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lunedì 31 agosto 2020

Less Win - Given Light

#PER CHI AMA: Post Punk/No Wave
Se questo album fosse uscito nella prima metà degli anni ottanta, non mi sarei stupito di vederlo ai vertici delle classifiche di musica alternativa e potremmo anche immaginare i Less Win in tour con i maestri The Birthday Party, da cui il trio danese ha ereditato la dissacrante arte di rendere tutto della loro musica, estremamente nervoso e nevrotico, emotivamente estremo, un mal de vivre disturbante ed affascinante, al contempo spietato e tagliente. I suoni di 'Given Light' sono stupendi, rimandano la mente all'epoca d'oro del dark/gothic rock degli eighties ma al tempo stesso suonano freschi ed attuali. Il talento della band non si ferma al banale rifacimento dei clichè di genere, poiché, leggendo tra le righe di questi brani, s'intrecciano chitarre lisergiche e sbilenche di velvettiana memoria, richiami, soprattutto nell'uso dei fiati (vi è una lunga lista di musicisti ospiti in questo disco), alla no wave di derivazione jazz dei sottovalutati Laughing Clowns, e per finire un'urticante tensione continua che ricorda i lavori maledetti dei Grinderman. Ricordo anche che tra le fila dei Less Win milita il chitarrista Casper Morilla e quindi il rimando agli splendidi lavori degli Iceage è d'obbligo, anche se qui l'anima compositiva è molto più buia, meno inquietante ma molto più ostica ed oscura. Il ritornello di "Passion's Puppet" è brillantemente straziante, la musica lo esalta a dovere e con "Sure I've Been Convinced", che sembra un brano uscito da 'Porcupine' degli Echo and the Bunnymen suonato con una contorta vena alla Naked City, formano un binomio perfetto che con l'intro in stile "Heroes" di "Truths, Like Roses" completano un triangolo infernale dove si può tranquillamente perire musicalmente soddisfatti. Ascoltato tutto d'un fiato e ad alto volume il disco è decisamente sorprendente, per il tiro serrato delle ritmiche che ricordano i primi lavori dei the Wedding Present e la fantasia compositiva che mette in mostra una band in grado di far saltare sulla sedia l'ascoltatore ed allo stesso tempo, proiettarlo in un diluvio di emozioni contorte, avvolgendolo in un vortice di suoni vertiginosi e ossessivamente creativi (il parallelo con' Phantasmagoria' dei The Damned è quasi un obbligo, almeno per quanto concerne la sua attitudine gotica). Il nero è il colore di questi brani e devo ammettere che da tempo non sentivo un album accostabile al filone post punk così convincente. "Man of My Time" sembra un vecchio brano dei The New Christs suonato alla maniera dei giovani Pardans, che neanche farlo apposta sono compatrioti dei Less Win. A questo punto credo sia naturale chiedersi se, effettivamente, la Danimarca sia la nuova patria d'adozione del post punk, quello più originale e di qualità. Comunque la cosa certa è che non si vive di soli Idles, c'è dell'altro in giro, basta semplicemente guardarsi attorno. 'Given Light' è un lavoro imperdibile per gli amanti del post punk di ieri e di oggi. (Bob Stoner)

Bal-Sagoth - The Chthonic Chronicles

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black Metal
"Once upon a time..." Inizia così la sesta fatica targata Bal-Sagoth, act di cui seguo le gesta dal lontano 1994, quando i nostri muovevano i loro primi passi nel sotteraneo mondo di 'A Black Moon Broods Over Lemuria', solleticando notevolmente il mio interesse per quel loro nome epico e fantastico. Da allora acquistai tutti i lavori della compagine guidata da Lord Byron, anche se alcuni episodi mi lasciarono con l’amaro in bocca e con grossi dubbi sulla validità effettiva della loro proposta musicale. Dal precedente 'Atlantis Ascendant', l’offerta artistica della band non si è scostata poi di molto, proponendo quel tipico black metal sorretto dalle sempre barocche tastiere di Jonny Maudling. Dodici brani, per un totale di oltre un’ora di musica, in cui la formula della band inglese rimane costante ormai dagli esordi: trattasi infatti, di un black metal infarcito di elementi sinfonici ed epici, che portano l’ascoltatore in terre e tempi lontani fatti di battaglie fra prodi guerrieri, il fragore delle armi ed antichi miti. Atmosfere pagane, oscure litanie, maestose e strabordanti melodie, rendono l'album del quintetto britannico la colonna sonora ideale per film come “Braveheart” o “Il Signore degli Anelli”. Nonostante le pompose ma ottime orchestrazioni della band, in questo cd la band sembra voler fare il verso a se stessa e alla fine, il tutto risulta un po’ scontato e prevedibile. Tuttavia, la bravura e la coerenza di idee portata avanti da Byron e soci (nonché l’affetto che mi lega a loro), mi induce a premiarli con mezzo punto in più. Con 'The Chthonian Chronicles' si chiude, dopo 12 anni, l’epica esologia della band inglese e il destino stesso dei nostri che dopo qualche anno si sono sciolti, dando vita ai Kull che privati di Mr Byron alla voce, alla fine propongono fondamentalmente la stessa cosa. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2006)
Voto: 69

https://www.facebook.com/Official.Bal.Sagoth

domenica 30 agosto 2020

Almach - Battle of Tours

#PER CHI AMA: Epic Black/Dungeon Synth
Quando c'è da vagare con la fantasia sono sempre il primo a farlo e cosi quando ho scoperto questo gruppo afgano (o presunto tale, le fregature qui sono sempre dietro l'angolo), mi sono lanciano al suo ascolto ed abbandonato la mia mente ai suoni contenuti in questo epico 'Battle of Tours', che dovrebbe evocare la Battaglia di Poitiers tra gli arabi-berberi e i franchi di Carlo Magno. Gli Almach sembrerebbero originari di Kabul, ma non si sa nulla di questa compagine, complice una nazione chiusa ad ogni forma di arte per cosi dire pagana, come può essere la musica. E allora, il mio consiglio è quello di immergervi nelle sognanti atmosfere dell'opening track "Abdul Rahman Al Ghafiqi", un pezzo che combina un black strumentale con il dungeon synth. Potrebbe essere una sorta di intro ma la sua lunga durata mi ha fatto pensare ad un brano vero e proprio. Le cose si fanno ancor più interessanti nella successiva traccia, quella che dà il titolo al disco, dove accanto alle caratteristiche descritte in apertura, compaiono anche pesanti influenze arabeggianti (a dir poco spettacolari) e fa capolino in sottofondo uno screaming leggero. Ampio spazio qui viene lasciato alle parti atmosferiche quasi si trattasse di un campo di battaglia dove a fronteggiarsi ci sono due invincibili eserciti. La musica si configura come un epic symph metal dove la presenza black è limitata esclusivamente ai rari vocalizzi estremi. "Blood Brother" è un pezzo interamente affidato alle tastiere, quasi una malinconica colonna sonora di un film durante una scena d'addio tra la bella fanciulla e il suo prode guerriero. Con "Temple of Old Gods" si riprende la strada del black atmosferico, sulla scia di Bal Sagoth e Summoning, ma in questo caso, la song non mi ha impressionato come le precedenti. Fortunatamente con "Sons Of Umayya" torno a respirare l'atmosfera delle popolazioni berbere con una chitarra orientaleggiante e la presenza della voce di una gentil donzella. È proprio in questi momenti che apprezzo notevolmente la proposta degli Almach per la loro capacità di catapultarci in un'altra epoca, in un altro luogo, sfoderando semplicemente la seducente arma della tradizione musicale araba o lo splendido intermezzo atmosferico che ancora una volta sembrerebbe essere quello di una cinematografica soundtrack. In chiusura l'ultima gemma, "Yamrā", uno splendido esempio di fantasy ambient che riflette i valori di questo sorprendente 'Battle of Tours'. (Francesco Scarci)

Amiensus - Abreaction

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Gli Amiensus li conosciamo molto bene, avendoli peraltro da poco recensiti nello split album con gli Adora Vivos, ma quello era un apripista per questo nuovo lavoro, che sarà presto fuori per la Transcending Records. 'Abreaction' ci consegna una band in ottimo stato di forma, ma questo era già stato appurato nell'ultimo dischetto. La proposta del quintetto del Minnesota prosegue alla grande in quella sua ricercatezza musicale che ha reso grandi gli Agalloch ad esempio, ma credo che la band sia già un passo avanti rispetto all'ensemble originario dell'Oregon. Lo si capisce immediatamente da "Beneath the Waves", splendida traccia d'apertura che mostra le eccelse qualità dei nostri che si muovono a cavallo tra black, suoni atmosferici, blackgaze, dark e progressive con una disinvoltura da veri fuoriclasse. E in parallelo con quest'alternanza musicale, anche i vocalizzi di James Benson fanno altrettanto, tra growl e clean vocals. Splendido l'incipit corredato con tanto di archi, della seconda "Divinity", una song malinconica e coinvolgente nel suo tiepido avanzare che ben presto, nonostante la delicatezza delle vocals, ci sommergerà con una ritmica dirompente ed un placido finale nuovamente affidato al violoncello. Ma la compagine statunitense è davvero ispirata e il black compassato della terza "To the Edge of Life" ci offre uno spaccato differente, più aggressivo degli Amiensus, pur senza rinunciare a break atmosferici e ad un acustico finale. Ancora black mid-tempo con "A Convocation of Spirits" (tra l'altro riproposta in chiusura interamente acustica), una song sinistra permeata da una diabolica vena doomish, in grado comunque di palesare tutta la classe del combo soprattutto nell'ampio utilizzo degli archi e dalla presenza di un interessante dualismo vocale. Il disco è un susseguirsi di piccoli gioiellini che mostrano gli enormi passi in avanti compiuti da questo collettivo in pochissimi anni. Quindi se dovessi suggerire un altro paio di pezzi, direi senza dubbio "Cold Viscera", canzone devastante che forse si distacca dalle altre, complice un feeling che mi ha evocato qualcosa dei Dissection. Infine "All That is Unknown", scelta invece per la sua vena sinfonica che rappresenta un altro unicum di un album che si candida ad essere una delle sorprese di questo strano 2020. (Francesco Scarci)

(Transcending Records - 2020)
Voto: 82

https://amiensus.bandcamp.com/album/abreactio

Das Scheit - Superbitch

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Electro Gothic, Sundown
Esploriamo un po' tutti i generi e gli anni qui dal Pozzo dei Dannati e oggi ci andiamo a concentrare sul terzo lavoro dei tedeschi Das Scheit, quartetto votato ad un electro-gothic metal. Dopo quattro anni dal loro precedente '...And Ice is Forming”, ritornano sulle scene con un album che li avrebbe potuti proiettare nell’Olimpo delle migliori band di questo genere. Lo stile musicale proposto dai nostri in questo 'Superbitch' si evince già dalla mia introduzione, ma non vorrei risultare limitativo nelle mie considerazioni. Le influenze principali della band si rifanno certamente all’electro-gothic, ma poi spaziano, cogliendo qualcosa dall’industrial, da act quali Ramstein, ma anche da Marilyn Manson (soprattutto per quanto riguarda il look della band), ma anche dagli svedesi Sundown di Mathias Lodmalm, autori a fine anni ’90 di due ottimi album. I brani contenuti in 'Superbitch' sono quindi parecchio orecchiabili, emanano vibrazioni elettrizzanti, cercando di creare atmosfere oscure, sforzandosi poi di coniugare le contaminazioni elencate sopra, a qualche spunto interessante e vincente del Nu metal dei Korn o del gothic dei Paradise Lost. Ottimamente prodotti da Markus Teske (Vanden Plas), i Das Scheit ci offrono la loro visione di questo genere musicale: una solida base ritmica creata da chitarroni distorti e ritmi martellanti, sostenuta da un largo uso di campionamenti. Interessante è poi l’uso di molteplici varianti di voce e modi di cantare in alcuni brani. Le lead vocals ricordano non poco l’ex vocalist dei Cemetary, ma poi si alternano voci effettate, cantati rap, dark, crunchy e industrial. L’episodio migliore dell’album è a mio avviso “Earth Stand Still” dove un po’ tutte le caratteristiche della band si fondono nel corso dei suoi quattro minuti, risultando assai ruffiana ma vincente. Nonostante lo scetticismo iniziale, devo ammettere che i Das Scheit siano riusciti nell’intento di conquistarmi, quindi magari potreste dargli una chance anche voi e andarveli a ripescare. (Francesco Scarci)

(Black Lotus - 2005)
Voto: 69

https://www.facebook.com/dasscheit

Orfvs - Ceremony of Darkness

#PER CHI AMA: Symph Black, Gehenna
Formatisi in quel di Jyväskylä nel 2010, gli Orfvs giungono al debut nell'anno seguente con il 7" 'The Greatest Sacrifice', contenente però due soli brani. Poi solo silenzio fino a quest'anno quando i nostri sono riapparsi con il rilascio di un secondo lavoro, 'Ceremony of Darkness'. Quello di oggi è un 4-track che tuttavia ci dà modo di valutare la proposta del duo finlandese più approfonditamente. "Son of Morning Sky", l'opening track, ci catapulta immediatamente indietro nel tempo di oltre 25 anni quando in Scandinavia spuntavano come funghi le prime realtà dedite ad un black sinfonico. Penso agli anni dei primissimi Dimmu Borgir, ai Gehenna di 'First Spell' o agli Emperor degli esordi. Quello degli Orfvs è di fatto un sound che chiama in causa quei nomi con un black mid-tempo guidato dalle spettrali tastiere di Profundiis, responsabile anche dell'urticante voce di questo dischetto. "Cruor MCMXCVIII" ha un inizio ben più irruento ma poi assesta il proprio flusso sonoro su di una proposta decisamente ritmata sebbene le sfuriate non manchino anche lungo i suoi sei minuti che ancora una volta evocano fantasmi norvegesi (Emperor docet) che pensavo ormai scomparsi. Con "The Void Around Anima Mundi" si ritorna a velocità moderate, in cui lo screaming del vocalist poggia su una ritmica scarna ma sempre arricchita da una interessante componente atmosferica. Niente per cui gridare al miracolo, ma comunque qualcosa che si può tranquillamente ascoltare. In chiusura per i neri cultori del black, arriva "My Heart of Perdition" e il suo sound gelido pur sempre melodico, grazie alle tetre atmosfere costruite dai synth e ad un tremolo picking conclusivo che regala attimi di puro godimento e che rivaluta la performance di un disco che brilla davvero poco di luce propria. Meglio togliersi un po' di ruggine per arrivare in forma all'atteso full length. (Francesco Scarci)

(Spread Evil Productions - 2020)
Voto: 64

https://spreadevil.bandcamp.com/album/ceremony-of-darkness

Kryoburn - Enigmatic Existence

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Cyber Death, Fear Factory, Meshuggah
Curioso il fatto che, durante un’esibizione live, i Kryoburn abbiano cosi tanto impressionato Eddy Garcia dei Pissing Razors, che si sia reso disponibile per la produzione di questo album d'esordio intitolato 'Enigmatic Existence', presso i propri Krank Studios di El Paso. Ma veniamo alla musica proposta da questo quartetto originario del New Mexico, che ricorda non poco, il sound dei Fear Factory periodo 'Demanufacture'/'Obsolete' combinato con quello dei Meshuggah. L’album si apre con l’esplosiva “Transience”, che mette subito in chiaro quali siano le influenze principali della band: voce molto simile a quella di Burton C. Bell, chitarre ruvide e schiacciasassi, ottime le clean vocals. Segue “Singularity”, forse il miglior pezzo dell’album, dove una tastiera cupa impreziosisce il lavoro violento delle chitarre, riuscendo a creare un’atmosfera pregna di angoscia e malinconica. Ottimo l’apporto alla batteria di Chris Huber, cosi come pure quello al basso di Derick Richards, abili nel creare le pesanti ritmiche che permeano questo lavoro. La release è un concentrato di adrenalina pura, che vi farà implodere le casse dello stereo; per carità, nulla di originale all’orizzonte, però la band si conferma valida nel saper coinvolgere l’ascoltatore con la sua carica esplosiva. Con i Kryoburn l’headbanging è garantito: i ritmi tribali, che ricordano vagamente i Sepultura, cosi come le ritmiche sincopate alla Pantera, ci garantiscono 50 minuti di pura energia. (Francesco Scarci)

(Continental Entertainment/Candlelight Records - 2005)
Voto: 68

https://www.metal-archives.com/albums/Kryoburn

sabato 29 agosto 2020

Black Hate - Altalith

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Melechesh
Son passati ben otto anni da quando scrissi dei messicani Black Hate. Era il 2012 e il lavoro in questione 'Los Tres Mundos'. In mezzo, prima di questo 'Altalith', 'Through the Darkness', nel 2016, sempre per Dusktone. Il nuovo lavoro del quartetto di Città del Messico, ci conduce ancora una volta nei meandri di un sound oscuro e malato che da sempre contraddistingue i nostri. L'incipit, affidato alle percussioni di "The Gathering", sembra uno spaventoso rituale di morte azteco. Poco più di 90 secondi di suoni inquietanti che ci introducono alla follia sbilenca di "Hur/nin\ki-sag", caratterizzata da chitarre disarmoniche, ritmiche che rasentano il delirio e voci graffianti, il tutto deprivato però di una componente melodica. La song vede la partecipazione in veste di guest vocalist di Antithesis Ignis, compagno di merende negli Andramelech del frontman dei Black Hate B.G. Ikanunna; e nella song compare anche Antimo Buonanno (Hacavitz, Profanator tra gli altri) che dà il suo contributo a voci e cori. Un brevissimo intermezzo ambient e tocca a "Ir./Kalla", che ci conduce nell'antico e sotteraneo mondo mesopotamico con un sound finalmente ispirato, ove fa la sua apparizione il terzo ospite del disco, Paulina Suastegui, alla voce. La musica qui sembra ispirarsi ad un altro filone, quello mediorientale, con Melechesh e Arallu in testa, grazie all'utilizzo di quelle melodie orientaleggianti (corredate anche dalla soave voce femminile di Paulina) che caratterizzano il sound delle due band israeliane, senza comunque rinunciare alle tipiche sfuriate black. Un altro intermezzo e la strada verso la purificazione, secondo la tradizione sumera descritta in questo 'Altalith', fa tappa con "Nin\ ki /en-mhah", un brano stralunato, evocativo e cerimoniale, che miscela ancora una volta un black vorticoso con lontane contaminazioni progressive. L'ennesimo intermezzo tribale e si arriva a "Altalith-jamediu", un pezzo non semplicissimo da digerire che si muove su un mid-tempo schizzato che sembra chiamare in causa gli ultimi Deathspell Omega, soprattutto nella seconda parte dove il ritmo s'infervora notevolmente, muovendosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti da incubo, per il più classico degli stop'n go. In chiusura “Bleed 17-09”, che vede alla voce il featuring di Kim Carlsson degli Hypothermia, sembra consegnarci una band completamente diversa da quanto ascoltato sin qui grazie ad un sound inizialmente più atmosferico, ma comunque slegato da quegli influssi mediorientali apprezzati in buona parte del disco. La lunga traccia nei suoi 10 minuti e più, vede un'alternanza di momenti più nervosi e votati al depressive black di Lifelover o Burzum, con altri decisamente più delicati e sofisticati che la eleggono comunque a mia song preferita del disco. In definitiva, 'Altalith' è un disco complesso, di difficile assimilazione che necessita di molteplici ascolti per essere goduto per quel che realmente è. Ci vuole pazienza e perseveranza ma alla fine verrete premiati da una prova dotata di una certa maturità artistica. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

Suidakra - Command to Charge

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Folk
Iniziai ad ascoltare i Suidakra, quando nel 1999 uscì il loro terzo lavoro 'Lays From Afar'. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia con i quattro tedesconi che hanno dato alle stampe altri album, tra cui questo 'Command to Charge'. La qualità del sound proposto dal combo teutonico però, è andato via via peggiorando. Se tanto avevo apprezzato la band per la loro proposta death-epic-folk-power metal di 'Emprise to Avalon', non avevo di certo gradito la sterzata stilistica con il successivo 'Signs for the Fallen', che aveva abbandonato le caratteristiche atmosfere dei dischi precedenti, per lasciar posto ad un sound più aggressivo ma anche più anonimo. Con questo cd invece, i nostri hanno continuato sulla scia del precedente lavoro, perdendo però in cattiveria, probabilmente a causa di un uso più marcato di mid clean vocals, che mi hanno rievocato le performance vocali del singer dei Pyogenesis e che ammetto di non aver particolarmente apprezzato. Il guitar riffing, più raffinato rispetto al passato, paga spesso tributo allo swedish death metal dei Soilwork, ma rispetto ai colleghi svedesi, riesce fortunatamente ad essere più vario, passando da ritmiche incalzanti a piacevoli arpeggi, concludendo però con assoli poco convincenti. Ho dovuto attendere la decima traccia, la strumentale “Dead Man’s Reel” per ritrovare quel folk sound, a la Skyclad per intenderci, che tanto mi aveva colpito nei primi lavori, tuttavia si tratta di un episodio isolato. Il cd comprende anche due bonus live video tracks, “Reap the Storm” e “Morrigan”. Infine, vorrei segnalare che gli ultimi tre minuti dell'album riservano la classica ghost track, addirittura la cover “Moonlight Shadow” di Mike Olfield, completamente stravolta. Per quanto mi riguarda, questo 'Command to Charge' è più un album di transizione che porterà la band di Düsseldorf a ottimi traguardi già a partire dai successivi 'Caledonia' e 'Crógacht'. Qui ahimè semplicemente sconclusionati. (Francesco Scarci)

(Armageddon Music - 2005)
Voto: 55

https://www.facebook.com/Official.SuidAkrA

Dissection - The Past is Alive (The Early Mischief)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death
Credo che la Hammerheart/Karmageddon Media abbia riproposto 'The Past is Alive' ormai quattro volte, l'ultima nel 2018 per ricordarci di questa raccolta del primo leggendario 7” EP dei famigerati Satanized (la band dalle cui ceneri sono poi sorti i Dissection), con versioni demo e promo dei classici pezzi della band svedese capitana da Jon Nodtveidt. Mi sembra proprio che attorno ai quattro ragazzi di Goteborg si sia costruita una coltre di mistero che trovo ingiustificata. Però i Dissection sono stati ottimi interpreti di un filone, che probabilmente deve la sua nascita proprio a loro stessi, di essere stati gli autori di due fantastici album a metà anni ‘90, 'The Somberlain' e 'Storm of the Light’s Bane', ma da quei due episodi, di anni ed eventi, in ambito musicale e non, ne sono passati parecchi. Da allora, un mcd di materiale già edito, un live, una raccolta e un ultimo mediocre album, 'Reinkaos', prima dello split definitivo legato alla morte di Jon nel 2006. Nell'edizione del 2005 dello stesso lavoro (cosa che non accade ad esempio nell'ultima release del 2018), la band aggiungeva due brani, “Where Dead Angels Lie” e “Elizabeth Bathori” per rendere più appetitosa questa release. Ma francamente quello che potete ascoltare qui è un sound più crudo e primordiale rispetto a quanto poi i Dissection hanno prodotto, col loro sound a metà strada tra death e black fatto di quei fraseggi chitarristici pregni di malinconia, rabbia e malvagità, ma anche pieni di una melodia che mai prima aveva trovato posto all’interno di un genere così estremo. Ci sono comunque dei segni prodromi di quanto avrebbero generato in seguito nelle linee di chitarra di "Frozen" o "Mistress of the Bleeding Sorrow", ma altri episodi cosi grezzi rimangono agli atti solo per i fan più accaniti. Gli altri si vadano ad ascoltare il monumentale 'Storm of the Light’s Bane' per meglio capire il corso della storia. (Francesco Scarci)

(Karmageddon Media/Candlelight Records - 2005/Hammerheart - 2018)
Voto: 60

https://hammerheart.bandcamp.com/album/the-past-is-alive-the-early-mischief

venerdì 28 agosto 2020

Iiah - Terra

#PER CHI AMA: Post-Rock
Formatisi nel 2013 in quel di Adelaide, gli Iiah sono un quintetto dedito ad un fluttuante post-rock cinematico, fatto di catartici momenti ambient impreziositi da ottime linee di chitarra. Questo è almeno quello che ci dice "Eclipse", la song che segue a ruota la strumentale ed ipnotica opening track di questo 'Terra', secondo album per la band australiana."Eclipse" è un dolce affresco musicale guidato dai gentili tocchi di chitarra del duo formato da Ben Twartz e Nick Rivett (anche se in realtà pure il vocalist Tim Day si occupa di chitarra e tastiere). Il risultato che ne consegue è il classico post-rock senza particolari sussulti e che anche nella seconda traccia si conferma strumentale. E allora attendiamo di sentire la terza "Aphelion" per capire su quale modulazione si attestano le corde vocali del frontman e comprendere qualcosina in più dei nostri, che musicalmente potrebbero essere collocabili a fianco di formazioni tipo This Will Destroy You, We Lost the Sea o Sleepmakeswaves. La voce di Tim ha una buona timbrica (evocante il cantante degli Anathema) e in questo caso viene raddoppiata dalla voce soave collocata più in sottofondo, di Maggie Rutjens. Il risultato è suggestivo, quanto meno rilassante e ben si adatta con la melodia e le ritmiche sul finale più crescenti. "Sleep" prosegue il mood rilassato abbracciato dalla band che ricorda in un qualche modo le sonorità sognanti dei Sigur Rós, il problema semmai è che alla lunga rischi di divenire troppo ridondante e noioso e la tentazione a skippare al brano successivo si fa più forte che mai. E qui arriviamo a "20.9%", oltre nove minuti di musica che o mi danno una poderosa carica per risvegliarmi o mi spingono definitivamente verso le braccia di Morfeo. Fortunatamente, le chitarre in tremolo picking che esplodono quasi all'inizio del brano, mi fanno propendere per la prima soluzione, facendomi apprezzare le buone linee melodiche imbastite dai nostri, che rimangono tuttavia incellophanate in strutture un po' troppo limitate, senza mai tentare un vero e proprio azzardo musicale. Forse risiede qui il vero limite della band che per quanto sia piacevole, alla lunga stufa perchè privo di un vero e proprio guizzo vincente. Rimangono ancora da ascoltare le conclusive "Luminescence", morbida ma ancor priva di mordente, sebbene nella seconda parte si dia maggior risalto alle chitarre. In "Displacement" ricompaiono le voci in un background musicale fortemente malinconico che trova qualche spunto interessante nella seconda parte che ricorda nuovamente gli Anathema più emotivamente disperati, ma che comunque la elegge a mio brano preferito. L'ultima song è la lunghissima "Lambda", 13 minuti che si aprono con la tribalità del drumming e prosegue all'insegna di un post-rock sognante, emotivamente votato ad una straziante malinconia e che risolleva decisamente le sorti di un disco che nella prima metà stentava davvero a decollare. Sicuramente un passo indietro rispetto al disco d'esordio, ma sono certo che in futuro gli Iiah sapranno rifarsi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 68

https://iiah.bandcamp.com/album/terra

Meshuggah - Catch Thirty Three

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Swedish Death/Djent
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, 'Contradictions Collapse', un album che era pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Dopo 14 anni, 6 album e 4 EP, all'uscita di 'Catch Thirty Three', il combo svedese era già diventato una delle più importanti e influenti band in ambito estremo, e questo album avrebbe dovuto consacrare definitivamente il quintetto scandinavo. Tuttavia (e qui i fan più accaniti forse verranno a cercarmi a casa), quel lavoro mi deluse. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono molteplici ascolti. La musica poi non differisce più di tanto dai precedenti dischi: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato. E ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per minuti si intestardisce a ripetere gli stessi accordi) risulta noiosa e ridondante. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei cinque ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, i ritmi spezzati, con il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, non posso dire assolutamente che questo 'Catch Thirty Three' sia un brutto album, però all'epoca mi aspettavo qualcosina in più. Ma d'altro canto, lo sapete anche voi, i Meshuggah si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2005)
Voto: 67

https://www.facebook.com/meshuggah

The Pit Tips

Francesco Scarci

Dehà - A FLEUR DE PEAU - I - There is no home
Laetitia In Holocaust - Heritage
Рожь - Один сажень

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Alain González Artola

Ringarë - Sorrow Befell
Midnight Bethrothed - Indulgence in Eternity
Frienholt - The Lady of Light

Axis of Perdition - Deleted Scenes from the Transition Hospital

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Ambient
Gli Axis of Perdition in questa release riprendono la storia di un personaggio solitario imprigionato e condannato a vagare per l'oscuro labirinto del Transition Hospital, e guidato inesorabilmente verso il proprio e definitivo terrore rivelatore (tema già trattato nel MCD 'Physical Illucinations'). Ecco, riassunto in poche righe il concept che si cela dietro 'Deleted Scenes from the Transition Hospital', un viaggio all’interno dei meandri post apocalittici della band inglese. Potete quindi ben immaginare cosa la band ci riservi in questo disco: atmosfere al limite della rarefazione, ambientazioni dark, chitarre incorporee e sinistre in strutture disarmoniche, un cantato catartico e pieno di dolore. Questi sono gli Axis of Perdition, quattro ragazzi capaci di suggestionare la mente di chi li ascolta con pure visioni misantropiche. Gli otto brani inclusi in questo lavoro che risale ormai al 2005 riescono ad infondere una tale angoscia da dover sospendere ogni tanto l’ascolto, perchè in debito d’ossigeno. Sono oscuri, malvagi e apocalittici, capaci di frastornarci con suoni che nascono dall’ambiente urbano e poi integrati nella loro dimensione più mostruosa. Distorsioni, rumori, crepitii, rallentamenti ipnotici, terrificanti grida, gelano il sangue nelle mie vene. Se quest’album lo ascolterete di notte, nel buio della vostra camera, vi garantisco che sarete poi costretti a dormire con la luce accesa. Gli Axis of Perdition riescono a stupirci anche con un inserto jazz nel terzo brano “Pendulum Prey” e altre trovate d’effetto, sparse qua e là nell’album. Questa non è musica ma un incubo sonoro. (Francesco Scarci)

domenica 23 agosto 2020

Рожь - Один сажень/Остов

#PER CHI AMA: Funeral/Black/Doom
Quella di oggi è una one-man-band proveniente dalla Carelia, quella regione russa al confine con la Finlandia descritta peraltro nel lavoro 'The Karelian Isthmus' degli Amorphis. A parte queste divagazioni geografico-musicali, la band si chiama Рожь che in italiano starebbe per segale, quanto meno stravagante come moniker. Detto questo, il lavoro contiene in realtà 'Один сажень' e 'Остов', i due EP del mastermind russo e sembra narrare una breve storia su un vecchio morto che nessuno sapeva chi fosse. Purtroppo la lingua cirillica non mi aiuta a capire molto di più, e allora meglio concentrarsi sulla musica. I primi quattro brani sono estratti da 'Один сажень' e si aprono con le soffocanti atmosfere di "Один", il cui sound sembra immediatamente delineare la direzione funerea intrapresa dal polistrumentista sovietico. Si, stiamo parlando di funeral doom, in una versione che si avvale di corpose e melodiche linee di chitarra che evocano il duo Draconian/Saturnus con dei vocalizzi growl che a malapena si percepiscono in background. Grande spazio è lasciato a lunghe pause ambient che caricano di una certa tensione l'aria già di per sè rarefatta del disco e così, di quasi 10 minuti di musica, quasi il 50% è affidata a queste minimaliste parti atmosferiche, in cui sembrano esserci eteree voci in sottofondo. Il risultato è convincente e mi spinge a volerne sapere di più e quindi affrontare con maggior spensieratezza le successive tracce. Ecco quindi susseguirsi la brevissima "Платье под железом", ponte per la più abrasiva "Головы", vera tormenta post-black che evolve in sonorità più black doom oriented. A chiudere il primo capitolo la ritualistica "Сажень", affidata al solo cantato del musicista russo e a delle spettrali tastiere in background. La seconda parte del disco include le tre song di 'Остов', aperte dagli archi di "Пасха", sicuramente un bel biglietto da visita per l'ascoltatore. L'introduzione è sempre abbastanza lunga e sembra essere la virtuale continuazione della precedente traccia, prima che inizi ad infuriare il mastodontico sound delle sei-corde (prima lento e poi impetuoso) e l'efferato screaming del vocalist, in un altro pezzo tipicamente post-black, sebbene il finale riservi curiose contaminazioni. La pseudo strumentale "Рукава и сажа" rivela le influenze per il nostro polistrumentista derivanti, a livello chitarristico, dallo sludge che ben si coniugano col doom e il post che spopolano un po' ovunque all'interno del disco. In chiusura, la title track, altri quattro minuti di non musica, fatta da voci evocative e parti ambient affidate agli archi che stimolano non poco l'immaginazione di chi sarà pronto e senza paura ad immergersi in questo viaggio targato Рожь. (Francesco Scarci)

Laetitia In Holocaust - Heritage

#PER CHI AMA: Black Death Avantgarde
Già recensiti in occasione dei precedenti lavori e peraltro intervistati vis-a-vis ai tempi di Radio Popolare, mi ritrovo tra le mani il nuovo disco dei modenesi Laetitia in Holocaust, che per trovare un'etichetta che li supportasse, hanno dovuto questa volta "emigrare" in Canada, appoggiandosi alla Niflhel Records. Il misterioso duo italico (oggi trio in realtà) torna quindi con il quarto album, 'Heritage', che non fa altro che proseguire (e migliorare) quanto fatto con il precedente 'Fauci tra Fauci', uscito lo scorso anno per la Third I Rex. Il disco si apre con "The Moor", una breve intro noise che ci prende per mano e ci conduce nel labirinto tortuoso e stralunato di "Dissolution in Black Pastures", una song che si muove su ritmiche vorticose, deliri musicali, vocals schizoidi e giri di basso da paura, che dipingono surreali momenti d'atmosfera e ci consegnano una band in grande stato di forma che lascia ancora presagire ampi spazi di miglioramento. Tuttavia, a dire il vero, dopo il primo ascolto, mi sento di dire che questo è anche il brano migliore del lotto. Seguono però una serie di pezzi di indubbio valore: parto col disquisire la title track, un pezzo funambolico, che evidenzia la sempre eccelsa tecnica del combo emiliano che pone in primo piano il magnetico sound del basso, attorno al quale sembrano ruotare gli altri strumenti e la voce graffiante (in screaming ovviamente) del frontman S. Il risultato che ne viene fuori ha un che di originale che supera in qualità compositiva quanto uscì già di buono lo scorso anno. Le imprevedibili ma melodiche linee di chitarra, i frangenti acustico-atmosferici, i repentini cambi di tempo, ci dicono ancora una volta che la band è in uno stato di grazia e sa giocare sapientemente con partiture techno black/death avanguardistiche che elevano i nostri a punto di riferimento di una scena ancora poco popolata. Se dovessi citarvi un termine di paragone per descrivervi la proposta dei Laetitia in Holocaust, vi direi di immaginare i Sadist di 'Above the Light', miscelati ai Cynic e fatti suonare dai Deathspell Omega, avete presente che bel mix ne salta fuori? Questo si traduce in pezzi ricercati, talvolta talvolta ancora un po' complicati da digerire, come potrebbe essere "Exemplum", che di certo non gode della stessa accessibilità musicale dei precedenti pezzi, ma che mette comunque in mostra le qualità di un disco molto buono ma ancora perfettibile, soprattutto a livello produttivo, dove forse i suoni risultano un po' troppo crudi. Poi non si possono contestare i contenuti del lavoro: "Of Courage and Deity" è magnetica quanto basta, sempre merito di quel basso e di una voce che rimane un po' nelle retrovie, ma anche di un sapiente lavoro alla chitarra che regala quel tocco disarmonico che tanto ci piace. Fatto sta che il misterioso duo ha creato un proprio marchio di fabbrica che ne caratterizza enormemente la proposta e che in assenza di quelle piccole e marcate caratteristiche (un sound talvolta sospeso, il meraviglioso basso, le divagazioni acustiche quanto quelle jazzy) porterebbero la band sullo stesso piano di altre mille. E allora ben vengano le ferali incursioni apocalittiche di "Of Feathers and Doom" o l'oscura tempra di un brano come "B Minor", costruito interamente su una malinconica chitarra acustica che dona ulteriore interesse e curiosità per questo 'Heritage', album complicato ma da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

Blind Stare - Symphony of Delusions

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death
Al pari di Svezia e Norvegia, gli anni '90 e 2000 hanno visto arrivare dalla prolifica Finlandia una miriade di band, tra cui questa dei debuttanti, all'epoca, Blind Stare. Devo ammettere che la cover artwork (ad opera di Jan Yrlund degli Ancient Rites) mi aveva un po’ depistato per quanto riguarda lo stile dei nostri: immaginavo infatti, si trattasse di un power epic metal, poi fortunatamente ho realizzato che mi trovavo di fronte ad un platter di death metal melodico. Le dieci tracks ivi contenute (11 nella versione giapponese, che include addirittura la cover di Bon Jovi, "Runaway"), rappresentano un esempio di come le band, provenienti dalla “Terra dei mille laghi”, siano sempre più avanti rispetto le altre. Pur non proponendo nulla di originale, il sestetto originario di Turku ci propone un buon death melodico con clean vocals (che ricordano Michael Stanne dei Dark Tranquillity sull’album 'Projector'), ariose tastiere e preziosi arrangiamenti orchestrali capaci di dare una certa maestosità al suono (pur non avendo un’orchestra a loro disposizione, i nostri sono riusciti ad ottenere un risultato abbastanza simile). E cosi tutto questo 'Symphony of Delusions' si presenta ricco di spunti interessanti, anche se in taluni inframmezzi, i sei ragazzi peccano un po’ di inesperienza, mostrando il loro lato più grezzo, incaponendosi nel voler ostentare quanto possano essere cattivi. Anche l’utilizzo della tripla voce (clean, growl e scream) magari rende il tutto ancora grossolano, tuttavia confermo, che d’idee ce ne sono molte e soprattutto valide. L’abilità agli strumenti poi è indiscutibile (buone le chitarre, ottime le tastiere) e sicuramente con qualche ulteriore accorgimento, una buona dose di fortuna e una casa discografica decente alle spalle, i Blind Stare avrebbero potuto dar filo da torcere a chiunque. Purtroppo dopo questo lavoro, è uscito un altro Lp nel 2012, 'The Dividing Line', poi il silenzio fino al 2019 quando un singolo, "Broken Red", ci ha restituito la band in grande forma. Preludio di un nuovo album? Staremo a vedere. (Francesco Scarci)

(Arise Records - 2005)
Voto: 70

https://www.facebook.com/blindstare/

sabato 22 agosto 2020

Verikyyneleet - Ilman Kuolemaa

#FOR FANS OF: Black Old School
Verikyyneleet is a Finnish obscure project, which was founded in the '90s. As it often happens in the black metal underground, some projects decide to remain in the shadows, only releasing demos or extremely rare and limited EPs, which usually go unnoticed unless you are an expert carving the deeps of this genre. Verikyyneleet, which means "Bloodtears" is a one-man project that finally decided to take a step forward, recording an embryonal version of ‘Ilman Kuolema’, the debut album, six years ago. This obscure album saw the light in 2019, but it has officially been released in an extended version this year, including more songs which have been composed during the last twenty years.

Considering this aspect and when the project was founded, it shouldn´t be surprising that Verikyyneleet´s core sound is firmly rooted in the '90s pure black metal. Musically speaking, this is not a straightforward furious black metal record, though it contains a good dose of it, but a primitive soundtrack, where fury and a dark melancholic atmosphere are fused to create a quite hypnotic album. As mentioned, the compositions mix the natural aggressiveness of the genre with a strong atmospheric essence, as it is perfectly displayed in the homonymous track, which opens the album after a short intro. The speedy drums, raspy and distant vocals and pure black metal-esque guitars are excellently mixed with some keys and ambience arrangements, which balance the composition in order to achieve this primordial atmosphere of the old classics of this genre. Another fine example of this mixture, would be the longest track of this album, entitled "Ei Todellista Voimaa…", which includes the aforementioned characteristics, and in addition, a good dose of slow sections with a strong feeling of despair. Moreover, this track and the others incuded on this album, show a noticeable point of distortion and dissonance, which are the most experimental aspects of a theoretically classic album. These dissonant tones are especially present in the guitars in contrast to atmospheric arrangements. Personally, I am not a great fan of these experiments and I prefer the ambience sections made by the keys, which result more captivating. The vocals are the classic shrieks, quite high-pitched and with a truly raw nature. They are present in almost all the songs, though there is a little room for variation, with cleaner and dramatic vocals in a song like "Yhtä Luonnon Kanssa". The production is remarkably raw and primitive. The vocals sound distant though listenable, the guitars have a good amount of distortion and sound filthy, while the drums sound a little buried in the mix. This production is done on purpose and helps to reinforce the primeval atmosphere of this record, which could have been recorded in 1998 and you wouldn´t notice the difference.

All in all, ‘Ilman Kuolemaa’ is an interesting album of '90s black metal which will appeal the fans who miss those old times. Composition wise, the album has a good balance between fierceness and atmosphere, which makes it interesting. (Alain González Artola)

Sinisthra - Last of the Stories of Long Past Glories

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Charon, Him
Dalla terra dei vari Him, The 69 Eyes, Entwine e Charon (...e chi più ne ha più ne metta), arrivò nel 2005 un’altra band di gothic metal. Dalla gelida Helsinki ecco approdare sul mercato discografico i Sinisthra, conosciuti fino a pochi mesi prima con il monicker Nevergreen. 'Last of the Stories of Long Past Glories' è stato il loro disco di debutto, dove peraltro sondare all'epoca le doti canore del nuovo singer degli Amorphis, Tomi Joutsen, passato nelle file della band di Tomi Koivusaari, dopo la dipartita di Pasi Koskinen (che a sua volta era passato nelle file degli Ajattara). Ma parliamo di musica ora: il disco è un esempio di classico gothic metal, ispirato alle band sopraccitate, ma anche dai lavori più “pop” dei Pyogenesis, degli album degli Amorphis di quell'epoca e addirittura, in qualche passaggio, ho potuto scorgere l’ombra dei Red Hot Chili Peppers (quelli più intimistici però). I 40 minuti di questo lavoro ci offrono un po’ tutti i clichè del genere: malinconiche melodie sostenute dalle soffuse tastiere di T. Vainio, squarciate da momenti più aggressivi e dagli assoli dei due chitarristi. E poi la voce di T. Joutsen, che dire? Il fatto che passò a cantare sul prossimo disco di una delle mie band preferite di sempre, un po’ mi fece venire i brividi, ma poi ci ho fatto l’abitudine. La sua voce era infatti nasale, dotata di una buona estensione vocale, ma poco carismatica; sprigionava poca energia con l’album che scivola stancamente senza mai troppo coinvolgere l'ascoltatore. Cosa volete che vi dica, le premesse non sono state le migliori e se la band ci ha impiegato 15 anni per produrre un nuovo lavoro ('The Broad and Beaten Way') e ristampare questo per la Rockshots Records con un paio di demo tracks e unreleased tracks, un perchè deve esserci. Io da buon sentimentale, rimpiango ancora i tempi in cui il buon vecchio Tomi Koivusaari gorgheggiava su 'Tales From the Thousand Lakes', quindi fate voi. Per quanto riguarda le liriche trattano temi più che altro intimi e personali. Insomma all'epoca trovai questi Sinisthra abbastanza spenti e poco convincenti, ora sarei davvero curioso di ascoltare il nuovo album. (Francesco Scarci)

(Arise Records/Rockshots Records - 2005/2020)
Voto: 58

https://www.facebook.com/Sinisthra/

Aibag – A Day at the Beach

#PER CHI AMA: Psych Prog, ultimi Anathema, Radiohead
Descrivere un lavoro degli Airbag (band che ho sempre ammirato ma di cui non amo il nome che trovo incoerente con la loro splendida musica) non è mai stato facile. Nessuno degli album usciti fino ad oggi era stato di facile approccio e tutti prevedevano un certo background musicale per comprenderne appieno le varie fonti musicali e sfumature, racchiuse peraltro anche nelle note di questo nuovo capolavoro. 'A Day at the Beach' non vuole infatti essere da meno rispetto ai suoi predecessori e calca ulteriormente la mano sulle tante influenze, puntando su di un sound sentimentale, carico di espressività, unico e dai toni cromatici variegati. Gli Airbag sono una band magnifica, al confine tra liquido rock sofisticato e moderne escursioni elettriche/elettroniche, per un gruppo, purtroppo, ancora troppo sottovalutato dalla scena musicale mondiale. Hanno un suono affascinante i nostri e si presentano come una splendida anomalia, tra gli Anathema più sperimentali di oggi, i Radiohead più votati all'indie rock/elettronica, i Porcupine Tree per ciò che concerne la psichedelia e la perla, 'Marbles' dei Marillion, per quanto riguarda il rock progressivo. Una commistione di intelligenti intrecci musicali di grande spessore, dall'imponente "Machines and Men", brillante singolo di oltre dieci minuti posto in apertura di disco, alla conclusiva "Megalomaniac", lunga e malinconica ballata dalle tinte grigie, ma con intelligenti variazioni sul tema chiaroscuro. La band norvegese è una delle poche realtà che riesce ancora a far dilatare le pupille con il proprio sound, a creare sogni musicali per i propri fans e far scorrere brividi di reale malinconia sulla pelle di chi li ascolta. Inglobano nel loro sound particelle estratte da Placebo e Antimatter, sono raffinatissimi nella loro incessante ricerca di un suono senza tempo, accessibile ma complicato, maturo. Rielaborano sottigliezze pink floydiane e sono quello che gli U2 più recenti dovrebbero essere se solo avessero mantenuto lontanamente, la qualità e la sensibilità artistica di questa band scandinava. Ogni loro brano è una sorta di catarsi mistica, sensuale e profonda espressività musicale. In termini musicali è come elevare ed ampliare la forza emotiva del brano "Meteorites" degli Echo and the Bunnymen e portarlo alla massima potenza sull'intero lotto dei brani. 'A Day at the Beach' è un cd che a pieno titolo si conquista un ruolo da prima donna nell'immenso filone musicale, catalogabile solo con il termine neo progressive, una ricetta originale per un suono moderno, ipnotico, emotivo e tecnicamente eccellente, un'ulteriore affermazione positiva per una band in costante ascesa, che da anni sforna solo ottimi lavori e per cui giustamente, la sempre attenta Karisma Records, non se li è fatti scappare. Ascolto consigliatissimo, per questo ennesimo eccellente album! (Bob Stoner)

(Karisma Records/Dark Essence - 2020)
Voto: 84

https://airbagsound.bandcamp.com/album/a-day-at-the-beach

Far Beyond - An Angel’s Requiem

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Epic Black
I Far Beyond rappresentano il progetto solista di Eugen Dodenhöft. La band norvegese è stata fondata nel 2001 e dopo un solo anno ha rilasciato il primo demo-cd, 'Bleeding Rose', che ha ricevuto notevoli riscontri positivi dalla critica e ha catturato l’attenzione della label tedesca Source Of Deluge Records. Le dieci tracce che compongono questo 'An Angel’s Requiem' hanno saputo conquistarmi fin dal primo ascolto. Ad aprire le danze, c’è la solita “fantasiosa” (ma anche un po’ scontata) intro tastieristica, ma poi l’album decolla e si snoda attraverso nove emozionanti tracce, caratterizzate da un sound eclettico, capace di offrire momenti di delicata malinconia, altre di forte epicità (dove mi hanno ricordato vagamente i Summoning) e ancora grande rabbia con sfuriate black, in cui Eugen dà sfogo a tutta la sua collera. Le vocals alternano strazianti grida a voci pulite, passando attraverso momenti di toccante epicità (in cui sono udibili reminiscenze dei Bathory di 'Twilight of the Gods'). Le liriche contenute in questo lavoro toccano le esperienze dolorose, i sogni infranti e le surreali visioni di Eugen. Da segnalare poi l’ottimo gusto per la melodia da parte della band, peraltro assai convincente nelle parti solistiche. Non ho tanto altro da aggiungere, se non di riesumare questo vecchio ma validissimo prodotto proveniente dalla penisola Scandinava e calarvi nella foresta incantata narrata dai Far Beyond, immergendovisi nelle sue oscure atmosfere e lasciandovi conquistare da questo mondo lontano. (Francesco Scarci)

(Source of Deluge Records - 2005)
Voto: 80

https://farbeyond.bandcamp.com/album/an-angels-requiem

mercoledì 5 agosto 2020

Rituals - Invicta

#PER CHI AMA: Death Metal, God Dethroned
Già recensiti su queste stesse pagine poco meno di un paio d'anni or sono, tornano gli australiani Rituals con un 7" e due nuove song, sempre sotto la guida della Sleeping Church Records e da un certo Dan Swano seduto alla consolle. 'Invicta' è un brevissimo esempio di come si possa ancora spaccare i culi con un sound che richiama At the Gates e God Dethroned. Evidentemente però, visti i nomi, l'offerta del terzetto di Melbourne non brilla certo di luce propria proponendo già dall'opener "Insect", un sound martellante (ottimamente prodotto e su questo non avevo dubbi) contrappuntato da discrete melodie e da un growling alquanto efferato. Una proposta che verosimilmente la si può ritrovare nel 90% delle release estreme, quindi in fatto di originalità siamo pari a 0. Un po' meglio (giusto per arrivare a 1, su una scala fino al 10), la seconda "Oracle", una traccia che mantiene la sua carica arrembante, fatta di un centrifugato di ritmiche sparate alla velocità della luce e voce da orco cattivo. Quello che salva la song è un buon assolo, ma poc'altro tiene a galla un lavoro di soli sei minuti che rischia di affondare in brevissimo tempo nell'oblio della mediocrità di un genere stantio e privo di mordente. Dopo un paio di brevissimi EP, credo sia giunto il momento di confrontarsi con qualcosa di più sostanzioso e corposo che ci dimostri realmente le qualità, forse ancora inespresse, di questa compagine australiana. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2020)
Voto: 58

https://ritualsau.bandcamp.com/

Anamnesi - Caurus

#PER CHI AMA: Death/Black
Torna Emanuele Prandoni con il suo progetto solista Anamnesi e il quinto album in carriera per la creatura dell'artista sardo. 'Caurus', il titolo del nuovo disco, si rifà (presumendo dalle liriche del cd) al vento di Nord Ovest chiamato dai romani Corus. Un inizio introdotto da una voce narrante, di scuola In Tormentata Quiete, racconta la storia di un naufrago come se si trattasse di un audiolibro, creando un certo pathos ed interesse nei confronti della storia narrata. Questa sorta di intro occupa quasi tre minuti che cedono poi il passo a "Caurus I" che presenta le coordinate stilistiche su cui si muove il factotum italico, che ricordo essere membro di una serie infinita di band, tra cui Simulacro, Progenie Terrestre Pura e prossimo ad esordire come vocalist nel nuovo disco dei Dawn of a Dark Age. Da un artista cosi poliedrico è lecito aspettarsi davvero parecchio e le attese non sono deluse visto che nel brano, cosi come in tutta la release, confluiscono suoni estremi (tipicamente black/death), frammiste a partiture più classicheggianti. Quello che amo di questo genere di progetti è poi l'utilizzo di testi in italiano, peraltro piuttosto comprensibili, nonostante l'utilizzo di un cantato che si avvicina ad un growl ma che in realtà non raggiunge mai vette di disumanità. Questo agevola la possibilità di seguire il filo conduttore che lega i vari brani della release sebbene si sottolinei come 'Caurus' non sia un vero e proprio concept album. Le song condividono banalmente le stesse radici figurative, rappresentate dagli elementi vento, acqua e terra, usate qui come metafore per descrivere la bellezza, i legami e i confini che la Sardegna può rappresentare. Approfondite ulteriormente le tematiche del disco che parlano ancora di amore, dolore, coraggio, oscurità e luce, il lavoro prosegue su ritmiche serratissime, sciorinando, uno dopo l'altro, pezzi che vedono come elemento comune un drumming imponente e delle chitarre assai taglienti, interrotte qua e là da cambi di tempo o break atmosferici, come accade nella già citata "Caurus I", dove il polistrumentista utilizza anche una sezione d'archi, oppure in "S'enna e S'arca" o nella successiva "Caurus II", forse i miei pezzi preferiti. A chiudere il disco ecco la seconda parte di "Memorie di un Naufrago', a narrare per quasi nove minuti, la burrasca che infuria sull'imbarcazione del naufrago che abbiamo incontrato in apertura e i pensieri di morte che lo colgono negli attimi in cui sta lottando per la vita. 'Caurus' alla fine è una release davvero devastante che rispetto al precedente 'La Proiezione del Fuoco' sembra aver perso quel quid folklorico a favore di una maggior monoliticità e violenza del suono. Sebbene abbia preferito la band nel precedente lavoro, mi sento comunque di affermare che 'Caurus' sia un disco compatto e di sicuro interesse, che merita certamente una chance d'ascolto. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

https://dusktone.bandcamp.com/album/caurus

Pan.Thy.Monium - Dawn of Dreams

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind/Experimental/Doom
Full length d'esordio per questo side project chiamato Pan.Thy.Monium, costituito da personaggi mitici della scena death svedese: Dan Swano e suo fratello Dag (Unicorn), Winter e Mourning degli Ophtalamia, Derelict degli Edge of Sanity si sono riuniti per creare qualcosa di unico, confondente e dotato di grande senso dello humor. Grind, death e sonorità doom si fondono in un cd estremamente vario e articolato: riff pesantissimi, accompagnati da un basso impazzito, da gorgoglii profondi, da trombe e saxofoni, il tutto condito da un eccellente gusto per la melodia e da richiami maideniani, fanno di 'Dawn of Dreams' un vero capolavoro. La traccia d’apertura, "Raagoonshinaah", è poi una folle cavalcata di 21 minuti di musica da gustare tutta di un fiato, che insieme alla schizoide "Amaaraah" valgono il costo di quest'incredibile album, una volta in vendita a cifre da capogiro su discogs.com. Viste le innumerevoli ristampe, è arrivato il momento di aggiungere 'Dawn of Dreams' alla vostra personale collezione. (Francesco Scarci)

martedì 4 agosto 2020

Disillusion - Between 7"

#PER CHI AMA: Prog Death
Dei Disillusion ricordo con gran piacere il loro debut album del 2004, il prog death del fantastico 'Back to Times of Splendor'. Dopo una serie di problematiche che hanno portato la band a fermarsi dal 2006 al 2019 (fatto salvo un singolo nel 2016), eccoli ritornare con una line-up quasi interamente rinnovata ed un nuovo disco, 'The Liberation', che ci consegna una band più vicina alle sonorità dei Katatonia. Da quell'album, uscito nell'autunno 2019, era rimasto fuori un pezzo, destinato ai soli usufruitori del crowfunding. Ecco quindi il significato di questo 'Between', un 7" che accontenti i fan dei nostri e faccia da antipasto alla nuova release della band sassone. Il dischetto, un due pezzi limitato a 500 copie, include appunto "Between" e "Time to Let Go", già contenuta nel vecchio 'The Liberation' e che di quel disco ne rappresenta uno dei punti di forza col sound dell'ensemble teutonico magnetico e suadente, una sorta di semi-ballad (almeno nella prima metà) che palesa tutti i punti di forza dei Disillusion targati 2019-2020. Groove, malinconia, melodia finiscono in queste note e ancor di più in quelle di "Between", un pezzo fortemente prog dove la scena se la prende interamente la splendida voce pulita del vocalist Andy Schmidt, accompagnato dalla gentilezza di un sound strappalacrime e dalla splendida stratificazione di chitarre. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto che il nuovo album dei tedeschi sia una bomba. Speriamo bene. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2020)
Voto: S.V.

https://disillusion-official.bandcamp.com/album/between

Losa - The Perfect Moment

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore
Era il 2005 quando la sempre prolifica Metal Blade faceva uscire il debut album dei texani a spaccarci orecchie e culi con l'album 'The Perfect Moment'. I cinque ragazzi di Dallas aggrediscono con nove tracce di un metalcore particolare, assai dinamico. Le fonti d’ispirazione sono molteplici ed eclettiche: Converge, Strapping Young Lad, Mastodon, As I Lay Dying e addirittura i Tool di 'Aenima', rappresentano le influenze udibili nei solchi di questo disco. Già la traccia d’apertura, “The Beginning”, ci mostra di che pasta sono fatti i Losa: tappeto ritmico bello tosto, passaggi melodici e nella seconda parte del brano, spazio alle atmosfere più psichedeliche, con il cantante che subisce una sorta di metamorfosi, passando da vocals “demoniache” (in pieno stile hardcore) a una voce molto più calda e suadente. Sostanzialmente la formula vincente dei Losa è proprio questa: investire l’ascoltatore con ritmiche sincopate, continui disturbanti e discordanti cambi di tempo e schizofreniche strutture chitarristiche, per poi ammaliarlo con momenti più soavi e introspettivi, tipici proprio dei Tool. Ottima la prova del batterista David Hall, preciso, tecnico e fantasioso, capace di trascinarci, con il suo incedere talvolta ossessivo, nella più profonda dimensione del suono. Complimenti ai Losa, bravi e audaci nell’osare in un genere più che mai affollato da band competitive. La scelta di mischiare l’aggressività del metalcore con momenti più meditativi e dark (ascoltate “Church of Pitted Vipers” per credere), le liriche riguardanti tematiche scottanti, quali l’abuso sui minori o l’eutanasia lasciavano ben promettere per il combo nord americano, peccato che da quel 2005 a oggi, se ne siano perse completamente e tracce. (Francesco Scarci)

(Metal Blade Records - 2005)
Voto: 73

https://www.metal-archives.com/bands/Losa/48722

lunedì 3 agosto 2020

The Bishop of Hexen - The Death Masquerade

#PER CHI AMA: Symph Black, Cradle of Filth, Carach Angren
Un silenzio durato otto lunghi anni, rotto solamente dall'incantesimo di un singolo rilasciato a inizio 2020. Eravamo rimasti infatti al 2012 quando uscì l'EP 'A Ceremony at the Edge of a Burning Page', che sembrava una sorta di canto del cigno per la band israeliana. Poi la svolta, una vera e propria sorpresa, i Bishop of Hexen firmano per la nostrana Dusktone Records ed è storia di oggi l'uscita di 'The Death Masquerade'. Otto nuovi pezzi, di cui il primo è in realtà una intro, che ci restituiscono una band che non ha perso lo smalto dei tempi migliori, continuando ad essere alfieri di un black sinfonico che si rifà ai classici del passato, penso a Cradle of Filth e Dimmu Borgir su tutti. E "A Witch King Reborn" è li a testimoniarlo, proprio con una fortissima influenza proveniente da Dani e soci, con quella capacità di fondere un black bombastico dal sound orchestrale, a tratti vampiresco e goticheggiante, ricco di melodie, vocals malignee (ma non mancano pure i vocalizzi puliti) e ottimi arrangiamenti. Mi fa piacere che il quartetto di Tel Aviv sia tornato, è un'altra arma a favore dello sterile black sinfonico che ha popolato la scena in questi anni. "Of Shuttering Harps & Shadow Hounds" ha un inizio in stile cinematografico come amano tanto sfoggiare i Dimmu Borgir, conferendo grande spazio a pompose orchestrazioni e grottesche atmosfere (stile Arcturus), senza rinunciare comunque a graffianti linee di chitarra, per un risultato alla fine di assoluto impatto, che anche a livello solistico non si sottrae dal proporre interessanti soluzioni. Anche la successiva "Death Masks" si muove sugli stessi paradigmi sonori non rinunciando all'utilizzo (talvolta oserei dire abuso) di tastiere che costruiscono l'architettura di un sound che poggia proprio su un black mid-tempo cinematico che non disdegna sporadiche accelerazioni o un drumming forsennato. Il disco prosegue su questi stessi binari, offrendo incipit che sembrano derivare da soundtrack di colossal cinematografici ("All Sins Lead to Glory" ne è un altro esempio lampante) o riportando suoni e voci che descrivono ancora una volta scene di film ("The Jester's Demise"). L'evoluzione è poi sistematica verso lidi musicali che evocano un altro grande nome della scena degli ultimi anni, i Carach Angren, anche se forse in 'The Death Masquerade' l'utilizzo delle keys è assai più corposo rispetto agli olandesi. A chiudere il cd, dopo la penultima e più aggressiva "A Thousand Shades of Slaughter", ecco i sinistri tocchi di "Sine Nomine", l'ultimo operistico atto di un graditissimo comeback discografico di una band che davamo ormai morta da anni. I Bishop of Hexen sono tornati, con loro si riapre la possibilità di dar più voce ad un genere relegato a vera e propria nicchia musicale. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2020)
Voto: 75

Loudblast - Planet Pandemonium

BACK IN TIME: 
#PER CHI AMA: Death Metal
I Loudblast rappresentano uno dei nomi storici della scena death metal europea: addirittura al 1988 risale l’esordio della band transalpina guidata da Stephane Buriez, un concentrato di thrash esplosivo. Ben presto le coordinate stilistiche della band si spostarono verso un death metal di matrice americana: tecnico, ricco di mid-tempos, stacchi veloci e gustose melodie. Era, se non erro, il 1993 quando venne pubblicato 'Sublime Dementia', il miglior lavoro, a mio avviso, della band. Poi tante nubi si addensarono sul combo francese, tanto da arrivare allo scioglimento. Nel 2004, come un fulmine a ciel sereno, ecco tornare i nostri con 'Planet Pandemonium', anche se quello qui recensito è in realtà la versione 2005, con una nuova cover artwork e due brani remixati in più. Sicuramente i Loudblast risultavano assai cambiati rispetto al passato: quelli che mi trovai di fronte erano dediti ad una death metal moderno e aggressivo, dove la componente melodica che caratterizzava gli album precedenti, era totalmente scomparsa. Peccato perchè il quartetto francese era abilissimo nel mischiare la rabbia del death a quelle melodie tipiche mittle-europee. Non che la band nella nuova veste avesse rilasciato un brutto album, però l'impressione fu quello di un lavoro anonimo, piattino, anche se suonato e prodotto bene. Il death/thrash dei Loudblast si ritrovava influenzato dal sound delle nuove leve, Blood Red Throne in testa: potente, arrogante ed esplosivo, però decisamente sottotono. La nota positiva si rivelò la conferma della voce di Stephane (perennemente in growl), sempre tra le migliori nel panorama death. A parte questo, null'altro da segnalare, un vero peccato. (Francesco Scarci)