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lunedì 12 settembre 2016

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi

#PER CHI AMA: Psych/Math Rock Sperimentale
Arnaud Amaury (in italiano Arnaldo Amalrico) fu prima abate, poi arcivescovo nel Mezzogiorno francese nel tardo medioevo. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di Papa Innocenzo III, da cui fu incaricato di debellare l'eresia dei Catari durante la Crociata albigese del 1209. Il religioso marciò con l'esercito verso la Linguadoca dove poi a Béziers, fece massacrare migliaia di persone in quanto Catari, ma essendo la maggioranza dei cittadini cattolici, perirono anch'essi nell'azione militare. Sembrerebbe leggendaria (e comunque ancora fonte di discussioni a distanza di ben otto secoli) la risposta che fu data in quella circostanza da Arnaud Amaury a un suo soldato che gli chiedeva come distinguere nella soppressione, gli eretici dai cattolici: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi". E proprio da questa controversa risposta, nasce il titolo della quarta release dei Fuzz Orchestra, un connubio di generi e sottogeneri musicali che ben si amalgamano tra loro in una scoppiettante miscela sonora che include otto brani. Brani che sono innescati dal vibrante e dinamico incedere di "Nel Nome del Padre", song che abbina ad una cavalcata puramente metal, atmosfere da film spaghetti-western, corredate da una serie di parti parlate verosimilmente estrapolate da qualche film anni '60-'70 (nel disco ci saranno anche citazioni bibliche, letterarie e molto altro che ho faticato ad identificare). Questa peculiarità contraddistingue l'intero album, con una ricercatezza nei dialoghi offerti del tutto non casuale, orientata a discorsi di carattere politico-religioso che a distanza di cinquant'anni risultano ancora del tutto attuali. Il genere del power trio lombardo si srotola comunque in una musicalità che coniuga una specie di psych-stoner con sonorità a tratti orchestrali ("Todo Modo"), di cui sottolineerei l'eleganza a livello degli arrangiamenti, grazie alla presenza di una serie di ospiti (N. Manzan, M. Santoro, F. Bucci, S. De Gennaro tra gli altri) e relativi strumenti (violino, fagotto, trombone, timpano) di tutto rispetto, che rendono la proposta dei Fuzz Orchestra davvero di elevato spessore. Lenta e ipnotica, "Born Into This" convince appieno per la presenza dei fiati e per la piega sperimentale che prende nel corso della sua evoluzione strumentale; inoltre il testo non è altro che un riarrangiamento di 'Dinosauria, We', poesia di Charles Bukowski. Decisamente più oscura e angosciante (soprattutto a livello di liriche) "L'Uomo Nuovo", dove i campionamenti noisy sono affidati ad un altro ospite rilevante, Riccardo "Rico" Gamondi degli Uochi Toki. La musica dei Fuzz Orchestra si fa brano dopo brano sempre più aggrovigliante e nella tenebrosa "Una Voce che Verrà", l'atmosfera sprofonda in un baratro da cui la speranza appare fuggita da tempo. Fortunatamente un filo di luce sembra tornare nella successiva "Il Terrore è Figlio del Buio", altro pezzo dannatamente metal (oserei dire speed metal) almeno nella sua prima metà, prima che l'aria si increspi per pochi attimi e che il fuoco divampi nell'incendiario finale che introduce al "Lamento di una Vedova" e ad una fisarmonica che sembra risuonare in una qualche brasserie francese lungo la Senna. Arriviamo ahimè alla conclusione con "The Earth Will Weep", dove altri due ospiti ci stanno aspettando: Simon Balestrazzi (Kirlian Camera tra gli altri) alla piastra metallica e Pl Barberos alla voce, in un brano che sembra mixare tutto quanto fin qui ascoltato in questa incredibile release dedita a metal, noise, colonne sonore, psichedelia, stoner e molto, molto altro. Se siete alla ricerca di qualcosa di fresco, originale o sperimentale, sono certo che 'Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi', potrà di certo fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Woodworm Rec - 2016)
Voto: 85

domenica 11 settembre 2016

Greytomb - A Perpetual Descent

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, Altar of Plagues 
La scena estrema internazionale ribolle e non poco: Francia, U.S. e Germania sembrano essere le nazioni in cui in un modo o nell'altro, ci sia un maggiore interesse verso gli estremismi sonori cosi come una certa freschezza a livello di idee. Non trascuriamo però l'Australia, da sempre paese portatore di suoni originali, ricercati e assai decadenti. Fatta questa semplice premessa, ecco che presentarvi questi cinque cavalieri dell'apocalisse sarà compito meno arduo per il sottoscritto. I Greytomb sono un ensemble di base a Melbourne che si presenta con questo malsano quanto intrigante biglietto da visita, 'A Perpetual Descent'. Quattro tracce e 40 minuti a disposizione per conquistarci con il loro post black nevrotico, che si dimena tra bordate di scuola Deafheaven e spaventosi rallentamenti, sin dall'apertura affidata a "The River of Nihil", song che richiama peraltro una band italiana che francamente adoro, i Nihil Locus, a causa di un modo decisamente disperato di proporre le loro vocals. Poi le influenze si spingono anche ai francesi Deathspell Omega per quell'utilizzo di inquietanti atmosfere costruite da chitarre dissonanti. Insomma, le referenze dei nostri non sono mica male e se a queste aggiungete anche un che degli Altar of Plagues, capirete anche voi, che i Greytomb non sono certo degli sprovveduti, ma un gruppo da seguire con sommo interesse. Incredibili le emozioni malefiche sprigionate dal finale della opening track che ci traghettano poi ai 16 minuti di "Urban Moulder", in cui la vena black doom degli Austere prende il sopravvento nel sound del 5-piece dello stato di Victoria. Il ritmo si fa più lento e cadenzato, quasi al limite del funeral, con lo screaming acuminato di -O- (qui anche in versione parlata) a cantare di nichilismo, metafisica ed inesistenza in un sound ammorbante, a tratti asfissiante ma che sa anche essere onirico nelle sue splendide aperture ambient che dischiudono la vena più malinconica per la band australiana. Un intermezzo noise che sembra evocare le urla dei dannati all'inferno e la mortifera violenza black divampa nella conclusiva "Boundless Introspection", in cui le vocals scomodano addirittura lo spettro di Attila Csihar ai tempi di 'De Mysteriis dom Sathanas', per un finale davvero da brividi. Che altro dire se non che 'A Perpetual Descent' è lavoro assai interessante e che i Greytomb sono una new sensation da tenere assolutamente nei vostri radar. Insani. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

sabato 10 settembre 2016

Eradikal Insane - Mithra

#FOR FANS OF: Death/Metalcore,The Black Dahlia Murder, Neaera, Benighted
Finally making it to their debut effort, French Death Metal/Metalcore fusioners Eradikal Insane have certainly seen their share of struggles over the years and have honed the anger and intensity into a fine package. Though there’s plenty of Death Metal influence in the riff-work, at the heart of the matter here is the absolutely strong and enjoyable manner in which the album makes room for it’s hard-hitting breakdowns that are incorporated here alongside the riffing which takes a lot of influence from the tightly-wound rhythms of grindcore. Technically explosive and endearingly violent, there’s plenty of sharp-edged work to be found here if way too one-note about it’s work as it’s all quite built around the same overall rhythm patterns that it doesn’t really do much to differentiate itself from the other hard-hitting groups of this style. Still, there’s plenty to like overall in the tracks for those that like that sort of violent, intense approach. Opener ‘A Perpetual Nothing’ immediately blasts through tight, mechanical patterns with plenty of deep chugging and rather furious, technical patterns with plenty of rather hard-hitting riffing amongst the breakdowns leading into the finale for a rather strong first impression. ‘Initium’ whips up a strong series of grinding patterns with a series of technical breakdowns coming continuously throughout the main patterns with the blasting drumming chopping along throughout the feverish technical breakdowns in the final half for a hard-hitting highlight. ‘Sediments of Misconception’ offers plenty of tight grinding riffing and fast-paced drumming that brings out rather strong and impassioned breakdowns that merge alongside the blasting drumming and technical riff-work throughout the charging finale for another strong highlight. ‘Consciousness Alight’ utilizes blistering technical riffing and grinding drum-work to a stellar mid-tempo series of breakdowns that bring about the stellar hardcore influences alongside the tight, technical rhythms while offering a stellar chug in the final half for a decent if unimpressive effort. ‘Abrasive Harbingers’ blazes with ferocious swirling technical leads and sprawling breakdowns bringing out the varied tempo changes leading along throughout the fine blasting and tight swirling leads grinding away into the finale for a much stronger effort. The instrumental title track offers a fine mid-album breather with a light acoustic guitar strumming away and leading back into next track ‘Intrinsic Propensity’ which blasts through brutal, intense riff-work and finely-charged breakdowns filled with utterly pummeling drumming holding the violent razor-wire riffing and grinding patterns through the intense rhythms leading into the final half for the album’s best track overall. ‘Archetypes’ offers a slower mid-tempo crunch that works nicely at bringing the breakdowns flowing into the technical rhythms grinding through the steady patterns flowing along throughout the extended series of rhythms and breakdowns into the finale for a highly enjoyable if overlong effort. ‘Harvest’ uses a tough, mid-tempo grinding pattern with plenty of ferocious blasting to work along through a steady, blasting section that goes through tight breakdowns and steady chugging leading back through the technical riffing in the grinding final half for a steady, enjoyable offering. ‘Universal Spine’ features a long, droning intro before blasting into tight, swirling and ferocious rhythms with plenty of tight patterns holding through the steady grinding and technical riffing along through the rather overlong sections in the finale for a decent if again way too long effort. Finally, album-closer ‘Metanoia’ uses a series of tight, grinding patterns and plenty of swirling technical riff-work that leaves the faster tempos along into the series of breakdowns while letting the tight rhythms coming back and holding into the blistering final half for a strong enough lasting impression. There’s a lot to like here even with the flaws. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

Crown of Asteria - Karhun Vakat

#PER CHI AMA: Cascadian Black/Folk/Ambient, Panopticon
La one-woman band mi mancava. Di esempi musicali con un unico mastermind uomo ne abbiamo visti passare qui nel Pozzo dei Dannati a bizzeffe, quest'oggi m'imbatto invece per la prima volta in un progetto la cui unica mente è donna, Meghan Wood, una giovane donzella del Michigan, che dal 2011 a oggi, ha prodotto una serie infinita di album/EP/split e demo con i suoi Crown of Asteria. La proposta dell'act statunitense oscilla tra un ipnotico e sognante ambient (la opening track, "Tietäjä", ne è un esempio), un black glaciale ma atmosferico e aperture folk, a suggerirmi l'amore di Meghan per gli Agalloch ed in generale per il movimento cascadiano americano, in cui meglio vedrei collocato il sound della donna di Bancroft. Detto questo, ne esce un album, 'Karhun Vakat', dal sapore mistico e ancestrale, che impressiona per la ferocia del suo riffing primordiale in "The Golden Light of Birchwood Temples", lo screaming efferato della sua vocalist, ma che sa anche conquistare per la melodia dei suoi frangenti più folk-acustici, che emergono ben più forti e conditi da una componente etnica, che in un qualche modo sembrerebbe pescare dalla cultura indiana, nella terza "Hongotar". Tuttavia, cercando sul web il significato dei titoli di alcune canzoni, mi sembra di intuire in realtà che la sciamana statunitense tragga ispirazione dalla tradizione magica finnico-careliana, ma avrò modo di investigare a tal proposito. Nel frattempo proseguo con l'ascolto del disco e arrivo a "Sky-Nail" e ad un black qui più cupo ed epico, ma dalle aperture chitarristiche davvero azzeccate che per certi versi mi hanno rievocato il sound dei Dissection. C'è comunque un certo misticismo di fondo nella musica dei Crown of Asteria, e nell'originalità stravagante di un suono che ahimè pecca nella pulizia dei suoni, produzione e mastering, sulla scia di quanto fatto dai primi Panopticon. Io comunque mi fido e mi lascio sedurre da Meghan e dalla quinta "Black Antlers Above the Lodge", un pezzo strumentale di oltre otto minuti, che vira verso un death dagli epici sentori. Il caos sonoro prosegue con "Väki", che ancora sembra rievocare poteri magici dell'antica mitologia finlandese in un movimento ondulatorio straniante che mi ha ricordato i nostri Laetitia in Holocaust e le loro soluzioni estremiste d'avanguardia; peccato solo per i volumi che oscillano fastidiosamente, altrimenti questa poteva essere una bomba di allucinazioni perverse e iraconde. Giungo alla conclusiva e in versione live acustica, "Kallohonka", che dovrebbe rappresentare il pino ove appendere i teschi degli orsi dopo le feste pagane e ai cui piedi ne venivano sepolte poi le ossa, una song che chiude il disco cosi come lo aveva iniziato. Peccato per la produzione casalinga e quella sensazione ricorrente di ascolto di un demo anziché di un full length, , ma forse è voluto come effetto. Sono certo che con un budget ben più corposo, qui staremo parlando di un qualcosa di davvero interessante. Dimenticavo, quest'album è di marzo 2016, nel frattempo sono già usciti due EP e uno split. Forte la ragazza. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

giovedì 8 settembre 2016

Face The Maybe - The Wanderer

#PER CHI AMA: Progressive/Metalcore, Between The Buried And Me, Periphery
Per me il progressive vero è finito con 'A Change Of Season' dei Dream Theater. Lo ripeto da anni. Eppure, continuo ad essere smentito da queste realtà indipendenti (penso agli Earth’s Yellow Sun, ai No Consequence, ai Tardive Dysknesia) formate da musicisti straordinariamente dotati di tecnica, intuito, capacità e voglia di sorprendere. In questa categoria entrano oggi a gamba tesa gli spagnoli Face The Maybe, con il loro 'The Wanderer' – che segue il debut 'Insight' del 2011. Un disco straordinario, sorretto da un lavoro vocale praticamente perfetto (Tomas Cunat passa con facilità da una voce pulita, precisa ed estesa ad un convincente harsh-vocals tinto di growl) e da una capacità di songwriting davvero rara. Le dodici tracce trasudano continuità e coerenza da tutti i pori, e permettono al quintetto di Barcellona di esplorare tutti i canoni del genere: c’è il metalcore dei Periphery con i ritornelli strappamutande (“All That I See” e “Seth”), c’è il djent ipertecnico (“Dagger” e “The Swan”), c’è l’epicità oscura di certi Opeth (“New Dawn”); e non mancano ovviamente sfumature dei più classici Dream Theater (“The Wanderer”). Ma ogni riferimento è frullato e digerito dai Face The Maybe, che affrontano la scrittura dei brani con maturità, personalità e con un’attenzione alla melodia che, pur facendo storcere il naso ad alcuni puristi del metal, trasforma un disco difficile, tecnico e impegnativo in un’esperienza di ascolto godibilissima anche ad orecchie non preparate. Non sorprendetevi, dunque, se ascoltando 'The Wanderer' vi troverete a passare da uno shredding violentissimo di chitarra su un tappeto di doppia cassa, ad un ritornello che potreste tranquillamente fischiettare sotto la doccia. C’è molto materiale al fuoco (dodici pezzi, quasi tutti sopra i 6 minuti e con punte di oltre 9), forse fin troppo. Ma ne vale la pena. (Stefano Torregrossa)

Diana Spencer Grave Explosion - 0

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner, Kyuss, Colour Haze
Il tempo si dilata, rallenta, sussurra. Appaiono orizzonti rossi, sabbia, stelle, spazi infiniti, solitudine. Un deserto oscuro e senza fine, disabitato, dove il tempo perde ogni senso. E invece – sorpresa – siamo a Bari, patria dei Diana Spencer Grave Explosion. Il quintetto sorprende per la capacità di creare straordinarie atmosfere stoner ricche di psichedelia, che sanno trasformarsi, quando serve, in monolitiche architetture di chitarre maestose e headbanging furioso. “Space Cake” gioca su un riffing indovinatissimo, che sa pesare con precisione, distorsione ed effetti, alternandosi tra cavalcate stoner a suon di crash e rullante, e momenti più lisergici. Un piano elettrico dal gusto anni ’70 apre “Avalanche”, guidata da delay spaziali e una melodia riuscitissima fino ad una inaspettata apertura in maggiore. La batteria (che sceglie pattern minimali ma precisi, sullo stile di Brant Bjork) e il basso costruiscono una base solida e granitica su cui poi tastiere (sentite che suoni! assolutamente perfetti) e chitarre hanno ampio spazio di manovra. Sono evidentemente le chitarre a reggere l’intero lavoro, con un sound maturo a metà tra i Kyuss e il kraut rock dei Colour Haze. Ma non è un disco solo stoner, intendiamoci: è l’anima psichedelica dei Pink Floyd e di certi Motorpsycho ad affacciarsi nell’intro della lunga suite conclusiva del disco. “Long Death To The Horizon” riassume in 13 minuti la visione complessiva del quintetto barese, passando da una cantilenante melodia ad uno spirito blues distorto e oscuro, per poi tuffarsi in un oceano stoner di wah e mid-tempo. Il disco si riavvolge apparentemente su se stesso, chiudendo con la stessa magia dell’inizio, tra violini e fisarmoniche di un’improbabile orchestrina. Grande musica, personalità, maturità; ottima produzione; e la capacità, sempre più rara, di far volare l’ascoltatore e catturarlo, dal primo all’ultimo minuto. Se queste sono le premesse, non vedo l’ora di ascoltare il loro full-length.(Stefano Torregrossa)

mercoledì 7 settembre 2016

Moloch – Verwüstung

# PER CHI AMA: Black/Ambient/Dark, Abigor, Beherit
Il black metal offre in termini stilistici numerosi spunti creativi a discapito della sua fama di musica chiusa, statica e ripetitiva e Moloch ne è un buon esempio. Il connubio di arte estrema, espressa a suon di ambient, dark e black metal di carattere teutonico, emotivo, drammatico, ricco di venature strazianti ed interpretazioni vocali lancinanti inclini a seviziare la voce di un'anima perduta, devota alla solitudine, al nichilismo totale nei confronti di un mondo in caduta libera, genera sempre un certo effetto a sorpresa. La one man band ucraina ha sfornato una miriade di creazioni e collaborazioni anche importanti dalla sua fondazione (2004) ad oggi e l'album in questione datato 2014, e distribuito dalla Metallic Media, spinge ulteriormente la fase creativa della band verso un suono ancor più rigido, glaciale, ferreo e di confine. Tramutando il malessere esistenziale in conflitto contro il mondo insano in cui si è destinati a sopravvivere, Moloch (Sergiy Fjordsson aiutato alla batteria dal prestigioso Gionata Potenti, già al lavoro con numerose band tra cui Blut Aus Nord e Deathrow), esaspera ed esalta il tipico sound black in forma compatta e nevrotica, esuberante nei sui ritmi serrati e sinistri, carichi di disperazione e dall'umore macabro. Riff taglienti e gravidi di ossessione, calati in atmosfere cupe e malate. Le composizioni sono frastagliate, oserei dire primordiali, anche nella produzione, a volte grezze e rudi, sempre pronte a rimarcare la linea continuativa che le legano con il passato e le origini di questo genere musicale estremo. All'interno dei brani troveremo aperture decadenti e buie, ritmiche martellanti di batteria ad incalzare un cantato tetro e teatrale, instancabile nella sua ricerca della perfetta melodia del dolore. Il suono non evoca particolari virtuosismi ma è costante la presenza di una certa maestria nello stendere composizioni sotterranee, dall'odore acre e dal sentore paludoso e di perdizione. Una collaudata e singolare tecnica compositiva, selvaggia e radicale, cosparsa e disseminata nell'intero album che lo rende omogeneo ed ipnotico, qualità che brano dopo brano diventerà sempre più presente e notevole. In perfetta comunione tra loro, troviamo musica e artwork di copertina, con un lavoro grafico criptico e raggelante, sostenuto anche da una colossale durata del cd di quasi ottanta minuti. Lontano dalle luci della ribalta e legato nel sangue da una corrente espressiva sotterranea e violenta, Moloch incalza con la sua opera l'arte di band ai margini come Centuries of Deception, Abigor, Inquisition e Beherith, con un sound difficile da assimilare e descrivere, ma per chi saprà captarne la profondità d'intenti si aprirà un vaso di Pandora che può condurre nei meandri più bui della nostra esistenza. Aperto da un intro ambient nero come la pece ("Todestille"), il disco esplode nel suo interno con tutta la sua perversa spigolosità, senza dare tregua per tutta la sua durata, depressivo e riflessivo in totale opposizione al concetto di mainstream. "Du Bist Nichts in Dieser Sterbenden Welt ", condotta da un intro di basso distorto, offre la prima tregua dopo sei brani devastanti per approdare alla titletrack, "Verwüstung" che, con tutta la sua rarefatta onnipotenza, mostra una lunga coda rivolta ad un'ecatombe del genere umano, la sua scomparsa osannata a suon di drone music, dark, ambient e sfuggenti tocchi di piano e rumori silenziosi, bui, in assenza totale di ritmo per ben undici minuti. La chiusura è affidata inaspettatamente ad una traccia nascosta ("A Symphony" by Chopin) con la sua prima ventina di minuti passata nel totale silenzio sonoro per poi aprirsi ad una sinfonia classica orchestrale, presumo un omaggio all'autore (perdonate la mia lacuna in ambito classico). Un album definitivo, l'oscurità in piena regola. Disco da avere. (Bob Stoner)

(Human to Dust/Metallic Media - 2014)
Voto: 85

https://molochukr.bandcamp.com/album/verw-stung-2

martedì 6 settembre 2016

Ingrain - Aembers

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Alcest, Autumn for a Crippled Children
'Aembers' è l'EP d'esordio degli israeliani Ingrain. Il disco, uscito a giugno di quest'anno per le Pest Productions, consta di sei tracce, di cui le prime cinque registrate addirittura nel 2013, mentre la sesta, la scorsa estate, quando il lavoro uscì originariamente in digitale. Poi l'attenzione della label di Nanchang e finalmente l'approdo sul mercato con un formato fisico e un sound per certi versi ambizioso, capace di coniugare il black metal con un approccio a tratti acustico e atmosferico, sicuramente melodico e dal forte impatto emozionale, come testimoniato dalla track in apertura, "Bramm". Forti del supporto alla consolle di Dan Swano, il terzetto di Gerusalemme colpisce per quei suoi arpeggi di chitarra che si insinuano in una matrice estrema che corre a cavallo tra death e black, anche se in quei momenti più rilassati e scevri da galoppate condite da blast beat e tremebonde vocals, la proposta dei nostri sembra virare ad un versante più orientato all'hard rock, rendendo il tutto pertanto più accessibile. Lo dimostra l'attacco di "Firmament", song dotata di un'aura decisamente malinconica, che conquista per la sua vena squisitamente blackgaze, che può scomodare più di un paragone con Agalloch e Alcest; poi quel suo assolo finale su di una ritmica post black, è davvero splendido, tanto che da solo vale il costo del cd. Il tremolo picking è un'altra delle caratteristiche vincenti dei nostri, che hanno davvero tutte le carte in regola per sfondare con la loro proposta e un'ispirazione che ne esalta le doti tecnico compositive. Spettacolare il break di "To See", forse la song più matura di un lotto di brani davvero notevole e considerato che stiamo parlando di musica scritta tre anni fa, mi aspetto davvero grandi cose dal futuro degli Ingrain. "Voidd" è forse un primo assaggio di quello che verrà, otto minuti e mezzo che strizzano l'occhiolino anche agli Autumn for a Crippled Children (oltreché agli Alcest) e che confermano le potenzialità di questo brillante e inedito trio proveniente da Israele. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2016)
Voto: 80

https://pestproductions.bandcamp.com/album/aembers

I-Def-I - In the Light of a New Day

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Breed 77
Dopo il Mcd 'Bloodlust Casualty' del 2005, ritornano gli inglesi I-Def-I con il full length di debutto e un risultato che definirei soddisfacente. Dopo un anno di lavoro, partecipazioni a compilation, apparizioni a festival, e su diversi magazine internazionali, la band di Manchester centra l’obiettivo al primo colpo, con un album vario che potrà piacere ad una vasta schiera di heavy metal fans: dai seguaci del movimento metalcore agli amanti del thrash, passando attraverso gli ascoltatori più incalliti dell’emocore, ma più in generale a chiunque mostri una mentalità aperta. Il quartetto inglese scalda gli animi con 15 songs davvero buone (ma forse un po' troppe) che si barcamenano all’interno di sonorità alternative, premendo saltuariamente il piede sull’acceleratore e sfociando raramente, in territori swedish death o in altri momenti, in territori più metalcore. I ragazzi sono bravi a mixare riffs di chitarra, talvolta pesanti, a melodici break. Questo è metal moderno, anche se, in taluni casi, il rifferama può risultare preso in prestito dai Pantera (come si evince nei primi pezzi), mentre il modo di cantare di Chris Maher, può ricordare un ibrido tra il Mike Patton ai tempi dei Faith No More e il vocalist dei Linkin’ Park, per l’uso un po’ rappato della sua voce. La traccia “Tunnel Rat” ospita addirittura un assolo del buon vecchio Slash dei Guns’n Roses, un po’ arrugginito ma che si conferma essere sempre un musicista di gran classe. La proposta della band albionica è decisamente attuale, i ragazzi mostrano un grande potenziale, ahimè poi rimasto tale, visto lo scioglimento nell'anno successivo. Meteore! (Francesco Scarci)

domenica 4 settembre 2016

Electric Beans - Sans Modération

#PER CHI AMA: Punk Rock
Avete presente quel vostro compagno di classe alle scuole superiori - tutti ne avranno avuto uno – un po’ basso e tarchiatello, che portava sempre il cappellino da baseball, che non eccelleva in nessuna materia ma stava simpatico a tutti, professori inclusi? Quello che leggeva tutti quei fumetti introvabili, che ascoltava solo punk rock, tutto il giorno, che non fumava ma aveva sempre una lattina di birra da 50 cc nello zaino e che avete sentito almeno una volta parlare di voi come “il suo amico” nonostante voi non lo avreste mai definito tale, sicuramente non in pubblico? Quello a cui non potreste mai, per nessuna ragione, augurare alcun male. Ecco, gli Electric Beans sono quel vostro compagno lì. Sono dei simpatici cazzoni francesi che suonano un punk rock senza infamia e senza lode, dritto e senza fronzoli, né selvaggio, né particolarmente veloce, ma sincero, quello si. Senza maschere. Questo loro 'Sans Modération' (la cover cd sembra un tributo alla birra Ceres) è un disco generoso, live, di quasi settanta minuti in cui si trova tutto quello che c’è da sapere su di loro. La conoscenza della lingua francese potrebbe essere d’aiuto per godere appieno della loro musica ma soprattutto dei loro testi, musica che rimane comunque sufficientemente apprezzabile anche in caso contrario. Convengo con voi che esistano mille modi migliori per trascorrere settanta minuti del vostro tempo, ma a uno che vi considera sinceramente come un vostro amico, un ascolto glielo dovete, come minimo. (Mauro Catena)

(Mogettes Prod - 2016)
Voto: 65

https://electricbeans.bandcamp.com/releases

sabato 3 settembre 2016

Bear Bone Company - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society
I Bear Bone Company (BBC) sono un power trio svedese formatosi quattro anni fa e solo l'anno scorso si sono lanciati nel vasto mondo discografico con questo Self titled album. I tre ragazzotti non hanno più vent'anni e la loro maturità musicale si sente tutta, un concentrato di rock duro e crudo, sanguigno e immediato, come si faceva un tempo. Le dodici tracce sono ben bilanciate, arrangiate con cura e potenti come ci si aspetta da questo genere, basti ascoltare la opening track "Fade". È una cavalcata veloce e cadenzata, con riff classici che ci portano indietro di quindici-vent'anni e fanno l'occhiolino ai Black Label Society e company. Il vocalist si fa notare sin da subito per la sua ottima estensione vocale, lanciandosi in acuti che farebbero impallidire una vocalist femminile. Alcune influenze grunge portano a galla i gusti retrò della band, come in "Kiss N Tell" che sulla falsariga degli Alice in Chains o STP, si sviluppa in aree più heavy. Il chitarrista (nonché cantante) mette in piazza i suoi studi, con accelerazioni e rallentamenti, il tutto condito da un bell'assolo che scalda le corde fino a farle divenire incandescenti. La band si cimenta anche in brani più lenti, "Down in Flames", trovandosi a proprio agio, anche se gli arrangiamenti avrebbero voluto qualcosa di meno scontato. Per fortuna l'enseble di Örebro non hanno voluto opprimerci con la solita ballata che spesso le band includono per accontentare tutti, quindi rendiamo grazie al trio svedese. Traccia dopo traccia, tutto scorre fluido, forse troppo, nel senso che nonostante il livello generale sia più che buono, si rischia di cadere in uno stato catatonico per una certa mancanza di stimoli. Questo rischio aumenta se non amate il genere, oppure se lo avete lasciato da parte da un po'. L'esordio dei BBC è buono ed essendo una band matura non aspettiamoci evoluzioni particolari, ma facciamo tesoro del buon rock che questo trio scandinavo può regalare ora ed in futuro. (Michele Montanari)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 65

Spectrale/Heir/In Cauda Venenum - Split Cd

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Agosto 2016, Francia, manco a farlo apposta. Tre manifestazioni musicali completamente differenti che si palesano nello split album edito dalla Emanations Productions, la divisione ancor più "underground" della Les Acteurs de l'Ombre Productions. La prima, gli Spectrale, side project di Jeff Grimal (chitarra e voce dei The Great Old Ones, qui supportato da Jean-Baptiste Poujol), autori qui di tre pezzi, l'opener "Sagittarius A", "Al Ashfar" e "Crepuscule", sorte di eterei intermezzi ambient, coadiuvati da una spettacolare chitarra acustica in un ipnotico trip strumentale. I secondi, i black thrasher Heir, anch'essi autori di tre pezzi, "Descent", "Upon the Masses" e la conclusiva "Sectarism", in una proposta oscura, malata e mefitica, grazie a quella commistione di black, sludge e thrash, carico pure di una certa dissonanza a livello delle linee di chitarra, che talvolta si lanciano in galoppate dal vago sapore punkeggiante che rendono la proposta del combo di Tolosa, variopinta, muovendosi in tetri meandri della musica estrema, non disdegnando pure tenue parti atmosferiche come nei quasi dieci minuti di "Upon the Masses" o nell'ultima traccia, in cui il quintetto transalpino la alterna ad un furioso e malinconico black metal, grazie a l'utilizzo delle chitarre in tremolo picking. Ho tenuto l'analisi degli In Cauda Venenum in ultima istanza perché oltre a palesarsi per terzi, e probabilmente essere i più talentuosi del trio di gruppi, si sono rivelati anche i più originali, proponendo qui un'unica song, “Laura Palmer, Agonie à Twin Peaks”, una lunga traccia di oltre 14 minuti che ci riconsegna quel mood noir surreale tipico della serie di David Lynch. Cosi, lungo l'evolversi del brano, il terzetto di Lione, arricchitosi peraltro di un violoncellista, ha modo di proporre il tema del film (scritto dal compositore italo-americano Angelo Badalamenti), rivisto e offerto in un contesto che abbina black metal, orchestrazioni da paura, atmosfere horror. Una vera gemma post black, che a mio avviso rende questo split album davvero interessante. Non me ne vogliano le altre due band, ma avevo già citato gli In Cauda Venenum, al tempo della recensione del loro debut album, come potenziale crack futuro e qui ne ho avuto la conferma. (Francesco Scarci)

(Emanations Productions - 2016)
Voto: 75