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martedì 8 ottobre 2019

Daniele Brusaschetto - Flying Stag

#PER CHI AMA: Inustrial/Thrash, Voivod, Godflesh, Fear Factory
Daniele Brusaschetto vive la scena underground da ormai trent’anni e già questo dato dovrebbe bastare a dare un’idea della sua passione per la musica. Rendiamoci conto: tre decadi spese a comporre, provare, riprovare, comprare strumentazione, cercare live, gestire “contatti” (come dicono Sick Boy in 'Trainspotting', i pusher in generale e noi spacciatori di musica brutta nello specifico) che non rispondono mai, litigare coi fonici e con lo spazio sempre insufficiente del bagagliaio dell’auto, girovagare per studi di registrazione e locali. Insomma, una vita di sacrifici (tanti) e soddisfazioni (qualcuna). Non so voi, ma se all’inizio della mia carriera musicale (sigh!) mi avessero chiesto “Come ti vedi tra trent’anni?” io avrei citato (e citerei tuttora) Palahniuk: “Morto”. Daniele invece non si è mai perso d’animo: dopo tutto questo tempo e malgrado tutte le difficoltà, continua a comporre e suonare, ed è grazie a questa determinazione che è arrivato a festeggiare i venticinque anni del proprio progetto solista con il dodicesimo (sì, avete letto bene, 12) album in studio intitolato 'Flying Stag'. Dopo aver saggiato le varie possibilità di un rock elettronico caratterizzato da una vena profondamente cantautorale, minimale ed intimista, il musicista torinese sceglie di tornare alle proprie radici spiccatamente metal, confezionando un album molto più istintivo e rabbioso, quasi a voler celebrare una seconda giovinezza e dare sfogo a sentimenti a cui solo l’irruenza di un sound abrasivo può dare forma. Ecco quindi che in 'Flying Stag', i riff estremi della chitarra distorta accompagnata solo dal cantato pulito, talvolta in growl dello stesso Brusaschetto e dalle puntuali ritmiche di batteria dell’ottimo Andrea Marietta, si prendono tutta la scena, dando vita ad un graffiante lavoro in cui riecheggiano il thrash metal cerebrale dei Voivod, la furia contaminata dei Fear Factory e le destrutturazioni rumoristiche dei Godflesh. Posso solo fare ipotesi sul concetto che sta dietro a questo disco: i cervi volanti del titolo e il triste sole della copertina, stilizzato come lo disegnerebbe un bambino, parlano di chimere ed illusioni, così come i testi delle canzoni trasudano esistenzialismo e critica verso la routine quotidiana imposta da una società alienata ed infelice, impegnata nel perenne inseguimento di traguardi effimeri. Daniele Brusaschetto introduce l’ascoltatore nella sua personale mostra delle atrocità con “Otherwhere”, una sorta di rollercoaster di fraseggi dissonanti che corre tra disturbate visioni oniriche e risvegli in una realtà dai contorni da incubo e prosegue con il vorticoso thrash di “Stag Beetle”, lucida riflessione sulla futilità delle ossessioni contemporanee (“The world has always been more or less the same, big fish eats small fish, we are as we are, we are an alms dish”, “Desires are a world that does not exist”). Ascoltare la pachidermica “Splattering Purple” e la velocissima “The Unreal Skyline” è come sfrecciare in auto tra squallide periferie metropolitane ed inquinati siti industriali in abbandono, mentre appare più introspettiva per contenuti la non meno irruenta e voivodiana “Like When It’s Raining”. Dopo la furibonda cavalcata dall’inequivocabile interpretazione di “Fanculo Mondo”, il disco arriva alla chiusura con la crepuscolare “From the Tight Angle”, una cruda riflessione su come molti prevarichino il prossimo nella sola speranza di apparire più forti e non trovarsi a ricoprire il ruolo di vittima. Uscito grazie all’impegno di etichette indipendenti (Wallace Records, Bandageman Records, Bosco Records e Solchi Sperimentali Discografici), registrato e mixato da una colonna portante dell’underground torinese come Dano Battocchio e masterizzato dallo studio americano Audiosiege, 'Flying Stag' è un album robusto ed essenziale, perfetta sintesi del lunghissimo percorso compiuto da Daniele Brusaschetto, un percorso che sembra averlo riportato al punto di partenza: non è stato un viaggio a vuoto però, perché il musicista mostra una consapevolezza nuova unita all’energia di quel ragazzino che trent’anni fa si sarà sentito chiedere “Come ti vedi tra trent’anni?”. La risposta oggi dovrebbe essere: “Più vivo che mai”. (Shadowsofthesun)

(Wallace/Bandageman/Bosco Rec/Solchi Sperimentali Discografici - 2019)
Voto: 74

http://www.danielebrusaschetto.net/

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/

lunedì 19 agosto 2019

Bokor - Anomia 1

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative, Opeth, Tool, Cult of Luna
Era il 2007 quando venni sopraffatto da questa entusiasmante creatura proveniente dalla Svezia. Si trattava dei Bokor, nome non certo brillantissimo (nelle pratiche voodoo è il sacerdote che pratica magia malvagia, per scopi personali), però la musica, wow. Cinque musicisti dai più disparati background musicali che si sono incontrati e hanno deciso di fondere le loro influenze in questa band. E la Scarlet Records ci vide lontano mettendo sotto contratto questo nuovo act scandinavo. La musica? Una miscela di un po’ di tutto: avete presente la vena goliardica dei System of a Down? Bene, unitela al sound oscuro dei Tool, con un pizzico di sludge alla Cult of Luna, inserito in un contesto progressive alla Opeth, con riferimenti agli Anathema e ai Porcupine Tree e al death rock dei Mastodon. Tutto chiaro no? 'Anomia 1' colpisce chiunque per la freschezza della sua proposta ancora oggi nonostante gli oltre dieci anni d'eta, soprattutto per la tonnellata di riferimenti che vi si possono ritrovare: la musica progressive si fonde ad elementi sinfonici e ad un certo hard rock anni '70, amalgamandosi magistralmente con il death, il black, il thrash, la psichedelia, con suoni industriali, con il blues, e ancora con il gore, il punk e qualsiasi altra cosa vi venga in mente, perchè qui c’è davvero di tutto. I musicisti mostrano un talento sconfinato in grado di ipnotizzarci con la loro carica emozionale ed interpretativa. Sei brani, per un totale di 44 minuti (splendidi i 14 minuti di “Migrating”, vera summa di questo piccolo gioiello), in cui i nostri ci prendono per mano e ci accompagnano nel loro mondo, tramortendoci con il loro sound imprevedibile, estremamente creativo e sempre in bilico tra il reale e il surreale. Esaltante la prova dell’istrionico vocals, tale Lars Carlberg, capace di spaziare da vocalizzi alla Tool o alla System of a Down (ascoltate i primi due brani per credere), passando attraverso screaming e growling vocals. Testi profondi ed ispirati completano un album da avere assolutamente, anche se datato. (Francesco Scarci)

(Scarlet Records - 2007)
Voto: 86

https://myspace.com/bokorband

giovedì 25 luglio 2019

Pando - Negligible Senescence

#FOR FANS OF: Dark/Industrial/Black
'Negligible Senescence' is the 2016 debut release from Industrial Alternative Progressive Rock outfit Pando, recently re-released by Aesthetic Death. On the opening track "Residue", the first strum of the guitar sounds like 1997's "Kiss The Rain" by Billie Myers but doesn't continue as so, leading into a mariachi riff with borderline satanic growling vocals which seem out of place (a common theme throughout the first half the album). Following on from the opener is "Runt", which leads with a funky Rock n Roll riff that the Black Keys would be proud of, however, the vocals again seem like they are disjointed from the music. "Trek Through Utah Desert" has a pleasant sound (in comparison), but throughout the album, there is the inclusion of voice and sound samples that are a mostly meaningless contribution to the sound serving only to elongate the track times in an attempt to make the music seem progressive. Midway into the album, the sound transitions into Industrial Doom Rock, and for the first time the vocal style actually complements the sound. "Allisandrina" is one of the calmer moments of the album, making you feel as if you are stranded at sea whilst your deck hand is uneasily serenading you because of the lack of fish you have caught. The closing track "Ohm" is uninspired atmospheric tosh, that makes you feel like you're sitting in a damp cave, which I'm sorry to say is where this album belongs. Overall, it seems Pando had a bold idea to deliver an album (as the album name suggests) that has no signs of ageing as time goes on, however it fails in it's pursuit, leaving you with a disjointed feeling of dissatisfaction. (Stuart Barber)

Lèche Moi - A6

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ascoltando “Cold Night”, prima traccia di 'A6', ultima fatica dei francesi Lèche Moi, si ha l’impressione di entrare in un mondo surreale dove le creature citate da Robert Smith in "Hanging Garden", emergono dalla notte delle banlieue parigine inscenando una danza macabra, evocate dal cantato messianico, dalla pulsante ritmica elettronica e dal lugubre sax che animano il pezzo.

I degradati paesaggi post-industriali e le atmosfere impregnate di un romanticismo decadente sono il trait d’union che lega gli undici pezzi di un album tormentato che si sviluppa caoticamente tra pulsioni elettro-dark, divagazioni punk, grunge e persino noise, il tutto condito da battiti marziali e suggesioni ethereal-wave alla Cocteau Twins: insomma, un bel po’ di carne al fuoco e la sfida non indifferente di conciliare il tutto.

A guidarci in questo sorta di crepuscolare saturnalia ci sono Sidonie Dechamps, cantante capace di destreggiarsi tra stili completamente diversi e dare un tocco di carisma a composizioni non sempre convincenti, insieme all’altro ideatore del progetto Mika Pusse: l’interpretazione della prima non può che ricordare le performance infiammate di Siouxsie Sioux, mentre il secondo le fa da contraltare con la sua voce grave alla Nick Cave. Il comparto vocale rappresenta la spina dorsale dell’album ed è posto in grande risalto nel mix, relegando lo stuolo di altri strumenti ed effettistica a mero sottofondo di una specie di oscuro cabaret, cosa evidente in “Burned”, pezzo caratterizzato dal duetto di Sidonie e Mika appoggiato ad un ritmo cadenzato e un’angosciosa melodia che ricorda una versione industrial-rock di "Angel" dei Massive Attack.

La band sembra dare il meglio di sé proprio quando dà liberamente sfogo alla propria anima squisitamente punk senza perdersi in sperimentazioni eccessive: da questo punto di vista “Rage” è il pezzo meglio riuscito dell’album, contraddistinto dal repentino alternarsi di parti lente e sfuriate chitarristiche di grande impatto, ma anche il singolo “Libéra Me” colpisce per l’efficacia nel ricreare un’atmosfera eterea e al tempo stesso luciferina. Belle anche le due composizioni più crepuscolari del mazzo, “Anyway” e “The Letter”, brani romantici e minimali, mentre risulta decisamente più ostico digerire l’unione perversa di post-punk sfrenato alla Juju e noise rock scuola New York che troviamo in “Deep”.

I Lèche Moi non intendono limitarsi al compitino e confezionare il loro lavoro assemblando cliché della darkwave, pertanto sono molti i brani sperimentali e pesantemente contaminati, come la criptica “A Monkey In My Back” e quella sorta di manifesto ribelle che è “Irrécupérable”, in cui il parlato di Sidonie è incastonato in una cacofonia di nervosi effetti elettronici. In chiusura troviamo la lunghissima (11 minuti) “All Is All”, delirio rumoristico in cui si avverte l’eco dei Einstürzende Neubauten, e l’ambient notturno di “Partir Pur Ne Plus Revenir”.

Per quanto questi tentativi di arricchire l’esperienza sonora esplorando tutte le direzioni possibili siano senza dubbio ambiziosi, appaiono però anche sterili e troppo scollegati tra loro, mancando di trasmettere all’ascoltatore un’idea d’insieme e rendendo difficile l’ascolto. Le idee messe sul piatto sono veramente tante e suggestive, ma il loro sviluppo è incostante e capriccioso, proprio come l’anima punk del progetto. Non c’è da stupirsi se molti rimarranno ammaliati dalla sfrontatezza dei Lèche Moi, tuttavia al termine dell’ascolto di 'A6' proviamo una sensazione di incompiutezza e disarmonia, come se nella fretta di finire il puzzle dell’album, la band avesse collocato a forza molti dei tanti tasselli a disposizione. (Shadowsofthesun)
 
 (Atypeek Music - 2019)
Voto: 60

https://leche-moi.bandcamp.com/album/a6

giovedì 20 giugno 2019

Vous Autres - Champ du Sang

#PER CHI AMA: Black/Post-core, Blut Aus Nord
In Francia non si sbaglia un colpo. Hanno vinto l'ultimo Mondiale di calcio, la Champions femminile di calcio negli ultimi quattro anni, primeggiano un po' ovunque, soprattutto nella musica estrema, che vede affacciarsi sulla scena i Vous Autres e il loro debut album, 'Champ du Sang'. Nove inni di pura malvagità all'insegna di un black metal contaminato da post metal, industrial, dark e doom. Questa è almeno la sensazione che scorgo durante l'ascolto dell'opening track, "Sans Lendemain", quasi nove minuti di sonorità sofferenti e malefiche, sorrette da atmosfere spettrali, screaming vocals, ma anche ritmiche tirate che mi spingono ad individuare in gente tipo Blut Aus Nord o Deathspell Omega, le principali influenze di questo duo originario tra Nantes e Parigi. "Pauvre Animal, Simple Pantin" prosegue sulla falsariga, provando a sgretolare certezze consolidate di chi ascolta, alimentandone invece paure e angosce. Colpa, senza ombra di dubbio, di quelle meravigliose atmosfere da castello infestato, generatrici di mostri ed incubi, create dalle sinistre keys e da un tappeto roboante di percussioni e chitarre graffianti. Non è possibile rimanere impassibili nemmeno di fronte alla notte più buia espressa in "En Souffrance Devant Dieu", cosi come dal deflagrante e marziale incedere di "Vos Erreurs Consternantes" che schiude ad un'altra influenza dei nostri, quella dei conterranei CROWN. Un disco multiforme questo 'Champ du Sang', un disco ove immergersi nel fangoso ed oscuro sound, fatto di riverberi, suoni ipnotici, splendide melodie soffuse, bombe ritmiche, vocalizzi dannati e ambientazioni minimaliste, decisamente rarefatte. Penso a "Tes Jours Passés" ad esempio, dove ampio spazio viene lasciato ad una lenta malinconica musicalità, con tanto di voci cerimoniali in sottofondo, quasi ad evocare lo spettro dei mai dimenticati (almeno per il sottoscritto) Decoryah per poi virare verso ambiti più orrorifici. Il disco alla fine è notevole, suonato con meticolosità e sagacia, sospinto da una buonissima vena creativa e vede ancora alcuni episodi di grande interesse. Uno di questi è lo sgangherato rifferama di "Le Gouffre est Devant", dissonante, sghembo, disarmonico, ma sempre estremamente ispirato, nella più pura tradizione transalpina. L'altro è rappresentato dalla lunghissima "La Tristesse de Tes Déboires", dieci minuti che si aprono con landscape desolati (chi ha detto Godflesh?) che coprono metà del brano, e lasciano poi posto ad una mistura di dark, black e post-core, davvero da brividi. Che altro dire se non invogliarvi all'ascolto di questo magnifico ed evocativo album, rilasciato da questi maestri di enigmatici suoni tenebrosi. (Francesco Scarci) 

(Sleeping Church Records - 2019)
Voto: 80

https://vousautres.bandcamp.com/album/champ-du-sang

lunedì 20 maggio 2019

Haiku Funeral - Decadent Luminosity

#PER CHI AMA: Industrial/Dark/Ambient, Esoteric, Godflesh, Samael
In un mondo dominato dal conformismo, dove ogni forma d’arte e d'intrattenimento tende sempre più ad appiattirsi allo scopo di compiacere la maggioranza del pubblico e sulla spinta di logiche di mercato, è naturale che le voci fuori dal coro esplorino sentieri totalmente opposti, puntando su proposte singolari ed estreme, per porsi come alfieri di coloro che non accettano di essere omologati e incatenati alla deriva generale. Nobile scopo senza dubbio, ma da perseguire con accortezza, perché il confine tra provocazione e forzatura è molto breve. Prendiamo l’ultimo lavoro degli Haiku Funeral, duo francese (in realtà un americano e un bulgaro trapiantati chissà come a Marsiglia) che nel 2016 si era fatto notare con ‘Hallucinations’, album dalle coordinate nettamente metal, per quanto ricco di contaminazioni elettroniche e sonorità a cavallo tra l’industrial e le melodie orientaleggianti dei Septicflesh. Questo ‘Decadent Luminosity’ si libera invece di ogni elemento tradizionale, dando preminenza alla componente elettronica e danzando ipnoticamente tra la pesantezza apocalittica dei Godflesh, i tribalismi meditativi alla OM, e l’esasperante lentezza degli Esoteric. Il tentativo di diluire tutti questi elementi ha ovviamente influito sulla durata di questo mastodonte musicale, che si presenta come un doppio album di un’ora e mezza: da un lato ‘Decadent’, dove dominano la freddezza marziale della drum-machine e i rabbiosi giri del basso di William Kopecky, dall'altro ‘Luminosity’, che invece si muove in malsane paludi dark ambient in cui di luminoso troviamo ben poco. Sempre presente invece l’elemento vocale, con Dimitar Dimitrov che ci accompagna in questa specie di discesa negli inferi come un blasfemo Virgilio, alternando il cantato cadenzato in stile Blixa Bargeld allo scream black metal, a cui si aggiungono poi svariati effetti orchestrali, sax, violini, voci femminili e mormorii indistinti che non fanno altro che aumentare la sensazione di trovarsi in gita sulle rive del Flegetonte. È dunque la debordante ricchezza di elementi ed influenze, più che il minutaggio, a rendere quest'album molto ostico: delle due parti è sicuramente ‘Decadent’ a risultare più accessibile, caratterizzata da pezzi in cui la forma canzone è più definita e dove risaltano la marziale e meccanica "The Crown Of His Glory", le grandiose atmosfere sinfoniche di "The Dreams Of Celestial Beings" (in cui è avvertibile l’influenza degli ultimi Samael) e l’allucinante orgia ritualistica di “Dreaming Kali In The Temple Of Fire”, dove si combinano elementi orientali con la teatralità dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. I richiami al collettivo olandese fanno capolino anche nella seconda parte dell’album ("Vision Pit"), ma qui basso e drum-machine ci abbandonano per dare spazio a stridenti feedback ed oscuri effetti elettronici, mentre si compie la metamorfosi del cantante da guida dantesca a vero e proprio sacerdote demoniaco, apparentemente impegnato nell’evocazione di creature non euclidee. Bisogna ammettere che la scelta di dedicare interamente metà dell’opera alla componente ambient rende faticoso anche per l’ascoltatore più eterodosso arrivare alla fine senza skippare qualcosa, questo perché il passaggio tra le pulsanti dinamiche di ‘Decadent’ all’esasperante lentezza di ‘Luminosity’, è forse troppo brusco (un po’ come passare da 'Pretty Hate Machine' dei Nine Inch Nails ad un disco dei Raison d'Être) e le due parti finiscono per avere ognuna vita propria. Il risultato finale è un esperimento affascinante ed ambizioso, ma poco equilibrato, talmente trasgressivo da rischiare di non essere preso del tutto seriamente. Una maggior sintesi delle varie tendenze della band e un minutaggio più contenuto avrebbe permesso a ‘Decadent Luminosity’ di risaltare maggiormente tra le uscite estreme di questi ultimi 12 mesi, ma forse gli Haiku Funeral preferiscono muoversi nella buia desolazione dei gironi infernali più profondi. (Shadowsofthesun)

(Aesthetic Death Records - 2018)
Voto: 66

https://haikufuneral.bandcamp.com/album/decadent-luminosity

sabato 11 maggio 2019

Sirena Velena – The Blood Girls (Le Mestruo)

#PER CHI AMA: Dark/Industrial/Ambient
Per la collana di produzioni Ho.Gravi.Malattie. a sfondo artistico/concettuale dell'etichetta torinese underground, HgM, ci giunge un nuovo capitolo tutto da scoprire. Nell'ambito dell'intento di portare a galla e sensibilizzare l'ascoltatore verso malattie o disagi più o meno gravi della vita quotidiana e moderna, l'artista palermitana in questione (Leandra Ardizzone), ci offre un EP, scandito da una voce narrante e scorribande rumoristiche varie, di sole tre tracce, sul tema delicato ed intimo del mestruo femminile, considerato in certe culture una vera e propria malattia discriminatoria per il genere femminile. L'aspetto visitato di questo rituale è visto con severa drammaticità e nel contesto del lavoro ci si addentra in un tipo di sofferenza che enfatizza il lato più doloroso e psichico di tale disagio. Le grida sul finale del primo brano dal titolo "Indisposizione" sorprendono per realistica interpretazione, il pulsare ritmico e ripetitivo dei rumori ed il recitato di "Le Ho", fanno avvicinare il nostro stato d'animo a quello della donna che vive queste situazioni una volta al mese. Unica pecca, ma voluta per esigenze sonore/stilistiche, è che il testo, in italiano, è poco comprensibile per via degli effetti usati che lo disperdono un po', ma resta comunque validissimo il risultato finale, drammatico e tagliente, a dir poco destabilizzante. La tensione si carica ulteriormente sul conclusivo terzo brano dal titolo "Non Posso Alzarmi", con quella sensazione di infermità e incapacità percepibile che la bella voce narrante di Sirena Velena (modella d'arte, performer, sperimentatrice noise) riesce a trasmettere legata al suo modo, molto intelligente, di paragonare ad ugual valore, l'arte del rumore ad una composizione musicale di tutto rispetto. La violenza di questo lavoro è palpabile, coerente e molto veritiera, in un suono diviso tra lo-fi noise, rumoristica e minimal industrial ambient, con il cd che contiene copertina ed un inserto a tema sanguinolento per rimarcare il concept delle composizioni. Il lavoro è disponibile anche in edizione limitata a 26 copie in cassetta (rossa/bianca) all'interno di un assorbente in busta di plastica rossa (peccato non siano stati inseriti i testi dei tre brani). Questa è la linea di confine estrema che separa la musica d'intrattenimento dalla musica di riflessione, l'espressione artistica che, tramite rumori e parole, dà sfogo alla lotta di sopravvivenza quotidiana della donna. Un EP sicuramente molto particolare, ispirato e di nicchia ben riuscito. Musica di culto e d'arte che non può e non vuole essere rivolta a tutti, poichè necessità di una sensibilità più alta per essere recepita ed apprezzata. (Bob Stoner)

sabato 23 marzo 2019

Liles/Maniac - Darkening Ligne Claire

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone/IDM
Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo super duo ma, riconoscendo che la musica di questo lavoro è solo una parte di un progetto d'arte visiva ben più esteso, incentrato sulle opere del signore del logo metal, Christophe Szpajde, posso assaporarlo e giudicarlo solo a metà, ascoltandone esclusivamente la musica. Andrew Liles (artista e produttore, con Nurse With Wound e collaboratore dei Current 93) e Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac (ex cantante dei Mayhem) ci offrono in questo 'Darkening Ligne Claire' sette brani dal taglio duramente sperimentale, dove la voce di Maniac viene smembrata e frantumata in mille parti da una serie infinita di effetti fino a farla flirtare con una sorta di ambient minimale ed astratto. Difficile parlare di forma canzone o soundtrack, le composizioni risentono della mancanza visiva (sono state prodotte solo sette copie fisiche speciali di questo album!) e si percepisce che avrebbero un senso completamente diverso ascoltate di fronte ad un'immagine e non così, nude e crude. La musica s'interseca tra suoni isterici rubati ai seminali The Residents e l'elettronica più moderna, con spunti e intuizioni veramente vintage e datati. A volte troviamo anche retaggi sonori provenienti dal mitico 'Scream With a View' dei Tuxedomoon (in versione destrutturata e sgretolata per bene) e stupisce poi l'uso dell'harmonizer, quanto l'assenza totale del ritmo scandito solo da accenni ricavati dal parlato di Maniac. Un lavoro ostico e difficile da inquadrare, sicuramente singolare conoscendo il background dei due artisti, misteriosa l'idea di battezzare tutti i brani con un nome di una band black metal o comunque appartenente al circuito metal estremo di cui Szpajde ne ha disegnato il logo, un singolare tributo a queste band oppure un'originale fonte d'ispirazione? "Enthroned" è un finto brano di elettronica drum'n bass scarnificato e disossato di tutto, lasciando con solo piccole frazioni di suono a dettar legge, "Slauther Messiah" con "Wolves in the Throne Room" sono i due brani che mi hanno colpito maggiormente, il primo per la sua veste così drammatica e il secondo per la sua apertura cosmica verso un ignoto buio astrale. Come già accennato, il disco si presenta con un suono di confine non accessibile a tutti e fatto apposta per intenditori voraci di musica ultra sperimentale, anime mai sazie di nuovi orizzonti, come il sottoscritto. 'Darkening Ligne Claire' alla fine è un album tutto da interpretare e di difficile approccio, solo per appassionati del genere. (Bob Stoner)

giovedì 24 gennaio 2019

Borghesia - Proti Kapitulaciji

#PER CHI AMA: Electro/Post-Industrial/Darkwave
Risulta molto difficile catalogare i Borghesia, band di Lubiana che opera in ambito sperimentale ed elettronico fin dal 1982. Industrial, darkwave, trance-dance s'incrociano con un ambient cinematografico (cosa che il gruppo conosce bene visto la loro forte dedizione verso le colonne sonore), la rumoristica ed il post punk elettronico degli anni novanta e duemila. Un'ottima produzione poi dà il giusto appeal ad un lavoro sicuramente intrigante ed intellettuale, di non facile approccio, peraltro cantato in lingua madre, sui versi del giovane poeta Srečko Kosovel, morto di meningite all'età di soli 22 anni. La militanza antifascista, parte del lato artistico della band a cui si aggiunge una visione cupa relativa al declino in cui riversa il mondo di oggi, è sempre padrona della scena. Una scena musicale che è un meltin pot variegato, tra Disciplinatha, Falco, Skynny Puppy, Kraftwerk, Palais Shaumburg, Kirlian Camera, Malaria, un certo art rock/pop/dance, riproposto alla maniera storta dei Chumbawamba, con l'attitudine tipica di una post punk band rumorista, giunta direttamente da Berlino (vedi le analogie di produzione con il recente 'Lament' degli Einstürzende Neubauten). Canti nostalgici , sperimentazione, folk ed elettro-rock vanno a braccetto per tutto il tempo del disco, rilasciando, nel proseguo dell'album sentimenti di tristezza e amarezza, profondità ed introspettiva che prevalgono sull'impatto sonoro in "Europa Umira" e "Razočaranja I", che emergono per ingegno compositivo e delicate atmosfere. L'intento sonoro è comunque di unire ritmiche attraenti, melodie incalzanti e l'uso del cervello, per pensare a cosa ci riserverà il futuro. Anche la techno (quella intelligente) è spesso citata nel sound della band, come in "Moj črni Tintnik", brano che si pone il compito di unire il lato dance dei nostri ad echi in sintonia con la famosa colonna sonora di 007 e con la song tanto discussa ed icona di un'estate di tanto tempo fa, dal titolo, "Da Da Da" della pop wave band Trio. Nello srotolarsi dei brani, alla fine ci si immerge spesso in carrellate di word music e ambient trip hop dal taglio etnico ovviamente dell'est Europa, campane come intro su "Radovnik" e spazio al classicismo per le arie della conclusiva "Blizu Polnoči". Un album 'Proti Kapitulaciji', che ha bisogno di essere assimilato lentamente (perchè quindi non sfruttare il download gratuito su bandcamp?), un lavoro complicato e studiato nei particolari con gusto e dedizione, un lavoro che cerca di emancipare la cultura sonora elettro-industriale di venti/trent'anni fa senza renderla retrograda o insignificante, ridonandole lustro e significato. Disco che non è per tutti, ma che mostra molte potenzialità espressive. (Bob Stoner)

sabato 19 gennaio 2019

Broken Down - Drop Dead Entertainer

#PER CHI AMA: Industrial/Electro, Ministry
Da Bordeaux ci arriva il nuovo lavoro dei Broken Down, un miscuglio musicale non del tutto originale ma funzionale e ben fatto. Racchiuso in un album di ben diciotto tracce tutte di breve durata che strizzano l'occhiolino all'industrial metal dei Ministry e al punk/hardcore vecchia maniera, confezionato con un artwork che potrebbe essere tranquillamente l'immagine ideale per un disco shoegaze. A detta dell'artista, questo cd sarebbe l'apice di una ricerca sonora intrapresa qualche anno fa dall'autore, un viaggio di scoperta sonica, libera da ogni convenzione che dovrebbe portare effetti innovativi sull'uso di suoni ritmici e inventiva elettronica originale e assai personale. Il risultato è 'Drop Dead Entertainer', un buon disco giocato sul tiro dell'industrial rock ed un'elettronica old school (Nitzer Ebb), dotato di una gran fantasia nel creare vocals e cori ad effetto, con richiami agli inni migliori degli anthems dei Misfits. Le canzoni sono tutte carine e piacevolmente orecchiabili, buona la composizione che tocca stili particolari come in "Balance" dove il canto richiama persino lo spettro degli straordinari The Stranglers! Il cantato si alterna tra toni irriverenti che calcano anche i passi dei The Damned di metà anni ottanta e le liriche vengono spesso intervallate da chitarre e growl in odor di electro metal teutonico in stile Atrocity (ricordate 'Werk 80'?). Colpisce la volontà di comporre musica ad effetto che per quanto dura sia, mantiene una sorta di contatto con l'art rock ed anche con una certa veste glam digitale e sarcastica ("Raging Inside") che fa di questo disco un catino di tanti rimandi musicali per intenditori e nostalgici di generi alternativi in voga qualche decennio fa, un modo di fare musica per certi aspetti vintage, anche se rimodernato e rimodellato con passione. La produzione è ben curata ed il suono è volutamente reso sporco, acido e alternativo; canzoni come "You Turn Now" ricordano il suono più cavernoso di certo death rock, oppure un primordiale gothic metal lastricato di ricercate soluzioni radiofoniche che si rendono sempre efficaci e mai banali, coinvolgenti come pochi riescono ancora a fare oggi. Così potrei accusare questo lavoro di rifarsi ai miti citati prima ma non potrei mai sbagliarmi nell'affermare, che questo è un buon disco, sicuramente interessante a suo modo, una raccolta di brani che lasciano l'ascoltatore con la drammatica scelta di dover decidere se odiarli od amarli... ma la vera domanda è: come resistere ad un brano come "Down the Stairs"? (Bob Stoner)

(Altsphere - 2018)
Voto: 70

https://broken-down.bandcamp.com/

giovedì 6 dicembre 2018

Entropia - Vaccum

#PER CHI AMA: Blackgaze/Trance/Post, Deafheaven, Thy Catafalque, Lux Occulta
'Vacuum' si candida ad essere uno dei miei dischi preferiti del 2018. La band che l'ha concepito è formata dai polacchi Entropia, che mi avevano già colpito favorevolmente col loro debut album del 2013, 'Chimera' ed in seguito con 'Ufonat'. Perché tutto questo entusiasmo vi chiederete? Perchè a mio avviso la band di Oleśnica ha ereditato lo scettro degli Altar of Plagues, l'ha arricchito con le idee deliranti dei Thy Catafalque, rilasciando un lavoro mostruoso per sonorità, sperimentalismi vari ed espressività, che mi ha fatto letteralmente perdere la testa. Il quintetto in un'ora di musica ed in soli sei pezzi, ne combina davvero di tutti i colori: si parte dagli oltre 15 minuti di "Poison", una song ipnotica che miscela elementi psycho trance con il metal estremo, black, post e tanto altro. È semplicemente follia, quella che vado ricercando da tempo immemore, quella che riempie e centrifuga il cervello, che nei suoi magistrali loop elettronici, pop-algebrici, incorpora tutto ciò che un visionario malato di musica metal, vorrebbe sentire in una canzone. I quindici minuti più destabilizzanti della mia vita, ma si sa che la scuola polacca ha altre band antesignane nel genere e penso ai Lux Occulta e alle loro ultime divagazioni avanguardistiche. Ecco, gli Entropia ci hanno messo tanto del loro, della loro classe che già era emersa in passato et voilà, ecco questo meraviglioso gioiellino di musica ascrivibile al genere sperimentale, avantgarde estremista, o come diavolo volete, a me non interessa. Per me è importante che voi diate un ascolto, anzi due, tre o forse dieci, a 'Vacuum' e al drumming ossessivo di "Wisdom" e alle folgorazioni dettate da non so quali sostanze proibite che hanno portato questi cinque pazzi musicisti a scrivere musica di tale consistenza. Delizia per le mie orecchie, e sarà altrettanto per tutti coloro dotati di una mente aperta, apertissima, perchè il disco non è proprio semplicissimo da affrontare. Citavo "Wisdom", un brano che mette in loop per cinque minuti lo stesso giro di chitarra e synth, prima di esplodere in una tremebonda cavalcata post black che sembra trarre ispirazione però da qualche riff prog rock di anni '70. Il tutto senza utilizzo di una voce (uno screaming peraltro fantastico che fa capolino qua e là nel disco) che farà la sua comparsa solo sul finire del pezzo, quando l'ultima centrifugata ci avrà dato il colpo di grazia. Ecco a cosa somigliano gli Entropia, ad una lavatrice che nella sua centrifugazione più estrema, rilascia splendide note musicali. Come quelle che aprono "Astral", un viaggio sparati nell'iper spazio più profondo alla ricerca di una qualsiasi forma aliena con cui interagire. Certo, la musica degli Entropia potrebbe essere un pericoloso biglietto da visita per la specie umana, gli extraterrestri la considererebbero un'arma pericolosissima visto che la ritmica della song somiglia di più ad un cannone laser. E nemmeno la title track ci dà modo di mostrare l'attitudine pacifica del nostro pianeta, è un'altra arma di distruzione di massa, che rallenta i suoi beat a tal punto da ipnotizzarci di fronte alla ridondanza sonica profusa. Un loop di suoni ed immagini che entrano nella testa e non accennano a lasciarci. Io questo album l'ho consumato, ascoltato decine e decine di volte, le sue melodie ormai le sento sotto la mia pelle, la sua furia belluina risuona nella mia testa, le sue geniali trovate le inserirei in un'ipotetica enciclopedia della musica metal, per spiegare come possono convivere differenti forme musicali sotto lo stesso vessillo. Con "Hollow", i suoni si ammorbidiscono un po', rimanendo nei paraggi di uno space rock malinconico, dove le vocals sono cosi cariche di pathos da far venire la pelle d'oca, grazie soprattutto all'eccezionale lavoro di tastiere e synth che accompagnano la progressione blackgaze che si sviluppa nella sua seconda metà. Gli ultimi dieci minuti sono affidati alle melodie di "Endure" e alla sua debordante quanto arrembante ritmica che sancisce la fine di questo capolavoro di musica estrema, che voglio consigliare anche a chi di estremismi non ne vuol sapere, ma ritiene di avere la mente abbastanza "open" da poter affrontare questa sfida targata Entropia. Album dell'anno per il sottoscritto? Mi sa proprio di si. (Francesco Scarci)

(Arachnophobia Records - 2018)
Voto: 90

https://entropia.bandcamp.com/

venerdì 12 ottobre 2018

Anaal Nathrakh - A New Kind of Horror

#PER CHI AMA: Industrial/Grind/Black
Per amare gli Anaal Nathrakh dovete essere fan di Judas Priest e Napalm Death allo stesso tempo. Se questa condizione è soddisfatta, amerete anche questa nuova release del duo di Birmingham, intitolata 'A New Kind of Horror'. Perchè la mia dichiarazione iniziale? Semplicemente perchè il disco è costituito da spaventose schegge grind, un trademark per il duo britannico, che irrompono con "Obscene as Cancer", sulle quali si piazzano le vocals, sia in growl/scream che urlate, in stile Rob Halford, il frontman dei Judas Priest. Questa similitudine sarà ancor più forte nella successiva "The Reek of Fear", song dal riff stridulo e nevrotico. Godetevi questi trenta minuti e poco più di musica apocalittica, dove verrete aggrediti dalle ritmiche forsennate della band, da quelle loro chitarre al fulmicotone alleggerite da una costante (ed importante) presenza melodica, in cui la componente vocale si sdoppia appunto in un grugnito ferale e in vocals tipiche heavy metal. In tutto questo dicevo, rimane costante la portanza melodica, le incursioni industriali, forti soprattutto in "Forward!", una song mid-tempo che ricorda le prime cose dei Fear Factory. Un album davvero buono, che vede alcune novità a livello di songwriting a tratti epico, quasi sinfonico, che nelle tracce "New Bethlehem/Mass Death Futures" (spettacolare la sua melodia) e nella maestosa "Are We Fit For Glory Yet? (The War To End Nothing)", ne scorgo gli apici di un album che farà la gioia dei fan. Ottimo comeback discografico, probabilmente un filo sotto rispetto ai precedenti ma eccezionali lavori inseriti nella discografia della band inglese. (Francesco Scarci)

lunedì 17 settembre 2018

Phal:Angst - Phase IV

#PER CHI AMA: Post Metal/EBM
Album particolare quello che ho tra le mani oggi. Trattasi dei viennesi Phal:Angst, band a me totalmente sconosciuta fino ad ora, che con questo 'Phase IV' arriva al traguardo del quarto album. Leggendo sul web, capisco che la band è promotrice di un sound a cavallo tra EBM, Industrial e post-rock. Lo si evince immediatamente ascoltando la lunga e claustrofobica traccia in apertura, "On the Run", tra l'altro il singolo apripista del lavoro. La song ha un incedere asfissiante tra suggestive atmosfere post rock, tra l'altro corredate da un chitarrismo bello pesante, su cui si installano successivamente rumorismi industriali e pattern electro-EBM. Il suono è cristallino, splendido a tal proposito l'inizio di "Money and Fame", in cui si possono distinguere chiaramente strumenti ed effetti vari. La song ha un piglio elettronico nel suo delicato proporsi, ma quello che frega sembra essere una monoliticità di fondo della proposta del combo austriaco. Non c'è infatti dinamicità nella traccia, sembra sempre che debba decollare da un momento all'altro, ma alla fine non accade nulla se non rilasciare un sound sintetico che alla fine risulta quasi sfiancante. Due brani e si sfiorano già i 19 minuti e con i successivi non si scherza altrettanto viste le durate infinite di pezzi che si palesano alla fine tutti allo stesso modo, ossia con un'importante base ritmica costituita da un bel riffone portante e che incorpora elementi elettronici, cyber vocals (in versione pulita o sussurrata), insomma un po' come se i Neurosis si mischiassero con i Coil. Lo stesso dicasi di "Comeuppance" e francamente la sensazione inizia a divenire alquanto frustrante, cosi come con gli oltre dodici minuti di "Despair II", una nenia colossale che non vira mai verso lidi alternativi, ma che nei primi cinque minuti propone fondamentalmente la stessa soluzione musicale; fortuna nostra che la song va alla ricerca di soluzioni un po' più mutevoli, altrimenti il rischio di stroncatura era davvero dietro l'angolo. Non che le cose cambino drasticamente, però i nostri ci mettono dell'impegno per provare ad acquisire nuovi fan con fughe oniriche o successivamente con un approccio quasi dronico, nella song che mi rimarrà in mente più che altro per la lunghezza del titolo ("They Won't Have To Burn The Books When Noone Reads Them Anyway") che per altro. Arrivo stancamente alla conclusione di 'Phase IV', con un paio di remix (l'ipnotica "Despair II" e la quasi EBM "The Books Jk Flesh"), entrambe contraddistinte da un carattere quasi trip hop, di cui avrei fatto volentieri a meno. Che fosse un disco particolare, lo avevo dichiarato sin dall'inizio ma che fosse un paccone di questo tipo, lungi da me dall'immaginarlo. Che fatica. (Francesco Scarci)

(Bloodshed666 Records - 2018)
Voto: 60

https://phalangst.bandcamp.com/track/on-the-run

giovedì 30 agosto 2018

Empty Chalice - Ondine's Curse

#PER CHI AMA: Industrial/Ambient/Dark
L'oscuro progetto sonoro dell'italiano Antonine A., già autore di numerose uscite sotto differenti moniker (qui come Empty Chalice), conta un nuovo capitolo nella propria discografia, 'Ondine's Curse'. Una profondità criptica, buia ed introspettiva come base sonora fa capo ad un industrial dai toni solenni ma non gelidi, taglienti altresì avvolgenti, un rumore mai nemico dell'anima anzi, il suono si trasforma in sciamano per redimere lo spirito e penetrarlo nel più profondo del suo incanto, portandolo là dove la psiche diventa più contorta e sconosciuta. Un viaggio a vele spiegate verso il confine labile situato tra la follia e il buio, lontano dai soliti canonici tappeti della drone music, vicino a certe intuizioni ambient/rumoristiche moderne, in linea con gli umori degli Swans e alle atmosfere disarmanti della colonna sonora 'Loin Des Hommes' di Warren Ellis e Nick Cave, alla stratificazione del suono multiforme, come il colore di una tela dalle mille sfumature oscure e tetre, i rumori e l'attitudine verso certo un funeral metal più oltranzista e ancestrale. Nella scaletta, che consta di cinque titoli che affrontano il tema della Sindrome di Ondine (una grave apnea del sonno) troviamo un risveglio, tre capitoli e un addormentarsi nei pressi di un bosco fitto e buio, un giaciglio insano su cui poggiare la testa e dove un brano dalla lunga durata quale "IV" (a mio avviso il meglio riuscito), ci prende per mano e ci conduce per contorti pensieri in una meditazione arcaica. Un duro e moderno suono adatto alla poesia, un sound che supera il concetto del dark ambient rendendolo limitato, un tuffo in un mare incantato di leggende alchemiche governate dal mito delle Ondine (il mito alla base del disturbo respiratorio qui narrato), l'estensione emozionale di un industrial ambient che si riappropria della sua umanità, ritrova quell'anima che proprio alle Ondine serviva per aspirare al paradiso. L'album ha dalla sua una forza espressiva enorme, è curato e ben prodotto. Un disco alla fine decisamente ben assemblato. (Bob Stoner)