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martedì 6 agosto 2024

Nel Buio - S/t

#PER CHI AMA: Black/Darkwave
I Nel Buio sono una band italica, che vede tra le sue fila membri di Electrocution e Blasphemer. Un moniker di questo tipo mi fa pensare a sonorità dark e in effetti, la proposta omonima del terzetto nostrano, si muove nei meandri di un black dark, a tratti convincente. Dopo la breve intro strumentale intitolata "Lei è", esplode sinistra "Sola", tra ritmiche post black, malinconiche melodie e disperate growling vocals, a giustificare il motivo per cui un'etichetta come la Avantgarde Music, abbia puntato su di loro. Ed è presto detto, visto che l'offerta sonora dei nostri mostra una discreta personalità che vede anche oblique partiture chitarristiche, tra i punti di forza di questo lavoro. E cosi, i brani scivolano piacevolmente tra ariose parti atmosferiche che evocano la darkwave anni '80 e cavalcate black, come quella che irrompe nel prologo di 'Nel Buio.", selvaggia, melodica, ipnotica e sofferente, come poche. Mi piace quel feeling catartico che emanano i Nel Buio, quell'utilizzo spettrale delle tastiere, l'utilizzo ambivalente delle vocals, sia nella loro parte catarrosa che simil pulita, che emergerà forte anche nella conclusiva "Mi Avvelena". Robusta, maligna, caotica invece "In Silenzio...", un titolo che mi avrebbe fatto pensare a tutt'altro ma che invece va in direzione opposta, nella sua violenza, e che sulla stessa, vede piazzato un break di synth che assolve al compito di spiazzare completamente l'ascoltatore. Ora capisco cosa ci ha visto l'etichetta nostrana in questa eccellente band, uno strumento per contrastare l'ascesa del metal estremo d'oltre frontiera. Bravi. (Francesco Scarci)

martedì 14 maggio 2024

Pinhdar – A Sparkle in the Dark Water

#PER CHI AMA: Dark Wave/Alternative
Ascoltare questo disco mi ha posto di fronte a un bel quesito. Può esistere di fatto, una linea di contatto sonora tra Portishead, Kirlian Camera e Chelsea Wolfe? Cosi ho provato a estraniarmi, come da modus operandi del Pozzo dei Dannati, da tutto quello che ho trovato in rete, come il fatto che la band milanese abbia collaborato in precedenza con Howie B (uno che ha lavorato con U2 e Bjork, giusto per citarne un paio/ndr), che abbia registrato in UK e che l'autore della copertina sia il fondatore dei Gallon Drunk, e ho cominciato a sezionare quest'opera senza farmi troppo influenzare da altre varianti. Il disco si muove costantemente attraverso atmosfere sospese, fluttuanti, ma toccate da una malinconia astratta, elevata, quasi ossessiva, ritmi lenti ed essenziali, uniti a una cura peculiare dei suoni. In generale, l'effetto ci porta sulla strada dei Portishead ("Murderers Of A Dying God") anche se i Pinhdar hanno un suono più freddo e tagliente, usano l'elettronica in maniera più vicina alla dark wave, e questo li avvicina molto, agli ultimi lavori della band di Elena Alice Fossi ("In the Woods"), anche se è la voce che crea i rimandi più suggestivi e porta sempre l'ascoltatore verso una piacevole catarsi uditiva, parecchio coinvolgente. La voce della cantante Cecilia Miradoli è prioritaria e non delude mai, intensa ed emotivamente viva, mostra le sue potenzialità brano dopo brano, instaurando un perenne duello con il passo lento e ipnotico di una chitarra eterea e notturna, sulla scia di "Nightvision" di Hugo Race, che riesce a mantenere comunque, pur trattandosi di musica elettronica, un ottimo contatto con il mondo del rock. Il fatto di rinchiuderli in un unico calderone chiamato trip hop, lo vedo molto riduttivo, in quanto li trovo anche divisi tra new wave e dark wave ("Cold River"), electro rock psichedelico e freddo alternative rock. Certo, non si fanno mancare attitudini e affinità raccolte dai classici, Massive Attack, Tricky, gli stessi Portishead, e Mandalay ("Humans" o la conclusiva "At the Gates of Down"), ma ripeto sono suggestioni, belle suggestioni, poiché alle composizioni del duo meneghino, manca la componente che rese unico il trip hop, ovvero il lato caldo della black music. È molto attivo invece quel lato sonoro psichedelico e oscuro, che li avvicina di fatto alle atmosfere di Chelsea Wolfe, magari di "The Graim and the Glow", oppure "Pain is Beauty", con una veste più docile, meno folk apocalittico e più elettronica, meno aggressiva e più raffinata ed evanescente. I Pinhdar si spingono molto in alto in quanto a composizione, con l'ambient elettronico di "Solanin" e "Abysses", che portano nell'animo una vena ritmica tribale molto marcata, che peraltro riesce a mostrare concretamente, che la linea di contatto tra Portishead, Kirlian Camera e Chelsea Wolfe, può essere di fatto tracciata, ascoltando questo brano. In sostanza, 'A Sparkle in the Dark Water' è un disco che richiede un'immersione a fondo, per non incorrere a facili resoconti di somiglianza, che potrebbero ingannare al primo ascolto. Musica notturna e riflessiva, atmosfere profonde, attimi di sospensione eterni, infiniti che rendono questa release una delle migliori uscite per una band in continua ricerca e crescita stilistica. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

lunedì 8 aprile 2024

Tank and Tears - Timewave

#PER CHI AMA: Gothic/Dark Wave
Tornano in pista i Tank and Tears, che dal 2017 si erano messi in pausa di ogni produzione musicale. Tornano in pista e mai definizione fu più appropriata, poiché dal precedente album, 'Aware', dove sfoderavano un post punk dalle forme ansiolitiche e dalle chitarre aggressive, si passa al dancefloor delle discoteche new wave/goth, con le chitarre che si rendono meno roboanti e più d'atmosfera, contornate e dirette da synth di stampo New Order e la forma compositiva tipica della band numero uno in questo ambito, i Clan of Xymox. Rincorrere ed emulare i sacri crismi e gli stilemi di tale genere, porta sicuramente a buoni frutti, e le nove tracce di 'Timewave' lo dimostrano, sebbene allo stesso tempo si denoti quanto il suono sia un vero e proprio derivato di quello che a suo tempo marcava le sperimentazioni degli Ultravox e dei The Dance Society, rendendolo unico, magico e indimenticabile, in un periodo storico a cavallo degli anni '80. L'album è quanto mai fedele nella ricostruzione storica e, avvalendosi di un'ottima produzione e un'ottima scorta di suoni vintage, riesce nell'intento di far ballare chi ancora oggi, adora quelle sonorità fredde e sintetiche. Prendete un goth club e fate ballare le sue oscure figure al suono di 'Timewave'; traccia dopo traccia avrete reso indimenticabile la loro serata. Canzoni mirate a colmare la nostalgia di un suono che in realtà non è mai caduto in disuso, che da decenni si rinvigorisce e rinasce dalle sue stesse ceneri, inglobando elettronica, dreamwave e visioni gotiche, in un incedere ritmico ipnotico, costantemente permeato da cupe atmosfere. Trovo superficiale dire quale sia il brano migliore, partendo dal fatto che i toscani Tank and Tears hanno creato un disco praticamente perfetto, per soli nostalgici del genere però, sebbene alla fine suoni moderno e studiato nei minimi particolari, per ricalcare maniacalmente i passi dei padri fondatori, con effetti e dinamiche del suono estremamente curate. "Galaxies" mi ha colpito particolarmente per la parentela eccelsa dei synth verso gli Ultravox più colti, circondati da chitarre che ricordano i The Cure più freddi, mentre "Vampire Bite" ha un sussulto più gotico e orientato anche all'universo esteso dei The Sisters of Mercy. Tuttavia, i paragoni non possono essere presi alla lettera in un genere dove le regole compositive rimangono comunque ferree e quanto proposto finisce per rimandare volutamente a un tutto già sentito. Rimane comunque stupefacente il grado di qualità, fluida e coinvolgente, sprigionata da quest'album che ha una omogeneità ammaliante che non mostra alcun segno di cedimento durante il suo ascolto. Ascolto che consiglio a tutti quelli che vogliono inoltrarsi nel mondo dell'elettrowave a tinte gotiche, o nella new wave di stampo ottantiano, per rendersi conto quanto la linea di suono della new wave sia poi proseguita dai monumentali 'Movement', 'Subsequent Pleasures' e 'Vienna' fino ai giorni nostri. (Bob Stoner)

(Swiss Dark Night - 2024)
Voto: 75

https://tanksandtears.bandcamp.com/album/timewave 

venerdì 20 ottobre 2023

Iskandr - Spiritus Sylvestris

#FOR FANS OF: Dark/Post Punk
Evolving so much from the seminal sound until the music is remarkably different from what we knew, it’s not something uncommon in the black metal genre. The legendary Norwegian project Ulver is an extreme example of it, so its not a complete surprise to see how the Dutch duo Iskandr has changed with its new opus 'Spiritus Sylvestris'. In any case, I wasn’t expecting such a step forward in its evolution, as its previous albums, from the debut album 'Heiling Land' to the latest one ‘Vergezicht’ showed an evolution, yet the black metal elements were still a core of its sound.

With ‘Spiritus Sylvestris’ any of the aforementioned black metal elements, as the shrieks, raspy guitars or speedy drums are completely gone. The new opus has a strong influence from genres such as darkwave, post-punk, just to mention a few. The vocals remind me especially these genres as they are clean voices with a strong melancholic touch (and chanting/ndr) as we can appreciate in a song like "Waterwolf", for example. This track has a more percussive and lively rhythm mixed with an ethereal atmosphere, especially when some cool old school synthesizers are added to the composition. This right blend of elements makes this track my favorite one. The low tuned/baritone subtle guitars have a quite monotonous pace in general terms, and although the mentioned track has a slightly greater variation, other tracks like "Hoor het Smeken" or the lengthy "Hof der Valken" contain little variation in their pace. It is the album closer "Nachtvorst" which saves the day, having again the more upbeat and energetic pace that "Waterwolf" has, which sincerely works very will with this music style.

Although ‘Spiritus Sylvestris’ might be a pleasant listen for those who enjoy genres like darkwave and post-punk, my honest opinion is that this album lacks some strength and variation in its structures. There are some nice moments and melodies here and there, but at least for me, if this was the direction they wanted to follow, some more power would be a welcome addition. Some will disagree, but my feeling is that this album lacks the strength of a powerful post-punk album and at the same time the more present ambience of a pure darkwave album. So, it falls in the middle of both approaches, lacking something from both. (Alain González Artola)

sabato 25 giugno 2022

Klymt - Murder on the Beach

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ho provato quasi un brivido di freddo quando ho fatto partire questo lavoro dei francesi Klymt. Quello incluso in 'Murder on the Beach' è infatti un asettico concentrato di coldwave che vi raggelerà il sangue nelle vene già con le sintetiche sonorità d'apertura di "Analogue Bastard", dove confluiscono turbinii industrial che ammiccano ai Nine Inch Nails. Ecco, in linea di massima su quali coordinate si muovono i nostri, che con la successiva "Blind Fish" si affidano a sonorità ancor più artificiali, ove elettronica ed EBM si prendono per mano e saturano tutta la scena. Ben più diversa invece "Mood", tra post punk e darkwave, in un compendio musicale ben più semplice da fissarsi nella testa, grazie a sonorità qui più dirette e melodiche. "Blue Song" è decisamente più cupa e marziale nel suo incedere. La voce del cantante è ben calibrata nella sua sofferenza con il contesto musicale, sebbene ogni tanto sembri fare il verso a Matthew Bellamy dei Muse e qui mi piace un po' meno. Ma la musica è sempre piuttosto convincente anche nella più delirante ed incalzante "Stay at the Bottom", furiosa nel suo martellante beat. In chiusura, l'inquietante ed enigmatica title track, dove le vocals dei due cantanti finiscono per essere sorrette da una matrice sonora fredda come quel brivido provato all'inizio del mio viaggio. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music/KdB Records/Anesthetize Prod./Araki Records/Postghost Recordings - 2022)
Voto: 74

https://klymt.bandcamp.com/

giovedì 16 giugno 2022

Warpaint - S/t

#PER CHI AMA: Darkwave/Dreampop
La seconda esperienza discografica delle Warpaint si colloca nell'intersezione tra l'immenso background musicale dell'eminente (e preminente) produttore Flood e certe lomografiche diffrazioni iperurbane losangeline anni novanta, tipo festino a base di crack e cheerleader strafatte, per intenderci ("Disco // Very"). Per inquadrare le sonorità delle nostre potete altrimenti immaginarvi dei Sonic Youth ficcati nella Washing Machine (la lavatrice dai) con un chilo di ammorbidente ("Feeling Alright" o il singolo "Love is to Die"). Altre sfumature dream-pop: Tori Amos pianta una grana perché non vuole saperne di registrare la cover di "Foreign Affair" ("Biggy"); Mary Margareth O'Hara sostiene che l'autunno nel tinello dei Kings of Convenience è persino più triste dell'inverno nel solaio dei Sigur Ros ("Go In"). I Mazzy Star si qualificano per la finale dei campionati mondiali di pera e divano ("Teese"). Nonostante la nebbiolina psicotropa, l'album risulta nitidamente torpido e, a tratti, languidamente sonico. Staccate l'antenna, accendete la TV, procuratevi qualcosa di molto forte e passate l'intera nottata stesi sul letto a fissare il rumore bianco con questo album in autorepeat. (Alberto Calorosi)

(Rough Trade - 2014)
Voto: 75

https://www.facebook.com/warpaintwarpaint

sabato 12 febbraio 2022

Oz Projekt - Life Before Your Eyes

#PER CHI AMA: Electro/Dark
'Life Before Your Eyes' è una bella maratona di circa un'ora di suoni intensi, delicati e sensuali a cura dei portoghesi Oz Project, che vede peraltro la partecipazione di membri di Secrecy, Dark Wings Syndrome e Usoutros. Con questo secondo album (che arriva dieci anni dopo il loro debut 'Voyages'), un concept album legato ad una tribolata storia d'amore, il collettivo lusitano ci porta indietro nel tempo di quasi 40 anni, a quei favolosi anni '80 dove dark, new wave e synth pop regalavano splendidi gioielli musicali. La band originaria di Porto francamente non la conoscevo, ma l'impressione è piuttosto positiva, pur non trattandosi del mio genere di elezione. Il disco si apre con le raffinate e soffuse melodie di "Spread Your Love", che vedono The Sister of Mercy, Bahuaus e Cocteau Twins come alcune delle influenze alquanto ingombranti dei nostri, ovviamente il tutto riletto in chiave decisamente più moderna e con una produzione da favola alle spalle. "Silhouettes and Shadows" segue a ruota con quel suo ritmo tipico della synth wave, con delle vocals gotiche quanto basta per donare un tocco di maggior oscurità all'intero lavoro. Colpisce poi anche il coro che ne rende ancor più orecchiabile l'ascolto. "Fire" è decisamente più robusta ma solo in apertura, con la voce affidata questa volta ad una gentil fanciulla (Sofia Portugal) che comparirà anche nella successiva e malinconica "Shooting Star" (a duettare con uno degli svariati vocalist della band - ne conto ben cinque) e nella delicata "Something Wrong", quasi una sorta di tributo a Dolores O'Riordan e ai The Cranberries di 'No Need to Argue'. "Fire" comunque è assai catchy soprattutto nella parte corale che dà il titolo al brano. "Our Wishes are Still the Same" ha un mood che conferma la verve decadente degli Oz Project e che ammicca a certe cose più cupe dei Depeche Mode. Il disco contiene comunque ben 14 tracce, pertanto mi soffermerei su quelle song che più mi hanno colpito a partire da "Together for All" e a quel cantato inserito in un contesto sonoro psych rock che emula per certi versi i Pink Floyd, questo a sottolineare comunque l'eterogeneità dell'ensemble portoghese che qui mostra l'ispirata chitarra di Rui Salvador (Usoutros). Alquanto intriganti le melodie di "Our Love is Close in a Window", in cui a cantare questa volta troviamo un'altra delle vocalist della band, e dove nelle cui note si percepisce quel disagio di un amore destinato a finire a breve. Ultima menzione per "Walking on the Line", che sembra riaffermare quanto proposto dalla band nella prima manciata di pezzi, con una elettronica più spinta in primo piano. Insomma, se avete voglia di farvi investire da un bel po' di emozioni, ritrovabili anche a livello lirico, date una chance a questo 'Life Before Your Eyes'. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2021)
Voto: 75

https://www.facebook.com/ozprojekt/

domenica 6 febbraio 2022

Mona Kazu – Steel Your Nerves

#PER CHI AMA: Dark/Post Wave
Esce per il trittico Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music il nuovo album di questo ottimo duo transalpino e vista la generosità della proposta, possiamo dire che il salto quantico dei Mona Kazu è avvenuto nel migliore dei modi e assolutamente in una forma splendente, luminosa, quasi accecante. L'evoluzione è impressionante, la voce di Priscilla Roy è divenuta possente, autoritaria, sognante, tesa, inquietante, protagonista e, brano dopo brano, si snoda tra i richiami canori di vocalist strepitosi e diversi tra loro, come Bet Gibbons o Kim Gordon, oppure, per la sua estensione vocale Ann–Mari Edvardsen dei mitici The 3rd and the Mortals o Rachel Davies degli Esben and the Witch. Ad una gran voce va equiparata una solida e credibile musica, che faccia incetta di tutto il background di una band che è in attività da più di un decennio e che sperimenta da sempre con generi opposti tra loro, trip hop, post punk, elettronica, rock alternativo e jazz d'avanguardia che, uniti solo per attitudine vocale e non per stile musicale, alle atmosfere cupe degli Avatarium (quelle più acustiche) della magica Jennie–Ann Smith, formano l'attraente stato sonoro degli attuali Mona Kazu. Aggiungete un velo mistico nel ricordo della compianta Andrea Haugen (Aghast/Hagalaz' Runedance) e avrete un quadro completo su cui valutare un'opera splendida, che dovrebbe essere osannata da tutti i cultori di musica alternativa. Un disco maturo e adulto che proietta la band in un emisfero magico, surreale, un altro mondo sonoro, etereo, riflessivo, affascinante. Franck Lafay che si occupa della musica ed è l'altra parte del gruppo. Da sempre i Mona Kazu si presentano come duo, ma questa volta si sono avvalsi anche della collaborazione esterna del bravo batterista/percussionista, Règis Boulard. Per il resto, l'ottimo mastering di Mathieu Monnot (Eyemat), ha consolidato la formula sonora perfetta per questo mix di generi, districandosi alla perfezione, tra bassi profondi, suono cameristico, post rock, teatralità e avanguardia, forgiando la variegata anima sonora di un album dal cuore dark, che in ogni sua canzone lascia senza respiro l'ascoltatore. Che i Mona Kazu avessero ottime qualità era indubbio da tempo, ma questo nuovo lavoro supera tutte le aspettative. Difficile trovare la miglior canzone, forse l'oscurità di "Birds" o il riff alla Sonic Youth di "Porto Twins" con la sua evoluzione trip hop ed il fantastico intermezzo avantgarde jazz, il buio romantico e futurista di "Troubles" che nel suo progredire riporta alla mente la natura musicale classica, drammatica e teatrale de "La Tristesses de la Lune", il brano dei Celtic Frost. Il fatto è che questa coppia di musicisti è riuscita a creare un vero e proprio capolavoro, una scatola magica di suoni e stili rimescolati tra loro in maniera magistrale, senza rinunciare al taglio underground, esaltando e innalzando le proprie qualità alla massima potenza espressiva, dando vita ad un album imperdibile che considero, a tutti gli effetti, una delle migliori uscite del 2021. (Bob Stoner)

(Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music - 2021)
Voto: 88

https://fallsavalancherecords.bandcamp.com/album/steel-your-nerves

venerdì 28 gennaio 2022

Barabba - Primo Tempo

#PER CHI AMA: Darkwave/Alt Rock
"Volete Gesù o Barabba?". Secondo il Vangelo di Giovanni, il popolo di Gerusalemme scelse il primo e probabilmente ad allora risale la genesi di questa band marchigiana composta da tre musicisti, Jonathan Iencinella, Riccardo Franconi e Nicola Amici, che ormai da vent'anni se ne vanno in giro a fare musica alternative rock, popolando band del sottosuolo italico (Guinea Pig, Jesus Franco & The Drogas, Kaouenn etc.). Detto questo, 'Primo Tempo' rappresenta il primo album sotto questo moniker: il lavoro si apre con "Un Altro", un pezzo che mi ha evocato dopo soli due secondi, un brano che si era assopito nella mia memoria, "Satana" dei Nuvola Neshua. Andatevi a sentire i due pezzi e dirmi se non trovare un parallelismo nelle pulsazioni urbane che emanano i due brani. Quanto proposto dai Barabba risente però un po' di più dalle ultime tendenze rap/trap (giuro che mai avrei pensato di scrivere trap in questo blog) coniugate qui con criptiche sonorità alt rock che mi hanno evocato un'altra bestia nostrana, i Bachi da Pietra e non solo perchè il mastermind Giovanni Succi comparirà come guest star alla voce su "Quei Due" in compagnia di Marco Drago. Giovanni è uno dei tanti ospiti che compaiono infatti in questo EP di sei pezzi. Dalle suggestioni urban dell'opening track si passa a "Bastare a Me Stesso", con un pattern musicale all'insegna di un darkwave elettronico molto simile al pezzo introduttivo, qui con il featuring di Francesco Imperatrice (aka Paco Sangrado) e Serena Abrami alla voce, quest'ultima che ha collaborato in passato con gente del calibro di Max Gazzè o Luca Barbarossa (non pensavo che avrei mai nemmeno scritto quest'ultimo nome su questo blog). La proposta dei nostri si muove comunque sinuosa attraverso l'oscurità anche con "Momo" che si renderà più epica per il featuring al sax di Tommaso Uncini. Ancor più cupa, e non pensavo fosse possibile, arriva "L'ultima Mano", in cui Jonathan duetta alla voce con Caterina Trucchia (dei Kmfrommyills) in un pezzo noir che si muove sempre tra trip hop, elettronica e cantautorato, il tutto sempre contraddistinto da un cantato affine ad un rap primordiale. Si giunge nel frattempo a "Quei Due", che oltre a continuare con un sound forse un po' troppo affine ai precedenti pezzi, e su questo cercherei di lavorare un po' di più, la seguo più che altro per il suo lirismo narrativo che descrive una delle tante storie del protagonista Barabba, alle prese con i propri demoni quotidiani. In chiusura, la meravigliosa "Bianco Natale", da ascoltare attentamente per i suoi ironici testi che non vi porteranno di certo a quel che si definisce un lieto fine. Ascoltare per credere. (Francesco Scarci)

martedì 28 settembre 2021

Ropes of Night - Impossible Space

#PER CHI AMA: Post Punk/Darkwave
La tesi che da tempo sostengo e che mi impone di pensare che ci sia un filo conduttore tra la darkwave, il post punk, il dark rock e certe aree artistiche del black metal, trova significativo slancio nella scelta vincente, intrapresa da Ralph Smidth, oscura icona del metal estremo germanico, proveniente dai sotterranei di Colonia, nel presentare un nuovo progetto parallelo e diverso dalle altre sue band estreme (Ultha, Planks, Curbeaters, Hellstrom), denominato Ropes of Night. Un progetto che attinge a piene mani dalle sonorità tipiche di casa Interpol ('Turn on the Bright Lights'), Electrafixion, The Sound e Joy Division, con un full length di ottima caratura, licenziato via Golden Antenna Records, in questo mese di settembre. Intenso, carico di emotività, dal sound raffinato, scarno ed essenziale, per certi aspetti anche romantico nel suo apparire quasi vampiresco, votato a rinverdire le atmosfere create un tempo dalla evocativa voce di Adrian Borland e da una certa sofisticata eleganza nera, degna dei migliori The Mission UK, capitanati da una figura di spicco come Wayne Hassey (ascoltate "Vanishing" per credere). Gli oltre 45 minuti di 'Impossible Space' presentano una collezione di brani omogenea nella composizione e nelle sonorità, rispettosi dei canoni stilistici imposti dal genere, con ritmiche corpose e chitarre taglienti, unite a synth cupi, sognanti e malinconici. La rivisitazione in chiave moderna delle intuizioni musicali apparse nella celeberrima "Ceremony" dei New Order, dell'album 'Crocodiles' degli Echo and the Bunnymen oppure in 'All Fall Down' dei The Sound, porta in effetti a buoni frutti, che si esaltano nella parte di basso di "The Drowning Lesson", dove troviamo tracce anche di una certa scuola The Cure, con rimandi ai fasti dei colossali album, 'Faith' e 'Pornography'. Un senso di costante caduta si dirama tra le tracce del disco della band tedesca, abbandono e cinematografica suburbana decadenza, si alternano con un efficace eleganza stilistica che eleva l'intero album, a piccolo gioiellino dei tempi moderni, intenzionalmente derivativo ma con una forte personalità e un carattere sonoro che si fa notare. La produzione è ottima, il suono è corposo, dinamico, le chitarre risaltano nelle loro trame di accordi dal suono drammatico, notturno, freddo, mentre la sezione ritmica è esplosiva e sostiene perfettamente l'ottima interpretazione vocale, che nelle tonalità più basse, come in "Strange Moons", rievoca lo spettro di Andrew Heldritch, portando l'ascoltatore indietro nel tempo di qualche decennio, quando il post punk era l'alternativa perfetta per chi viveva il suo lato più esistenziale con lo spirito della notte più oscura nel cuore. Questo è un ottimo disco per gli amanti del post punk, suonato davvero bene e comunque per quanto Ralph Smidth abbia voluto cambiar pelle, il suo stile si sente ancora, come si sente il background dal taglio estremo da cui proviene il suo autore. Con questa raccolta di brani si è voluto creare un delizioso tributo ad un genere musicale variegato e di nicchia come il post punk. Una splendida collezione di affascinanti, epici, solenni e decadenti inni alla notte, suonati con uno stile moderno ma perfettamente retrò. Un disco che non può (non deve) sfuggire agli amanti del rock più crepuscolare. (Bob Stoner)

(Golden Antennna Records - 2021)
Voto: 78

https://ropesofnight.bandcamp.com/album/impossible-space

giovedì 25 febbraio 2021

Seasurfer - Zombies

#PER CHI AMA: Dream Pop/DarkWave
“SOS” non è una mia richiesta d'aiuto ma l’incipit di 'Zombies', atto terzo del progetto tedesco Seasurfer, che racconta l’urgenza scomposta tra ruggente post punk e darkwave, tra rabbia e pensieri, tra graffio e cura. L'opener dell'ensemble di Amburgo, ribalta il senso comune perchè il graffio diventa la cura e la cura sublima. Si sposta la torcia dalle rocce acuminate di un sound electro noise invadente, a quell’acqua che racconta che una grotta non è stagna. Parte un vibrato, un ritmo synth pop di anni passati (gli indimenticabili ottanta) ed una danza metallica che stride sul ferro dell’ascolto da fare scintille più di una saldatrice. È lei la voce calda e pulsante di "Too Wild". Avanziamo a quadrato come in battaglia, quando parte "Zombies". Siete pronti per una via tortuosa, contorta e adamantina? Una voce d’angelo che custodisce l’inferno. Un sollievo apparente che vi farà viaggiare tra gironi danteschi e paradiso. Il lavoro partorito da Dirk Knight è una strada lunghissima, articolata, introspettiva. Mi perdonerete se lascio in etere alcune tracce, ma prima debbo sostare in "Tears & Happiness", leggera come un filo invisibile che lega i sensi ai polsi, volubile come la golosità per chi ha fame. Veniamo a "Chemical Reaction". Balliamo con la mente ammaliata dalla voluttà della voce sensuale di Apolonia che fino alla traccia 16 si dividerà il ruolo con Mr Knight, per poi lasciare il posto a Elena Alice Fossi dei nostrani Kirlian Camera, per le rimanenti otto del secondo cd, 'The Dreampop Days'. Se volete mandare on air un ambient spinto, la breve “Devils Walk” farà per voi. In apparenza luci impazzite di un rave di emozioni. In verità un limbo, un purgatorio che lavora per un orgasmo paradisiaco in musica. Batte la bacchetta sull’altra bacchetta del batterista. Battono i bassi. Percuote lo stile di questa band. E mentre mi faccio strada nel silenzio dell’attesa, mando su come uno shuttle "Pretend". Questa traccia vi farà vorticare nell’iperspazio. Vi tatuerà l’ascolto nei timpani, lasciandovi sospesi per un po’ tra la Terra e Marte. Vita e guerra. L’ascolto continua elettrizzando le mie sensazioni quando parte la strumentale "Heaven". Ci ammortizzo la giornata. Ci faccio un giro dentro. E quando esco, mi accordo di aver vissuto un momento catartico che ha spezzato la mia quotidianità e composto l’ispirazione con la sua eterea synth wave. Non perdete la strada che vi porta in questo regno di Oz. La strada è lunghissima. E siamo solo alla traccia 15 di 24. "Dead in the Garden". Ripenso ascoltando ai Depeche Mode, ma anche alle più recenti performance degli Ulver. Quella contrattura di musica lontana che si allenta in un eco blu scuro. Il brano parte anni '90 per continuare ridondante senza forma e sostanza. Se volete un loop, questo vi piacerà. Ancora, ancora senza tregua, i Seasurfer ci fanno cambiare scenario. “Blue Days”. Cambia l'interprete vocale, non cambia il risultato. Dovrei essere descrittiva ma qui sono rapita da questa voce femminile. Dolce, malinconica, sensualissima. Me la godo e basta. Sappiamo che per ogni piacere, il karma ci manda indietro un dolore. Il mio karma è veloce e sintetico. Quando "Killing Tears of Joy" va on air, mi spezza l’anima. Mi fa sanguinare il cuore con la sua toccante malinconia. Mi porta ad un sentire senza barriere. Complimenti alla band per saper come scoprire le ferite e curarle al contempo. Leggera, delicata, anzi direi vellutata, è invece "Shine". Un balsamo di oscuro dream pop che ci prepara a "Fairies in Twilight". Il balsamo diventa mani sulla schiena, un intercalare fisico attraverso la musica che passa dalla mente al coccige. Un vello di suoni sintetici, quasi impossibile da descrivere, come solo la musica può fare. Sappiamo che ogni gioco vale la candela. Quest'album inizialmente mi sembrava una vetta invalicabile con le sue 24 song. Ora arrivata quasi alla vetta, voglio chiudere la mia personale scalata con "Fear in the Woods" (mancherebbero infatti ancora due brani a rapporto). Ma questo per me sarebbe un degno epilogo. Ad ogni fuoco corrisponde un ghiacciaio. Alla pace la paura. Quest'album mi ha fatto vivere battiti e morte apparente. L’azzardo e la bellezza. Molto, molto bene i Seasurfer. È infatti cosi che mi piace viaggiare al limite delle emozioni. (Silvia Comencini)

Swans - The Burning World

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Shoegaze/Darkwave
Una manciata di esangui lamento-tristerie dark-pop squisitamente anni '80 ("Well, I awoke this morning in the blackest night / and a million stars were aching in the sullen sky" cantato in "The River That Runs With Love Won't Run Dry", epperdincibacco) intrise di un generico pessimismo licantropico ("God Damn the Sun"), rattristanti violini ("Let It Come Down", per esempio, ma in verità ovunque nell'album) e svenevoli orchestrazioni (ancora "God Damn the Sun"), collocabili tra i Fields of the Nephilim con l'insonnia ("Jane Mary, Cry One Tear"), i The Jesus & Mary Chain con la camicia fuori dai pantaloni ("Saved") e un Nick Cave che assiste alla replica televisiva della finale di Telemike (tutto il resto del disco). Ascoltate questo (ormai introvabile) album stimolati dalla curiosità di sentire Michael Gira, stiamo parlando di "quel" Michael Gira, tristoallegramente lalleggiare canzonette pop-dark alla Bob Geldof pre-irish-era con tanto di vocione new-romantico alla Colin Vearncombe (giusto per dirne uno davvero sfigato, pace all'animaccia sua). Quello stesso M-G che successivamente si vergognerà di questo disco più o meno quanto Lenny Kravitz della foto con Clemente Mastella, al punto da disconoscerlo e affibbiarne interamente le colpe al produttore Bill Laswell, stimato jazzista e, appunto, produttore. La verità, però, sta altrove. Per esempio nella ahimè prodromica cover di "Love Will Tear Us Apart", pubblicata pochi mesi addietro e per niente prodotta da Laswell. Tecnicamente, si chiama sindrome post-traumatica da tasche piene. (Alberto Calorosi)

(Uni Records - 1989)
Voto: 60

https://www.facebook.com/SwansOfficial

domenica 21 febbraio 2021

BleakHeart - Dream Griever

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, The Third and the Mortal
Quando ho ascoltato la prima volta i BleakHeart ho pensato ad una versione americana dei The Third and the Mortal. Fate partire "Ash Bearer", opening track di questo 'Dream Griever', e capirete esattamente a cosa stia alludendo. Certo, non ci saranno le liriche in norvegese di Kari Rueslåtten che popolavano 'Tears Laid in Earth', opera prima dei norvegesi, però il modo di cantare di Kelly Schilling (peraltro voce anche dei Dreadnought) è a metà strada tra la cantante scandinava e l'altrettanto brava Anneke van Giersbergen, anche se negli acuti la voce si perde un po'. A parte queste sottigliezze, va sottolineato come la proposta musicale del quartetto di Denver nella sua raffinatezza, si muova in bilico tra doom, shoegaze e darkwave e lo faccia sfoderando un'ottima prova collettiva. Non solo la voce della frontwoman in primo piano dunque, ma la capacità di un gruppo di musicisti di creare musica in grado di toccare le corde dell'anima, nonostante un suono non cosi facile da assimilare, complice anche la presenza in formazione di due chitarre a discapito del basso. E anche in questo la band si conferma originale. Dopo gli oltre otto minuti dell'opener, arrivano i quasi otto della seconda "Heed the Haunt", un brano che mette in mostra altre influenze dei nostri, dallo shoegaze al gothic, non rinunciando comunque a livello ritmico alla robustezza delle sei corde, stemperate dalla soave prova di Kelly al microfono. Da manuale comunque le melodie che escono dagli strumenti di questi musicisti, capaci di proporre atmosfere costantemente decadenti senza rinunciare ad una forte componente emozionale. La stessa che si scorge nella tribalità minimalista di "The Visitor", che nuovamente evoca forti rimandi ai The Third and the Mortal degli esordi. L'atmosfera creata dal drumming è cupissima, sferzata dalla sola sofferente voce della cantante. Le chitarre entrano in scena infatti solo dopo oltre quattro minuti contribuendo comunque a rinforzare quella plumbea ambientazione che proseguirà sulla medesima linea di monolitica angoscia fino alla fine di tutti gli otto minuti di durata. "The Dead Moon" prosegue sullo stesso binario stilistico, proponendo un sound sicuramente meno claustrofobico rispetto al pezzo precedente, ma sicuramente più statico rispetto ai primi due brani del disco che tanto mi avevano impressionato positivamente. Il sound dei BlackHeart resta comunque positivo, ma forse più prevedibile per quanto la performance di Kelly a questo punto innalzi la prova collettiva. La chiusura di 'Dream Griever' è affidata proprio alla title track e ad un inizio che evoca "Atupoéma", ancora estratto di quel mitico 'Tears Laid in Earth' citato a inizio recensione. Le atmosfere si confermano pesantissime, ma fortunatamente, trovano il modo di rimodellarsi nel corso del brano, con cambi di tempo che si erano un po' persi invece nella parte centrale del lavoro. Il brano regala comunque sprazzi di classe con una parte intermedia più eterea, di scuola ultimi The Gathering, con l'aggiunta di un pizzico di jazz che aumenta le vibrazioni rilasciate da tale release. 'Dream Griever' è alla fine un buon lavoro con le sue luci, qualche ombra da smussare per cercare di rendere più dinamico un sound che rischia talvolta di incepparsi sul più bello. Le potenzialità sono altissime, punterei sull'aggiunta di un bassista e sulla riduzione di quelle ritmiche pesantissime che alla lunga rischiano di soffocare l'ascolto già di per sè impegnativo di un lavoro da ascoltare e riascoltare nei momenti più bui. (Francesco Scarci)

venerdì 20 novembre 2020

Bergeton – Miami Murder

#PER CHI AMA: Synth-Wave/IDM/Electro
Devo ammettere che la copertina di questo album mi ha incuriosito molto e scoprire chi si cela dietro al progetto Bergeton, è stata una cosa proprio inaspettata. Siamo al cospetto di una figura di culto del mondo black metal, che ha suonato con Gorgoroth, Godseed, 1349 e che dal 2011 è parte integrante dei Mayhem. Sto parlando di Morten Bergeton Iversen, artista norvegese conosciuto da tempo nella musica estrema con lo pseudonimo Teloch. In questo nuovo solo project, il musicista di Oslo si cimenta con l'arte della musica elettronica, lontanissimo dalle sue abituali ritmiche violente, fredde e oscure. Qui Mr. Iversen si mostra padrone della scena e capace costruttore di architetture elettroniche che subiscono l'influenza di vari mostri sacri del genere ma non soccombono al plagio anzi, con un pizzico di glamour e humor noir, l'artista norvegese riesce efficacemente a mescolare le sue carte fino a realizzare una manciata di brani fruibili e godibili, frutto di un certo gusto e coinvolgimento nel genere in questione. Dicevamo dell'artwork di copertina, che si mostra come la locandina di un anime thriller, ambientato in una Miami del futuro il che rende molto l'idea della musica contenuta in questo disco di debutto. Una musica ispirata, che non abbassa mai i toni, sostenuta, che incrocia il suono dei Front Line Assembly con quello dei videogiochi anni '80, che rimastica i Model 500 con i Kraftwerk, i suoni dei primi Depeche Mode con il mood della celebre sigla della serie X-files. Musica costantemente pulsante, con belle atmosfere, a volte più morbide ed immediate, a volte più sinistre, intelligentemente danzanti (IDM) con inserti e arrangiamenti intriganti, a volte persino tese e nevrotiche senza mai perdere la vocazione per l'orecchiabilità. Si parte con "Arabian Nights" ed il suono scivola immediatamente tra la synth wave e la dance cosmica di fine anni '70, con un perfetto riff etnico che certamente farà presa su ogni tipo di ascoltatore. Si prosegue con un brano che si presenta da solo, dal titolo inequivocabile "Depeche Load", che si schianta tra la band di Dave Gahan e le prime intuizioni sintetiche e dark dei VNV Nation. In "Fort Apache Marina", il suono si snoda tra ritmi elettro/funk di gusto retrò e innesti chitarristici inaspettati, di chiara ispirazione metal. Il disco continua con influenze kraut e persino techno-trance, con il brano "Lambo", ma è con la new wave di "Miami Murder" che dà anche il titolo all'album che si tocca la vetta, con analogie che l'accomunano alla sigla del film Miami Vice, filtrata dalla decadenza espressa in "Vienna" dai mitici Ultravox. " Natasha K.G.B." è un buon esempio di come una musica fatta con intelligenza, possa farti immaginare un film di spionaggio che non hai ancora visto, mentre "The Demon", a differenza degli altri brani, esplora un ambiente sonoro più duro, e distorto più vicino all'EBM, agli ultimi Project Pitchfork con l'ingresso della presenza vocale, che si manifesta in forma di inquietante parlato. Il finale è lasciato a "Valley of Death" che chiude l'album con un beat ossessivo, curve e altalene elettroniche rubate direttamente dalla console Atari e dai videogames di un tempo assai lontano. 'Miami Murder' è sicuramente un disco molto dinamico ed energico, che non avanza pretese di originalità ma che gode di ottima fantasia e gusto, qualità che bastano a rendere il tutto piuttosto personale. Sarebbe proprio un peccato dire in giro di non averlo mai ascoltarlo. (Bob Stoner)

(Meus Records - 2020)
Voto: 70

https://bergeton.bandcamp.com/

domenica 25 ottobre 2020

CNJR - I Can See the Church Burning Through the Binoculars

#PER CHI AMA: Electro/Dark Wave
CNJR si legge Conjure, una congiura come di quelle che si sente parlare in giro oggigiorno, atte a rovesciare l’ordinamento di uno stato, e sui è meglio sorvolare, dando voce alla musica. E quello di oggi è un progetto solista votato a pura sperimentazione cibernetico-futuristica che porta nelle vostre case otto song semi-strumentali che si muovono tra elettronica, darkwave, sci-fi e industrial, arrivando quasi a sfiorare il trip-hop. Lo dimostrano subito i synth da colonna sonora, dell'opener "The Destroyers" che ci conducono flemmaticamente nel contesto di un film noir, tra oscure sonorità downtempo. Niente male, peccato come al solito per l'assenza di una voce a guidarci meglio nell'ascolto. La successiva "Burning", muovendosi sugli stessi binari, sfoggia un cantato robotico in una song dalle atmosfere angoscianti, un brano che poteva essere la perfetta colonna sonora di un film distopico quale 'Divergent'. Prima citavo il trip-hop, eccolo servito nell'incipit di "Putrid Things", con quella voce femminile che fa da contraltare ad un vocalist rabbioso maschile, che insieme supportano le immagini di un video alienante in cui compaiono anche delle pesanti chitarre ritmiche. "Paint My Face With Ashes" potrebbe essere un intermezzo IDM che ci conduce alla pulsante "Drunk On The Venom", una song che miscela alla grande sonorità in stile Portishead, Archive e Massive Attack (ai tempi di 'Mezzanine') contaminata da un pizzico di rock alternative che si traduce in un'ispirata linea chitarristica su cui poggiano le vocals lamentose del frontman. La mente del progetto spiega che le sonorità catartiche di questo album nascono dalle esperienze dell'infanzia e comunque da una necessità di elaborare vecchie relazioni, riflettendosi in queste emozioni di paura e dolore. Paura come quella che si prova nella nebulosa, melodica e sofisticata "MSS" che, pur ricordando ancora qualcosa degli Archive, lascia spazio a grande immaginazione mentale mentre la si ascolta in assoluto silenzio, con i pensieri che s'intrecciano pericolosi nella mente. Per attitudine questo disco potrebbe rappresentare una versione decisamente più soft dei francesi C R O W N, visto un più pesante utilizzo dell'electro music, come si sente nel beat sfrenato di "Tunnels", una song che si lancia comunque in vorticose ritmiche techno. Peccato ancora una volta per l'assenza del cantato come nella conclusiva "Drones", un pezzo che evoca inequivocabilmente nel suo malinconico incedere, i fantasmi di "Angel" dei Massive Attack, provare per credere. (Francesco Scarci)

lunedì 16 dicembre 2019

Timelost - Don't Remember Me For This

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post-Punk/Dark Wave
Da Philadelphia ecco approdare al debutto i Timelost, collaborazione tra Shane Handal e Grzesiek Czapla, che con il loro 'Don't Remember Me For This', potranno solleticare i palati più affamati di post-punk/shoegaze, due generi molto spesso a braccetto tra loro, al contempo affiancati anche da una componente dark wave. Undici tracce che si aprono con "Timelost", una song che oltre a fissarsi per il chorus inneggiante il titolo, è impreziosita da ottime linee di chitarra e sicuramente una bella carica energetica. Se "Lysergic Days" non mi ha preso molto per il suo litanico vociare, con "Nausea Curtains" il duo statunitense propone un sound più ritmato che sembra evocare spettri passati. Tuttavia, il sound dei Timelost continua a non affascinarmi cosi come avrei sperato. Ci prova la title track con il suo incedere dapprima leggerino, e poi finalmente sognante, per cui sollevo finalmente lo sguardo per scrutare sullo schermo del cd il numero del brano. Eccolo lo shoegaze che stavo attendendo, con quelle preziosi linee di chitarra a creare melodie celestiali, mentre la voce rimane in sottofondo. I nostri ci prendono gusto e sfoderano un altro gioiellino con la malinconica "The River Broke Us", che esalta la performance del duo soprattutto quando si alzano i giri del motore e quelle splendide chitarre riverberate saturano i miei neuroni cerebrali. È un'escalation visto che la band riesce a mettere in fila uno dietro l'altro ottimi pezzi che pongono in primo piano lo shoegaze, l'ambito in cui i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio. Non mancano però gli episodi in cui i nostri vanno a combinare post-punk con il grunge e penso alla breve "Heart Garbage" o alla più esplosiva "It Only Hurt Once", ma lasciatemi dire che i nostri rendono sopra la media laddove è lo shoegaze a guidare le cose, come nella conclusiva "I Know Cemeteries", song che rappresenta la summa di questo 'Don't Remember Me For This'. (Francesco Scarci)

domenica 6 ottobre 2019

Rev Rev Rev - Kykeon

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative
I Rev Rev Rev sono una di quelle band difficilmente etichettabili che passano dallo shoegaze all’industrial e alla dark wave, passando per vocalizzi eterei, spigolose dissonanze e molto molto rumore. Una prova convincente questo 'Kykeon', meditativo, denso e completo, all’ascolto godibile e mai scontato, con un’energia trascinante e delle atmosfere personali e accattivanti. “Waiting for Gödel” apre il disco con bordate di rumore guidate da una ritmica marziale e concisa; il rumore poi continua, non ci sono giri distinguibili ma solamente una coltre di suono droneggiante. Sembra di sentire il rumore di una fabbrica immensa dove si producono robot senzienti e assetati di conoscenza e di conquista, un esercito di latta che avanza lentamente ma inesorabilmente e che si insinua in ogni angolo del pianeta. Segue “Clutching the Blade” con i suoi scenari abrasivi e ruvidi, i suoi riff davvero bizzarri, quasi psicopatici, ancora più rumore ancora più lame che tagliano carne, terra e pietra. Degna di nota la parte dove la canzone lascia spazio al rumore, come se fosse in realtà il rumore la canzone e tutto il resto di contorno. Tuttavia nulla urta l’orecchio anzi, le frequenze penetrano insistentemente nel cervello annullando ogni altro pensiero. Anche in “3 Not 3” il pattern è lo stesso, solamente in questo pezzo la voce prende quasi un significato salvifico dal noise macabro ed inarrestabile, l’unica àncora di salvezza in un mare di ignoto ostile che tutto inghiotte. I Rev Rev Rev sono in grado, attraverso gli arrangiamenti finemente pensati e realizzati a regola d’arte, di far stare in piedi i pezzi in modo efficace ed originale; la commistione di dark wave, rumore e voci decadenti non è di certo cosa nuova, ma il modo in cui il quartetto di Modena lo propone è qualcosa di assolutamente personale e unico. A volte mi sembra addirittura di sentire qualche eco lontano dei Black Sabbath, saranno i riff demoniaci, la ripetitività delle parti, non saprei, ma qualcosa mi riporta alla mente anche lo stoner e generi di musica decisamente più estrema, ma come dicevamo, la band non può essere efficacemente relegata in un solo ambito musicale. Ascoltare tutto 'Kykeon' è un’esperienza mistica e totalmente immersiva, il flusso è continuo e denso e non molla mai, inoltre il potenziale pubblico è davvero ampio, mi sento di consigliare infatti questo disco a chiunque abbia voglia di sentire qualcosa di energetico, intenso, rumoroso ma allo stesso tempo leggero, ciclico e orecchiabile, al di là delle etichette di genere, al di là delle etichette in genere. (Matteo Baldi)

lunedì 23 settembre 2019

Wires & Lights - A Chasm Here And Now

#PER CHI AMA: Post-Punk/Darkwave, Joy Division, Bauhaus, The Cure
La teatralità e l’inganno sono strumenti potenti” è una frase ricorrente nella trilogia del Cavaliere Oscuro, con la quale il regista Nolan sottolinea come il nostro Batman, tanto privo di superpoteri quanto ricco di ingegno e furbizia, riesca ad avere la meglio su avversari più forti e numerosi grazie ad astuti trucchi.

In campo musicale non ci sono ovviamente vite innocenti in gioco, tuttavia al giorno d’oggi è in atto una sorta di lotta per la sopravvivenza in scene ormai saturate da mille proposte ed è quindi naturale che molte band scelgono di utilizzare alcuni “trucchi” per emergere, come puntare stilisticamente sull’usato sicuro e ammantarsi di un’estetica ben riconoscibile, in modo da stuzzicare l’attenzione di uno specifico target di pubblico.

Gli Wires & Lights con il loro atteso album 'A Chasm Here And Now' non si stanno certo facendo beffe di noi, anzi: ci troviamo di fronte ad un solidissimo album post-punk pensato e (ben) costruito per soddisfare le preferenze degli amanti di Joy Division, Sisters Of Mercy e The Cure, rimaneggiando i capisaldi del genere attraverso un sound più moderno.

L’intenzione della nuova creatura del cantante-chitarrista Justin Stephens (già noto nell’ambiente grazie al precedente progetto Passion Play) è evidente fin dalla prima traccia “Drive”, un dirompente singolo trascinato dalle dinamiche di batteria e dai giri avvolgenti del basso, dove le atmosfere sognanti della chitarra lasciano spazio ad esplosioni di rumore che si spingono fin quasi allo shoegaze.

Il tema portante di questo disco è per lo più la lotta contro i demoni interiori della depressione, ben rappresentata dalle atmosfere decadenti e tormentate che gli Wires & Lights ricamano attraverso le varie sfumature di post-punk, gothic rock e dark wave. Tuttavia, la band sembra voler descrivere uno scontro in cui il male è infine destinato ad essere sconfitto: ecco perché nello sviluppo di brani come “Swimming” e “Cuts”, traspare sempre una chiara determinazione ad uscire da queste paludi mentali e non mancano raggi di luce pronti a squarciare le ombre.

I dieci pezzi dell’album, quasi tutti della durata compresa tra i quattro e i cinque minuti, si susseguono piacevolmente riuscendo a mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore, tra raffinati richiami al passato e l’inserimento discreto di elementi moderni e più catchy. Menzione speciale per la struggente “Anymore”, l’evocativa ed etera traccia dark-wave “24h” e la seducente “Sleepers”, riuscitissime canzoni che si elevano su un insieme comunque di buonissimo livello.

Cosa manca dunque? Forse un po’ di temerarietà nell’andare oltre confini ben definiti: i nostri amici berlinesi mostrano di essere a proprio agio nell’affrontare i bassifondi del post-punk, sfoderando tutto il campionario di riferimenti e cliché del genere, ma evitando abilmente di apparire troppo stereotipati. Il costume di nuovi alfieri di questa scena pertanto calza a pennello agli Wires & Lights e bisogna ammettere che di 'A Chasm Here And Now' non è difficile innamorarsi, ma va anche detto che potrebbe essere altrettanto facile dimenticarsene. (Shadowsofthesun)