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venerdì 1 aprile 2011

Lifend - Devihate


In attesa di andare ad ascoltare il nuovo lavoro dei lombardi Lifend, andiamo a rivedere quanto fatto in passato: cambio di rotta importante rispetto al precedente lavoro “Innerscars”, “Devihate” è un cd pretenzioso, che non vuole assolutamente passare inosservato al grande pubblico. Il cd inizia in modo strepitoso con “Purify Me”, lasciando presagire quello che la musica di questa band, estremamente preparata, ha da offrire: un death metal dal forte impatto emotivo. Sebbene la proposta sia più violenta che in passato, il sound dei nostri si fa più curato nei dettagli, ben suonato e ricco di sfumature che vanno ben oltre il death metal. Diciamo che di sicuro la matrice di fondo resta il death, con le sue ritmiche aggressive, il corrosivo screaming di Alberto (per la cronaca è sparita la soave voce femminile di Sara) e i forti richiami allo swedish. Ciò che rende realmente interessante questa nuova release, sono appunto tutte quelle sfumature che ruotano intorno al sound di base del quartetto meneghino. Eh si, perché suoni progressive si intersecano a sfuriate deathcore, inserti gotici si incastrano perfettamente a raffinate cavalcate heavy metal e malinconici intermezzi acustici ci concedono giusto il tempo di rifiatare qua e là. Se dovessi trovare un termine di paragone per i nostri, vi porterei indietro nel tempo di una quindicina di anni, quando gli svedesi Miscreant rilasciarono il sorprendente “Dreaming Ice”, concentrato di raffinato swedish death dalle forti tinte progressive. E cosi sono i Lifend: chitarre ultra compresse che vengono spezzate nel loro incedere furioso da aperture acustiche e sprazzi di splendidi synth. Dicevo che quella dei Lifend è musica emozionante che nonostante la rabbia, arriva dritta al cuore per la sua compatta genuinità. E soprattutto non è mai musica banale: i suoni, le melodie che escono dai solchi di questa seconda opera sono assai ricercati, a tratti ricordano gli Opeth più aggressivi degli esordi, in certi frangenti si respira l’aggressività degli ultimi Dark Tranquillity e in altri momenti è una pesantezza un senso di angoscia ad emergere, stati emotivi che solo i Meshuggah sono in grado di trasmettere. Forti inoltre di una splendida produzione, curata da Carlo Bellotti, i Lifend sorprendono non poco per la maturità compositiva che hanno saputo raggiungere in cosi poco tempo, sembrando dei veri e propri veterani della scena. Un solo avvertimento va dato però prima di avvicinarsi a questo disco: non pensate che sia semplice dargli un ascolto e farselo piacere immediatamente; ho dovuto ricorrere al sesto replay prima di capire che quello che ho fra le mani è una bomba dalle potenzialità enormi. Bravissimi!!! (Francesco Scarci)

(Worm Hole Death)
Voto: 80

Onsetcold - Onsetcold


Beh, dopo aver ascoltato almeno un paio di volte questo cd, non mi è ancora chiaro se i nostri suonano black, death, metalcore o cos’altro. È infatti per questo che ho definito il loro sound extreme metal perché è difficile riuscire ad inserire la musica del combo albionico in un genere ben definito. Il cd si apre infatti con “Life Without Numbers”, una death metal song che sembra essere suonata nella vena sinfonica dei Dimmu Borgir. Si prosegue e si viene martellati e sorpresi dal death/grind di “No Sun No Life”, brano veramente interessante per quel suo incedere angosciante (merito delle tastiere eccellenti di Farley) ma allo stesso tempo iper brutale. E via, il quintetto inglese continua in una carambola di alternarsi di parti aggressive, ultra tecniche (bellissime alcune parti di basso e mostruosa la prova del batterista), talvolta (ma raramente) melodiche, grazie all’inserto di quelle keys già citate, in grado di donare un alone atmosferico e depressivo all’intero lavoro. Grandi, mi piacciono un casino: le demoniache screaming vocals che governano “Masterdom”, si avvicendano a profonde growling vocals, mentre le chitarre continuano imperterrite a macinare montagne di riffs veloci, complicati e le tastiere disegnano plumbei nuvoloni carichi di pioggia. L’album non regala un attimo di sosta, è una cavalcata imperturbabile di inaudita pura violenza che distrugge tutto ciò che si staglia davanti. Notevoli, anche se continuo a non capire se i nostri suonano grind o industrial, hardcore o doom, quel che è certo è che sono dannatamente bravi e incazzati. Quel che sorprende ancora di più è il fatto che siano venuti a registrare agli Zeta Factory di Bologna e allo studio 73 di Ravenna. Bravi, lo ribadisco ancora una volta, gli Onsetcold mi hanno stupito perché giunti inattesi alle mie orecchie… Sorprendenti! (Francesco Scarci)

(Worm Hole Death)
Voto: 85

Chain Reaction - Vicious Circle


La Kolony Records è un'etichetta molto attiva sul mercato: tante le release rilasciate, di cui potete trovare anche la recenisone all'interno delle pagine del Pozzo; oggi siamo qui a parlare dei polacchi Chain Reaction, five pieces dedito ad un thrash metal moderno, contaminato da influenze provenienti dallo stoner, dal metalcore e dal cyber death metal (scuola Fear Factory per intenderci). Insomma proposta che non brilla proprio di luce propria, ma che comunque si lascia ascoltare piacevolmente. 11 le tracks contenute in questo “Vicious Circle”, tutte che si assestano fra i 3 e i 4 minuti di durata, quindi brani belli diretti come un pugno nello stomaco. Le ritmiche sono sorrette da pesanti chitarroni di chiara matrice Panteriana, la voce (growl e clean) ricorda quella del vocalist dei Pyogenesis era “Sweet X-Rated Nothing” ma che pure richiama il buon vecchio Robert Flynn dei Machine Head, la produzione è bombastica, potente e pulita e i suoni sono permeati di un groove trascinante. I nostri ci sanno davvero fare con i loro strumenti: precisi, aggressivi e tecnici, il loro limite sta però proprio nella mancanza di originalità, che penalizza non poco l’esito finale. Però che volete che vi dica, alla fine il risultato non è affatto male, magari la longevità di questo prodotto non sarà delle più lunghe, però credetemi, un ascolto lo merita di sicuro. Cambi di tempo impeccabili, rallentamenti pachidermici, catchy chorus, qualche inserto semi-acustico, taglienti assoli, cavalcate speed metal si combinano egregiamente con la melodia di fondo che contraddistingue la release del combo polacco rischiando di garantirne un discreto successo. Insomma, i Chain Reaction sono sa tenere d’occhio nella loro evoluzione, potrebbero rivelarsi una grande sorpresa per il futuro! (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 65

Drain the Dragon - Demon of my Nights


Quello fra le mie mani è il disco d’esordio dei patavini Drain the Dragon, concentrato dinamitardo di death metalcore. Sapete quanto io non sia un grande estimatore di questo genere perché ormai trovo che le band abbiano ben poco da dire di nuovo in un ambito in cui è già stato scritto e detto tutto il possibile; eppure non so cosa o perché, ma questo lavoro riesce a catturare il mio interesse. Devo ammettere che già la cover artwork del cd rapisce la mia attenzione: il disegno di una bambina (abbastanza inquietante devo dire) circondata da tutti i suoi peggiori incubi notturni (da qui posso dedurre la scelta per il titolo “Demon of my Nights”). La musica, per quanto sia carente di originalità (ma di questo non posso farne una colpa viste le premesse di cui sopra), sorprende per intensità, per la scelta azzeccata di alcune soluzioni inattese e per il buon gusto della melodia. Ribadisco il concetto che nulla di nuovo c’è fra le note di questo lavoro, eppure qualcosa continua a catalizzare la mia attenzione: il quintetto di Padova di sicuro riesce nell’intento di non essere alla fine scontatissimo e questo è già un grosso merito. La musica si lascia ascoltare alla grande, sebbene i nostri non siano dei mostri in fatto di tecnica (un plauso però al batterista va fatto) o non mi piaccia particolarmente il modo di cantare di Bokkia (da rivedere assolutamente) eppure qualcosa di tetro e oscuro nella proposta dei nostri, continua a tenermi incollato a questo maledetto stereo. Tralasciando l’inizio di “Awake the Vengeance”, preso in prestito da “St. Anger” dei Metallica, mi accorgo ben presto che non c’è solo metalcore qui dentro, in “Rise of Madness part 2” affluiscono suoni heavy metal classici, altrove compaiono sonorità death melodiche di stampo svedese e poi ancora palesi riferimenti al Nu-metal americano, senza dimenticare l’aura malinconica che pervade l’intero lavoro, conferendone un alone di mistero che ancora non mi lascia capire perché alla fine mi ritrovo innamorato di questo cd e totalmente spaventato dal mio demone delle notti… Yes, ora ho capito!

(Graves Records)
Voto: 75

Scrimshank - Se Guardi nell'Abisso


Devo essere sincero: mi avvicino sempre con un certo mix di paura, perplessità, talvolta riluttanza ai cd cantati interamente in italiano perché trovo sempre che la nostra lingua ben poco si adatti a sonorità estreme. Con grande piacere però mi lascio lentamente avvinghiare la mente dal lavoro di questi semisconosciuti Scrimshank che fin dall’iniziale “Al Nulla Devoto”, mi colpiscono per l’utilizzo delle vocals, growling (chiarissime nella loro interpretazione) e voci un po’ più pulite. Segue “Ave Oblio” e il risultato non cambia di una virgola, con il sound che viaggia sui binari del thrash death influenzati dai grandi nomi del thrash americano, Testament su tutti, e poi inevitabilmente per un grande fan come me dei mai troppo compianti IN.SI.DIA, ecco rimembrare i fasti del thrash anni ’90 della band bresciana che urlava a squarciagola tutto il proprio dissapore per la società e la chiesa cattolica. Il sound dei nostri certo non potrà impressionare i vecchi fan di questo genere (ne abbiamo sentite davvero di tutti colori in questo genere) e forse tanto meno potrà colpire i fan più giovani troppo presi dalle sonorità metalcore dell’ultima ora. Insomma, mi duole dirlo ma credo che questo cd scivolerà nell’oblio assai velocemente nonostante il thrash si fonda con alcune reminescenze più tipicamente heavy classic. Ecco forse il problema di “Se Guardi nell’Abisso” è di essere uscito con un ritardo di quasi un ventennio dai lavori che hanno reso grande il genere. Peccato davvero, perché se anziché essere il 2010, fosse stato il 1992, questa release avrebbe goduto di grande interesse. Ahimè ormai fuori moda… (Francesco Scarci)

(Quarto Piano Records)
Voto: 65

giovedì 31 marzo 2011

Dominance - Echoes of Human Decay



Della serie “A volte ritornano” hanno fatto la ricomparsa sulle scene, dopo ben 10 anni di silenzio, gli italiani Dominance. Era infatti il 1999 quando i nostri esordirono con “Anthems of Ancient Splendour”, platter di musica estrema(mente) elaborata che raccoglieva influenze provenienti dal gothic, black e death. Nel 2009 quel ricordo nulla esiste più: i Dominance di “Echoes of Human Decay” sono un’altra band, ben più estrema di quella che calcava le scene nello scorso decennio. Diciamo che l’influenza di base per il combo italico, deriva ora dal death brutale di stampo americano, per ciò che concerne ritmiche, vocals ed estremismi sonori. Violenza, brutalità, rabbia contraddistinguono la prima parte dei brani con chitarre monolitiche, vocals cavernose, blast beat a ripetizione e ciò, ahimè, rappresenta il limite del quintetto emiliano, in quanto tutto ciò è già stato scritto e proposto dai grandi act statunitensi, Morbid Angel (“Primordial” è quasi un plagio) e Malevolent Creation, su tutti. Ciò che più mi lascia sorpreso sono invece gli assoli: seppur assai brevi (ed è un vero peccato), sono freschi, melodici, originali, dinamici e l’alternarsi preciso tra le due asce non fa altro che accentuare questo aspetto positivo nella costituzione dei brani; peccato poi tutto acquisti quest’aura di sentito e stra-risentito. Le possibilità di far meglio e ritagliarsi uno spazio all’interno di una scena sempre più satura ci sono tutte, soprattutto se si è dei veterani come i nostri, che ormai sulle scene ci sono da un ventennio. Da risentire! (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 65

mercoledì 30 marzo 2011

Dewfall - V.I.T.R.I.O.L.


La copertina del cd, il titolo che richiama il debut dei redivivi blacksters statunitensi ABSU e i primi 30 secondi di questo disco, mi hanno fatto presagire di trovarmi tra le mani qualcosa di black epico, ma mai cosi tanto fu sbagliata la mia previsione. I Dewfall infatti propongono un corposo heavy metal, che ha, in alcune sue accelerazioni o nelle growling vocals, la sola componente death. Per il resto, “V.I.T.R.I.O.L.” (acronimo di Visita Interiora Terræ Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem) è un calderone di sonorità che rischia di accontentare tutti o forse nessuno. Il lavoro parte con lo speed metal di “Free Entrance to Hell”, dove accanto ai vocalizzi estremi di Valerio Lore, si affiancano quelli melodici (stile primi Helloween) di Matteo Capasso; ecco forse sta proprio qui il problema della band: io, da buon death metallers, che accetta tranquillamente le clean vocals stile Soilwork o In Flames, ho mal sopportato quelle stridule voci (peraltro insopportabili in “Forever Ghost”) che richiamano decisamente il power, ah vade retro!! Quindi chi non tollera questo genere di vocalizzi, smetta subito di leggere la recensione. Gli altri proseguano pure, perché se avete amato alla follia “Keeper of the Seven Keys II” dei già citati Helloween, troverete pane per i vostri denti nelle successive tracce. La musica, muovendosi costantemente su binari speed/thrash, sfoggia eccellenti aperture progressive con delle melodiche rasoiate, passando dalla semiballad “Skeleton’s Rising” a mid-tempos thrasheggianti, nella vena dei mai dimenticati Anacrusis, da epiche ambientazioni a passaggi maideniani. Non so, tecnicamente i ragazzi ci sanno fare, ma c’è qualcosa che non riesco ad accettare nel loro sound e non mi permette di apprezzare appieno questo valido cd. Ci sono ottime idee, si respira un buon feeling, ottime le linee di chitarra, ma purtroppo continuo a detestare l’impostazione vocale di Matteo. Avrei preferito mantenere molto più gli screaming o il growling con qualche inserto pulito qua e là e invece la scelta optata dai quattro giovani secondo me, penalizza non poco, la fetta di ascoltatori che andranno ad ascoltare questo debut cd, perché credo che alla fine né i defenders né i deathster apprezzeranno “V.I.T.R.I.O.L.”, disco alla fine un po’ troppo ruffiano... Sono giovani e presto troveranno la loro strada. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

martedì 22 marzo 2011

Secrecy - Of Love and Sin


Siete in un momento in cui vi sentite contenti o comunque positivi? Avete voglia di ascoltare un po' di metal “leggero”, senza troppo impegno? Allora i Secrecy sono la soluzione che fa per voi. Questa band portoghese, formatasi nel lontano 2001, mescola sonorità rock al love metal tipico degli HIM, rendendo il lavoro di facile e piacevole ascolto. "Last Embrace", la opening track, presenta la voce della tastierista Lisa Amaral aggiunta a quella più greve di Miguel Ribeiro (non credo sia parente del buon Fernando, vocalist dei Moonspell, ma mi informerò), rendendo il tutto meno zuccheroso (dopotutto si parla di love metal, mica altro) e il ritmo ben radicato nella mente (sfido chiunque a non canticchiarla almeno una volta). Le tastiere sono ben presenti, come anche qualche assolo di chitarra: questo mi porta alla mente anche i nuovi Sirenia, ma più leggeri. I temi si incupiscono un po' con "The One that Death Deserves to Find": infatti qui passiamo a trattare la morte (amore e morte d'altro canto vanno a braccetto no?), ma sempre col pensiero fisso all'amata. Il brano si apre con una bel growling accompagnato dalle chitarre (e meno inserti di tastiera). La voce femminile di Lisa è meno accentuata, ma i suoi interventi sostengono egregiamente i toni oscuri di cui si tinge il brano. Con "Don't Leave Me Scarred" si torna ad un sound più rockeggiante e meno gotico, cosi come pure la voce di Ribeiro che torna a farsi pulita (assomigliando a quella di Villie Valo): tutto il brano sembra fatto apposta per accompagnare l'ascoltatore in un viaggio in auto (ammetto di aver pure accelerato durante il suo ritornello), per quanto sia canticchiabile. Nessuna traccia delle female vocals stavolta, ma qualche buon assolo di chitarra si. Con "Shadows Call" ci si muove sempre più in direzione degli HIM (con una somiglianza quasi imbarazzante), parlando ovviamente del fenomeno del momento: vampiri. Niente voci femminili, il cantato maschile si fa più basso ma perfettamente riconoscibile, tocchi di pianoforte per rendere il tutto adatto per il nuovo (o quasi) stile di vita giovanile: gli emo. "The Scarlet Dawn" riprende le medesime atmosfere della precedente senza però scadere nella ripetitività; vocals femminili, suoni campionati che si accompagnano bene alla voce roca. Ancora qualche altra song da canticchiare, qualche ritornello ruffiano e il giochino è fatto. Ultima menzione per "Angel Crimson Tears", a mio avviso progettata per un concerto in quanto sono certa darebbe il meglio di sé sul palco, mentre la folla composta per lo più da ragazzine urlanti inizierebbe a saltellare e strillare. Il ritmo è frenetico, le voci sono urlate, sarei curiosa di vedere quanti rimarrebbero fermi di fronte a questa canzone, senza nemmeno muovere un po' la testa. Solo alla fine dell'album; con "Since You've Gone Away" (ah l'amor perduto...) i nostri lusitani tirano fuori le unghie e dimostrano di poter fare qualcosa che rappresenti il metal vero e proprio! La batteria si fa potente, la ritmica d'accompagnamento e la voce più incazzata... questo brano mi piace proprio, non c'è che dire, cosi come la conclusiva "Another Dimension... with Angels and Demons" che riprendendo il sound della track precedente, presenta toni più mesti e angoscianti, con il ritmo più lento e pesante; persino la voce di Lisa è più triste, il che dà una forte sensazione di smarrimento. Album consigliato agli amanti di questo genere di sonorità, gli altri si tengano alla larga. (Samantha Pigozzo)

(Ethereal Soundworks)
Voto: 65

lunedì 21 marzo 2011

Winter of Life - Mother Madness


Devo ammettere di avere avuto grosse difficoltà a recensire questo “Mother Madness” poiché è assai difficile trovare le parole giuste per farvi capire cosa è racchiuso in questo piccolo gioiellino prodotto dal combo proveniente da Napoli. L’album si apre con i sussurri di "Mattutino", song dal forte sapore progressive, che ha il pregio di mettere subito in grande evidenza le enormi potenzialità di Elia Daniele alla voce, e in genere riesce a mettere in mostra fin da subito la qualità eccelsa della band campana; la song scivola via veloce per lasciare spazio a “Noumena”, che evidenzia le influenze del sestetto e quali influenze: cenni di Novembre nelle linee di chitarra confluiscono nel sound dei nostri, complice forse la registrazione presso i “The Outer Sound Studios” di Giuseppe Orlando; per quanto riguarda l’uso delle vocals invece, mi sono venuti in mente i da poco sciolti Oceans of Sadness. La title track entra in modo esplosivo nelle casse del mio stereo, per poi far posto a delicati tocchi di pianoforte e una ritmica suadente e melodica, mai ruffiana sia ben chiaro, e poi quella voce meravigliosa del buon Elia, capace di sfruttare la sua estesa gamma canora, per essere a suo modo, il migliore strumento dei Winter of Life: struggente, riflessiva, aggressiva quando richiesto, insomma completa ed eccellente. E la musica? Un progressive metal contraddistinto da qualche sfuriata estrema, ma anche capace di divagazioni in territori jazz come proprio nella title track (esperimento già fatto però dai già citati belgi Oceans of Sadness). Ma non solo, perché “witHer” si apre con un basso slappato, preso quasi in prestito da qualche band funky con il vocalist che per un attimo sembra fare il verso ai rapper; ma la musica non tarda ancora una volta a decollare in un crescendo d’emozioni, questa volta grazie al rincorrersi scintillante delle chitarre, immerse nel tepore di soffici ambientazioni e anche dalle guest vocals di Tiziana Palmieri. Quest’album mi ha conquistato e ad ogni suo ascolto (forse sarò già a quota 50 volte e non mi sono ancora stancato), scopro nuovi intriganti particolari che mi inducono ad ascoltarlo nuovamente. Il pregio dei Winter of Life risiede proprio nel proporre musica che nel corso dei pezzi (tutti di una notevole durata), cambia costantemente registro, alternando escursioni in territori vicini al death con ritmiche belle tirate, ad altri momenti in cui magari riemerge l’influenza forte dei Novembre o di altri act della scena progressive tipo Pain of Salvation. Il risultato è un susseguirsi di ottime songs che non tarderanno ad insinuarsi anche nelle vostre teste e farvi sussultare, farvi godere appieno delle idee eccezionali che popolano la mente di questi sei ragazzi. Che piacere avere ascoltato questo “Mother Madness”, che peccato averlo fatto soltanto da poco. Avanti cosi, ora aspetto la riconferma; consigliatissimi! (Francesco Scarci)

(Casket Music)
Voto: 85

domenica 20 marzo 2011

Septic Mind - The Beginning


Se pensate che recensire 3 tracce possa essere una passeggiata, beh non vi siete mai trovati a dover fronteggiare un lavoro come quello dei russi Septic Mind, dove il minutaggio medio si aggira malauguratamente sui 20 minuti, non proprio facili da digerire. Il lungo trittico si apre con la lugubre title track: 20 minuti in cui l’angoscia più profonda si impossessa da subito della nostra anima avvolgendola come una strisciante nebbia potrebbe ingoiare una città. Pesantezza è la parola d’ordine del combo di Tver, che con questo “The Beginning” giunge al secondo lavoro dopo il debutto autoprodotto del 2008, ma non solo la pesantezza la fa da padrone qui perché l’etichette che gli si potrebbero appiccicare sono tra le più disparate se rimaniamo in territori di negatività assoluta: disperazione, tristezza, sconforto totale e autodistruzione sono solo alcuni degli aggettivi affibbiabili a questa affascinante release. Potrei andare avanti aggiungendo claustrofobia, rassegnazione e disorientamento chiudendo qui la mia recensione, perché tale è lo sgomento fomentato dai suoni malsani provenienti dal duo composto da Michael e Alexander. E la Solitude Production, che con queste sonorità ci va giustamente a nozze, ha pensato bene di assoldare l’ennesima band di funeral doom nel suo rooster e rilasciare un album che è destinato a lasciare una breccia solo nel cuore di una ristrettissima ed elitaria schiera di metal fan. Eh si perché le sonorità cosi pachidermiche, ridondanti e ipnotiche contenute in queste tre tracce, sono veramente destinate a pochi intimi. Tuttavia il giudizio per l’act russo, che trae sicuramente ispirazione dal sound degli inglesi Esoteric, è più che positivo. Certo “The Beginning” non è un cd che si può ascoltare ovunque, in macchina è sicuramente sconsigliato a meno che non abbiate tendenze suicide, ma sicuramente se aveste voglia di rilassarvi su un letto con un bel paio di cuffie nelle orecchie, credo che la corposità dei suoni ivi contenuti, possa eccitare non poco le vostre sinapsi cerebrali. Le atmosfere create dai lunghi loop chitarristici del buon Sasha di sicuro turberanno i vostri sonni fin qui tranquilli; la seconda “The Misleading” vi ipnotizzerà con i suoi irrequieti inserti noise (che costituiscono i primi 6 minuti della traccia!!), anche se poi i rimanenti 12 minuti malinconici (per non dire strappa lacrime) non siano quanto più semplice da ascoltare. Del growling profondo di Michael qui troverete un’esigua presenza, quasi a donare un tocco di “sacralità” alla canzone. Capisco perfettamente che sacralità e growling non vadano proprio a braccetto però vi garantisco che in questo contesto la cosa risulta calzante. Con i conclusivi 22 minuti di “The Ones Who Left This World” (Allegria!!!) i lenti cingoli del panzer Septic Mind sono pronti a darci il colpo di grazia. La song è ancora più cupa delle precedenti e dire che pensavo di aver toccato il fondo dell’abisso fin da subito, ma qui i nostri superano se stessi e con suoni che vanno ben oltre alla definizione di funeral, ci ammorbano fino a portarci alla disperazione eterna. Buon lavoro per il sottoscritto, peccato solo sia di difficile fruibilità per tutti, sicuramente un ascolto lo merita per la curiosità di capire di capire se esistono davvero dei limiti nella musica o se, giunti sul fondo del precipizio, dobbiamo essere pronti a scavare… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

giovedì 17 marzo 2011

The Battalion - Head Up High


“The Battalion”... li scopro solo con questo loro secondo album: mi pento di non averli incontrati prima. Faccio il bravo, recupero la loro precedente fatica “The Stronghold of Men”, me lo sparo e quindi ripasso al loro ultimo “figlio”. Lo reputo all’altezza, se non migliore del precedente. Un po’ di biografia, giusto per capire un po’ meglio la mia sensazione al primo ascolto. La band si forma a Bergen, nell'estate del 2006, da musicisti di esperienza provenienti da alcuni dei gruppi leggendari della Norvegia: band come Old Funeral, Grimfist, Taake, Borknagar e St. Satan. Ora, se non li avete mai sentiti, secondo me, sarà il caso di informarsi. Chi ne avesse già dimestichezza, probabilmente, si starà facendo, come mi ero fatto io, una certa idea del disco: avete pensato ad un album black o death metal? Anch’io! Ci siamo sbagliati. Già, perché questo ensemble spariglia le carte e ci propone qualcosa di diverso. Un prodotto thrash metal, con fortissime influenze dei Motörhead; da qui la mia sorpresa. Stud Bronson (chitarra e voce), Lust Kilman (chitarra), Colt Kane (basso) e Morden (batteria) ci sbattono subito in faccia “Mind the Step”, una canzone thrash tiratissima. Ecco quello che sentirete per tutto il resto del platter. Undici tracce potenti, veloci, suonate molto bene, spietate nel loro incedere, nel loro ritmo e purtroppo maledettamente uguali tra di loro. Ma è un ciddì che non lascia per nulla indifferenti: trascinante, che nella rabbia mescolata alla tecnica, ha il suo punto di forza. Nulla da dire sulla bravura del quartetto. Chitarre, batteria, basso: tutto notevolmente ben fatto. Troverete anche assoli di chitarra niente male (né troppo lunghi, né troppo corti) e batteria a mille, che mi ha deliziato non poco. Mi lascia tuttavia un po’ perplesso la voce del cantante, troppo monocorde sia come stile sia nella varietà di soluzioni. Ottima infine la produzione: tutto si sente come si dovrebbe. Vi consiglio di soffermarvi maggiormente su “When Death Becomes Dangerous” e su “Bring Out Your Dead”, secondo me le migliori, per via di un certo loro carattere più aggressivo che non si ritrova nelle altre. Dicevo che ritengo le song molto simili ed è questa, alle mie orecchie, la pecca più grave. Però, se in altri casi è fonte di noia, in questo non lo è più di tanto. Le track sono brevi e la loro forte carica fa volare via liscio il disco. Bravi. Sarei molto curioso di vederli dal vivo, ma per ora preparo la crema contro gli strappi al collo, mi risparo “Head Up High” e mi lancio nell’headbanger più sfrenato! (Alberto Merlotti)

(Dark Essence Records)
Voto:80

Disease Illusion - Reality Behind the Illusions of Life


Si, si, si… sono ancora qui a scuotere il capo, questa è la musica che volevo ascoltare in questa umida serata d’inverno: fresca, melodica, incazzata, malinconica. I Disease Illusion sono una band giovanissima, nata nel 2006 dalle ceneri dei The Reapers, combo bolognese, che ha virato il proprio sound dall’heavy thrash degli esordi ad un death melodico di stampo scandinavo. La tiepida melodia di un pianoforte apre "Reality Behind the Illusions of Life", poi fortunatamente ci pensa “Predator” a far decollare il tutto: chitarre di palese ispirazione Children of Bodom ci aggrediscono con la loro rabbia, ammantata tuttavia dalla stessa vena malinconica che ne caratterizzava l’intro. Si, si e ancora si, mi esalta sentire musica scritta con il cuore o comunque da chi ha la passione per questi suoni dentro alle vene. Melodie coinvolgenti, ispirati fraseggi di chitarra, qualche cosa rubacchiata qua e là ai vari Dark Tranquillity ed At the Gates e il risultato (buono) è garantito. I nostri continuano a macinare riff corposi, alternandoli a rallentamenti atmosferici, ambientazioni gotiche anche con le successive “From Ashes to Dust” (la migliore song del cd, con quei suoi stupendi giri di chitarra, gli azzeccatissimi assoli e le clean vocals di Fabio Ferrari) e “The Opposer”, più swedish death orientata (Soilwork docet). Buona la prova di Fabio alla voce anche nella sua componente growl/scream, ma in generale è apprezzabile la performance tecnica dei cinque ragazzi (come sempre un plauso alla batteria che non lascia un attimo di tregua). Il malinconico arpeggio di “Beyond the Flaming Walls of Universe” funge da ideale ponte di congiunzione con la seconda parte del cd, più tirata e aggressiva e meno pompata da pezzi ipermelodici. “Blazing Eclipse” spacca che è un piacere , cosi come la successiva “Reborn from Pain” che vede ancora Fabio alle prese con vocalizzi puliti. Chiude il cd la versione orchestrale di “From Ashes to Dust”, più pomposa negli arrangiamenti, ma che comunque conferma la bontà di una band che se, coadiuvata da una produzione decente e da un’ottima promozione, non tarderà ad esplodere nella scena metal nazionale. Complimenti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Helllight - …And then, the Light of Consciousness Became Hell…


Se fino ad oggi avete sempre associato il Brasile al gioco del calcio, belle donne, spiagge assolate o nel mondo della musica ai Sepultura o ai Sarcofago, beh da oggi, sappiate che le tenebre degli Hellligth caleranno sulla vostra testa, oscurando il sole nel cielo. Da San Paolo ecco giungere nuvole cariche di pioggia che diffonderanno la pestilenza infernale voluta da questo cupo duo. Beh se questa mia breve introduzione non vi è sembrata abbastanza chiara, stiamo parlando di un combo, giunto già al traguardo del terzo lavoro, dedito ad un funeral doom che lascia ben poco spazio a squarci di luce. E lo si capisce immediatamente con il titolo della opening track, “The Light that Brought Darkness”, della serie “Lasciate ogni speranza voi che entrate” e a ragione perché si viene immediatamente avvolti da un senso di assenza totale di ossigeno, quasi a perdere i sensi, storditi da cotanta desolazione. Sapete che cos’è la cosa meravigliosa di tutto questo fiume di tristezza che ci travolge fin da subito? Che è a dir poco incantevole, sbalorditivo per intensità, stupefacente per il suo essere cosi inatteso e imprevedibile. La russa Solitude Productions questa volta ha pescato bene dall’altra parte del mondo con una band dalla classe cristallina che conquisterà dapprima i fanatici di un genere, il funeral doom, e poi potrà a mio avviso aprire le menti di chi è cosi prevenuto nei confronti di una tipologia di sound che, all’opposta di quanto si possa credere, è in grado di regalare esaltanti momenti di musica e gli Helllight ne sono la palese dimostrazione, con un album che per quanto possa sembrare inavvicinabile, (se pensiamo ad esempio solo alle lunghissime durate dei pezzi sempre attestati sopra i 12 minuti), riesce a sorprenderci ad ogni passo. Dopo l’eccellente traccia posta in apertura, capace di regalarci con gli ultimi 5 minuti attimi di solennità profonda, con la seconda “Downfall of the Rain” ci immergiamo in sonorità grevi che trovano il loro maggior slancio nell’inserto pianistico posto a metà pezzo. Pesante e opprimente, il duo carioca lavora ai nostri fianchi con un suono al limite della legalità, fatto di chitarre possenti e ultra slow a verniciare alte montagne innevate, riff sorretti poi da un encomiabile lavoro ai synth di Fabio De Paula (sembra il nome di un giocatore di calcio del Chievo) e da un growling vigoroso che talvolta ci regala attimi di pace con un cantato pulito che mi ha rievocato il buon Alan Nemtheanga, nella sua apparizione nei nostrani Void of Silence. Menzione ulteriore ci tengo a farla per alcuni squarci chitarristici di notevole spessore e di scuola classica, che palesano anche una certa preparazione tecnica dell’act sudamericano. Citazione finale per “Children of Doom”, la mia song preferita, che probabilmente mostra il lato più “etereo” (passatemi il termine) dei nostri, ma che comunque sancisce la mia adorazione per una band di cui non ne conoscevo l’esistenze fino a ieri. Peccato infine per una pessima copertina che con la musica dei nostri ha ben poco da spartire. Comunque sublimi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80