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#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative/Dream Rock |
Ci hanno impiegato ben 10 anni a tornare sulle scene i britannici Amusement Parks on Fire, dopo il successo ottenuto con 'Road Eyes'. La band di Nottingham si era fatta notare da Geoff Barrow dei Portishead che ne aveva promosso il debut nel 2004. Poi il secondo disco l'anno successivo, il già citato 'Road Eyes' nel 2010 ed infine il lungo silenzio rotto prima dall'EP 'All the New Ends" nel 2018 e da 'An Archaea', il nuovo album. Un altro disco un po' border-line, diciamoci la verità, per quanto siamo abituati a pubblicare qui nel Pozzo, nonostante il medesimo venga etichettato come shoegaze, indie rock, ma forse l'etichetta più corretta sarebbe dream pop. Diciamo che per come si presenta l'opener "Old Salt", con quelle sue morbide chitarre e quei vocalizzi ancor più eterei, non è che mi abbia del tutto entusiasmato. Si certo, ci sono echi che riportano a Slowdive e My Bloody Valentine, le chitarre mostrano tratti di una certa rudezza, ma la voce di Michael Feerick non mi fa affatto impazzire. I nostri sembrano irrobustire la propria proposta con la successiva "No Fission", ma è solo una parvenza legata alle chitarre inizialmente più tirate, ma non appena la voce si palesa, si placa anche tutto il comparto ritmico, non offrendo mai uno spunto realmente vincente. "Diving Bell" è un intermezzo strumentale propedeutico a "Breakers", che si apre con una bella botta di batteria in stile Dredg ai tempi di 'Catch Without Arms', tema percussivo che si ripropone a più riprese in un brano sostellato da fraseggi post rock. "Aught Can Wait" esalta i vocalizzi onirici di Mr. Feerick e a quel punto mi convinco che i nostri si possano solo amare o odiare e se non si entra in sintonia con la voce del frontman, il rischio di odiarli si fa assai probabile. Tuttavia, rimango stupito qui da un comparto chitarristico fuori dagli schemi, disarmonico e imprevedibile che mi consente di guardare la band sotto una luce diversa e forse apprezzarli per quello che non ho sentito fino ad ora. Sembra quasi iniziare un nuovo disco per me da questo brano in poi che sembra scomodare anche un che dei Radiohead più sperimentali, in quella che comunque è per me la migliore canzone (forse anche la più chiassosa) del lotto. Un altro strumentale di raccordo all'insegna del noise pop, ed è tempo di "Boom Vang", la song da cui è stato estratto il video di promozione per il disco: bel riffing introduttivo, voce di Michael a prendersi la scena, e la sei corde a costruire psichedelici riff su tempi dispari, quasi a voler dimostrare che oltre al cuore ci sia anche una buona dose di tecnica in queste note. Certo, non tutte le tracce escono col buco e la malinconica "Atomised" alla fine rientra tra i punti deboli del disco. La band inglese prova a risollevare le sorti con la title track ma si tratta di un pezzo molto, ma molto pop, quasi un tributo ai Beatles, complice anche quel pianoforte di accompagnamento che in realtà non fa mai decollare il brano. Ultima traccia affidata alle note soffuse di "Blue Room" che chiude in modo un po' troppo scontato un disco che francamente mi sarei aspettato di ben altro spessore. Lo dicevo che gli Amusemet Parks on Fire si amano o si odiano, e mi sa che io rientro nella schiera dei secondi. (Francesco Scarci)
Voto: 63
Gli Amusement Parks On Fire (APOF) sono una vecchia conoscenza in ambito shoegaze e post rock. Prodotti per la prima volta nel 2005 da Geoff Barrow dei Portishead, sono attivi fin dal 2004 con una certa continuità fino al 2010, anno in cui la band inglese decide di prendersi una lunga pausa musicale. La band capitanata da Michael Feerick (voce e chitarre) ha forgiato la sua forza compositiva attingendo al sound di band come My Bloody Valentine, Swervedriver, The Boo Radleys ed ha continuato a farlo con ottimi sviluppi e risultati fino ai giorni nostri. Gli APOF sono da considerarsi un esempio di coerenza stilistica, poiché la loro formula, all'interno di un genere che oggi non è più in voga ed è considerato un culto per pochi estimatori dal mainstream, risulta ancora fresca e ispirata come ai fasti di un tempo. Il risveglio creativo del 2017 ha portato buoni frutti e probabilmente questo nuovo disco dal titolo 'An Archea' (titolo che dovrebbe aver a che fare con le molecole di energia in chimica) è forse il lavoro che racchiude il succo delle produzioni precedenti, ottime prestazioni soniche fatte di lisergiche distorsioni, solarizzate all'inverosimile, affascinante noise pop colorato, psichedelia e visioni rarefatte, un caleidoscopio di emozioni tenui, momenti di ipertensione e melodica, rumorosa allucinazione, combinate nella dovuta maniera ad un istinto post rock, e degnamente accompagnate, da un canto tenue dal chiaro sapore '90s, tra Ride, MBV e The Boo Radleys appunto. Le chitarre ammalianti rimangono in primo piano e se nei primi due brani d'apertura il ricordo cade implacabile sulla falsariga di Medicine, Swirlies e MBV, in "Diving Bell" le cose si arricchiscono di dettagli spostando il tiro su sonorità post rock/ambient più complesse e ricercate, verso territori luminosi che furono un tempo dei Sigur Ross, tra feedback e astratti sonori che indispettiscono e rendono teso anche il mood soffice di questo brano per accompagnare di seguito, l'ottima quarta traccia, "Breakers". Si prosegue con una veste pop e luminescente associata a degli assalti chitarristici rumorosi ed inaspettati per tagliare il candore splendente di "Aught Can Wait". Da sottolineare, con nota di merito, la cura e la ricerca sulle sonorità perfettamente in equilibrio dell'intero disco, promotrici attive del miglior sound possibile per questa band. "Gamma" è una fuga ambient sperimentale, con un velo sottile di "The Flamming Lips" al suo interno, di due minuti e mezzo che apre alla deflagrante "Boom Vang" (altro brano delizioso), che continua la proverbiale ascesa verso l'infinito degli APOF, divisa tra rumore, romanticismo e sospensione ipnotica, con una trama fatta per spiccare il volo verso i cieli più lontani. "Atomised" è un brano sospeso tra psichedelia e new wave con echi di certe trovate raffinate degli ultimi lavori dei The Church, mentre per la canzone che dona il titolo all'intero lavoro si aggiungono ritmi e coretti a più voci di stampo beatlesiano che distraggono un po' lo sguardo dalla distorsione lisergica tipica della allucinata aura compositiva della band di Nottingham. "Blue Room" conclude la carrellata di tracce dall'atmosfera morbida ed è forse assieme alla precedente, la più delicata del disco. Alla fine si rimane sorpresi dalla qualità musicale di quest'album, dal carisma dei suoi brani, dalla sua freschezza compositiva, dall'ipnotico splendore delle sue canzoni, un estratto di musica pop e psichedelia che non tutti apprezzeranno di questi tempi, ma che darà molte soddisfazioni ad ascoltatori appassionati ed attenti come il sottoscritto. (Bob Stoner)