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giovedì 11 aprile 2019

Antre - Void

#PER CHI AMA: Black/Hardcore
Da Nottingham, il nuovo furore che avanza. In periodi di Brexit, speriamo che gli Antre possano abbattere quelle barriere che incredibilmente il Regno Unito ha deciso di alzare, quasi un salto indietro nei secoli bui della nostra storia, ma andiamo oltre queste beghe politiche e focalizziamoci sulla musica del quintetto britannico. 'Void' è il primo full length per i nostri, dopo un EP uscito nel 2017 ed uno split album lo scorso anno. Lp include nove tracce di focoso black che inizia a darci calci sugli stinchi a partire già dall'opener "Suffer the Light", una song che evidenzia il carattere irrequieto di una band formatasi solo nel 2017. La proposta, non troppo pulita da un punto di vista produttivo, mette in mostra la sua efferatezza con un riffing tipicamente post black, su cui si installerà lo screaming caustico di Patrick MacDonald. Poi è il turno di "Fear the Old Blood" una traccia dal carattere ancora più inquieto anche se inizialmente si palesa più rallentato; poi il nefasto riffing che puzza ancora di hardcore, probabile retaggio dell'ensemble, inizia a pigiare ancor di più sull'acceleratore e son dolori, anche se qui la voce di Patrick passa dallo screaming ad un urlato polemico, mentre il sound si muove a cavallo tra punk, black, hardcore, grind, doom e death in un impetuoso ed entropico sound, che si prende una pausa nell'acustica di "Denisovan", un breve intermezzo strumentale. Poi tocca ad "Into Oblivion" riprendere il filo del discorso qui interrotto ed ecco nuovamente una colata di suoni funambolici e discordanti, come se i Deathspell Omega jammassero con Defheaven e Napalm Death, mentre il vocalist passa con grande disinvoltura da urla bestiali ad altre un po' più teatrali, che sembrano richiamare gli A Forest of Stars. Più old school invece "Tyrant", una classica song black di poco meno di tre minuti. "Guided by Nightmares" esplode ancor più tonante nella sua isterica rincorsa black/death, rallentata solamente nella seconda parte, decisamente più compassata. Un altro break acustico, "The Frozen Deep", ed è tempo della veemeza esacerbante di "Infinite Abyss", dove nei suoi suoni sembra convogliare uno psicotico death sound che evoca gli Aevangelist in un gorgo ritmico (o forse meglio in un buco nero) da cui è impossibile far ritorno. Alquanto inatteso invece il finale affidato a "Beyond these Skies", inatteso perchè l'inizio si presenta assai morbido, in una strategia disorientativa per subire ancor di più l'attacco che da li a pochi secondi ci calerà sulla testa, in un finale che sembra omaggiare questa volta i conterranei Akercocke in un ammorbante assalto pestilenziale che segna il risucchio totale nel maelstrom creato dagli Antre dal quale sarà impossibile uscire. (Francesco Scarci)

(Withered Hand Records - 2019)
Voto: 70

https://antre.bandcamp.com/album/void

Perished - Through the Black Mist

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black, Emperor
Tra le band storiche del sottosuolo black norvegese ce ne fu una un po' più sfortunata delle altre: sto parlando dei Perished. Originari di Hommelvik, si resero famosi per l'uscita di due album, 'Kark', forse il più famoso e riuscito, e 'Seid'. Erano rispettivamente gli anni 1998 e 2003. Prima di queste release, i nostri rilasciarono un paio di demo, tra cui 'Through the Black Mist' fu quello ad avere maggiore successo nei circuiti underground nello scambio di demotape. Era il 1994, tenetelo a mente, perchè per tale motivo, il quintetto nordico (che consta di ex-membri dei Bloodthorn) potrebbe essere annoverato tra i padri fondatori del symph black. Erano infatti i tempi in cui si affacciavano alla ribalta gli Emperor con 'In the Nightside Eclipse' e i Dimmu Borgir con 'For All Tid'. Fatta questa lunga premessa, i Perished potevano e possono pertanto stare al fianco di questi due mostri sacri ed un grazie va alla The Sinister Flame per rinverdire i fasti di quella cassetta, dandoci modo di assaporare un black old school dalle venature sinfoniche che dall'iniziale "My King's Empire" all'ultima "The Perfect Face of Death" (la versione alternativa della stessa traccia inclusa nel cd) ci concede di respirare nuovamente il meglio del black mondiale. Certo, dovete mettere in conto che ascoltandolo oggi vi sembrerà scontato o retrogrado, ma provate ad inserirlo in un contesto in cui le band che suonavano questo genere si potevano contare sulle dita di una mano. I Perished erano appunto tra questi. E sentire i synth duellare con le chitarre non era cosa cosi frequente a quei tempi o il black convergere verso un death doom, come accade in "My Darkest Embrace", non era proprio roba da tutti i giorni. Poi inevitabilmente, tutti gli ingredienti del black li potrete ritrovare nei 36 minuti di questo 'Through the Black Mist', dalle screaming vocals al vetriolo (e non solo), alle scorribande puramente black di "Serpent's Ring of Hate" o la suggestiva apertura sinfonica della rude "The Perfect Face of Death", saranno tutti elementi per cui apprezzare questa fatica ormai vecchia di 25 anni, si avete letto bene. Se non fosse per la registrazione un po' troppo casalinga e non ci fossero qua e là delle sbavature che all'epoca nemmeno ci facevamo caso, potreste considerare questo lavoro molto attuale. Quindi il miglior consiglio che posso darvi è di abbandonarvi alle atmosfere black doom di "The Autumn Misery" o al fervore di "A Landscape of Flames", un vero salto indietro nel tempo di un paio di decenni. Chiudo con un solo dubbio che mi assale: chissà cosa sarebbero i Perished oggi viste le ottime premesse di allora? (Francesco Scarci)

(The Sinister Flame - 1994/2019)
Voto: 76

https://perished.bandcamp.com/album/through-the-black-mist

lunedì 8 aprile 2019

Humanity Zero - Proseliytism

#PER CHI AMA: Death Doom
Nati nel 2003 come death one-man-band dalla mente di Dimon's Night, i greci Humanity Zero hanno trovato solo nel 2018 nelle vocals di Kydoimos, l'ideale sparring partner del primigenio mastermind per offrire un concentrato di death doom, in quello che è addirittura il quinto album della band ateniese, il cui presente 'Proseliytism'. Quello che balza subito all'orecchio, oltre alla proposta tipicamente death doom, è forse il cantato del frontman, che sembra eruttare il proprio growling attraverso un tubo, per un risultato alla fine un po' ostico da accettare. Ascoltando l'opener, "Celebrating the Opener of the Way", quello che sembra emergere è il carattere cerimoniale delle keys che suonano pompose in una sorta di orgia ecclesiastica, mentre le chitarre, proveniendo dal territorio ellenico, risentono in un qualche modo della loro origine, relegando le influenze di My Dying Bride e soci in secondo piano, anche se l'influsso di quest'ultimi emergerà subito nella ritmica in apertura di "Ruler of the Ultimate Void of Chaos", per un risultato un po' troppo statico e privo di colpi di scena. Francamente non amo apparire come la Santa Inquisizione ma devo ammettere che la proposta del duo greco non mi scalda proprio l'anima come dovrebbe invece fare questo genere. Faticano e non poco infatti  i nostri ad uscire dalla visione stantia, cupa e desolata di simili sonorità. Vi dirò che la scarsa armonia di fondo poi mi fa sbadigliare non poco durante l'ascolto del disco, auspico che ci sia qualcosa che possa risollevare le sorti di un lavoro ahimè già destinato al plotone di esecuzione. "The Slumbering One", la militaresca "The God of the Bloody Tongue" (che vanta un break molto ma molto simile ai My Dying Bride, manca solo la voce sofferente di Aaron) fino a giungere alla conclusiva e drammatica "Dark Angel of the Four Wings", sono onesti pezzi di death doom che risentono parecchio, nella loro scarsa fluidità musicale, del retaggio tipicamente death di Dimon's Night (il che si evince anche da un artwork decisamente votato ad elementi del death metal). Non sono sufficienti quelle onnipresenti tastierone ad alleggerire un risultato che fatica ad aver presa o risultare in qualche modo originale. Sembra di rituffarsi indietro nel tempo di quasi trent'anni, unire il vecchio umore di 'As the Flower Withers' con la pesantezza di 'Serenades' degli Anathema, per un risultato a dir poco obsoleto e che ahimè non riscuote in alcun modo i miei favori. Spiace sempre segare un album, ma in questo caso vuole essere uno sprono a fare meglio in futuro, alla ricerca di una maggiore identità sonora, per regalare davvero qualcosa di più a chi si ciba di simili suoni, sottoscritto compreso. (Francesco Scarci)

Finis Omnivm - Cercle

#PER CHI AMA: Crust Black, Nux Vomica
I Finis Omnivm hanno un retaggio grind crust e si avverte in 'Cercle', EP ed opera prima della band francese. Si chiamavano infatti Faxe poco meno di una decina di anni fa quando quella era la loro proposta. Quel bagaglio musicale, sebbene i molteplici cambi di line-up, è rimasto intatto e crudo nel loro DNA e ancora ammanta il loro sound, sebbene l'iniziale "The Womb" ci conduca in anfratti oscuri di un tenebroso post-hardcore dalle forti tinte malinconiche. Non fatevi fuorviare perchè da li a poco, la musica dei nostri incendierà l'aria con paurose accelerazioni crust-black e rallentamenti dal sapore quasi doom. Quello che meglio tocca le mie corde è la bravura del quartetto parigino negli avamposti musical-emozionali con dei frangenti che trasudano veramente un senso di disagio. Lo stesso che irrompe nella ritmicità marziale di "The Great Destroyer", la song che più delle altre, nella parte centrale, evidenzia proprio le passate influenze dei Finis Omnivm, con le classiche cavalcate crust-grind-black-punk e le urla sguaiate figlie di un genere che non ha mai mollato nonostante le mille mode che sono succedute. E allora che ne dite di abbandonarvi anche voi alle furiose accelerazioni dei quattro musicisti transalpini, sudare quel tanto necessario, prima di arrendervi alle suggestioni sludge che si palesano nel finale della seconda traccia, che peraltro mi ha evocato un che degli ultimi Entombed A.D. Che i nostri non siano dei pivellini è chiaro dalla loro padronanza strumentale, che si palesa fin dall'opening track, di grande livello. La terza è ultima song, "The Empty Gem", completa con i suoi quasi 15 minuti, il quadro musicale dei nostri con un approccio tribale, in cui le grim vocals, accompagnate da basso, batteria e chitarra, ci avvolgono in una spirale sonora stritolante, prima di irrompere nuovamente in un abrasivo crust-punk dal sapore novantiano, pregno di paurose accelerazioni black e di rarefatti momenti fangosi, due caratteristiche che chiamano in causa i Downfall of Gaia, giusto per darvi un ulteriore punto di riferimento, se volete capire qualcosa di più dei Finis Omnivm e di questo 'Cercle', un corrosivo manifesto sonico degno delle migliori realtà crust degli anni '90, là dove ebbe origine il tutto. (Francesco Scarci)

Harmdaud - Skärvor

#PER CHI AMA: Epic Black/Viking/Death, Windir
Dalla piccola cittadina di Skellefteå, ecco arrivare il progetto di Andreas Stenlund, gli Harmdaud, di cui lui è mente ed esecutore unico. 'Skärvor' è il secondo album (dopo 'Blinda Dödens Barn' del 2017) per il factotum svedese, uno che tanto per dire, è stato il chitarrista live di Vintersorg, elemento questo da tenere a mente. Ma andiamo con ordine e prima cosa, lasciamoci sopraffare dall'opener "Kraft", una traccia spettacolare di black epico dai tratti sinfonici che ha da regalare splendide melodie e dirompenti inni, omaggio ai guerrieri vichinghi. Il riffing prosegue compatto in "Stöpt", mantenendo intatta la matrice viking che alla fine ammanterà l'intero lavoro. Ciò che verosimilmente cambia tra una traccia e l'altra è l'approccio chitarristico, a metà strada tra black e death. In questa seconda song ci sento un che dei Windir, anche se le chitarre sono qui meno taglienti rispetto ai colleghi norvegesi. La voce poi è più votata al growling tipico del death metal piuttosto che allo screaming efferato del black, questo per dire che la proposta del mastermind viaggia in bilico tra i due generi, senza che uno prevalga alla fine sull'altro. In "Bränt Till Grund", un'infuocata traccia nera come la notte, ecco affiancarsi al cantato ringhiato di Andreas il buon Vintersorg alla voce (che ritornerà anche nella movimentata "Sprickorna I Verkligheten"), con la sua inconfondibile timbrica epica e pulita, con la song che vive di continui cambi di ritmo in un incedere a tratti selvaggio. La title track ha un intro che esula da death o black, sembra quasi di derivazione sperimentale, alla Devin Townsend per intenderci. Però quando le vocals demoniache di Andreas fanno la loro comparsa, il riffing si fa più serrato, anche se non è proprio da ascrivere al metal estremo, ha un'origine più classica e comunque fuori dall'ordinario, a sottolineare la maturità artistica del factotum svedese. "Koloss" è un pezzo thrash death, sembra quasi che il cantato di Andreas poggi sulla ritmica degli Over Kill, giusto per spiegarvi la mia incredulità nell'ascoltare un brano che ha tempo anche di ammiccare agli Old Man's Child e di rallentare vertiginosamente in un break dal forte sapore doom. Ancora una volta, il risultato è positivissimo, al di sopra della media, per cui non ci resta che godere appieno della bravura del musicista nordico. Ancora viking sound questa volta vicino agli Amon Amarth (ma con un tocco alla Rotting Christ), in "Natten Oss Genomströmmar", ove Andreas tenta, ma non vi riesce appieno, di proporre un cantato vicino a quello del suo illustre ospite Vintersorg. "Näven Kring Min Hals" parte decisamente più tranquilla, prima di esplodere nell'ultimo giro di chitarre e growling possenti, in cui la melodia la fa comunque da padrona anche nel break centrale che prepara allo scoppiettante finale, dove alla voce di Andreas, si affianca il ruggito delle chitarre. Per quanto mi riguarda, 'Skärvor' necessita solo di un paio di consigli finali: aggiungere un batterista in carne e ossa e migliorare la grafica della artwork di copertina. Per il resto, una sorpresa totalmente inaspettata: ottimamente prodotto (anche qui grazie allo zampino del buon Vintersorg), ben pensato ma soprattutto ben suonato, gli Harmdaud hanno tutte le carte in regola per far ancora meglio in un immediato futuro. (Francesco Scarci)

(Art Gates Records - 2019)
Voto: 78

https://harmdaud.bandcamp.com/releases

sabato 6 aprile 2019

Sundead - Ashes

#PER CHI AMA: Symph Death, primi Dismal Euphony
Credo che la scena tedesca sia, al pari di quella francese, quella che ha da offrire, in termini di quantità, ma non ancora di qualità, più band in Europa. Gli ultimi giunti sulla mia scrivania sono i Sundead, quartetto proveniente dalla cittadina di Ludwigsburg che con 'Ashes' giungono al loro debutto, dopo che la band si era formata nel 2014. Un lungo periodo di gestazione per produrre questo lavoro interessante che mette in luce le importanti qualità dei nostri in ambito black death melodico. Nove pezzi, ma in realtà abbiamo un'intro e un'outro, per spiegarci la loro visione del metal estremo, e devo ammettere che non è affatto male. Si perchè quando "Reduced to Ashes" irrompe nel mio stereo, la stanza viene invasa dal suono imponente dei quattro musicisti teutonici, che offrono un po' gli ingredienti tipici del genere con feroci sgaloppate melodiche, inserti progressive, growling (e di rado qualche screaming) vocals e parti atmosferiche che mi hanno rievocato un po' i tempi d'oro del genere in Scandinavia, con band del calibro di Siebenburgen o Dismal Euphony, due realtà con i quali i Sundead potrebbero tranquillamente condividere il palco. La vena sinfonica dei nostri emerge anche nell'incipit devastante di "Unwatered", song iper tirata, ma al contempo che include un po' tutti gli elementi del black sinfonico, voci femminili comprese, in una spettrale (brava la tastierista Ashima) cavalcata davvero da applausi. "Into Black Horizons" è un altro bel pezzo che combina in modo armonico, graffianti riff di matrice classica con un tocco sinfonico, qui a tratti anche malinconico, grazie all'uso del tremolo picking che in taluni momenti si sostituisce all'arrembante ritmica creata dall'ensemble. Il risultato è davvero avvincente ed esplosivo, anche laddove il clima si preannuncia più tranquillo (ma solo nella prima e nell'ultima parte) come accade in "The Vault", un'altra piccola perla in grado di combinare estremismi sonori di scuola svedese con una componente solistica da urlo che invece apre le porte ai classici dell'heavy metal. "Solar Winter" suona molto fresca, sebbene le chitarre in tremolo picking, disegnino panorami sonici contraddistinti da un delicato mood malinconico in cui ho come la sensazione di scorgere in sottofondo il suono di un violino che aumenta l'efficacia della proposta della band germanica. Ci si avvia verso il finale, ma un paio di interessante guizzi i Sundead hanno ancora modo di regalarli: "Kali Yuga" è un mid-tempo emotivamente assai potente tra saliscendi ritmici notevoli (un plauso complessivo va al batterista Tomasz "Nefastus" Helberg, uno che ha suonato con Debauchery e Belphegor, tanto per citarne un paio). In "Patient Zero" i nostri confermano la loro verve autunnale, sostenuti sempre da una produzione cristallina che enfatizza la potenza strumentale dell'act tedesco soprattutto nella cavalcata conclusiva che chiude il brano, prima dell'ipnotica chiusura ambient di "Remember the Future". Insomma 'Ashes' è un buon biglietto da visita per i Sundead, per cui auspico fortemente un ascolto della loro proposta. Sono quasi certo che potranno far parte delle nuove leve future nel riscoperto ambito del death sinfonico. (Francesco Scarci)

venerdì 5 aprile 2019

Agos - Aonian Invocation

#PER CHI AMA: Death/Black, Bolt Thrower
Dalla Grecia è in arrivo la one-man-band degli Agos, una compagine che vede come suo unico interprete il leader dei Virus of Koch, Van Gimot peraltro ex membro di un'altra manciata di gruppi tra cui gli Acherontas. Direi subito che la precedente appartenenza di Van Gimot nelle succitate band si sente nelle note di questo 'Aonian Invocation', un lavoro di occult black metal che evidenzia l'adesione degli Agos alla scena ellenica. Quindi potrete facilmente immaginare come si traduca in musica la proposta del nostro factotum, che già dall'apertura affidata a "Through the Strait of Messina" (interessante la componente mitologica a livello lirico), si lancia in un black/death mid-tempo dalle tinte oscure ma cariche di quel groove tipico del suono ellenico che unisce aperture melodiche con una solida epicità di fondo, vero trademark della scena. Facile pertanto farsi conquistare dal suono potente, a tratti tribale (la parte centrale di "Mardyakhor" è davvero coinvolgente, cosi come pure la spettrale intro della musa incantantrice di "Trojan Desolation", ove si narra il conflitto tra achei e troiani, in una robusta traccia che mostra tuttavia qualche contorno musicale legato alla matrice mediorientale), rituale ("Devourer of Men" la mia traccia preferita, anche la più lunga del disco con i suoi quasi nove minuti, in cui sottolinerei ancora la potenza del musicista ellenico, con tanto di blast beat e killer riff, messa a servizio nella melodia in una traccia che potrebbe stare su un qualsiasi disco dei Nile) ed etnica ("Glorious Return" ne è l'emblema assoluto con i suoi strumenti tipicamente arabeggianti e la comparsa alla voce di una gentil donzella) offerto dal mastermind ateniese. Insomma 'Aonian Invocation', pur non inventando nulla di originale, regala quasi tre quarti d'ora di musica potente, melodica e coinvolgente che farà la gioia di tutti gli amanti di sonorità estreme, permeate comunque da una buona dose di melodia. (Francesco Scarci)

(Satanath/Deathhammer Records/Heathen Tribes - 2018)
Voto: 74

https://virusofkoch.bandcamp.com/album/aonian-invocation

Norvhar - Kaunas

#PER CHI AMA: Epic/Folk, Ensiferum
Attivi solamente dal 2018, la formazione degli svizzeri Norvhar ci porta in realtà indietro nel tempo al 2005, quando si sono formati col nome di Harmoniks. Le solite beghe interne, lo scioglimento, il silenzio, la reunion e il cambio di moniker, ci hanno condotto fino all'uscita di questo 'Kaunas', avvenuta a febbraio di quest'anno con il rilascio di un bel digipack che include sette tracce di folk metal. Il disco apre con "From Fire..." ed una voce cinematografica che dà il benvenuto con "Good evening, traveller... Come here, come. Don't be afraid. Sit, share my fire, drink my beer... I have a story to share, it must be passed on before I leave. So, sit my friend, and listen..." Ad aprire le danze vere e proprie entrano in gioco i due singoli che avevano anticipato l'uscita di questo cd, "Fest in Midgard" a inizio di quest'anno e "Of Stone, Gold and Blood" uscita a novembre 2018. Un tripudio di suoni folk, a trascinarci nella grande festa pagana dei Norvhar, con epici cori, belle melodie di scuola finnica (penso a Ensiferum e Finntroll in primis) e grandi bevute di birra. Il folk del sestetto di Losanna scivola via che è un piacere anche nella terza song tra melodie folkloriche della tradizione nordica e racconti di un tempo andato, narrati dalle growling vocals del bravo Matt Favrr (responsabile peraltro anche del flauto) e tutta una serie di strumenti alternativi, come lo scacciapensieri e le cornamusa. Il riffing in tutto questo è bello corposo, sorretto da una produzione scintillante, poi spazio ad ottime porzioni solistiche e tanto tanto divertimento. Come quello che introduce "Mystic Forest", una melodia che sembra evocare la Pantera Rosa e ci racconta invece di luoghi mistici ove albergano pace e gioia, pura utopia per i nostri giorni. E allora meglio immergersi nella musica senza tempo dei Norvhar e cantare con loro a squarciagola "Drink, sleep, pray! This is your daily work" nel santuario fatto di magia e antiche leggende, in cui serpeggia il suono di un flauto a rendere il tutto più magico. È musica che trasmette energia, spensieratezza, allegria, il che non guasta affatto, anche nella più cupa "Goblins' Outpost" che descrive appunto come in un mondo pieno di guerra e odio, vivesse in una foresta una potente tribù di goblin. Quante analogie mostra il nostro oggi col mondo fantastico descritto dai Norvhar, ma soprattutto quante storie narrate dai sei svizzeri che trovano punto di contatto con la narrativa di J.R.R. Tolkien. Se devo segnalarvi il mio brano preferito, vi direi "Fields of Fate", la song più lunga (oltre 10 minuti) ma anche la più selvaggia del disco con punte di epico black sinfonico, sgaloppate iper veloci in stile Children of Bodom, un growling davvero furioso, parti arpeggiate, cambi di tempo da urlo, una discreta vena prog di scuola Opeth e una più preponderante matrice folk, e i giochi sono fatti per garantire la top song del cd che ha ancora tempo per chiudere con quella stessa voce narrante che aveva introdotto il disco, nella conclusiva "...to Ashes", e darci l'arrivederci alle prossime avventure targate Norvhar. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 76

https://norvhar.bandcamp.com/