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martedì 28 novembre 2023

Turangalila - Lazarus Taxa

#PER CHI AMA: Psych/Post Metal
Li avevo recensiti un paio di anni fa con quel sorprendente 'Cargo Cult', che delineava una band in preda a psichedelici slanci math/post rock. Li ritrovo oggi con un nuovo lavoro, 'Lazarus Taxa', e una maturità artistica rinnovata che sottolinea l'eccellente stato di forma della band barese. Dieci nuove tracce quindi per assaporare ancora quell'irrequietezza di fondo che permea il sound del quartetto pugliese, che si materializza immediatamente con le soffuse ma granitiche melodie shoegaze dell'introduttiva "Wow! Signal", un pezzo che in un qualche modo, sembra evocare quel post metal che avevo descritto nell'ultima "Die Anderen" del precedente album. Un pezzo timido che lascerà ben presto il posto a "Neopsy" e a una ritmica potente ma forte di una linea melodica più dinamica e coinvolgente, che si muove comunque in un'alternanza tra sonorità più fluide e altre più oblique che giocano, non poco, a disorientare l'ascoltatore. Effetto quanto mai recepito durante il mio personale ascolto di questa song, cosi incisiva e ipnotica, e convincente soprattutto a livello vocale. Soffice invece l'approccio offerto in apertura della spettrale "Ugo", dove un senso onirico perdura fino a quando i nostri non decidono di aumentare il numero dei giri, in una strategia musicale che vede una successione ritmica tra atmosfere più pacate e altre più movimentate, dove peraltro a palesarsi, c'è anche una sezione d'archi. Suggestiva non c'è che dire, anche nella porzione più rabbiosa nel finale che ci introduce alla più nevrotica "P38", traccia che si muove tra ritmiche sincopate e vocals eteree, altro effetto che potrebbe essere confondente a chi approccia la band per la prima volta. Ma questo è ciò che vogliono trasmettere i Turangalila, ne sono certo: in "Antonio, Ragazzo Delfino" la band ci scuote con una ritmica di tooliana memoria, anche se ad un certo punto (verso il terzo minuto), il sound diviene più lisergico nelle sue deliranti e ossessive linee di chitarra. Ancora tanta sofficità nelle note sognanti della title track, almeno fino a metà brano, quanto farà capolino l'asprezza delle chitarre che per 50 secondi ringhiano come lupi inferociti, ma che successivamente ci accompagneranno in incorporee atmosfere ultra sensoriali. "Reverie" è una schiva (e stranita) strumentale traccia arpeggiata che tuttavia sembra cullarci in modo psicotico, prima di un'altra breve song, "A Pilot With No Eyes", che sembra lontanamente odorare di un che dei Neurosis più sognanti. Lo sludge più torbido e melmoso di questi ultimi si fa più evidente nelle note di "To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye", costituita da atmosfere dense e dilatate al tempo stesso, esplosioni convulsive e spasmodiche e rallentamenti angoscianti, che la innalzano quale brano più strutturato del lotto e anche mio preferito, e dove, i vocalizzi del frontman abbandonano la componente shoegaze per abbracciare quella più pulita e profonda del buon Scott Kelly. A chiudere ci pensa un ultimo buffetto sul viso, ossia le delicate note strumentali (con tanto di malinconico sax) di "Jisei" che fissa nuovi ed elevati standard artistici per i Turangalila. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2023)
Voto: 78

https://turangalila.bandcamp.com/album/lazarus-taxa

lunedì 27 novembre 2023

Crabe – Visite du Temple Innè

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Noise
Poco più di dieci anni di attività e una sterminata collana di uscite per questa band canadese dal suono difficilmente catalogabile, musica eterogenea che guarda a 360° il sottosuolo musicale sotto molti punti di vista. Il duo affronta in quest'ultimo album una nuova sfida, mettendo a dura prova l'ascoltatore che è sommerso da una valanga sonica di idee contrastanti ma efficaci, cosa che ha sempre contraddistinto il progetto Crabe, solo che in questa nuova fatica, l'abilità nel mischiare le carte dei generi, è così pregevole che risulta impossibile rimanere impassibili di fronte a questo prodotto. Partiamo col dire che è musica trasversale e alternativa fino al midollo, che ci si può imbattere nelle escursioni rap dei Beastie Boys, epoca 'Paul's Boutique', quanto al punk intelligente di "Never Mind the Ballots" dei Chumbawamba, messo in parallelo con la forza dei Poison Idea, il grunge indomabile dei Melvins di 'Houdini', una parte di seminali e sotterranee hardcore band come Focused o ancora DNA, e composizioni in uno stile da chansonnier francese con in sottofondo, una certa vena di follia e avanguardia, che rimanda ai Piniol o ai Brice et Sa Pute. Il disco, cantato in lingua madre, viaggia a gonfie vele in un continuo sorprendere: è decisamente interessante come il duo di Montrèal riesca a mantenere le redini del gioco, interagendo con tanti ma soprattutto diversi, generi musicali e stili, senza perdere originalità, energia e smalto. L'album è una lunga compilation, di oltre 40 minuti, che si apre con due brani splendidi, claustrofobici, nervosi, rumorosi, ovvero "Conscience Universelle" e "Leb Doggo" dove appare la bella voce della compositrice Annie-Claude Deschênes come ospite. "Politique Dracula 23", con i suoi impulsi quasi funky e alternative disco, chiude la prima triade di canzoni al fulmicotone, "Je Ne Peux Pas Te Dire Je t'Aime" presenta alla voce un altro ospite, N NAO, per un brano tutto pop e miele, in uno sconcertante stile da canzonetta radiofonica francese, che nel meltin' pot della musica dei Crabe, trova la sua location tranquillamente, prima della folle "Nightmom", che sembra una vecchia radio in cerca della giusta frequenza, passando con naturalezza, dall'avanguardia vagamente zappiana all'hardcore. Il brano "2020" ospita The American Devices, praticamente gli FFF in guerra con il proprio funk da destrutturare a colpi di death metal. "Limp de Quoi" rispolvera gli scratch old school, per sviluppare un brano assai interessante sullo stile dei poco considerati Sweet Lizard Illtet, uniti a certo metal alternativo pesante, intuizione anni '90 per un'ottima song. Evoluzione filmica per un altro splendido brano, "Nos Pères se Meurent", con l'ennesimo ospite, Simone Provencher, che esplora sonorità sinfoniche e post black metal alla Liturgy, sicuramente il brano più interessante e originale del disco. "Pourquoi" è pesante rock alternativo e fantasioso mentre la conclusiva "Personne Proximité", con la voce di Hubert Lenoir, gioca le sue carte tra elettronica, pop moderno e sperimentazioni noise. Cosa dire dopo una carrellata così ampia ed esasperata di generi musicali, se non che i Crabe hanno raggiunto una maturità compositiva di tutto rispetto, restando comunque allacciati alla loro indole di underground band, nella ricerca del suono e nella proposta artistica, alternativi sempre e comunque, come ad esempio, nell'artwork di copertina e nella loro libertà di mescolare suoni e stili diversi, un esempio di come il crossover possa far resistere ed elevare i suoi valori incurante del passare del tempo. Certamente una band dal potenziale enorme se saprà mantenere questa soglia di fantasia compositiva. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

Latex Baby - Stab

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Industrial Black
I Latex Baby sono nati dall’unione di Dr. Morbus (proveniente dalla death/black metal band Antrum) e Fetish X (proveniente dall’harsh noise band Involucro). Quello che vi presento oggi è il primo interessante lavoro della band (prima che se ne perdessero completamente le tracce, tant'è che non abbiamo trovato nemmeno uno straccio di sito internet/ndr). Dimostrazione di ciò è il fatto che il gruppo comparve anche nella compilation 'Death Odours' dell'importante etichetta italiana Slaughter Productions. Il primo brano ("Weak Flesh Persecution") è composto da una dinamica parte elettronica a cui si sovrappongono voci filtrate e una parte noise. I due brani successivi ("Cut-Off Throat" e "Lacerated Wombs") sono sostenuti da un riffing metal che si muove tra industial, death e black e che spesso serve solo come componente ritmico (come ossatura direi) in quanto la parte principale è affidata allo strato noise assai ben sviluppato, coinvolgente e scorrevole. È molto ben riuscita l’amalgama tra le singole partiture e sono forti le sensazioni che riesce a dare lo spesso sound di "Stab". L’ultimo brano ("Pierced Clits & Razorblades") è un morbido ed avvolgente pezzo industrial, morboso e pericolosamente attraente; potrebbe tranquillamente fare da colonna sonora a qualche bella scena del film 'Naked Blood'. È un peccato che questo lavoro duri solo un quarto d’ora; avrei proprio voluto ascoltare cosa i Latex Baby sarebbero stati capaci di fare su un full-length! Disco consigliatissimo.
 
(Necro.files Music - 2000)
Voto: 70


Ashtar - Wandering Through Time

#FOR FANS OF: Black/Doom
During its over a decade of existence, the Swiss project Ashtar hasn’t been particularly active, as it has only released two albums until 2023. But as it usually happens, the quality has more importance than the quantity, and this formerly duo released two interesting albums which were worth of our time. And I say formerly, as since 2022 Ashtar has been reduced to a solo project as the Finnish musician Lehtinen is out of the band. As a consequence of this, Nadine Lehtinen, as known as ‘Witch N’ will take the duties of composing and releasing the upcoming albums, while the last offer, entitled 'Wandering Through Time', has yet been composed by the original duo. 
 
As it happened with this predecessor 'Kaikuja', the new opus is released by the well-known label Eisenwald. Ahstar’s musical formula is an interesting combination of black and doom metal. Nadine’s vocals have a distinctive black metal touch, as they are raspy and high-pitched. Pace-wise the music is undoubtedly influenced by the slower rhythm so common in the doom metal genre, while the guitar riffs have a mix of both genres, tending to a sound closer to one or another genre depending on each moment. When we talk about the pace, a song like "Deep Space and High Waters" clearly tends to a sound more doomish as it has a more mid-paced structure, although Ashtar tries to vary the pace of the track as it advances just to avoid sounding predictable and too monotonous. In any case, as the album goes on, the tracks are more heavily influenced by doom metal as their pace is slower and the riffs sound even more crushing. A clear example of it, is the long album closer "I Want to Die", which is actually a cover by Post Mortem, but it perfectly reflects how the album sounds. The first half of this effort, on the other side, is a bit more diverse in terms of structure and pace, as the black metal influence here is a bit stronger. This successfully adds some energy in the compositions, as in the aforementioned third track, but especially in the first two songs. The second track, entitled "The Submerged Empire", is my favorite one. The guitar work is excellent with some addictive melodies and the second half of this track contains some interesting surprises. For example, a remarkably beautiful violin interlude which is totally unexpected. This calmer and more delicate section is followed by a heavier one, which suddenly gains a lot of speed and fury. This ferocious final section is ended by a second and equally beautiful apparition of the violin which ends the song in style. 

In conclusion, 'Wandering Through Time' is a solid effort which would be a more inspired and interesting album, if the second half of the album would contain more diversity in its pace and a stronger black metal influence, as it can be heard in the first tracks. I honestly think that Ashtar’s music benefits itself from this more balanced mixture as it sounds more captivating. (Alain González Artola)
 
(Eisenwald - 2023)
Score: 70
 

sabato 25 novembre 2023

Abominator - Subversives for Lucifer

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black/Death
Bastardi, brutali, selvaggi!!! In questo secondo album intitolato 'Subversives for Lucifer', gli australiani Abominator, che vedono tra le loro fila Damon Bloodstorm ex-Bestial Warlust, non si risparmiano nulla per tutta la durata del cd. Musicalmente si posizionano sulla stessa linea dei loro conterranei Sadistik Exekution e proprio Bestial Warlust. Otto tracce più intro e outro di furia barbarica. Violenza, e violenza a profusione con un death/black vecchia scuola. La differenza dal primo album si sente, ed è soprattutto a livello di stile. Qui il sound è molto più violento e malato. Non c'è un attimo di tregua, la batteria martella per tutto il lavoro, mentre le chitarre ultra-veloci, suonano alla stregua di motoseghe. L'utilizzo di due cantanti, con stili vocali molto differenti, è un'ottima scelta poiché aggiunge al complesso un ulteriore dose di aggressività con risultati disumani. Il terzetto australiano ha così sfornato un buon lavoro senza eccessivi sforzi, ma è comunque un disco che picchia sodo, con un occhio alla vecchia scuola e rozzo come pochi, anche per quello che riguarda la produzione, perché la registrazione non è certo cristallina, ma come sempre in questi casi, io penso "chi se ne frega!".

(Osmose Productions - 2001)
Voto: 70

https://www.facebook.com/AbominatorOfficial/

Hence Confetti - S/t

#PER CHI AMA: Math/Djent
I più attenti che seguono il Pozzo dei Dannati da parecchio tempo, si ricorderanno che abbiamo recensito un paio di dischi dei Mish. Ecco, il frontman di quella band, Rowland Hines, ha pensato di fondarne una tutta nuova durante la pandemia. I nostri, che rispondono al buffo nome Hence Confetti, debuttano quindi per la Bird's Robe Records (la stessa etichetta dei Mish) con questo EP autointitolato che sembra ammiccare al poliritmico sound dei Meshuggah, un genere, il djent, che avevamo comunque apprezzato anche in 'Entheogen' e 'The Entrance' dei già pluricitati Mish. Quindi, facendo tesoro di quell'esperienza, il buon Mr Hines coniuga alla grande le sonorità djent con il math, come palesato nella seconda "Buttons", tra chitarroni pesantissimi e suoni obliqui, il tutto corredato da un growling furibondo e opprimente. Non mi sono dimenticato dell'opener "New Homes" ovviamente, dove gli australiani fanno confluire un che di Devin Townsend nelle note più crepuscolari di un pezzo comunque interessante, una sorta di apripista per un disco che sembra comunque rimanere senza contorni stilistici ben definiti. Questo perchè "Rorschach" (chissà se c'è un qualche riferimento al test psicologico per l'indagine della personalità) si palesa come un delicato pezzo strumentale che poco ha a che fare con i brani precedenti ma sembra piuttosto un lungo e forse tedioso bridge per la seconda parte dell'EP. E "Ovation" e "Bandages", sebbene una introduzione più meditabonda la prima, tornano a impressionare con ritmiche violente più in linea con "Buttons" e parti atmosferiche, che mi hanno evocato in ordine i Lingua, i Tool e nuovamente il folletto canadese. La conclusiva "Bandages", nella sua dirompente violenza sonora, pur peccando a livello produttivo, quasi fosse stata registrata in modo completamente diverso dalle altre tracce, si dimostra la song più diretta, solida, Tool-oriented e ipnotica del lotto. Insomma, quello degli Hence Confetti (peccato solo che questo moniker faccia perdere un filo di credibilità ai nostri) si dimostra un buon biglietto da visita che auspico possa concretizzarsi in un più curato e lungo album futuro. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Earthside - Let the Truth Speak
Mephorash - Krystl-Ah
Ikarie - Arde

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Death8699

Danzig - Danzig
Slayer - Seasons In The Abyss
Slayer - South of Heaven

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Alain González Artola

Light - Alone
Kataklysm - Goliath
Duelliste - Demo 2023

Aether - S/t

#PER CHI AMA: Jazz/Post Rock
Non è stato certo cosi facile recensire l'album dei milanesi Aether. Nati solo sul finire del 2021, i quattro esperti musicisti sono riusciti ad attirare l'attenzione dell'Overdub Recordings che subito gli ha concesso l'opportunità, con questo album autointitolato, di mettersi in mostra attraverso una non scontata proposta musicale. Forti di pregresse esperienze in ambito jazz - la tesi di laurea del bassista su questo genere ne è la prova, ma vi basti anche ascoltare "Radiance" per carpire immediatamente le forti influenze del genere afro-americano - la band sciorina undici pezzi strumentali che poggiano la propria architettura proprio sul concetto di base di questo sound, ossia l'improvvisazione, la progressione armonica e l'elasticità ritmica proposta in maniera ineguale, scandita da fughe di basso e chitarra e rallentamenti più tenui e sofisticati ("Thin Air") che palesano ulteriori influenze musicale provenienti dal post rock e dal progressive, il tutto permeato di un tocco cinematico che sicuramente non ne guasta l'ascolto, anzi lo integra abilmente. E proprio quello delle colonne sonore potrebbe sembrare il mood offerto da un brano delicato e sensuale (al limite dell'ambient) come può essere "Grey Halo". Decisamente più jazzy la successiva "Pressure" (e più avanti sarà lo stesso anche con la bluesy "Moving Away"), che mette in mostra l'eccellente perizia esecutiva dei nostri, che tuttavia a me scalda meno il cuore perchè finisco quasi per viverla come un puro esercizio di stile. Più convincente, e per questo più vicina alle mie corde, "A Gasp of Wind" offre le luci del palcoscenico dapprima alla chitarra, per poi spostare i riflettori all'insieme degli strumenti che, pur muovendosi in ambienti oscuri, quasi tetri, ne escono forieri di speranza. Sonorità aliene emergono invece dalla più stralunata e dronica "A Yellow Tear in a Blue-Dyed Sky", in cui la scena sembra prendersela esclusivamente il basso di Mr. Grumelli. Ancora sofismi noise drone con "The Shores Of Solinas", mentre con "Crimson Fondant", il quartetto lombardo sembra abbracciare caleidoscopiche sonorità settantiane blues prog rock (il che stride peraltro con la copertina monocromatica del disco), senza tralasciare comunque quella matrice di fondo jazz su cui poggia l'intero disco. Un viaggio sonoro che si chiude con la musicalità catartica di "This Bubble I’m Floating In": questa sigilla un lavoro ambizioso, complesso e affascinante, che necessita tuttavia di una grande predisposizione di testa e animo per poterla ascoltare ma soprattutto capire. Se voi però vi sentirete pronti ad affrontarla, allora gli Aether potranno fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 75

https://aether5.bandcamp.com/album/aether

giovedì 23 novembre 2023

Pale Forest - Exit Mould

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Gothic Rock
Questa giovane band metal guidata da una gentil donzella e proveniente dalla Norvegia, sbarcò sul mercato nel 1998 con 'Transformation Hymns', e un sound in pieno stile The Gathering, con cui peraltro fecero un tour europeo nel 2001. Purtroppo, questo terzo lp, 'Exit Mould', suona sostanzialmente inutile per il 99% degli amanti della scena metal. Pur comprendendo il desiderio di creare atmosfere uniche e decadenti, la band nordica si avvicinava pericolosamente alla musica pop (un po' come accadde anche ai Theatre of Tragedy), salvati solo dalla distorsione delle chitarre (non proprio metal, ma almeno un po' sporche). La voce di Kristin Fjellseth, pur affascinante e melodica, sarebbe più adatta a una funzione religiosa alla vigilia di Natale che a una band metal, cosi come i ritmi della batteria risultano poco incisivi e insoliti, troppo pompati (doppia cassa? boh!). La produzione è pulita (fin troppo, in effetti) e degna di un gruppo indie-rock, non di un gruppo metal, ma per favore... Ahimè, questo sembra essere il modus operandi di molti gruppi metal che cercano di deprimersi semplicemente rallentando e ammorbidendo il prorpio sound. Spero per l'integrità di coloro che ancora credono e sono fedeli alla parola METAL, di non sentir più parlare di questi Pale Forest (fortunatamente scomparsi nel 2011). Quindi 'Exit Mould' è consigliato esclusivamente a coloro che amano i The Gathering, gli altri si tengano lontani.

(Listenable Records - 2002)
Voto: 50

https://www.discogs.com/artist/401604-Pale-Forest

Gurkkhas - A Life of Suffering

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Death Metal
Le interruzioni escogitate per questo album sono incessanti. L’album ha suoni ed evoluzioni ritmiche molto dinamiche e nitide. La batteria ed il cantato marcano costantemente questo tipo di composizione nei modi più disparati. L’insieme ha i suoi rallentamenti ad effetto, non ha velocità stratosferiche. Quello dei francesi Gurkkhas (band scioltasi nel 2003 e recentemente riformatasi) è un ottimo esempio di death metal, dove la doppia cassa e la voce gutturale segnano anche il passo dell’album. In generale tutti gli strumenti convergono in varie strutture potenti e coinvolgenti per chi vi è affine. Un attimo di pausa è inserito tra i brani alla quarta traccia con un breve strumentale, un po’ tribale e parecchio misteriosa. Poi 'A Life of Suffering' continua preciso, non sempre cupo, ma intenso di spunti trascinati e mitragliati. Questi francesi sono esperti, infatti non è il loro primo album assieme, dopo l'uscita di 'Engraved in Blood, Flesh and Souls' del 2000.

(Morbid Records - 2001)
Voto: 70

https://www.metal-archives.com/bands/Gurkkhas

Fides Inversa - Historia Nocturna

#PER CHI AMA: Black Metal
I Fides Inversa sono una band black metal italiana che ha guadagnato un'attenzione significativa nel panorama underground. Il loro album 'Historia Nocturna' è un'esperienza intensa e oscura. Attraverso una combinazione di atmosfere tetre, riff di chitarra taglienti e una potente sezione ritmica, il gruppo laziale riesce a creare un viaggio sonoro avvincente. Le tracce sono ricche di contrasti musicali, con momenti di furia e aggressività (le parti più prominenti) che si alternano a sezioni più riflessive e meditabonde. La maestria tecnica della band è evidente, sia nella precisione delle chitarre che nell'incisività della batteria, il tutto arricchito da un'atmosfera suggestiva creata da synth, un bel basso tonante e arrangiamenti ben curati, senza peraltro dimenticare la performance al microfono di Wraath con la sua voce aspra e potente che aggiunge intensità e profondità alle composizioni, trasmettendo l'angoscia e la passione dietro ogni brano. I miei brani preferiti? La iper dinamica "A Wanderer's Call and Orison" che nelle sue vorticose ritmiche mantiene intatta la componente melodica, la più morigerata "Syzygy" e la distruttiva (e saturnina nella seconda metà) "I Am the Iconoclasm". Per quanto riguarda le liriche, queste affrontano oscuri temi esoterico-metafici, esplorando l'oscurità interiore e offrendo una prospettiva critica sulla società moderna, aggiungendo cosi profondità e mistero all'intero lavoro. Nel complesso, 'Historia Nocturna' è un'opera che sfida e affascina gli ascoltatori, portandoli in un viaggio sonoro intriso di malvagità e complessità emotiva, catturando l'essenza del black metal e portandola in una direzione personale e coinvolgente. (Francesco Scarci)

(World Terror Committee Productions - 2020)
Voto: 75

https://fidesinversa.bandcamp.com/album/historia-nocturna

lunedì 20 novembre 2023

Death Dies - The Sound of Demons

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black/Thrash
Li avevo potuti ammirare solo dal vivo, senza mai aver apprezzato le loro precedenti produzioni e devo dire che in sede live mi hanno sempre fatto una buona impressione perché riescono ad avere un impatto grezzo e violento. Oggi, finalmente posso ascoltare su cd il loro primo full-length. I Death Dies sono una perfetta commistione tra parti thrash e black metal, quindi riff molto diretti e granitici, dove vi fa capolino una voce femminile dal tono operistico con una timbrica da soprano ben in evidenza, praticamente presente in quasi ogni pezzo, che rafforza ed accentua alcuni passaggi chitarristici. In più, qua e là, troviamo degli accenni di tastiere. Valida la concezione dei brani che si impongono con il loro andamento molto sostenuto e pieno di riff sentiti e diretti. Vi ricordo che all’interno dei Death Dies militano ex membri degli Evol: Samael Von Martin, Rex Tenebrae e Demian De Saba, e proprio per questo, in alcuni momenti si può respirare ancora quella vena alla Evol con melodie stranianti e misteriose ("Danza Macabra"). Non mancano neppure momenti più marziali ed emotivamente coinvolgenti ("Spartan Pride"). Segnalerei pure "Destroyer", per me una vera killer song, ascoltare per credere. L’unico appunto che mi sento di sollevare è l’uso frequente della voce femminile come soprano che, seppur usata in modo egregio, non convince, risultando poco spontanea e in disaccordo con il riffing e l’impianto delle song, ma comunque va apprezzato lo sforzo di non propinarci la solita solfa, adottando soluzioni diverse dal solito. Sono convinto però che proprio per questo non tutti ne hanno apprezzato l’utilizzo. Comunque fu decisamente una buona prova per la band di Padova.

Solar Dawn - Equinoctium

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Melo Death
Arrivavano dalla Svezia con all’attivo due demo (1997 e 2000) con il moniker Jarawynja e un mcd, 'Frost-Work' del 2001, targato sempre Mighty Music come questo 'Equinoctium'. Otto brani di death metal tipicamente svedese influenzato da melodie heavy ma con un tono più estremo, a tal proposito potrei citare come influenze a tutti ben note, i primi In Flames e i primi Dark Tranquillity. Non mancano momenti cadenzati vicino a quanto possono aver proposto i conterranei Amon Amarth, che rendono questo cd vario e fruibile. In questa band peraltro c'erano membri di Unmoored, Thy Primordial, Dawn e Scar Symmetry. Il lavoro dei Solar Dawn, dimostrava ancora una volta, che a proporre queste sonorità erano moltissime band, ma che ben poche avevano la classe e la bravura per poter dire la loro musicalmente. Gli svedesi, direi, che se la cavavano davvero bene, incastonando una sequela di riff azzeccatissima in quanto ad intensità ed armonia, abbinando altresì una voce melodica e pulita a fare da contraltare ad una più roca e cattiva. Un album vivamente consigliato per i soli nostalgici del genere.

domenica 19 novembre 2023

The Spacelords - Nectar of the Gods

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Eccomi di nuovo a recensire gli space rockers teutonici The Spacelords, quelli che prima di scrivere un nuovo disco, devono assumere un bel po' di funghetti allucinogeni (quelli in copertina tanto per capirci) accompagnati in sottofondo da una "Light My Fire" qualunque dei Doors, senza tuttavia rinunciare anche ai dettami dei Tool e forse di qualche altra combriccola del sottobosco kraut rock. Ecco, in pochi spiccioli come recensirei questa nuova fatica del trio di Reutlingen, che rispetto alle precedenti release, si affida questa volta a quattro nuove tracce, anziché le consuete tre. 'Nectar of the Gods' apre con il basso tonante della title track, in un déjà-vu di tooliana memoria per poi stordirci con melodie caleidoscopiche che potrebbero fare da colonna sonora all'Holi Festival in India, in un tripudio di colori cangianti atti a celebrare la psichedelia offerta dal terzetto. Molto più cauta e timida, "Endorphine High" si muove nei meandri di un ipnotico post rock in salsa psych progressive, tra delay chitarristici ed atmosfere dilatate ma comunque soffuse, che con un bel narghilè e sostanze proibite a portata di mano, potrebbero stimolare ampiamente i vostri sensi. Se ci mettete poi che le durate dei brani oscillano tra i nove e i 14 minuti, beh preparatevi ad affrontare uno di quei trip che vi lascia schiantati sul divano. Un trip come quello che inizia con la terza e tribale "Mindscape", tra percussioni etniche e fascinazioni oniriche, a cui fa seguito un riffing di Black Sabbath (iana) memoria, tra stoner, montagne di groove rilasciate dal rincorrersi delle chitarre, saliscendi emozionali che servono a rendere la proposta il più appetibile possibile, senza correre il rischio di sfracassarsi le palle nell'ascoltare questi pachidermici pezzi. E invece, i The Spacelords ci impongono di mantenere costantemente la guardia alta, di settarsi armonicamente con i loro viaggi atemporali, in turbinii sonici e cosmici davvero apprezzabili. Ma questo non lo scopriamo di certo oggi, visto la maturità ormai acquisita dal terzetto germanico nei quindici anni di onoratissima carriera. Carriera che oggi vanno a celebrare con l'ultima "Lost Sounds of Lemuria", una maratona di 14.14 minuti che parte cupa, pink floydiana nei suoi tratti cosi educati, tra chitarre riverberate, atmosfere sognanti di settantiana memoria, e un organo che chiama in causa il buon Ray Manzarek, in una progressione sonora che di fatto, ci indurrà fino al suo epilogo ad ascoltare in religioso silenzio. Ancora una volta, obiettivo centrato. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2023)
Voto: 75

sabato 18 novembre 2023

Theory in Practice - Colonizing the Sun

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Techno Death
Sono molto contento di recensire il terzo full-length di questi svedesi, in quanto non credevo potessero migliorare quanto già proposto sul loro precedente e immenso 'The Armageddon Theories'. E invece ci sono riusciti alla grande, dando prova di enorme creatività e perizia tecnica. La musica, per chi non li conoscesse, è death metal, oserei dire “progressivo”, per intenderci, sulla scia di gente del calibro di Atheist, Nocturnus, Pestilence ma con un tocco di melodia in più, e lo si evince soprattutto in quest’ultimo 'Colonizing the Sun' (rimasto ultimo vagito della band per parecchi anni, prima dell'inatteso EP del 2017 'Crescendo Dezign'/ndr). I pezzi comunque si presentano assai complessi ed intricati, con a volte l’inserimento di tastiere in porzioni chiave dei brani. I Theory in Practice sono qui riusciti a costruire dei brani molto fluidi tanto da non rendere greve l’ascolto anche a chi non digerisce questo tipo di sonorità. La voce di Henrik Ohlsson si presenta come un ibrido growl e lancinante, quasi stridulo. Le song sono zeppe di colpi di scena, senza seguire un mood preciso. C’è da notare che quest’album è stato registrato negli studi della band e nulla è stato lasciato al caso, con una buona registrazione, degna dei migliori standard di registrazione. Quindi vi esorto ad andarvi a scovare questo lavoro, supportare i Theory in Practice, che furono in grado di portare una ventata d’aria nuova.

Pénitence Onirique - Nature Morte

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
Pénitence Onirique atto terzo. Non tanto perché sono tre gli effettivi album rilasciati dalla band transalpina ma anche perché è il terzo lavoro del sestetto di Chartres che recensisco su queste pagine. La band prosegue nel mietere vittime con il proprio sound votato ad un black a cavallo tra il sinfonico e l'atmosferico, il cui minimo comun denominatore, resta comunque un'importante componente melodica. 'Nature Morte' esploderà nel vostro hi-fi con "Désir", una cavalcata epica, potente e violenta, che ancora una volta evoca i fasti dei primissimi Limbonic Art, richiamando anche, nelle parti più sontuose, un che dei Cradle of Filth, e dei conterranei Malevolentia. Semplicemente maestosi. Quello che volevo sentire. Un sound virtuoso e sinfonico messo a servizio di un'intemperanza musicale che a volte sembra addirittura sfociare nel death metal, come accade nella seconda "Les Mammonites", in cui il cantato urlato lascia peraltro il posto ad un pulito diabolico o a un growling decisamente gutturale. I nostri però viaggiano a velocità iper sostenute, senza comunque mai rinunciare alle più che buone linee melodiche. Con il terzo brano, la title track, il misterioso ensemble francese rallenta drasticamente la propria proposta, permeandola di una discreta vena malinconica, in un mid-tempo davvero convincente, che mostra una rinnovata ecletticità anche su ritmiche non troppo sostenute, che consentono al disco di non risultare eccessivamente ripetitivo. Certo, non mancano nemmeno qui le velocità iperboliche nella sua seconda metà, ma il taglio decisamente grooveggiante delle chitarre mescola nuovamente (e in modo vincente) le carte in tavola. Un breve ed obliquo intermezzo strumentale ed è tempo di "Je Vois Satan Tomber Comme l'Éclair", che vince la palma come song con il titolo più lungo, e che torna a palesare la medesima irruenza sonora dell'opener. Si prova a rallentare il treno lanciato a tutta velocità con le atmosfere soffuse dell'incipit di "Pharmakos", ma dopo pochi secondi, i nostri tornano a pestare l'acceleratore, regalandoci ancora ottime melodie, soprattutto grazie al lavoro eccellente delle tastiere e ad un assolo posizionato verso il quarto minuto e mezzo che incanta per pathos e poi via, sparati a tutta birra con le chitarre (ben tre!) che giocano a rincorrersi, intrecciarsi e accavallarsi l'una con le altre, per un disco che trova probabilmente la sua summa nelle note conclusive della lunga "Les Indifferenciés". Questo è un pezzo atmosferico, meditabondo, con un break al quarto minuto ai limiti del post rock, che sembra quasi consegnarci i Pénitence Onirique in una nuova veste artistica. Staremo a sentire che cosa accadrà in futuro. Per ora la progressione sonora sembra andare nella giusta direzione. (Francesco Scarci)

S.C.I.O. – Discorsi Distorti

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock
Quasi un'ora di deliri sonori in compagnia del basso elettrico di Stefano Scioni (alias S.C.I.O.), uno che ai tempi della sua militanza negli UDE, ha aperto per i mitici Scisma. Questo è il suo debut ufficiale per la Overdub Recordings, intitolato 'Discorsi Distorti'. Una sorta di presentazione del disco viene fatta dal polistrumentista emiliano con l'introduttiva "Primo Cielo", che spiega l'esperienza dell'ascesa al monte Cusna, la visione delle stelle, l'insegnamento del cielo e dello spazio sulla necessità di svanire in un buco nero (una metafora che credo debba valere come insegnamento all'umanità), un eccessivo uso delle parole che porta solo a discorsi distorti. Ecco un sunto, alquanto destrutturato, del razionale/idee/pensieri che si celano dietro a questo monolitico disco di ben 15 tracce che si muovono tra l'alternative rock e lo stoner, tutto (o quasi) rigorosamente in modalità strumentale. Si inizia dalle cupe atmosfere di "Blame the Colours", tra suggestioni in chiaroscuro e quelle che sembrano chitarre stratificate (è in realtà un basso) al limite dello stoner. È poi il turno della brevissima interferenza elettronica "Elettronoia", che ci introduce alle spagnole spoken words di "Respiri Verso l'Aria", un pezzo più intimista che per questo ammicca al post rock, quello più notturno, freddo, quasi distaccato ma che con quelle sue tormentate linee di basso, ha invece un effetto opposto, in grado quindi di scaldarci quell'anima impassibile che giace in mezzo al nostro petto. Inquietanti voci in sottofondo aprono e ci accompagnano per oltre un minuto in "Tra le tue Parole", per poi lasciare spazio a un brillante, melodico ma stralunato pezzo che dovete assolutamente ascoltare. In "Pseudoumani", fa finalmente la sua comparsa la voce del frontman, sorretta da pulsanti linee di basso e da un'atmosfera darkeggiante che per due minuti e mezzo incutono una sorta di timore reverenziale; poi spazio ad una splendida cavalcata con batteria, basso e synth a guidarci in questo valzer sonoro. Un altro simbolico bridge ambientale ("Nostalgia e DNA") per cui vale la pena quasi esclusivamente soffermarci a riflettere sul titolo ed eccoci arrivati alle super distorsioni di basso di "About Brunale", song dal piglio noise (nella prima parte), più alternative nella sua progressione verso la coda del brano, e dove ancora a mettersi in mostra sono senza ombra di dubbio le melodie architettate dal polistrumentista italico. "Il Sole è Solo Mio" potrebbe quasi essere una dichiarazione egocentrica messa in note da Luigi XIV, mentre "Sasha Corri" lascerà un sapore jazzy ai vostri palati. Il disco si sposta verso le sperimentazioni orientaleggianti della brumosa e claustrofobica "Riferimenti in Circolo", mentre il basso introduttivo di "Le Prigioni di Jaco" ricordano un che dei Tool più psichedelici e la sua progressione include altre influenze della band californiana, in quello che forse è il brano più movimentato (insieme alla splendida e caleidoscopica conclusione affidata a "Dorotea") e anche i miei preferiti del disco. Gli sperimentalismi proseguono nella più angosciante "Conquiste" o nelle parole sconnesse di "La Luce di Rol" che fanno da introduzione ad un pezzo parecchio introspettivo. Un lungo viaggio in grado di estrapolare attraverso la musica, i pensieri angoscianti di Stefano su una società esclusivamente destinata all'estinzione. (Francesco Scarci)

giovedì 16 novembre 2023

Judas Iscariot - To Embrace the Corpses Bleeding

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black Old School
L’instancabile Akhenaton ci regala questa gemma firmata Judas Iscariot (sarà l'ultimo full length della sua discografia/ndr). Black metal grezzo, minimale, ma tanto coinvolgente ed ispirato come pochi gruppi black sanno fare. Un alone sinistro e maligno permea le song di questo 'To Embrace the Corpses Bleeding', degne di stare al pari con canzoni di mostri sacri come Darkthrone o primi Dødheimsgard. Ogni suo brano è un tributo al "True black metal" suonato con passione: lo dimostra peraltro anche lo sfogo all’interno del booklet del cd, ritenendosi, giustamente fuori dalla mentalità imperante nelle black metal band che fanno parte di una cosiddetta “scena”. Parlando delle caratteristiche musicali dei Judas Iscariot, sarebbe inutile soffermarsi su una song in particolare visto che ogni brano dei nove che compongono l’album è ricco di spunti interessanti. I 40 minuti circa di musica viaggiano tra ritmi sostenuti e mid tempo con riff pieni di pathos e con un feeling decadente. La voce poi, risuona con tono malvagio e soffocato. Naturalmente, qui vige l'obbligo d’acquisto.

(Red Stream/Moribound Records - 2002/2023)
Voto: 75

https://moribundrecords.bandcamp.com/album/to-embrace-the-corpses-bleeding-2

Seirim - Kill. War. Chaos.

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black/Death
Death/black metal classico, accostabile in parte ai God Dethroned, in quel loro creare riff di chitarra molto diretti ed incazzati. La voce è arcigna e graffiante ma si tramuta spesso anche in voce più profonda e decisamente gutturale. 'Kill. War. Chaos.' è il secondo album dei tedeschi Seirim, che hanno mosso i loro primi passi sin dal ’93 con i soliti demo e split. La prima cosa che salta all’orecchio durante l'ascolto del disco è l’omogeneità dei brani e la sua compattezza e brutalità, tutto questo – direte voi - alla lunga non stanca? Beh, a parer mio il tutto è ben congegnato e, anche se alcuni riff risultano un po’ “abusati” nel genere, ve ne sono altrettanti che donano spessore e carisma alle song. Ad alleggerire il tutto troviamo poi anche due brevi strumentali. Un lavoro dignitoso, che agli estimatori del genere potrà anche piacere.

Wrathrone/Necrodium/Spiral Wounds - Back To 90​’​s Old​-​School Death Metal

#PER CHI AMA: Death Old School
E io che pensavo che il death old school fosse ormai morto, quanto di più sbagliato. La Great Dane Records mi sta infatti facendo scoprire un sottobosco estremo che pullula di band cattive e incazzate, spesso non di grande valore a dire il vero, ma che comunque meritano la nostra attenzione e le vostre riflessioni. Quello di oggi è uno split album tra i finlandesi Wrathrone e Necrodium, in compagnia dei sardo-calabresi Spiral Wounds, per una compilation all'insegna di un sound marcescente che richiama alla memoria act del calibro di Dismember, Grave e primi Entombed, almeno nei primi tre pezzi targati Wrathrone. Un vero e proprio ritorno alle origini del male con un riffing che evoca quello delle band svedesi citate, con tanto di growling infernale sopra e assoli super taglienti in coda, per un clichè sicuramente consolidato e che fondamentalmente rinverdisce i fasti di un passato sta andato scomparendo. I nostrani Spiral Wounds si presentano con quattro pezzi, che altro non sono che il loro EP omonimo del 2021, e che evocano in questo caso, il sound primordiale degli At the Gates, con tanto di chitarre ultra taglienti e vocals iper caustiche. A questo aggiungiamo qualche influenza black che permea il mood indiavolato della band che esplicherà al meglio il proprio talento in un brano più equilibrato quale "Uber Feral Winds". Ribadisco, niente di originale da segnalare, ma sicuramente per chi amasse il genere e non conoscesse la band italica, beh si faccia avanti. Con i Necrodium si torna ad un death in stato putrefattivo, questa volta di scuola americana, e penso ai Cannibal Corpse, per gli ultimi quattro pezzi all'insegna della devastazione più totale tra voci demoniache, ritmiche schiacciasassi che trovano anche modo di rallentare, come accade all'inizio di "Compulsive Mutilating Disorder", nel cui riffing ho percepito addirittura un che dei Metallica della primissima ora. Ecco, l'ho scritto, spero non me ne voglia la band finlandese che nel frattempo prosegue la sua carneficina con altri pezzi grondanti tanta rabbia e tonnellate di odio e che vanno a completare una release adatta ai soli nostalgici di un genere che pensavo ormai morto e che invece si conferma ancora vivo e vegeto. (Francesco Scarci)

Wojtek - Petricore

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore
Li avevamo lasciati nel 2021 con 'Does This Dream Slow Down, Until It Stops?', li ritroviamo oggi con un album nuovo di zecca, 'Petricore', dietro al quale si cela una metafora legata alla sensazione olfattiva di quando la pioggia viene a contatto con la terra arida da tempo, metafora che evoca temi etici ben più profondi che vi invito ad approfondire. I veneti Wojtek, freschi di una rinnovata line-up, arrivano quindi con sei nuovi caustici pezzi che si muovono nei paraggi di uno sludge/hardcore, anche se l'opener "Hourglass" sembra dirci altro del quintetto patavino. Si parte con una galoppata al fulmicotone tra voci abrasive e ricami di chitarra che oltre ad affiancare un rifferama sferzante, danno una parvenza di melodia a un pezzo che potrebbe invece risultare alquanto indigesto. Invece, dietro alla furia velenosa dei nostri, mi sembra addirittura di percepire un tono malinconico, sia nelle linee delle sei corde che nella voce del frontman. La medesima sensazione l'avverto anche nella successiva "Dying Breed", song che palesa subito in apertura un chorus che va a confermare questa mia ipotesi, anche se poi il brano abbraccia influenze più post hardcore oriented, mostrando qualche tiepido rallentamento verso metà brano, da cui ripartire più ritmati che mai, e dove a mettersi in luce è il growling incisivo di Riccardo Zulato, grazie a degli urlacci ben assestati, coadiuvato poi da altri cori. "Now That You Are Gone" si presenta invece decisamente più intimista: le cupe atmosfere sono straziate dalla disperata voce del vocalist, le melodie si palesano in sottofondo in una progressione che porta le chitarre a gonfiarsi, l'aria a dilatarsi fino a lasciare le sole chitarre a ringhiare solenni nell'etere, prima che gli altri strumenti tornino a unirsi alle ambientazioni sludgy costruite dall'ensemble italico e sfoggiare sul finale, una specie di primordiale assolo chitarristico. "Giorni Persi" rappresenta il singolo del disco, rigorosamente cantato in italiano (una prima volta per la band questa), sembra essere una miscela tra punk, hardcore e ancora rallentamenti sludge, anche se il muro ritmico appare mutuato dal riffing possente degli IN.SI.DIA, periodo 'Istinto e Rabbia'. La song poi evolve, nella sua brevità, verso lidi emo/post hardcore. Si torna a durate più consistenti (stabili sempre tra i sei e i nove minuti) con la melmosa "Inertia Reigns" e un sound pachidermico che non fa troppi prigionieri nella sua psicotica progressione musicale che tocca il doom più ipnotico nel suo corso e che la suggellano a mia song preferita del disco. La chiusura è affidata al noise disturbato ed ipnotico di "Hail the Machine", costituita da un paio di riff che s'intersecano con una voce sempre più convincente e un drumming marciante, interrotto solo da un brevissimo break acustico, poi costantemente accompagnato dall'acidissima prova gutturale di Mattia Zambon e dai cori di Morgan Zambon e Riccardo Zulato, che chiudono una prova sicuramente convincente dei Wojtek, che potrebbe aprire a una certa internazionalizzazione della band nostrana. Bene cosi. (Francesco Scarci)

(Flames Don’t Judge/Fresh Outbreak Records/The Fucking Clinica/Dio Drone/Shove Records/Violence in the Veins/Teschio Dischi - 2023)
Voto: 74

https://diodrone.bandcamp.com/album/petricore

martedì 14 novembre 2023

Grift - Dolt Land

#FOR FANS OF: Neofolk
The Swedish solo-project Grift was founded by Erik Gärdefors more than a decade ago. Erik has been a quite active member of the extreme metal scene in Sweden. His previous and also current projects are closely tied to the black and death metal subgenres, where he has shown his talent. With Grift, we can appreciate a further vision of Erik’s musical interest as he brings a strong folk influence on the ‘creation table’, where Grift was crafted. Since its inception, Grift’s music has been a quite palatable mixture of black metal and neo folk influences. As it usually happens the first opus entitled 'Syner' already had a very solid mixture of both genres, although the black metal elements sounded a bit harsher than in the subsequent releases. With albums like 'Arvet' or 'Budet', the intrinsically melancholic influence of the neo folk music impregnated the full compositions of Grift and even the blackest metal elements had a strong influence of the aforementioned subgenre. That led to the creation of something unique and, therefore, forged Grift’s own musical vision.

With the new opus entitled 'Dolt Land', Grift leaves behind all the black metal elements, at least for this release, as it seems that the artist contemplates the beauty of its land’s nature and consequently, tries to create an appropriate musical experience for the listeners.  So, 'Dolt Land' is logically a folk/neo-folk album with a strong melancholic touch, which is so present in the purely folk albums that metal projects release in Scandinavia. The album is an immersive experience and a very pleasant listen if you like this kind of slightly gloomy form of folk music. The nature-related ambience of the album opener "Silverne Sitg" is a fine example of what you can listen to here. The nature sounds are elegantly missed with folk instruments, which slowly gain the main role, creating a nice bridge from the wild sounds to the man created ones. Erik’s voice sounds great as he has a deep and emotional tone which is very appropriate for this type of music. Even though an album like this may not have greater variations in the tone and pace, this composition shows that some variations are possible in order to enrich the composition and make the song more interesting. Another aspect where Erik tries to add some different touches in his own voice, as he adds a raspier tone in several compositions, for example in "Nattens Pilgrim". This addition, alongside the use of different folk instruments and variation in the intensity of the structures, help to create folk songs which are not so monotonous. Another song which I enjoy quite a lot is "En Hemskog", that is an acoustic guitar-driver composition, maybe with less variation than other compositions, but with  a very nice work with this instrument that makes me appreciate it a lot.

In conclusion, 'Dolt Land' is a temporary departure from Grift’s fusion of neo-folk and black elements, and although this may disappoint some of its fans, I personally urge all of them to give a chance to this album, as it is a very tasteful and enjoyable listen. (Alain González Artola)

(Nordvis Produktion - 2023)
Score: 75
 

Closure in Moscow – Soft Hell

#PER CHI AMA: Alternative Pop Rock
Devo ammetterlo, questo nuovo album degli australiani Closure in Moscow, mi ha creato molti conflitti, fin dall'uscita dei primi singoli. Premetto che ho adorato le uscite precedenti reputandole geniali e molto sottovalutate, però questo album non me lo aspettavo fatto in questo modo. I nostri hanno fatto una scelta stilistica simile all'ultima fatica dei Coheed and Cambria, oppure l'ultima uscita dei The Mars volta, o al tempo, 'Pitfalls' dei Leprous, dove delle ottime band in odor di hard rock progressivo moderno e ad alto tasso tecnico, si spostano verso ambienti più pop, alla ricerca di notorietà e un più vasto pubblico. In fatto di tecnica, questa band ha già dimostrato di non essere seconda a nessuno e, anche in quanto a produzione, ha sempre avuto standard altissimi. Ricerca dei suoni ed eleganza sono una prassi per la band di Melbourne, però in questo disco i nostri calcano tanto la mano su innesti funk, pop, dance, il tutto a discapito delle fughe nel rock prog che rendevano gli album precedenti pazzeschi. Immaginate gli Incubus ancora più tecnici, ma più goliardici, che giocano con il funky dei migliori FFF (French Funk Federation), si esaltano in assoli ma non entrano mai in un'atmosfera diversa dallo scanzonato rock che ricorda certi gruppi funk metal degli anni '90. Il disco è pieno di idee sullo stile dei progetti di Omar Rodriguez Lopez, ma come nell'ultima opera dei Coheed and Cambria, passo dopo passo, ci si avvicina sempre più ad una deriva elettro/indie/pop rock, con buone intuizioni ed ottime sonorità, al passo con certe cose di Saint Vincent, ma che guasta con il passato dei Closure in Moscow, per come si sono proposti in precedenza e i dischi che hanno fatto fino a questo punto. Certo, cambiare rotta fa parte di un artista e la ricerca, seppur avanzata in generi nuovi ed inusuali, non si è fermata anzi si è espansa, però qui la band ha cambiato registro e cercato una soluzione più appetibile per un pubblico più ampio. Resto tuttavia dell'idea che per la caratura di questi musicisti, inseguire le orme di band come i Red Hot Chili Peppers, che in cambio di un grande successo hanno perso grinta, carisma e freschezza nelle composizioni, non sia la strada giusta, almeno dal punto di vista artistico. Tornando all'album, non posso far altro che dire che è un buon disco, suonato troppo bene per restare nel calderone del pop, carico di buone idee, belle sonorità e tecnica sopraffina ma troppo pop, soul e funk, per emergere tra i seguaci del progressive rock e dell' alternative rock, che potrebbero rimanere delusi da quel velo di leggerezza che pervade l'intera opera. Cosa, comunque, che non intacca minimamente le qualità di composizione e di esecuzione di questi musicisti, che rimangono spettacolari, con un vocalist eccezionale che risponde al nome di Christopher de Cinque. 'Soft Hell' è il titolo di questo loro quarto album, quasi un presagio che avverte i fans di un'imminente sconvolgimento dei piani, con una forma musicale sempre ricercata ma più melodica e meno selvaggia, un disco tutto da interpretare che creerà pareri contrastanti tra i fans dei Closure in Moscow. "Don Juan Triumphant" è la mia preferita perchè porta nella sua composizione molti richiami al loro passato, "Jaeger Bomb" ha un tiro pazzesco, mentre in "Lovelush" vi trovo persino qualcosa degli '80s al suo interno e con la sua vena sognante e romantica, per quanto ricca di curiosità soniche, mi sconcerta più di tutti gli altri brani. Un album che deve essere ascoltato e studiato da mille angolature per capirlo e dargli il giusto apprezzamento, una nuova veste per questa band, che ha sempre e comunque, saputo mettersi in risalto ad ogni uscita. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 70

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/soft-hell

venerdì 10 novembre 2023

Jemek Jemowit - Zemsta

#PER CHI AMA: Electro/New Wave
A giusta ragione viene riproposto nel 2023, completamente rimasterizzato, quest'album che ha visto la luce nel 2011. L'artista in questione è il berlinese Jemek Jemowit. Una sorta di ritorno alle origini delle sonorità della musica elettronica europea che trovava l'asse Berlino/Sheffield, il giusto mezzo di comunicazione tra Germania e Gran Bretagna, alla fine degli anni '70 e inizio '80 del secolo scorso. Scandagliata al setaccio, da gruppi di culto internazionale come gli Skinny Puppy, e passando obbligatoriamente dal movimento sperimentale Geniale Dilettanten. Niente di nuovo musicalmente, neppure se valutiamo questo lavoro nella sua prima data di uscita, nessuna nuova strada, nessuna nuova idea sonora, ma è proprio per questo che 'Zemsta', è da considerarsi un'ottima uscita, un'opera stoica e prolifica di mantenimento del genere, messa in atto da un nipote di quei mostri sacri, che l'elettronica l'hanno veramente plasmata. Prendete il tocco pop di Falco, il cupo dei Clock Dva, i Cabaret Voltaire, il glam oscuro e sintetico dei primi D.A.F., il taglio robotico dei precursori Kraftwerk, uniteli al genio tossico di Alec Empire e soci, aggiungete poi la forza d'urto della prima techno da rave devastanti, scarnificatela e rendetela a tratti gotica e molto dark, e avrete finalmente solo una vaga descrizione della radice sonora di questo disco. Spesso ideale per un night club oscuro e sinistro, una fede incrollabile, votata ad un suono freddo tra cemento e acciaio, al digitale, e per finire un'attrazione per l'industrial dei Rammstein, tolte le chitarre distorte e attitudine metal. "Jeans und Leder" apre le danze ed assieme a "Maenner Meiner Heimat" e "In Shoeneberg", formano un trittico di pura goduria elettronica, timbrica dura, pulsante e suoni sgraziati, poca melodia e ritmi rigidi, glaciali e industriali. "Meine Tabletten" si apre a certo post punk con un ottimo ritornello/filastrocca che parte al minuto 2:47, degno di un film horror, inaspettato e geniale, sulla scia di autorità irraggiungibili del calibro delle Malaria!, che sancisce definitivamente anche il legame storico di questo disco con il movimento Neue Deutsche Welle, costola evoluta e ibrida tra punk e new wave tedesca, nato qualche decennio prima dell'uscita di 'Zemsta'. Tra sussulti alla Depeche Mode epoca 'A Broken Frame', e pulsazioni techno sperimentali ("Liebe, Krass und Ass" e "Am Boden Zerschmettert") , rumori e synth a gogo, si avanza senza perdere un solo colpo. "Sad Ostateczny" è forse la meno interessante del lotto sotto il profilo sperimentale, mentre la successiva "Angst vor Feuer" è un esempio di come dall'utilizzo di un classico tempo techno, si possa, con gusto ed intelligenza, creare un ottimo brano, con un effetto sulla voce che ricorda alcune cose cantate da Tom G. Warrior nei Celtic Frost! "Zemsta" presta il titolo all'intero album ed è techno, macabra e noir, pulsante, con presenza di voci agghiaccianti sempre perfettamente in linea con la trama di qualche film horror. "Internist und Internet" torna al sound elettronico del dark/synth wave di inizio anni '80, con un riff di tastiera che in qualche accento richiama, per assurdo, "N.I.B" dei Black Sabbath, come fosse suonata dai Devo. Si chiude con "Chce Zostac Twoja Matka", un brano dalla struttura tipica del post punk elettronico vicino ai conterranei Grauzone. Cantato sia in lingua tedesca che polacca, penso che 'Zemsta' sia uno degli apici più alti di questo artista, innamorato dell'estetica sonora e della potenza sovversiva intrinseca della musica, dell'alternativo che lo ha portato ad utilizzare il verbo della techno e della new wave come mezzo espressivo per la sua arte. Quindi, musica ad effetto, interessante e destabilizzante, per una carriera che dura ancora oggi dal lontano 2007. Bisogna dire anche che, ad oggi, la musica di Jemek Jemowit, è mutata ed ha spostato la bilancia più verso lidi dance e techno, relegando i canoni più dark e post punk ai fasti del passato. Un artista comunque originale, che in questo specifico caso, ha superato ogni aspettativa, raccogliendo e rinvigorendo il seminato ed il raccolto già ricco, dei padri putativi del genere. Un disco che potrebbe finire nella vostra collezione di musica elettronica senza se e senza ma e per cui vale solo esclusivamente l'obbligo d'ascolto. (Bob Stoner)
 
(Greek Label Fabrika Records/Atypeek Music - 2011/2023)
Voto: 75

https://jemekjemowit.bandcamp.com/album/zemsta

Treebeard - Nostalgia

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Ci impiegano più di cinque minuti ad ingranare la marcia gli australiani Treebeard per venire fuori dall'opening track di questo 'Nostalgia', lavoro uscito due anni fa e riproposto dalla Bird's Robe Records su cd in questi giorni. Quando lo fanno però, il quartetto di Melbourne colpisce per i suoi suoni accattivanti ed attrattivi, in grado di miscelare post rock e sonorità progressive. Che la band sia pigra ad emergere dai propri trip cosmici è confermato anche dalla seconda e lunga "The Ratcatcher", che piano piano ci racconta qualcosa di più di questa band di cui ho scoperto solo oggi essere nella pila dei cd da recensire. Le sonorità molto intimistiche sono quelle che hanno il sopravvento nell'economia del disco con il post rock e tutti i suoi orpelli (suoni riverberati, tremolo picking e atmosfere soffuse) a farla da padrone e a conquistare nemmeno troppo lentamente, la mia fiducia. Si perchè i Treebeard mi affascinano per le loro sonorità che evocano altri artisti dell'etichetta di Sydney (penso ai We Lost the Sea), ma trovo abbiano anche qualche punto in comune con gli Anathema più crepuscolari e malinconici. E non posso che apprezzare, io che sono fan della band inglese, ma che seguo da vicino anche le attività della label australiana. Se poi aggiungete il fatto che finalmente una band post rock si proponga in una veste non strumentale, potrete capire il mio piacere nell'assaporare le note, a tratti pesanti, di questi gentiluomini. Sempre piuttosto criptico è l'inizio anche in "Pollen", quasi fosse un marchio di fabbrica dei nostri, con atmosfere shoegaze che si combineranno successivamente con sonorità più oniriche e liquide, prima dell'esplosione delle chitarre che ristabiliscono una sorta di status quo emozionale ove poggiare le voci stralunate del frontman. Mentre la titletrack si configura come un ponte con la successiva "8x0", quest'ultima mostra influssi cosmici nei suoi contenuti, da quel basso apocalittico che si prende la scena a inizio brano, al rifferama di estrazione quasi thrash che da li in poi fluisce nel corso del pezzo, che forse va a confermarsi come il più pesante del lotto, con il post metal che sembra venarsi di sfumature post hardcore in una progressione sonora strumentale che ci condurrà a "Terra". Qui, sembra coglierci un barlume di speranza, come se avessimo scoperto un nuovo mondo grazie alle tastiere in apertura, in realtà stiamo solo scoprendo quanto bello sarebbe il nostro pianeta se non lo stessimo distruggendo con le nostre mani insanguinate da guerre, inquinamento, odio e quant'altro. Un pezzo quasi ambient che sembra sottolineare malinconicamente quanto tutto stia andando a rotoli senza che fondamentalmente non ce ne importi nulla. Splendide qui le melodie delle chitarre, che sanciscono la cinematicità di questo ensemble. "Dear Magdalena" e "Nostalgia II" chiudono il disco, la prima con voci e atmosfere di "radioheadiana" memoria, almeno fino al quarto minuto quando i nostri sterzano verso sonorità più roboanti che ci accompagneranno al finale di "Nostalgia II", dove spoken words aprono un brano intenso e drammatico che non può far altro che imporci mille riflessioni di qualunque tipo. Nel frattempo, non posso far altro che consigliarvi l'ascolto del qui presente. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 75

https://treebeard2.bandcamp.com/album/nostalgia

sabato 4 novembre 2023

Dead Twilight - Fall of Humanity

#PER CHI AMA: Brutal Death
Quanto ascoltato nel devastante incipit di "I Hate", mi ha ricordato alcune cose dei Nocturnus che erano a loro volta mutuate dai Morbid Angel, vista la militanza del buon Mike Browning nella band di Tampa. Tuttavia non ci troviamo nè in Florida, nè negli Stati Uniti, visto che i Dead Twilight hanno origini siciliane e 'Fall of Humanity' rappresenta il loro terzo lavoro. Trattasi di un disco votato al brutal death di stampo americano in grado di annichilirci, grazie a dio, per soli 27 minuti, grazie alle otto brevi tracce qui contenute. Una serie di schiaffoni in faccia propagati da ritmiche death marcescenti, vocals cosi gutturali che ho fatto quasi fatica a identificarle (e non sto parlando di testi). Poi per il resto, è un continuo martellare ritmico che talvolta trova una pausa in un qualche bridge, come accade ad esempio a metà di "Rage from the Dead". Le influenze, oltre a quelle citate in apertura, potrebbero convogliare i nostri verso i lidi di Malevolent Creation o Deicide, altre due band che devono aver contribuito alla formazione stilistica dei fratelli Bellante che formano la band. A chi poi indirizzare l'ascolto di questo disco è molto facile: si raccomanda ai soli consumatori di brutal death e nessun altro, altrimenti rischiereste di lanciare il disco sotto le ruote della vostra macchina. E pensare che anch'io trent'anni fa mi entusiasmavo al rumore di un martello pneumatico e ora invece i miei padiglioni chiedono pietà, un qualcosa che in 'Fall of Humanity' non è assolutamente contemplata. (Francesco Scarci)

Hidden Orchestra - To Dream is to Forget

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali
Sognare è dimenticare? Benvenuti in questo oblio targato Hidden Orchestra, interessantissimo collettivo (o dovrei di,re orchestra?) britannico, guidato dal polistrumentista scozzese Joe Acheson, che affonda le proprie radici musicali nel jazz, IDM, drum & bass, rock, trip hop e musica classica. La prima song di 'To Dream is to Forget', è teutonica, possente, masticata dalle percussioni elettroniche, fuorviante, intersecata a sonorità distopiche connesse tra loro e sfuggenti alle altre tracce. Con "Hammered" disintegriamo un macigno facendolo irraggiare in pillole avvelenate, volatili. Pace convulsa, ossimori corrotti, graffi malcelati. "Little Buddy Move": è una traccia vivida, essenziale, imperlata da sonorità prismatiche. Fugge e rifugge la musica che nostalgica ritorna tra bit arroganti travestiti da ballerine provocanti in preda al reiterare di un loop buio senza luci strobo. E facciamo partire "Skylarks". La traccia parte fredda come il ghiaccio. Vi arriveranno stilettate di stalattiti dritte tra la giugulare e l’anima e finirete per esser preda di un gioco elettronico in cui perderete il vostro protagonista. Ora siete voi il centro del gioco. Copritevi bene se temete l’incendio per assideramento. Copritevi bene perché il vostro Matrix personale dura otto minuti e cinque secondi! Con "Nighfall" siamo nel mezzo dell’album. Inaspettatamente ci addentriamo in una radura fatta di suoni melliflui, di flora e fauna, di tastiere lentamente ascendenti. Il suono diviene circolare. La natura si trasforma in plastica alle pareti. La rete è in agguato per prendervi se mai precipiterete per esservi troppo rilassati. Silenzio. Patos. Monete che cadono sull’acqua. Un sound multidimensionale. Eccola "Scatter". Mi piace come mi piace fare su e giù con la testa ad un concerto intimamente ipnotico. Lasciate fuori di casa la mente. Portatevi solo i vizi per questo ascolto. Non vi dico altro. Vi rovinerei il circolo vizioso. E se non vi basta ora vi mando "Ripple". Soffia un vento del sud. Danzano le gitane intorno al fuoco virtuale, illusorio, poderoso, trepidante, fumante delle illusioni erotiche. Stacco le emozioni con "Broken". Sassi d’oro che vengono macerati in suoni. Ripercussioni in tre quarti. Ripercussioni ancora zingare e delizianti. Corse immobili all’oro che ci scende nella gola semi solido. Questa song corrompe l’anima. Filtra il buio solo se avevamo la luce dentro. Porta così lontano da…vedete voi se riuscite a tornare indietro dalle sabbie mobili a 24 carati. Ed ora benvenuta a "Cage Then Brick". Un minuto e cinquantasette di battiti fuori scala. Percussioni alterate, semicoscienti. Legno che scalda. Sibili di serpenti, cobra che avvolgono le arterie e d’improvviso sfumano. Non l’ho nemmeno assaporata. Come un morso letale. Piove adamantio. "Reverse Learning". Questa traccia inizia oltraggiosa e benevola al contempo. Ritmata quanto basta. Spezzata quanto basta. Avvolgente quanto basta. Sussultante quanto basta. Invece è una trappola per la mente. Esoterica. Pulsante. Accattivante. Egocentrica. E chiudiamo il nostro viaggio virtuoso con il titolo che dà il nome all’album, "To Dream is to Forget". Davvero? Perché? E se fosse? Gli Hidden Orchestra sono coraggiosi. Sfrontati. Enigmatici. Timidamente erotici. Futuristi. Capaci di pura proiezione nella loro arte. Ci lasciano con questo epilogo malinconico, filtrante, con suoni al rallentatore, espliciti, nostalgici, danzanti. E ora ricominciate l’ascolto e capirete la bellissima circolarità dell’album. (Silvia Comencini)