contractor”, cavalcata in pieno stile Pantera, interrotta nel bel mezzo da un breve attimo di sonnolenza catartica dei nostri, prima di riesplodere nella più belluina distruzione. I successivi brani proseguono sulla falsariga dei primi quattro pezzi, mostrando ancora una volta una band in grado di rimettersi in gioco, capace di sperimentare nuove soluzioni musicali, sfoderando una prova tecnica come sempre ineccepibile, regalandoci ottimi cori, un potente massacro a livello ritmico, qualche raro ma buon assolo, stop’n go a profusione (di scuola Meshuggah) e qualche scream tipico dell’hardcore, retaggio delle vecchie origini della band di Richmond, che da ormai più di vent’anni calca la scena mondiale. Le onde del mare della conclusiva “Reclamation”, il suo intro acustico e la nervosa ritmica costituiscono la summa di un album che finalmente ci restituisce una band che sembra essere tornata agli albori della propria gioventù, nel culmine della propria carriera. Grande ritorno per i veri degni eredi dei Pantera! (Francesco Scarci)

(Roadrunner Records)
Voto: 75

Sieghetnar - Endlösung

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
La Kunsthauch Production si sta rivelando sempre più un’ottima etichetta, dalle scelte estremamente oculate anche se costantemente indirizzate al mondo dell’underground più profondo. Ci addentriamo oggi nel fitto sottobosco germanico andando a scovare la creatura misteriosa dei Sieghetnar, capitanata dal folletto Thorkraft, che ripropone per la label russa, il demo del 2008, intitolato “Endlösung” (che insieme al debut album “Verfallen & Verendet”, sono le uniche opere della band a contenere parti cantate). Si tratta di cinque capitoli raggruppati in un’unica song di 29 minuti di musica ambient nel suo incipit di otto minuti, cosi come il buon vecchio Count Grishnackh, insegnò ai suoi discepoli nel lontano 1992, con il pezzo “Tomhet”, estratto da “Hvis Lyset Tar Oss”. Sto ovviamente parlando dei Burzum, per chi non lo avesse capito, e proprio traendo spunto dalla band norvegese e dalla tradizione nordica in genere, la one man band tedesca prosegue il proprio cammino, proponendo successivamente delle parti acustiche che per un po’ mi lasciano intendere che il cd non troverà mai uno sfogo eclatante nella sua proposta. Non faccio in tempo a terminare questo pensiero, che l’album esplode nel bestiale screaming di Thorkraft, che tra guaiti in stile Varg Vikernes e cleaning vocals, vomita tutto il proprio odio nei confronti nel mondo e dell’umanità, su una base estremamente atmosferica, con chitarre in grado di condurci alla disperazione più totale. Terminata la fase suicidal depressive, l’act tedesco si abbandona nei suoi conclusivi nove minuti ad altri vaneggiamenti ambient, contrappunti cibernetici e qualche sample elettronico. Francamente non sono un amante delle sonorità ambient, tuttavia una durata assolutamente non eccessiva della release, spezzata dal black crepuscolare nella sua parte intermedia, mi ha fatto apprezzare non poco “Endlösung”. Certo, non sarà l’album che metterò in auto la mattina per andare a lavoro, però in qualche serata particolarmente malinconica, questo lavoro sarà in grado di darmi il colpo di grazia definitivo. Plauso finale per le immagini in chiaro scuro della cover cd e del booklet interno. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

domenica 11 settembre 2011

Hate in Flesh - Wandering Through Despair

#PER CHI AMA: Modern Death Metal, Carcass
Quando penso al Portogallo, penso ad una terra misteriosa e piena di fascino esoterico. Non posso non pensare anche agli esordi meravigliosi dei Moonspell e cosi quando mi ritrovo sulla scrivania un nuovo lavoro proveniente dalla terra lusitana, confido di trovarci sempre qualcosa di unico e speciale. Il cd in questione è di una giovane band, gli Hate in Flesh, che a distanza di 2 anni dalla loro formazione, ci consegnano un album già maturo, come se fosse stato concepito da un gruppo di veterani della musica metal. Chiaro che “Wandering Through Despair” non si presenta come un capolavoro, ma non può certo passare inosservato perché fin dalla prima traccia, mi ritrovo imbrigliato nel sound corposo, moderno, schiacciasassi e melodico al tempo stesso, della band di Lisbona. Fin dalla prima title track, il quintetto ci fa assaggiare il proprio entusiastico sound, fatto di ritmiche pesanti (meraviglioso il battito sulle pelli di Euler), arricchito da una sezione solistica pazzesca che dà un surplus notevole al risultato finale, con le linee melodiche che, intrecciandosi, si stampano immediatamente nelle mie orecchie. La successiva “Rebirth of Rotten Souls” ha un mood più tipicamente death, senza alcun riffing particolare che possa attirare la mia attenzione: si pesta con intelligenza, sulla falsariga dei Carcass di “Heartwork”. Anche le vocals, se vogliamo, ripercorrono quanto fatto dalla mitica band di Liverpool. L’act continua ad aggredire selvaggiamente anche con la successiva “Grinder Machine” (un nome, un programma) e l’influenza di Bill Steer e soci si fa più palese, con una vena death progressive che emerge prepotentemente dalle note dell’ensemble portoghese, lasciando comunque la componente selvaggiamente death metal come elemento portante. Sono un po’ disorientato: se dalla prima traccia sembrava che i nostri proponessero una sorta di swedish death melodico, il tiro si è immediatamente spostato verso lidi prettamente death, non che sia un dramma per carità, ma sinceramente li preferivo nella prima versione, perché sembrava che potessero incarnare un qualcosa che andò perso a metà anni ’90 con una delle band più sottovalutate del pianeta, i Sarcasm. Non mi lamento però: gli Hate in Flesh hanno la perfetta padronanza dei propri mezzi e sorretti peraltro da un’ottima potente produzione, ci sparano “My Last War”, seguita subitamente da “Hate Me”, che costituiscono un bel duo di brani, capaci di scuotere ancora il mio intelletto, con le sue ritmiche impeccabili, e una discreta dose di melodia. Sebbene pensassi fin di trovare un bel po’ di melodia in questa release, ho dovuto ricredermi, perché la proposta dei nostri è fatta di un bel death metal, un death però a passo con i tempi che sarà in grado di conquistarvi pian piano, cosi come è stato con il sottoscritto. Basterà infilare il cd nel lettore della vostra auto e iniziare a pestare l’acceleratore sul ritmo di “Lost” e tutto il resto sarà noia… Bella sorpresa! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

sabato 10 settembre 2011

Cult of Vampyrism - Fenomelogia

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La fenomenologia è una disciplina fondata da Edmund Husserl (1859 - 1938), che ha avuto una profonda influenza sull'Esistenzialismo in Germania e Francia, ma anche sulle scienze cognitive odierne e nella filosofia analitica. “Fenomelogia” è anche il titolo del debut album del giovane progetto Cult of Vampyrism, che vede fondere le idee musicali drone-doom di Trismegisto con quelle della violista Kerres, in un lavoro che “utilizza metaforicamente l’immagine del vampirismo inteso come oppressione, asfissia, abuso che il mondo moderno opera giorno dopo giorno, ora dopo ora sugli esseri umani”, cosi come citato nel flyer informativo della band. E quale modo migliore di promulgare questa asfissia con un prodotto che fa del soffocante doom la sua voce? Aperto dai suoni quanto mai occulti di “On the Edge of the Abyss”, si prosegue con le sonorità doom-esoteriche di “My Deamon”. La terza traccia vede la band presentarsi con sonorità un po’ più classiche, con un musicalità che fa del death-doom mid tempo il suo punto di forza, da contraltare a delle arsh vocals malefiche. Forse un po’ troppo penalizzati da una produzione non certo all’altezza, i Cult of Vampyrism, provano a sollevarsi dalla massa con qualche inserto dal vago richiamo horror come i vecchi Goblin insegnano. Certo non siamo di fronte a nulla di originale o quanto mai trascendentale, ma di questi tempi come ben sapete, è ormai cosa assai rara, tuttavia, un pizzico di originalità nelle sette tracce è avvertibile, con questa coacervo di stili, un death black doom fuso da rituali oscuri, terrificanti, angoscianti, come accade palesemente nell’inquietante “The Gift”. Caratteristica di fondo di questo album è una certa ridondanza nelle soluzioni musicali a mo’ di litania, che forse hanno lo scopo di accentuare ancor maggiormente l’effetto infernale di questa release, ma che d’altro canto può avere il difetto di rendere di difficile approccio l’ascolto di un cd monolitico come questo. Interessante per gli innesti di viola anche “The Chant of the Owl”, anche se ancora manca quel pizzico di dinamicità in più per rendere il risultato finale appetibile a una fetta più allargata di pubblico. Magari questo non sarà l’intento finale di Trismegisto e compagni, relegando i Cult of Vampyrism a semplice progetto underground, tuttavia con qualche piccolo accorgimento addizionale, un po’ più gente potrebbe avvicinarsi al teatrino horrorifico di questa neonata band italica. Ultime note per “The Prisoner” dove alla voce compare Lord Lokhraed dei francesi Nocturnal Depression e per “XVII Februarius MDC”, giorno in cui Giordano Bruno fu messo al rogo per le sua presunta eresia, song che suggella il desiderio dei nostri di mettere in scena la loro musica con un coro di voci che condanna a morte il frate domenicano, in una atmosfera dai connotati totalmente drone. Per pochi, decisamente non per tutti… (Francesco Scarci)

(Mercy Despise)
Voto: 70
 

Ankhagram - Where Are You Now

#PER CHI AMA: Funeral Death Doom, Shape of Despair
Russia, Russia, prepotentemente Russia, a conferma che da quelle parti c’è una scena fiorente più che mai, con una serie di etichette che puntano senza timore su giovani band, molto spesso di grande valore. Ecco arrivare quindi da quelle lande misteriose un “nuovo” (questo è il loro quarto cd) act a sorprendermi, con un sound oscuro, morboso, avvinghiante e malato. Sarà il gelo dell’inverno di Ekaterinburg, ma la one man band guidata da Dead, si conferma molto ispirata nelle 6 lunghe tracce, con un funeral death doom, che ricalca gli insegnamenti di Shape of Despair in testa, ma che poi “sporca” i propri suoni con aperture melodiche quasi shoegaze, a dimostrare l’intelligenza maturata dalla band nei suoi sei anni di esistenza. Tenebrosa la opening track, con i suoi undici minuti spaccati che si chiudono con un lungo assolo di piano, che apre anche la successiva “The Mistress” capace di generare prolungati brividi lungo la mia schiena con quel suo incedere quanto mai suadente, mantenendosi costantemente ancorato alle sonorità estreme solo grazie alla voce growling di Dead. Ho come l’impressione che se solo cambiasse registro vocale, la proposta degli Ankhagram potrebbe aprirsi a masse notevoli di pubblico; questo non sta a significare che la proposta del gruppo russo sia commerciale, ma vi garantisco che non si può non rimanere folgorati dai suoni messi in scena dal buon Dead, capace di coniugare suoni deprimenti ma allo stesso tempo ariosi, freschi, malinconici, emozionanti e potrei aggiungere altri mille aggettivi per cercare di farvi capire che non ci si deve per forza soffermare sull’etichetta funeral o death perché questo è un lavoro di cui mi sento di poter consigliarne un ascolto a tutti, a tutti quelli che hanno voglia di aprire i propri confini mentali, a chi ha voglia di emozionarsi, a chi come me avrebbe il desiderio di abbandonarsi in un sonno senza fine, la cui colonna sonora potrebbe certamente essere quella degli Arkhagram. Quando ancora sono immerso nei fumi inebrianti di “The Mistress”, parte “Trees of Feelings” con i sui dieci minuti e passa di musica per lo più strumentale, come se Dead avesse carpito il mio desiderio di sentirlo meno vomitare in quel microfono, e avesse realizzato che forse un sussurro può essere molto meglio che un growling profondo. La formula non cambia anche con le seguenti “Shade You” e “K.O.D.”, dove le parti atmosferiche costituiscono buona parte dei loro 18 minuti complessivi e dove le tastiere acquisiscono un ruolo di assoluta rilevanza nell’economia dei brani. Citazione conclusiva per l’ultima “Kids”, cover dei (per me sconosciuti) MGMT, ma che comunque ben si amalgama con la proposta degli Ankhagram, band che da oggi in poi inizierò a seguire con estrema dedizione e curiosità, in attesa di scoprire se il prossimo album possa realmente essere quel capolavoro che ipotizzo possa celarsi nella mente di Dead. Meritevoli della vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Silent Time Noise Records) 
Voto: 80
 

Bloodwork - The Final End Principle

# PER CHI ASCOLTA: Death/Thrash, Soilwork, Hatesphere
E anche la Germania può sfoderare la propria band capace di miscelare il death/thrash con l’hardcore e le melodie heavy metal: signori e signore vi presento i Bloodwork, act più famoso per la sua partecipazione ai grandi tour estivi come Wacken Open Air 2008 e Summerbreeze Festival, che per la propria proposta musicale, di certo non delle più originali. Eh si perché il quintetto di Paderborn, ci propina 13 brani di un moderno death melodico, sulla scia dei vari Soilwork, Killswitch Engage o Scar Symmetry, che potrebbe essere tranquillamente recensito utilizzando poche parole e abbastanza scontate, senza per questo disdegnare la musica dei nostri. Il sound come detto, si avvicina molto a quello tipico death/thrash svedese, con i chitarroni che macinano riffs su riffs e con le vocals che si alternano tra il growl e il pulito, quest’ultimo molto molto ruffiano (a tratti fastidioso). Completano il quadro di “The Final End Principle”, aperture melodiche che richiamano l’heavy classico (Iron Maiden per capirci) dei primi anni ’80, ottimi assoli che denotano un’eccellente preparazione tecnica dei nostri e comunque uno spiccato gusto per la melodia. Per quanto sia stato indicato da più parti come uno dei dischi rivelazione del 2009, o come migliore band emergente, sinceramente non me la sento di decantare una band che di originale ha ben poco nel proprio DNA. Per carità sono bravi, preparati e piacevoli da ascoltare, ma niente di più, alla fine è il solito disco già sentito in migliaia di salse differenti… (Francesco Scarci)

(Dockyard1)
Voto: 70

venerdì 9 settembre 2011

Helheim - Heiðindómr ok Mótgangr

#PER CHI AMA: Black Metal, Pagan, Enslaved, Helrunar
Talvolta sono sufficienti le primissime battute per riconoscere un album di valore. Un sound trascinante e ben prodotto, una voce decisa, stacchi melodici indovinati, repentini cambi di registro che aiutano ad un evolversi mai scontato dei brani. Questi sono gli elementi che affiorano già dopo pochi minuti dall’ascolto di "Heiðindómr ok Mótgangr", che per i norvegesi Helheim rappresenta l’ammirevole approdo al settimo lavoro in studio, dopo un lungo tragitto musicale intrapreso nel 1995 e da sempre solcato seguendo rotte poco più che underground. Gli Helheim rimangono fedeli alla propria linea, perciò non si ravvisano sterzate stilistiche di alcuna sorta, tuttavia l’album possiede una freschezza che la produzione passata non aveva ancora conosciuto, ma che ad onor del vero si riusciva già ad intuire nell’ep anticipatore “Åsgårds Fall”, risalente al 2010. "Heiðindómr ok Mótgangr" parla di un risveglio pagano i cui antichi clangori riecheggiano nella nostra moderna società come un richiamo alla fierezza e all’onore, parla di un rifiuto verso ciò che è imposizione e omologazione ed il messaggio viene convogliato attraverso un suono più che mai battagliero. Se è vero che l’immaginario degli Helheim ha sempre ricondotto agli scenari della mitologia nordica, il termine “vichingo” non è comunque dei più appropriati per ben descrivere il reale contenuto musicale di quest’ultima fatica. I quattro norvegesi navigano invece sulle torbide acque del black metal ed è piuttosto la varietà delle soluzioni strumentali che aggiunge imponenza e solennità all’intero assieme. L’uso ad esempio dei timpani e del corno francese è un tocco di autentica originalità che non trova paragoni in nessun’altra band del calderone “epico”. I differenti registri vocali di V'ganðr e H'grimnir non fanno poi che intensificare il pathos di ogni brano, passando da momenti rabbiosi a delle parti di recitato più magniloquenti, il tutto rigorosamente cantato in lingua madre, come imponeva la tradizione black norvegese nella prima metà degli anni ‘90. A chiudere il cerchio le partiture soliste del nuovo chitarrista Noralf, la cui melodia si ispira ad un heavy-metal di chiara derivazione classica. Tra le perle di questo lavoro va sicuramente citata “Dualitet Og Ulver”, che risulta senza dubbio il brano più accattivante dell’intero lotto e che vede la partecipazione di Ulvhedin Høst dei Taake alle parti vocali, ma è d’obbligo fare menzione anche di “Viten Og Mot (Stolthet)”, monumentale nel suo incedere pesante e cadenzato. “Nauðr” ed “Element” si contraddistinguono infine per una vena compositiva ricca di contrasti, tra brutalità e atmosfere dall’ampio respiro melodico, che assieme disegnano paesaggi musicali affascinanti ed in continuo movimento. (Roberto Alba)

(Dark Essence Records)
Voto: 85

mercoledì 7 settembre 2011

All I Could Bleed - Burying the Past

#PER CHI AMA: Black Symph, Cyber Death, Modern Metal
“Essere o non essere, questo è il problema”… Questo il monologo di Amleto nell’opera omonima di Shakespeare, da cui deriva anche il mio di dilemma “mi piace o non mi piace questo cd”. Eh si perché questo lavoro fin dalle sue prime note, mi ha gettato addosso tale dubbio profondo. “Burying the Past“ si apre infatti in modo alquanto scontato con un death melodico, moderno, che strizza l’occhiolino ai famosi colleghi finlandesi, onnipresenti Children of Bodom, lasciandomi alquanto perplesso per la pochezza di idee proposte: chitarrine non troppo pesanti in “Private Hell”, abbondanza di tastiere, voci in versione screaming, mah, il tutto non mi convince poi tanto, anche se un break posto a metà brano mi fa rizzare immediatamente le orecchie e riacquisire l’interesse verso un cd che si stava dirigendo dritto dritto verso la stroncatura feroce. Non saremo di fronte a dei fenomeni o a dei geni della musica, ma i nostri amici russi lentamente sanno come prendermi e alla fine a conquistarmi. La title track finalmente irrompe nel mio stereo con delle chitarre un po’ più solide e potenti, con le keys a sostenere in modo poderoso il sound dei nostri, che inizia a prender una propria fisionomia, staccandosi dalla proposta dei Bodom e incanalandosi verso sonorità più votate al modern metal, con melodie intelligenti, intermezzi al limite del techno death, valanghe di inserti tastieristici a strizzare l’occhio anche ad un certo cyber metal; buoni i solos. Le keyboards aprono “Plague” e ancora una volta mi pongo il dubbio se il cd di questi All I Could Bleed in fondo riesce a conquistarmi oppure è solo un fuoco di paglia: non saprei, sono dibattuto, perché la song alterna momenti pallosi, triti e ritriti con altre aperture che denotano una certa personalità, ancora in stato embrionale per carità, ma quel solo di basso impazzito nel mezzo della canzone (ad opera di Ivan Stroev), quasi un tributo ai Death, mi fa sussultare dalla sedia, anche se poi il quartetto di Chelyabinsk, guidato dalle vocals malvagie della bellissima Psycheya, si mette ad inseguire improbabili percorsi black sinfonici, che compariranno anche più in là in altre tracce dell'album. Forse le idee non sono ancora ben chiare e lo si capisce con la successiva “Under the Moon”, dove compaiono clean vocals maschili su un improbabile tappeto heavy-folk, che nuovamente mi mette in crisi, ben presto superata dalla ripresa dei ritmi, mai troppo esasperati a livello di velocità, del quartetto russo. Insomma di carne al fuoco in queste nove tracce devo ammettere che ce n’è davvero molta, in quanto l’act est europeo non ha ancora ben deciso che genere musicale suonare, tuttavia, alla fine ad una conclusione sono giunto… il cd mi piace! Dategli un ascolto anche voi, meritano una chance! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto:65

martedì 6 settembre 2011

Algol - Gorgonus Aura

#PER CHI AMA: Black, primi Bathory, Emperor
Nel 2001 l'italiana Twelfth Planet fece uscire una serie di album interessanti, tra questi il primo full-length degli americani Algol, black metal combo di Millersburg che, dopo i due demo "Enshroud Us In Darkness" e "Forgotten Paths", debuttò con l'album "Gorgonus Aura". Il black suonato dal quintetto statunitense è caratterizzato da un mood particolarmente selvaggio che ricorda i primi Bathory, ma la violenza non è l'unica protagonista di questo "Gorgonus Aura" e i momenti più tirati vengono alternati a brevi stacchi di chitarra acustica e da tastiere mai troppo invadenti. Le keyboards non giocano un ruolo dominante ma completano in modo sapiente ogni brano, conferendogli un'atmosfera che definirei notturna. Colpiscono nel segno anche i guitar-solos di Dalkiel e Mictian, che aiutano a mediare con la melodia la barbaria di "Abscond" e "Murmurous Screams Of Repugnance". Alquanto tediosi invece gli undici minuti strumentali di "Exodus", che rischiano di far perdere l'interesse nell'ascolto... un intermezzo più breve avrebbe sicuramente giovato al risultato finale. (Roberto Alba)

(Twelfth Planet)
Voto: 65

Dead Return - Scars of Time

#PER CHI AMA: Hardcore/Metalcore
Il primo week end di settembre è perfetto per cominciare l’accolto di questo full lenght (il primo) dei 5 ragazzi di Bolzano: la intro è in perfetto mood con il primo assaggio di pioggia autunnale, un tuono, uno scroscio di pioggia fanno da sottofondo infatti al riff di apertura dell’album, accompagnato da un delicato giro di pianoforte. Subito dopo il quintetto apre le danze con un pezzo hardcore-punk al fulmicotone, corredato da una bella voce potente, molto metal, con un bel bridge e con cori in controcanto; il ritmo è incalzante e la canzone molto coinvolgente, mediamente lunga ma molto varia con passaggi per lo più metalcore, per poi tornare a bomba su velocità hardcore, stupenda la chiusura con un ritornello tutto da cantare. "Awakening", "Like a Snake" e "Devil’s Embrace" sono un bel trittico dove i nostri mettono in mostra tutto il loro repertorio: sfuriate hardcore ("Devil’s Embrace"), riffoni metal ("Like a Snake") e un gusto per i ritornelli in coro (su tutte "Awakening"): da brividi il “one reality” sul finire di "Devil Embrace": senza che te ne accorgi ti ritrovi a cantarlo con loro a squarciagola con buona pace dei vicini di casa. Con "Salvation" (e "A Last Good Bye"), le sonorità si fanno più intime e a tratti melodiche e il ritonello “this is my serenade/you are the one for me” forse ci fa capire il perché… Ma niente paura, "Lust for Blood" rimette tutto a posto ridandoci i suoni e le velocità che (speriamo per loro) renderanno famosi i Dead Return. "Engraved", la traccia che chiude l’album prima della struggente outro, è la più metal di tutto il lavoro, forse presagio di dove ci porteranno i ragazzi di Bolzano con il loro prossimo album. Nel complesso si tratta di un bel disco, una trentina di minuti da farsi tutti in un fiato, ben registrato, con suoni puliti che esaltano le abilità del gruppo. Nonostante con il loro genere sia facile finire in tormentose ripetizioni, il quintetto bolzanino confeziona un album energico e straripante, non per niente sono finiti al Rock Im Ring (non il rock am ring) del 2009, kermesse bolzanina che ha visto i Soulfly come gruppo di punta! In attesa di un loro futuro lavoro (sarebbe ora son passati due anni da questo "Scars of Time"), il mio voto conferma la bontà dell'ensemble! (Matteo del Fiacco)

(Graves Records)
Voto: 75 
 

PFH - Cronologica

#PER CHI AMA: Thrash/Nu Metal, Sepultura, Korn, Pyogenesis
Avevamo i Sepultura in casa e non ce ne siamo mai accorti, che peccato. Ah no, mi sbaglio e dire che dall’iniziale “Useless”, mi sembrava di avere fra le mani uno dei dischi della band brasiliana, del periodo in cui militavano i mitici fratelli Cavalera (periodo post “Arise”). I PFH (Painful Happiness) sono un quartetto abbastanza interessante proveniente da Padova, che di sicuro farà la gioia di chi ama il death thrash contaminato da suoni Nu Metal. Sette tracce più “Outro”, in grado di divertirci non poco con quel suo sound groovegiante, rabbioso quanto basta, ma comunque sempre ricco di melodia. La band patavina dimostra di saperci fare, anche se un po’ troppo spesso emergono forti le influenze del combo carioca, comunque niente paura, accanto al death di stampo sudamericano si collocano momenti più atmosferici o più orientati verso sonorità moderne mathcore, o altri più ragionati, dove la voce growl di Nico va a cantare in stile pulito con esiti niente male, a dire il vero. Si, mi piacciono questi ragazzi, perché sebbene non inventino nulla di nuovo, sono abili nel creare un sound che, pur pescando a piene mani dai nomi di grosso calibro della scena mondiale, riescono comunque a conferire all’intero prodotto una certa personalità. Le mie canzoni preferite? La “korniana” “Beat” e la quinta traccia omonima, che ricorda qualcosa degli ormai dimenticati Pyogenesis era “Twinaleblood”. Con una maggiore cura nei più piccoli dettagli, mi aspetto un futuro positivo per l’act italico. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

lunedì 5 settembre 2011

Amia Venera Landscape - The Long Procession - English

#FOR FANS OF: Math, Post-Hardcore, Isis, Neurosis, The Ocean
I thought the fire crackers of the new year’s Eve had reached their peak on the midnight of 1rst January 2011, but instead here I am, with a new CD in my stereo, to let myself be run down by the crackling mixture of post-hardcore, sludge and ambient of the very italian (and I say this with great pride) Amia Venera Landscape, a real lighting bolt in the calm sky of this beginning of this year. After the excellent test of the At the Soundawn, another amazing italian band is getting ready to compete head-high with the masters of the genre, if not to overcome them. I was impressed from the very beggining listening to this " Lunga Processione", primarily, by the very good quality of sounds, powerful, full-bodied, enveloping, that had me immediately conquered. How can I not mention the graphics, quite minimalist, but very intriguing, of the booklet, filled with lyrics and beautiful pictures. And then the music, which is after all the most important thing: I mentioned the fact that they play mostly post-hardcore, but let us not limit ourselves lightly by this label or by the stereotype that the word hardcore can raise, because inside the notes of "The Long Procession" is hidden poetry, anger, fury and unexpected tenderness, intrigue and mystery, all played with extreme passion, intelligence and unpredictability. The Venetian sextet opens the dance with the volcanic "Empire", condensed hardcore fierceness mixed with dark environments. I immediately remain thrilled in front of such great class and already I can not wait to hear the next song. "A New Aurora" is a wonderful song which, besides the ever present component of the brutal and scathing combo of Belluno, arises a breathtaking alternation of rhythms, stop'n go, post-rock atmospheres, with the voices (a growling angry and clean, with vocals of Klimt 1918 style) that cross each other,surround and play in an ascending climax that will reach its perfection at the end of more than 7 minutes of exciting and overwhelming music of this Amia Venera Landscape release, which I have already included among the best albums of 2010. A punch in the face suddenly knocks me down, but in reality it is "My Hands Will Burn First", then peace: I feel dizzy, my ears are buzzing, a hissing roaring penetrates my brain, but it is only the stunning gait of "Ascending", which perhaps has its defect in being a little too verbose. Other moments of sedating peace with"Glances (Part I)" (I would have avoided putting two purely ambient pieces one after the other) and here we have the second part of "Glances" exploding, where they are confirmed as a band of absolute value and technique, exquisite refinement and without doubt of great innovation and experimentation. Incorporated with the speed of light to the dictates of the genre (the band was founded in 2007) from the sacred monsters Cult of Luna, The Ocean and Dillinger Escape Plan, the Amia Venera Landscape has undertaken their own way with their own distinct and strong personality and that now the have released this explosive work. Let us not neglect to comment on the almost 14 minutes of "Marasmus", the most complex, articulated and particular song of these 10, enclosed in this gem. A relaxed beginning, strongly ambient, then thunderous explosion of guitars (there are 3 in formation) followed by fragments of melancholic post-rock, and then suddenly unleashed in my stereo speakers, crazy splinters of math to "disturb" my brain as only Dillinger know how to do. There is no trace of vocals in this schizoid song but it is better like this, you can enjoy it all in one breath and the long duration in minutes disappears in the blink of an eye. Not even a moment to enjoy a little peace and "Nicholas" erupts with its 8 minutes and goes to prove that the band is at ease in dealing with long lasting songs, denoting once again a maturity worthy of veterans. "Infinite Sunset Of The Sleepless Man" gives us time to recharge the batteries before the final "The Traitors' March" that confirms to me that a new Italian reality is ready and able to demolish the world with their sound, this new years. Majestic work! (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Self)
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