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giovedì 19 dicembre 2013

0 X í S T - Nil

#PER CHI AMA: Death Doom, Dark Metal, Celtic Frost, Bethlehem, Triptykon
Finlandesi al debutto, ormai lo scorso anno, gli 0 X í S T , da pronunciarsi “zero exist”. Forti di un EP del 2010 ('Unveiling the Shadow World'), i quattro ragazzi dalla terra dei laghi confezionano un album dove i riferimenti sono molto comodi, tanto che ci pensa la band stessa ad indicarci nomi blasonati come Celtic Frost e Triptykon su tutti, ma al sottoscritto è risuonato per il neurocranio anche qualche eco di certi Katatonia più lugubri. Si parla di dark metal e forse, per una volta, siamo d’accordo sulla definizione, in quanto questa spesso sembra un po’ semplicistica: un calderone dove buttare mescolanze di vario genere tra “roba pesante” di stampo death/doom e melodia funerea. Insomma, fin qui tanto di grandi aspettative, eppure... già, eppure rimane qualcosa in sospeso. Ho ascoltato più volte questo disco, con vero impegno, ma senza troppo successo. Il risultato è che, come già detto, sembra mancare di qualcosa. Beninteso, i ragazzi non sono dei buzzurri e in quattro strumenti tirano fuori un mood che gratta bene su ogni singola vibrazione emessa del vostro stereo; ciononostante mi rimane il seguente dubbio: non riesco a capire se si tratti di vero talento oppure “solo” (e si fa per dire) di grandi lezioni ben memorizzate ed un minimo rimaneggiate. In sette pezzi, gli unici che hanno catturato e colpito la mia attenzione sono la opening track “Old World Vanished” e la doppietta conclusiva “Of Wood, Stone and Bone” &“Shrivel”: la prima sostenuta da un riff portante meraviglioso nella sua semplicità, le seguenti molto più ipnotiche, dove Shrivel in apertura sembra un carillon tendente all’incubo. Il resto dei brani si muove tra chitarre ribassate e mid-tempo sicuramente d’impatto (impossibile non tenere il ritmo), ma mancanti (sottolineo, A MIO PARERE!) di quella scintilla ultima, che faccia decollare le note e rendere quest’album micidiale. In realtà credo che, per una volta, il problema non sia dei ragazzi ma piuttosto mio, per non essere riuscito a trovare la vera chiave di volta di tutto il lavoro. Quindi mea culpa e l’invito ad ascoltare questo disco, con l’augurio di sviscerarlo e farlo vostro con più successo. Per quanto mi riguarda, aspetterò un futuro lavoro per rimettermi alla prova...(Filippo Zanotti)

(Self - 2012)
Voto: 65

http://www.zeroexist.net/

The Roadless - R-evolution

#PER CHI AMA: Glam Pop Rock
I veneti The Roadless tornano con il nuovo album 'R-evolution' dopo aver trascorso gli ultimi due anni a consolidare la line-up e farsi le ossa sui palchi della nostra madre patria. Grazie alle svariate collaborazioni che si leggono all'interno del cd (un jewel case ben curato a livello grafico) e avere concluso l'album presso uno studio di Londra, i The Roadless si giocano le carte giuste per fare il fatidico salto di qualità e visti tutti gli sforzi, sembrano crederci fino in fondo. Le dieci tracce sono un excursus tra sonorità diverse, dal glam rock che si sente soprattutto nelle linee vocali (il buon Jon Bon Jovi dei primi album ha fatto scuola) e il brit spensierato, specialmente per le chitarre e la parte ritmica in alcuni spunti. Volendo aguzzare l'orecchio, ci troviamo anche del funk, ma non è questa la direzione intrapresa dalla band. Il cantato in inglese e i testi non particolarmente complessi chiudono la ricetta per il successo dei The Roadless. Il cd apre con "No Excuses", grancassa che scalcia, bei riff di chitarra e via, tutti dietro al ritmo trascinante di basso e batteria che non vogliono essere in secondo piano. Gli arrangiamenti sono studiati bene e hanno l'obiettivo di rendere la traccia (ma non solo questa) più godibile e catturare in primis un pubblico non abituato a sonorità estreme. Certo, non brilla di originalità, ma chi la cerca oramai? "Pearls" ha un bell'arpeggio iniziale che lascia spazio troppo presto ad uno svolgimento pop, pur se fatto con stile. Chiudo con "What if", gran pezzo che graffia a livello di riff e voce, ben tirato come una muscle car che romba e tuona tra le luci della notte. Anche qui tutto al posto giusto, in particolare si apprezza la parte ritmica che da la giusta carica al pezzo. Complimenti, così si fa. Che dire, i The Roadless sono ottimi musicisti con le idee chiare, quindi otterranno sicuramente altri risultati degni di nota. Cercherei solo di essere meno trasformista nello stile e punterei ad ottimizzare i live, lasciando a case le cover e le ballate. Il popolo esige più rock, originale se possibile. (Michele Montanari)

mercoledì 18 dicembre 2013

The Circle Ends Here - The Division Ahead

#PER CHI AMA: Post-Metal, Post-Hardcore, Cult Of Luna, The Ocean
Lavoro impegnativo quello dei friulani The Circles Ends Here. L'album di stampo post-metal dalle tinte classiche, si apre con "Remiss", un crescendo di chitarra che sfocia rapidamente in un enorme muro sonoro dove emerge la voce in uno scream energico che si vedrà poi mutare in un apprezzatissimo cantato pulito sorretto da delle chitarre eteree. La formula si ripete nelle successive "Rift" e "Porcelain" che però non raggiungono lo stesso impatto della opening track ma mantengono comunque degli ottimi standard compositivi. "Frail" è un ottimo intermezzo dove il combo si scopre con un brano dove fanno da padroni la chitarra acustica ed il pianoforte. La cupa "Trascend" riprende con ritmi più doom, gli stilemi delle prime song riuscendo, probabilmente grazie alla sua semplicità, ad avere un approccio più diretto rispetto le precedenti. Sempre di grand impatto è la succesiva "Nescience" dove, dopo un frenetico preludio batteristico, si innalza furiosa una chitarra ritmica che sprigiona la pura essenza della traccia. La penultima "Lakes" potrebbe essere la chiusura perfetta del disco per le sue atmosfere tastieristiche, ma altro non è che la calma prima della tempesta finale "Monuments", la quale, monolitica ed estremamente potente, ci accompagna in un sussegguirsi di fervore e tranquillità fino alla chiusura dell'opera. La produzione impeccabile rende ogni nota lucente il che rende l'ascolto spiazzante grazie ai giochi di dinamica tra le chitarre pulite, colme di chorus, e i distorti incisivi. I veri protagonisti dell'album però sono la voce e la batteria: la prima sapiente nell'utilizzo dello screaming e del pulito, riesce a cambiare radicalmente l'approccio alle composizioni, mentre la seconda, nonostante la staticità delle sezioni compositive, riesce a rendersi sempre fluida grazie agli innumerevoli giochi ritmici. Chiudendo, questo full lenght è, come detto inizialmente, un lavoro impegnativo poichè necessita di numerosi ascolti per poter assimilare tutte le melodie e le sfumature proposte dal gruppo; ma si sa che gli ascolti che magari sembreranno ostici inizialmente daranno poi grandi soddisfazioni. Bravi! (Kent)

(Memorial Records - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/thecircleendshere

Mesphistopheles - Sounds of the End

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Psycropotic, Obscura
With a seemingly profound influx of Technical Death Metal into the scene, the wide-reaching spread of it has hit Australia of all places with this second effort from the Tasmanian act Mephistopheles. One of several bands to use the moniker, this version is pretty much what you would consider the standard norm for the genre tag “Technical Death Metal:” a veritable whirlwind of unimaginatively complex and off-kilter guitar riffing styles into densely-packed songs with a fluidity that’s jaw-dropping in the skill-set required to hit those notes, commanding drumming that keeps the rhythms as obscure and complex as the riffing and a smorgasbord of bass riffs that spindle, buzz and generally act as another instrument to display technical prowess and skill rather than giving a heavy tone to the music. As such, this is pretty much directed mainly at those who prefer such music rather than any sort of writing skill for the songs tend to fall into a trap of being unrecognizable after a while and blend into a blur of chaotic, complex guitars rather than a flowing piece of music which a lot of other bands in this style accomplish to a varying degree of success. Rather, this is the prototypical ‘let’s-see-how-many-riffs-we-can-pack-into-a-single-song’ type of band that many look at as the cliché of the genre, even though there’s a smattering of talent that’s needed to be able to play as unrelentingly fast and accurate as they are. Hitting riffs that complicated, at the speed they do so, with the fluidity accomplished, does take real skill and is ably demonstrated such as "Pariahs of the Universe," "Soldiers of the Endtime," "Battle of the Sea and Sky" and "The Siren of Eternity" all attest to mightily. Even shorter stuff like "Silver Doors" and "Generation O" have a fantastic display of talent required to pull off what’s accomplished in those tracks which does leave this as more than just an average tech/death band, but there’s also not a whole lot else to diversify themselves in such a crowded market. However, for those that forsake all this and merely enjoy and appreciate technical bombast for the sake of it all, bump this score up a few extra notches. (Don Anelli)

lunedì 16 dicembre 2013

Odetosun – Gods Forgotten Orbit

#PER CHI AMA: Death Progressive, Gothic, Moonspell, The Blood Divine
Autoproduzione con i fiocchi per questa band tedesca attiva dal 2008 che con questo album sfodera una classe innata e matura. Un suono corposo, pesante e definito allo stesso tempo, una chitarra stratosferica che libera gotica epicità da tutti i pori, con un carisma e una personalità piena di originalità. A volte sembra di sentire i migliori The Cult ('Love' album) in una forma gotica di scuola The Blood Divine, l'atmosfera buia dei My Diyng Bride ma più orgogliosi, meno psicotici e tanto più rock oriented sulla scia dei Sentenced, con richiami al metal dei Moonspell. Un buon stile compositivo, efficace e ad effetto, i brani non deludono mai le aspettative e si prova grossa soddisfazione ascoltando questo ottimo cd. Magari l'idea sonora non è originalissima ma nel suo cavalcare stereotipi di genere riesce ad evolversi e a distinguersi dalla massa per una vena compositiva, dura e melodica di tutto rispetto, bella, orecchiabile, ben calibrata e ben suonata, carica di venature classic rock, con assoli e riff tutti da apprezzare. Non manca il brano strumentale, lungo, psichedelico e progressivo dal titolo "Journey to Gliese" che sposta pesantemente il tiro verso lo space rock. Nell'insieme dei sei brani di certo non sfigura, riesce a creare un ponte narcotico con certo space stile The Spacious Mind rivisitato in chiave gothic metal, che ci permette di respirare prima dei due brani finali, un tripudio di duro rock con aspirazioni post e psych metal. Un album dall'incedere progressivo in continua mutazione che, tralasciando la mediocre grafica di copertina, possiamo definirlo un gioiellino tutto da scoprire e da consigliare! Ascoltare per credere! (Bob Stoner)

domenica 15 dicembre 2013

Centuries - Taedium Vitae

#FOR FANS OF: Black Hardcore
Opening with a slow, atmospheric fade, “Incipit Tragoedia” (First Tragedy), segues into the second track, “Caeruleus” (Water Spirits). Segues are prevalent between most of the songs on this release. Centuries is an extreme metal band with black metal vocals using slower beats—as opposed to standard blast beat fare — and includes some solid headbanging grooves, such as in “Gelu” (Chill of Death) and “Metus” (Object of Dread) — channeling a touch of Pantera feeling in these rhythms. The disc title, which I first interpreted as 'Tired of Life', is more accurately translated as 'Weary of Life'. They are a Florida (USA) band that has added a degree of mystery to their image by choosing Latin titles for all of their songs on this disc, as well as the disc title itself. This makes me wonder if one of the band members is a former seminary student (since they don’t teach Latin anywhere else these days, to my knowledge), or if they just used the ‘Net to translate their song titles for dramatic effect. That having been said, there are additional shades of meaning that may come from alternate translations of the song titles than the ones chosen to appear in this review. This reviewer has barely begun to develop an ear for understanding the guttural percussive effect of death metal vocals, and has yet to develop an ear for deciphering the words rendered in the full-throated screams of the black metal vocal style. “Tabeo” (Decay) is extreme noise-metal with a drumbeat, including a clean narrative vocal in the background in English. All in all, I found 'Taedium Vitae' (although somewhat inscrutable) best described as a cross between Anaal Nathrakh and Dissection, as it should appeal to fans of both groups. Be forewarned, however not to expect the smooth, tight rhythms tones of the latter, as Centuries’ rhythm guitars on this disc are overdriven yet jangling, with the accidental dissonance of occasional open strings retained on the recording for effect (as pioneered roughly a half-century ago on the Beatles’ neo-metal tune, “Helter Skelter” which appeared on their infamous 'White Album'). (Bob Szekely)

(Southern Lord - 2013)
Score: 60

http://centuriessl.bandcamp.com/releases

sabato 14 dicembre 2013

Anorak – Go up in Smoke

#PER CHI AMA: Hardcore, Zeke, Unsane, Cursed, Converge
Gli Anorak sono una realtà transalpina alla loro terza uscita, questa volta licenziata sotto il patrimonio della Basement Apes Industries. La band si è formata nel 2005 ed è dedita ad un miscuglio sonoro che agglomera il suono più duro dell'hardcore moderno con sperimentazioni post-core, innesti di sanguigno noise rock e abrasive scaglie di sludge metal. Il suono potrebbe rifarsi a band metal come i Nailbomb ma la derivazione moderna dell'hardcore lo fa deviare decisamente verso gli Earth Crisis o i seminali Breach con intromissioni nel mondo accelerato degli Zeke, per quanto riguarda il versante più rock oriented ma con un tocco più underground, dal suono caldo alla Wolverine Blues che a volte si rende più controverso e rallentato, più sperimentale sulla falsariga di Unsane, Cursed o sul versante grindcore dei Pig Destroyer. La tensione è palpabile in tutti i brani, non vi è respiro nemmeno nelle parti più lente. Una performance vocale notevole per potenza e drammaticità, forse leggermente monotona, comunque tesissima, a volte risulta troppo statica contribuendo a rendere il tutto esasperato e pesante all'inverosimile proprio come richiesto dal genere in questione. Il suono claustrofobico da disastro apocalittico è quello prediletto dalla band che ne fa un'arma letale; l'accostamento al grind si deve infatti leggere in questi termini, cercandolo più come attitudine espressiva che musicale. L'album rimane comunque legato a dei connotati noise rock tirati all'estremo ed è una cosa molto interessante, un bel connubio di frequenze d'assalto e melodie dissonanti e incalzanti che rispolverano la verve esplosiva di band come gli Helmet più rumorosi del capolavoro 'In the Meantime' in un contesto decisamente più rude. 'Go up in Smoke' cresce d'interesse ad ogni ascolto e mostra i suoi tanti stati d'animo rivolti al grigio solo dopo svariati ascolti, quindi non lasciatevi scappare l'occasione di dare un ascolto a queste undici tracce impregnate di sudore, disillusione e rabbia. (Bob Stoner)

(Basement Apes Industries - 2013)
Voto: 65

Mollusk - Colony of Machines

#PER CHI AMA: Sludge, Ramesses, Ufo Mammuth, Iron Monkey
Il terzo album dei Mollusk è uscito nel 2013, è un'autoproduzione, ha quattro tracce di cui tre al di sopra dei sette minuti e si presenta come un pugno sferrato nello stomaco. Stiamo parlando di metal, quello malato, quello dilatato, quello rallentato, quello urlato fino all'estremo, quello ipnotico e asfissiante... stiamo parlando di sludge. 'Colony of Machines' ci regala circa mezz'ora di incubi, sintetizzati in un suono torbido e drammatico senza spazi per altri stati d'animo, qualche lieve estrazione psichedelica a sostituire la morfina che serve a superare l'impatto di questi brani dall'umore nerissimo, qualche scatto d'ira e il gioco è fatto. Il duo dell'Ohio spacca per pesantezza, il sound è vicino agli High on Fire ma rallentato come a ricordare quanto importanti siano stati gli Sleep per certi musicisti; tutto è molto metallico e rude, suona come lo stoner ma non ha le sfumature vintage né risulta cadenzato come il doom. Questo album sfodera un'innata tenebrosità psichica, è un destro pesantissimo tirato in faccia con cura e lentamente, con la forza degli Iron Monkey ma con il tocco dei Ramesses e l'allucinazione clinica dei The Wounded Kings e degli Ufo Mammut, un violento castigo sonico. Neal Hunter - Guitar / Bass / Vocals e Chase Schleyer - Drums / Vocals hanno voluto creare un monolite potente, immobile e statuario. Forse questo cd non aggiungerà niente di nuovo alla loro discografia, riconoscendo che effettivamente ricalca fedelmente le avventure soniche dei precedenti lavori ma sicuramente agli amanti dello sludge metal e sludge core, l'ascolto va consigliato. (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Mollusk

Fausttophel - Жажда забвения

#PER CHI AMA: Blackened Death, Old Man’s Child, Edge Of Sanity
Esordio incerto quest’album del duo ucraino Fausttophel, intitolato 'Жажда забвения', che grossomodo può essere traslitterato e tradotto come 'Thirst of Oblivion'. Incerto perché, in definitiva, il disco si presenta come un insieme di sonorità che devono molto alla scena europea (in questo caso leggasi scandinava) melodic death dalle tinte black anni ’90, ma senza aggiungere poi molto, con l’unico tratto distintivo di avvalersi del cantato sporco in lingua madre, più delle eteree incursioni vocali femminili qua e la. Sei tracce per circa 37 minuti, comprensivi di intro recitata (in russo) al rumore di un fuocherello scoppiettante, più una cover dei Kollaps (il quarto pezzo “Думи” - "Thoughts"). Quindi? Si tratta di un album? Un EP? Mah... abbiamo capito da molto ormai che non è la durata a fare un lavoro di qualità, ma quello che esso contiene, fosse anche solo una traccia purché di ottima fattura; bene, in questo caso, purtroppo, non si può parlare di capolavoro. Sicuramente di impegno ne è stato profuso nella stesura dei pezzi e mi sento di poter affermare che i ragazzi sono realmente appassionati del loro lavoro, ma in tutta onestà l’unica track che è realmente piaciuta al sottoscritto è stata proprio la cover, il che la dice lunga sulla validità dell’intero album. Ad ogni modo, se non altro per conoscerli, un ascolto lo si può concedere, quindi una pacca sulla spalla e puntiamo su un’iniezione di fiducia e, soprattutto, personalità per il prossimo lavoro. (Filippo Zanotti)

(Another Side Records)
Voto: 60

Pyrexia - Feast of Iniquity

#For Fans of: Brutal New York Death, Suffocation, Skinless, Immolation
The fourth release from New York bruisers Pyrexia, 'Feast of Iniquity,' brings about another mark for a band without much in the way of originality this deep into their career. Basically, this is pretty much one speed all the way throughout, which is hyper-speed drumming with overbearing fills thumping away with tight, oppressive rhythms executed by the blazing guitars with the occasional burst of fluid riff patterns but far too often relies on the dynamic breakdown associated with the NY side of the Death Metal scene. Filled with Hardcore-like chugging, thunderous drumming and a near scream/growl vocal style, this band fits in pretty heavily with that side of the country that produced such music early on which obviously comes from the heavy Hardcore/Punk scene that inspired those early users that gave Pyrexia their motifs. Tracks like "The Pendulum," "Death Wish" and "Cocoon of Shame" all pretty much follow the same path of brutal guitar riffs, breakdowns into vicious chugs and non-stop pounding drumming that takes on a different dynamic due to how loud it is in the mix. This is pretty much the standard for how the album works, even though there’s a few surprises here and there. "Thy Minion" does offer up a few different change-ups with some decent guitar flurries mixed into the bunch, "Cryptic Summoning" has a fine up-tempo vibe that recalls the more fluid riffing patterns of Immolation in select spots and certainly "Panzer Tank Lobotomy" generates a few special dynamics with its creepy pace and blistering performances. The main selling point here, though, is undeniably "Wheel of Impunity," which has more technical riffing than anything else on the album, full-on riff changes and a dynamic, unrelenting attitude that’s utterly pulverizing as it blasts through its opposition. This is most certainly the best song on here, and does help to save this from too much repetitious riffing and patterns that can make this blend together into one huge blur of noise and screaming grunts, but for the fans who eat this style of metal up this is certainly fine material overall. (Don Anelli)

(Unique Leader Records - 2013) 
Score: 75 

venerdì 13 dicembre 2013

Odd-Rey - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, funk, Black Crowes, Led Zeppelin
Per gli Odd-Rey il mondo sembra essersi fermato nel 1992, in un imprecisato momento tra l’uscita del secondo album dei Black Crowes e gli esordi dei Blind Melon o gli Spin Doctors, quando i Guns & Roses erano le più grandi rockstar sulla faccia della terra. Il loro hard rock di strada innervato di striature blues e funk sarebbe stato perfetto per percorrere le highway americane in una decappottabile in quei giorni di stivali, capelli lunghi e jeans scampanati. E i quattro vicentini non fanno nulla per nascondere le loro influenze o l’immaginario a cui attingono a piene mani, basti dare un’occhiata alla copertina del loro cd. Schiacci play e ti trovi sommerso dalle colate di soli chitarristici, le ritmiche incalzanti e gli intermezzi funkeggianti di “Some Humanity”, un perfetto manifesto per il suono del gruppo, incendiario e convincente come la voce aspra e tirata di Filippo Zorzan, anche se rischiano però di far passare i Black Crowes per avanguardisti. Gli ingredienti vengono poi ben dosati e distribuiti lungo gli 8 brani (compresa ghost track dopo la conclusiva “Ipnotis”, in puro stile anni '90) rispettando tutti, ma proprio tutti, gli stilemi (per non dire i clichè) del genere. A favore degli Odd-Rey giocano comunque una tecnica invidiabile, una bella convinzione nei propri mezzi e la capacità di riversare tante cose e tante idee, per quanto poco originali, in brani compatti, potenti e mai prolissi, sia quando guardano smaccatemente alla band dei fratelli Robinson (“Stay Simple” o la ballata “Rebirth”), sia quando provano a deviare dal percorso come nell’interessante “Your Tree”, dove una rilassata andatura con battuta in levare si trasforma in un hard spesso, rallentato e ciccione, su cui le grida stidule di Zorzan arrivano a ricordare il compianto Bon Scott. Per chi pensa che gli ultimi vent’anni non siano mai esistiti, questo disco sarà un must-have assoluto. Per tutti gli altri, rimarrà un piacevole ascolto licenziato da quattro ragazzi che fanno la loro cosa fregandosene di tutto e tutti, con entusiasmo e sincerità. Non poco. (Mauro Catena)

(Self - 2013)
Voto: 70

http://www.oddrey.it/

Slowrun - Prologue

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Post-rock, Finlandia e due musicisti alla continua ricerca del suono perfetto. Ottimi ingredienti per ottenere un bell'album, ma il terreno è sempre arduo e pieno di avversità nel duro mondo della musica. Creare, ispirarsi e fare qualcosa di nuovo è da sempre il chiodo fisso del musicista che vuole esprimere la propria arte, quindi facile comprendere tutto il lavoro che sta dietro a una produzione come 'Prologue'. Suoni perfetti e arrangiamenti equilibrati per il post-rock strumentale che soffre di limiti se si scegli di stare nel genere. "Approaching" è la traccia introduttiva e non ha nulla da invidiare a God is an Astronaut, Russian Circles e Sigur Ros. Tutto è al posto giusto, come le chitarre spaziali, le esplosioni ritmiche alternate a break che creano dinamicità ed evoluzione che l'ascoltatore apprezza. Ma se si è amanti del genere, subito il pensiero va ai classici e ci si chiede: ce n'era bisogno? Forse no se anche i Slowrun decidono di calcare gli stessi passi, ma forse si se questa è una prova generale per confermare che hanno le carte in regola e da qui iniziare un percorso artistico personale. Anche "Escapism" denota cura e amore per il suono e sicuramente un live con uno spettacolo di luci degno di nota guiderebbe l'ascoltatore verso profondità oceaniche avvolte da un dolce silenzio. Oppure verso un infinito spazio stellare illuminato da soli lontani che aspettano solo di incontrare forme di vita ignote ancestrali. Che sia un viaggio verso il basso o verso l'alto, i Slowrun devono continuarlo senza perdersi, ma creando loro stessi la via che li potrebbe far brillare di luce propria. E non di riflesso come spesso accade. (Michele Montanari)

(Slow Burn Rec. - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/slowrun