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giovedì 5 dicembre 2024

Misha Chylkova – Dancing the Same Dance

#PER CHI AMA: Electro/Shoegaze/Folk
Dopo una manciata di singoli, esce finalmente il full length di Misha Chylkova, compositrice sofisticata dalla voce vellutata e intensa. Il disco si muove a ripetizione tra cantautorato dalle sonorità attuali e un'elettronica minimale e cinematica. Loop ripetitivi e circolari fanno da veri e propri tappeti volanti, visto che l'artista londinese di origine ceca, sa costruire brani sognanti e intimi, con quel pizzico di malinconia che non scade mai nel banale, mostrando un lato intimo che non si cosparge di miele ma che, al contrario, incita alla dilatazione delle pupille in una costante ricerca di qualcosa che va oltre il definito, fin dal primo ipnotico brano strumentale, "Coffee". Difficile accostare Misha ad altri artisti; la sua musica, per quanto minimale, è ricercata e certosina, dalla pulizia del suono al bilanciamento dei bassi, la produzione è infatti assai buona e gioca un ruolo importante per poter assaporare l'intero lavoro. Sonorità moderne per un incrocio di stili difficili da focalizzare, forse la Chelsea Wolfe di 'Apokalypsis' e 'Birth of Violence', in una veste meno dark e più dreampop, un folk cristallino dalla vena grigia, per ascoltatori sognanti che non rimarranno impassibili di fronte ad un brano brillante come "Sparrows", che per certi aspetti mi ha ricordato la magia del suono dei Cigarettes After Sex dell'omonimo album, ma anche le ipnotiche sperimentazioni di Anna Von Hausswolff, in chiave meno apocalittica. La bella voce della Chylkova ha venature molto velate e dolci, che ricordano molto le qualità vocali di Tracey Thorn degli Everything but the Girl, mostrando una versatile capacità d'interpretazione, con cui sposta facilmente l'ago della bilancia tra folk ed elettronica, senza cadute di stile, con piccole toccanti ed ingegnose variazioni vocali sparse tra i brani, che ne aumentano il valore e la qualità ad ogni ascolto. "Dead Plants" è un brano killer che si muove sullo stile ritmico di anthems del calibro di "Atmosphere" dei Joy Division, anche se il brano non è così oscuro ma la sua progressione mette in risalto il fatto che tra le note di 'Dancing the Same Dance', esista anche un legame sonoro con certa new wave che ha fatto giustamente la storia. Questo disco nel suo sembrare, al primo ascolto, fragile e dispersivo, nasconde invece un carattere inquieto e variegato, con punte di sperimentazione non impetuose ma peculiari, pacate e curate, tra sonorità vicine ad un moderno post rock ed un fine tocco di musica elettronica d'ambiente. Un album che non si assimila con un solo ascolto, sarà necessario ascoltarlo più volte per carpirne la giusta essenza, magari di notte guidando in solitudine. Un album comunque, che merita e che conquisterà la vostra attenzione. (Bob Stoner)

lunedì 25 novembre 2024

Maverick Persona – In the Name of

#PER CHI AMA: Post Rock/Experimental Sounds
In quante occasioni ci siamo persi nel vasto mondo della musica pop internazionale, cercando qualcosa di interessante da ascoltare, senza mai guardare ai confini nazionali? Ecco, con il nuovo album dei Maverick Persona, vi renderete conto che l'album della "porta accanto" esiste e può avere un respiro internazionale, risultare intrigante e destare la vostra curiosità senza nemmeno passare per il mainstream, preconfezionato e molto spesso vuoto di spessore e idee (vedi ultimi Blur o simili). Il progetto dei due musicisti italiani, Amerigo Verardi e Matteo "Deje" D'Astore, esprime tra le sue note proprio questo, la volontà di essere liberi di creare musica per come la si intende, senza confini o condizionamenti. Infatti, in una intervista uscita al tempo del loro primo album, 'What Tomorrow?', dichiaravano quanto segue: "Non abbiamo la possibilità di investire migliaia di euro in promozione, foto o videoclip; tanto meno siamo in grado di comprare i passaggi nelle radio o in tv, né ci interessa acquistare pacchetti di ascolti virtuali in playlist del cazzo. Adottiamo invece una forma promozionale tutta nostra che si misura in energia piuttosto che in economia: provare a liberare un flusso creativo tale da permetterci di registrare anche due album in un anno, possibilmente uno migliore dell’altro". La magia di questo nuovo disco si misura proprio in questa libertà, e se ci si associamo i testi, cantati in lingua inglese, volti alla critica di una società al limite tra ipocrisia e decadimento culturale e sociale, il gioco è fatto. Il duo cita i generi electronic, experimental, psychedelic, pop, rock, spoken word, new jazz, world music e gli ingredienti ci sono tutti, e si srotolano con un enorme piacere di ascolto. "Somewhere We Have Landed" e "Underword Conspiracy" sorprendono per la maturità del suono, musica ad elevato impatto psichedelico ed emotivo ad ampio respiro internazionale, un elettro-ambient sofisticato, ma non solo; l'impazzito jazz di "Sirshka" e i sussulti new/acid jazz di "Where Are You", confondono ed ampliano gli orizzonti musicali. L'insieme dei brani mi ricorda le teorie ricostruttive di Bugge Wesseltoft in 'New Conception of Jazz' del 1996, aggiornate con rianimata verve e suoni di nuova provenienza, ma l'album nasconde anche tante stanze segrete tra le sue note, sentori di acido trip hop per "Try to Get the Sun", mentre per "Dreaming Laurel Canyon", come dice tra le righe anche il titolo, dream pop e drone, si fondono per donarci una vera e propria sensazione di volo. 'In the Name of' è un disco di palpabile spessore artistico, carico di sorprese, adatto ad un pubblico moderno, che ama il sound variegato, curato e dalla trama intelligente. Un disco che allieterà i vostri ascolti, portandovi anche alla riflessione in più momenti, perché la rivoluzione nel mondo passa anche da suoni che sembrano innocui e pieni di luce ma che in realtà esprimono tanta ribellione. Consigliato l'ascolto! (Bob Stoner)

giovedì 14 novembre 2024

We Fog - Sequence

#PER CHI AMA: Post Rock/Math
Devo ammetterlo, questa band veronese ha molte qualità anche se, con questa nuova seconda uscita, a distanza di anni dal precedente 'Float' del 2017, non ha voluto mostrare evidenti segni di cambiamento stilistico, e l'istrionico attaccamento ai canoni del post rock e indie rock di fine anni '90/2000, li rende volutamente alfieri di un sound che un tempo fu venerato da molti. Oggi il trio si trova un po' fuori tempo massimo a livello commerciale e neanche la produzione di un guru di questi generi musicali, come la mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, dietro alla console di regia, poteva cambiarne la sorte, spingendoli verso lidi sonori più attuali, visto che fu proprio lui, anni or sono, a scrivere album indimenticabili, proprio nel segno del miglior post rock. Però di fatto, questo suo suonare un po' vintage, non ci distoglie dal giudicare 'Sequence', un buon album, suonato con passione e molto motivato, fruitore dei giusti suoni da usare per ottenere l'effetto sonoro desiderato e senza pensare al mercato discografico. Il disco ha molte divagazioni ai confini dell'indie/math rock e la mano di Cambuzat si sente eccome; il suo modo di intendere il sound globale e in particolare della batteria, è infatti inconfondibile, ma la bravura e l'esperienza dei We Fog è assodata da tempo e questa musica la sanno fare bene, molto bene. L'apertura del disco "A Father's Love", è potente e aggressiva, perfetta come biglietto da visita, al pari della trascinante "Meat Without Feet", mentre "No Land for Hope" (dove peraltro Cambuzat suona il synth), con i suoi cambi altalenanti, trasmette malinconia e una voglia di estraniarsi da tutto quello che ci circonda. Non male anche il video di "Kind Warrior". Qualche critica leggera a mio avviso, potrebbe cadere sugli effetti usati in alcune parti vocali, che a volte non rendono giustizia alle stesse, dando l'impressione, di essere poco considerate e tenute come in disparte. Capisco la scelta di emulare l'effetto tipico stile vecchia radio, tipico del post rock, ma a mio avviso, il cantato rischia di estraniarsi troppo dalla musica. Comunque, tralasciando le mie inutili esternazioni personali, direi che 'Sequence', è un buon disco, che si lascia ascoltare in maniera fluida, che mostra una band in ottima salute compositiva, e che dopo ripetuti ascolti, risulta anche più intrigante, tagliente e rumoroso, più di quanto lasci trasparire la rustica immagine paesana di copertina. Da ascoltare con cura e un pizzico di nostalgia per ricordare un'epoca sonora che a molti mancherà sicuramente. (Bob Stoner)

martedì 25 giugno 2024

Shy, Low - Babylonica

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Devo ammettere che l'anno scorso me li sono persi per strada e oggi devo rimediare alla mia mancanza, raccontandovi un paio di cosette dell'EP 'Babylonica' degli Shy, Low, che sembra essere in realtà un prolungamento del loro ultimo full length, 'Snake Behind the Sun'. Intanto, per chi non conoscesse la band statunitense, si prepari ad abbracciare un post rock strumentale che abbina una doppia anima, una sognante e una seconda più esplosiva, insomma un qualcosa si adatta perfettamente al mio spirito. E "The Salix", apertura del dischetto, mette subito in chiaro questa duplice personalità della band di Richmond, tra parti riflessive, sofisticate e sinuose, che evolvono in vampate di pura energia, in un'altalena emozionale coinvolgente per gli amanti di queste sonorità. Vi consiglio di far partire questo lavoro sul vostro stereo e di incamminarvi senza una destinazione precisa, purché sia immersi nella natura, lasciando da parte pensieri e paure. Quest'ultime forse emergeranno nelle oscure note della seconda e ambientale "33°24_06.0_N 84°14_48.7_W", più che altro quando vi renderete conto che seguendo quelle coordinate, vi ritroverete in un campo da football americano da qualche parte in Georgia (a quanto pare, alcuni pensano che queste coordinate portino a Parigi, curioso!). In chiusura, "Instinctual Estrangement" mostra il lato più muscoloso della band della Virginia, con dei chitarroni profondi all'insegna del post metal, un basso predominante che disegna paesaggi apocalittici e le ritmiche, che sembrano sassate lanciate contro le finestre. Insomma, un buon modo per fare conoscenza degli Shy, Low, qualora non li conosceste ancora, una band dalla personalità intrigante. (Francesco Scarci)
 
(Pelagic Records - 2023)
Voto: 70

https://shylowmusic.bandcamp.com/album/babylonica-ep 

venerdì 31 maggio 2024

L'Ombra - Soli

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock
Una band di Chambéry, un quartetto formato da basso, chitarra, batteria, e una cantante di origine italiana, canzoni cantate in entrambe le lingue madri delle due nazioni cugine. Una musica dal forte accento teatrale ma non predominante, un post rock d'ampio respiro nel suo apparire, ma usato come paravento per nascondere altre mete e contaminazioni, tra cui un fondo jazz, la canzone d'autore francese e il mondo alternativo già esplorato dagli italiani C.F.F. e il Nomade Venerabile, con accenni di Amaury Cambuzàt e i suoi Ulan Bator, riabilitato in maniera più romantica e decisamente con meno tensione. Il disco è interessante ma difficilmente farà presa su un pubblico abituato al rock più generico, sicuramente, al contrario, sarà parecchio apprezzato da chi è avvezzo a derive Neo prog. La canzone "Soli", divisa in due parti, dona il titolo all'opera, giocando sul doppio significato fonetico della parola in italiano. In "Tissu", appare persino uno sfogo alternative dalle tinte prog metal, un po' come lo intendevano i Porcupine Tree e molte atmosfere potrebbero addirittura accostarsi alla band britannica se non fosse per l'interpretazione vocale di Giulia Romanelli, che condiziona e direziona fortemente l'operato del gruppo in maniera poetica, e dove una morbida malinconia quotidiana, fatta di piccoli momenti di vita, è divisa tra il personaggio sognante del film Amelie, e l'astratto che vive nel brano "Milady" dei Matia Bazar. Un'idea di ricerca di libertà, che ben si associa a una visione francese, positiva e sognante, vitale dal punto di vista artistico, propositiva, lontana dal decadente bohèmien e così distante dagli attriti politici e sociali di oggi. Colpisce molto il lavoro ritmico del basso, anche se devo dire che tutti i brani sono ben gestiti da abili musicisti. In particolare "L'Hirondelle" mostra un aspetto molto più ampio e veritiero delle possibilità della band, risultando il più complesso e dall'impatto meno jazzato, guidato da una chitarra cristallina in una sorta di evoluzione tipica di band come gli Airbag, che lascia il fiato in bocca, con una melodia triste e un finale drammatico dallo stile cinematografico. "Amigdala" riporta un concetto più cabarettistico e qui Giulia mescola le due lingue con stile e scioltezza. "Plume" ha uno forma che ricorda certi brani della psichedelia pop anni '60, ovviamente rivista con gli occhi e lo stile di questa band, e devo ammettere che il cantato in francese ha un suo fascino particolare e quel tocco di magia in più, anche quando la Romanelli usa l'italiano, un timbro personalissimo che ricorda Rossana Casale, e il suo modo di esprimere il canto jazz. Ho apprezzato poi tanto "Nonni", il cui testo mi par di intendere che sia di qualche dialetto regionale del nord Italia, e mi si perdoni l'ignoranza se non riesco a decifrarne la zona geografica certa (immagino il piemontese), e questo rimarrà per sempre un mio vuoto, anche se noto una somiglianza di accento con alcune cose di Mara Redeghieri. In realtà, mi piace molto il loro stile teatrale, legato a una poetica che li eleva dal panorama del solito rock e anche se li accostassimo al mondo del progressive, suonano troppo diversi ed eterei, per rinchiuderli fra il perimetro di questo genere; forse il post rock potrebbe essere il posto in cui collocarli, se proprio volessimo classificarli, anche se questo posizionamento rimarrebbe comunque riduttivo. Un lavoro tuttavia complicato, che deve essere ascoltato più e più volte per essere apprezzato veramente, un disco che fa un balzo in avanti dal precedente omonimo album, per qualità e varietà compositiva, per la bellezza della sua copertina, come per la migliore produzione, un disco fatto per ascoltatori aperti alle mille sfaccettature del rock d'autore contaminato e in continuo movimento. (Bob Stoner)

martedì 28 novembre 2023

Turangalila - Lazarus Taxa

#PER CHI AMA: Psych/Post Metal
Li avevo recensiti un paio di anni fa con quel sorprendente 'Cargo Cult', che delineava una band in preda a psichedelici slanci math/post rock. Li ritrovo oggi con un nuovo lavoro, 'Lazarus Taxa', e una maturità artistica rinnovata che sottolinea l'eccellente stato di forma della band barese. Dieci nuove tracce quindi per assaporare ancora quell'irrequietezza di fondo che permea il sound del quartetto pugliese, che si materializza immediatamente con le soffuse ma granitiche melodie shoegaze dell'introduttiva "Wow! Signal", un pezzo che in un qualche modo, sembra evocare quel post metal che avevo descritto nell'ultima "Die Anderen" del precedente album. Un pezzo timido che lascerà ben presto il posto a "Neopsy" e a una ritmica potente ma forte di una linea melodica più dinamica e coinvolgente, che si muove comunque in un'alternanza tra sonorità più fluide e altre più oblique che giocano, non poco, a disorientare l'ascoltatore. Effetto quanto mai recepito durante il mio personale ascolto di questa song, cosi incisiva e ipnotica, e convincente soprattutto a livello vocale. Soffice invece l'approccio offerto in apertura della spettrale "Ugo", dove un senso onirico perdura fino a quando i nostri non decidono di aumentare il numero dei giri, in una strategia musicale che vede una successione ritmica tra atmosfere più pacate e altre più movimentate, dove peraltro a palesarsi, c'è anche una sezione d'archi. Suggestiva non c'è che dire, anche nella porzione più rabbiosa nel finale che ci introduce alla più nevrotica "P38", traccia che si muove tra ritmiche sincopate e vocals eteree, altro effetto che potrebbe essere confondente a chi approccia la band per la prima volta. Ma questo è ciò che vogliono trasmettere i Turangalila, ne sono certo: in "Antonio, Ragazzo Delfino" la band ci scuote con una ritmica di tooliana memoria, anche se ad un certo punto (verso il terzo minuto), il sound diviene più lisergico nelle sue deliranti e ossessive linee di chitarra. Ancora tanta sofficità nelle note sognanti della title track, almeno fino a metà brano, quanto farà capolino l'asprezza delle chitarre che per 50 secondi ringhiano come lupi inferociti, ma che successivamente ci accompagneranno in incorporee atmosfere ultra sensoriali. "Reverie" è una schiva (e stranita) strumentale traccia arpeggiata che tuttavia sembra cullarci in modo psicotico, prima di un'altra breve song, "A Pilot With No Eyes", che sembra lontanamente odorare di un che dei Neurosis più sognanti. Lo sludge più torbido e melmoso di questi ultimi si fa più evidente nelle note di "To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye", costituita da atmosfere dense e dilatate al tempo stesso, esplosioni convulsive e spasmodiche e rallentamenti angoscianti, che la innalzano quale brano più strutturato del lotto e anche mio preferito, e dove, i vocalizzi del frontman abbandonano la componente shoegaze per abbracciare quella più pulita e profonda del buon Scott Kelly. A chiudere ci pensa un ultimo buffetto sul viso, ossia le delicate note strumentali (con tanto di malinconico sax) di "Jisei" che fissa nuovi ed elevati standard artistici per i Turangalila. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2023)
Voto: 78

https://turangalila.bandcamp.com/album/lazarus-taxa

sabato 25 novembre 2023

Aether - S/t

#PER CHI AMA: Jazz/Post Rock
Non è stato certo cosi facile recensire l'album dei milanesi Aether. Nati solo sul finire del 2021, i quattro esperti musicisti sono riusciti ad attirare l'attenzione dell'Overdub Recordings che subito gli ha concesso l'opportunità, con questo album autointitolato, di mettersi in mostra attraverso una non scontata proposta musicale. Forti di pregresse esperienze in ambito jazz - la tesi di laurea del bassista su questo genere ne è la prova, ma vi basti anche ascoltare "Radiance" per carpire immediatamente le forti influenze del genere afro-americano - la band sciorina undici pezzi strumentali che poggiano la propria architettura proprio sul concetto di base di questo sound, ossia l'improvvisazione, la progressione armonica e l'elasticità ritmica proposta in maniera ineguale, scandita da fughe di basso e chitarra e rallentamenti più tenui e sofisticati ("Thin Air") che palesano ulteriori influenze musicale provenienti dal post rock e dal progressive, il tutto permeato di un tocco cinematico che sicuramente non ne guasta l'ascolto, anzi lo integra abilmente. E proprio quello delle colonne sonore potrebbe sembrare il mood offerto da un brano delicato e sensuale (al limite dell'ambient) come può essere "Grey Halo". Decisamente più jazzy la successiva "Pressure" (e più avanti sarà lo stesso anche con la bluesy "Moving Away"), che mette in mostra l'eccellente perizia esecutiva dei nostri, che tuttavia a me scalda meno il cuore perchè finisco quasi per viverla come un puro esercizio di stile. Più convincente, e per questo più vicina alle mie corde, "A Gasp of Wind" offre le luci del palcoscenico dapprima alla chitarra, per poi spostare i riflettori all'insieme degli strumenti che, pur muovendosi in ambienti oscuri, quasi tetri, ne escono forieri di speranza. Sonorità aliene emergono invece dalla più stralunata e dronica "A Yellow Tear in a Blue-Dyed Sky", in cui la scena sembra prendersela esclusivamente il basso di Mr. Grumelli. Ancora sofismi noise drone con "The Shores Of Solinas", mentre con "Crimson Fondant", il quartetto lombardo sembra abbracciare caleidoscopiche sonorità settantiane blues prog rock (il che stride peraltro con la copertina monocromatica del disco), senza tralasciare comunque quella matrice di fondo jazz su cui poggia l'intero disco. Un viaggio sonoro che si chiude con la musicalità catartica di "This Bubble I’m Floating In": questa sigilla un lavoro ambizioso, complesso e affascinante, che necessita tuttavia di una grande predisposizione di testa e animo per poterla ascoltare ma soprattutto capire. Se voi però vi sentirete pronti ad affrontarla, allora gli Aether potranno fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 75

https://aether5.bandcamp.com/album/aether

sabato 18 novembre 2023

S.C.I.O. – Discorsi Distorti

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock
Quasi un'ora di deliri sonori in compagnia del basso elettrico di Stefano Scioni (alias S.C.I.O.), uno che ai tempi della sua militanza negli UDE, ha aperto per i mitici Scisma. Questo è il suo debut ufficiale per la Overdub Recordings, intitolato 'Discorsi Distorti'. Una sorta di presentazione del disco viene fatta dal polistrumentista emiliano con l'introduttiva "Primo Cielo", che spiega l'esperienza dell'ascesa al monte Cusna, la visione delle stelle, l'insegnamento del cielo e dello spazio sulla necessità di svanire in un buco nero (una metafora che credo debba valere come insegnamento all'umanità), un eccessivo uso delle parole che porta solo a discorsi distorti. Ecco un sunto, alquanto destrutturato, del razionale/idee/pensieri che si celano dietro a questo monolitico disco di ben 15 tracce che si muovono tra l'alternative rock e lo stoner, tutto (o quasi) rigorosamente in modalità strumentale. Si inizia dalle cupe atmosfere di "Blame the Colours", tra suggestioni in chiaroscuro e quelle che sembrano chitarre stratificate (è in realtà un basso) al limite dello stoner. È poi il turno della brevissima interferenza elettronica "Elettronoia", che ci introduce alle spagnole spoken words di "Respiri Verso l'Aria", un pezzo più intimista che per questo ammicca al post rock, quello più notturno, freddo, quasi distaccato ma che con quelle sue tormentate linee di basso, ha invece un effetto opposto, in grado quindi di scaldarci quell'anima impassibile che giace in mezzo al nostro petto. Inquietanti voci in sottofondo aprono e ci accompagnano per oltre un minuto in "Tra le tue Parole", per poi lasciare spazio a un brillante, melodico ma stralunato pezzo che dovete assolutamente ascoltare. In "Pseudoumani", fa finalmente la sua comparsa la voce del frontman, sorretta da pulsanti linee di basso e da un'atmosfera darkeggiante che per due minuti e mezzo incutono una sorta di timore reverenziale; poi spazio ad una splendida cavalcata con batteria, basso e synth a guidarci in questo valzer sonoro. Un altro simbolico bridge ambientale ("Nostalgia e DNA") per cui vale la pena quasi esclusivamente soffermarci a riflettere sul titolo ed eccoci arrivati alle super distorsioni di basso di "About Brunale", song dal piglio noise (nella prima parte), più alternative nella sua progressione verso la coda del brano, e dove ancora a mettersi in mostra sono senza ombra di dubbio le melodie architettate dal polistrumentista italico. "Il Sole è Solo Mio" potrebbe quasi essere una dichiarazione egocentrica messa in note da Luigi XIV, mentre "Sasha Corri" lascerà un sapore jazzy ai vostri palati. Il disco si sposta verso le sperimentazioni orientaleggianti della brumosa e claustrofobica "Riferimenti in Circolo", mentre il basso introduttivo di "Le Prigioni di Jaco" ricordano un che dei Tool più psichedelici e la sua progressione include altre influenze della band californiana, in quello che forse è il brano più movimentato (insieme alla splendida e caleidoscopica conclusione affidata a "Dorotea") e anche i miei preferiti del disco. Gli sperimentalismi proseguono nella più angosciante "Conquiste" o nelle parole sconnesse di "La Luce di Rol" che fanno da introduzione ad un pezzo parecchio introspettivo. Un lungo viaggio in grado di estrapolare attraverso la musica, i pensieri angoscianti di Stefano su una società esclusivamente destinata all'estinzione. (Francesco Scarci)

venerdì 10 novembre 2023

Treebeard - Nostalgia

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Ci impiegano più di cinque minuti ad ingranare la marcia gli australiani Treebeard per venire fuori dall'opening track di questo 'Nostalgia', lavoro uscito due anni fa e riproposto dalla Bird's Robe Records su cd in questi giorni. Quando lo fanno però, il quartetto di Melbourne colpisce per i suoi suoni accattivanti ed attrattivi, in grado di miscelare post rock e sonorità progressive. Che la band sia pigra ad emergere dai propri trip cosmici è confermato anche dalla seconda e lunga "The Ratcatcher", che piano piano ci racconta qualcosa di più di questa band di cui ho scoperto solo oggi essere nella pila dei cd da recensire. Le sonorità molto intimistiche sono quelle che hanno il sopravvento nell'economia del disco con il post rock e tutti i suoi orpelli (suoni riverberati, tremolo picking e atmosfere soffuse) a farla da padrone e a conquistare nemmeno troppo lentamente, la mia fiducia. Si perchè i Treebeard mi affascinano per le loro sonorità che evocano altri artisti dell'etichetta di Sydney (penso ai We Lost the Sea), ma trovo abbiano anche qualche punto in comune con gli Anathema più crepuscolari e malinconici. E non posso che apprezzare, io che sono fan della band inglese, ma che seguo da vicino anche le attività della label australiana. Se poi aggiungete il fatto che finalmente una band post rock si proponga in una veste non strumentale, potrete capire il mio piacere nell'assaporare le note, a tratti pesanti, di questi gentiluomini. Sempre piuttosto criptico è l'inizio anche in "Pollen", quasi fosse un marchio di fabbrica dei nostri, con atmosfere shoegaze che si combineranno successivamente con sonorità più oniriche e liquide, prima dell'esplosione delle chitarre che ristabiliscono una sorta di status quo emozionale ove poggiare le voci stralunate del frontman. Mentre la titletrack si configura come un ponte con la successiva "8x0", quest'ultima mostra influssi cosmici nei suoi contenuti, da quel basso apocalittico che si prende la scena a inizio brano, al rifferama di estrazione quasi thrash che da li in poi fluisce nel corso del pezzo, che forse va a confermarsi come il più pesante del lotto, con il post metal che sembra venarsi di sfumature post hardcore in una progressione sonora strumentale che ci condurrà a "Terra". Qui, sembra coglierci un barlume di speranza, come se avessimo scoperto un nuovo mondo grazie alle tastiere in apertura, in realtà stiamo solo scoprendo quanto bello sarebbe il nostro pianeta se non lo stessimo distruggendo con le nostre mani insanguinate da guerre, inquinamento, odio e quant'altro. Un pezzo quasi ambient che sembra sottolineare malinconicamente quanto tutto stia andando a rotoli senza che fondamentalmente non ce ne importi nulla. Splendide qui le melodie delle chitarre, che sanciscono la cinematicità di questo ensemble. "Dear Magdalena" e "Nostalgia II" chiudono il disco, la prima con voci e atmosfere di "radioheadiana" memoria, almeno fino al quarto minuto quando i nostri sterzano verso sonorità più roboanti che ci accompagneranno al finale di "Nostalgia II", dove spoken words aprono un brano intenso e drammatico che non può far altro che imporci mille riflessioni di qualunque tipo. Nel frattempo, non posso far altro che consigliarvi l'ascolto del qui presente. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 75

https://treebeard2.bandcamp.com/album/nostalgia

giovedì 12 ottobre 2023

Collapse Under the Empire - Recurring

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
Eravamo in pieno periodo Covid quando ci siamo soffermati a recensire 'Everything We Will Leave Beyond Us', ottava fatica dei teutonici Collapse Under the Empire (CUTE). Chissà se finalmente quel tutto, menzionato nel titolo ce lo siamo finalmente lasciato alle spalle? Nel mentre ognuno di noi sta pensando alla propria risposta, ecco arrivarci fra le mani il nuovo 'Recurring' e nove nuove tracce che portano i nostri a proseguire nella loro esplorazione musicale di un post rock sofisticato, svolazzante, onirico, data la sua capacità di muoversi su molteplici binari, cosi come già materializzato nell'opener "Genesis", che dal classico post rock strumentale si muove sinuoso in territori più progressive o synthpop, grazie a quelle importanti porzioni orchestrali che tendono ad occupare tutto il suono dei nostri e a palesare i punti di forza e debolezza di un disco che vuole narrare il perpetuo ciclo di vita e morte del nostro pianeta, tema tra i più ricorrenti nelle più recenti release. E cosi, a narrare questa costante ripetizione di distruzione, purificazione, pace e redenzione, i nostri giocano con i molteplici umori, narrazioni strumentali, chiariscuri, saliscendi emozionali che si manifesteranno via via anche nelle successive song, dall'umorale ed estremamente atmosferica (ma soprattutto malinconica) "Revelation", che la indicherò alla fine come uno dei miei pezzi preferiti, alla più ipnotica e cerebrale "Mercy", grazie alle sue doti cinematiche e all'espandersi di delicate atmosfere shoegaze da metà brano in poi. "Absolution" sembra addirittura enfatizzarne i toni attraverso quell'uso (abuso?) di synth che si affiancano alle chitarre riverberate e che sembrano donare al disco evocativi tratti cosmici che mi hanno portato a pensare a band quali God is an Astronaut o Exxasens. Il duo di Amburgo si prende un momento di pausa in "Requiem", una sorta di bridge ambient evocante le vibrazioni cosmiche del film 'Gravity', che ci introduce a "Forgiveness", il più post rock dei brani inclusi in 'Recurring', ma anche quello più dinamico, con quel suo rincorrersi delle chitarre e la quasi soverchiante stratificazione di piano/tastiere in anfratti nebulosi di un cosmo oscuro e gelido. Ma le chitarre tornano fragorose nel finale di un brano turbinoso e affascinante. "Salvation" è invece più spinta verso territori sintetici, con le chitarre qui relegate in secondo piano che tuttavia non perdono la loro forza motrice. A seguire, "Apocalypse" si muove su analoghe linee elettroniche che nella loro iniziale ridondanza, non incontrano appieno il mio gusto, e in realtà, questo sarà anche il brano che ho trovato meno convincente nella proposta dei CUTE, sebbene un finale imponente, figlio di un'ariosa emozionalità cinematica, e all'utilizzo di delicati archi in sottofondo. La conclusiva "Creation" si muove su suadenti note di sintetizzatore a cui faranno da contraltare in più di un'occasione, esaltanti partiture di chitarra che esaltano finalmente il risultato complessivo, per il gradito ritorno di una band davvero competente nel proprio genere. (Francesco Scarci)

domenica 17 settembre 2023

Palmer Generator - Ventre

#PER CHI AMA: Instrumental Psych/Math Rock
È il terzo lavoro dei Palmer Generator che mi appresto a recensire. Dopo lo split con i The Great Saunities e l'album 'Natura', eccomi qui a parlarvi oggi di 'Ventre', quinta fatica della famiglia PG (vi ricordo infatti che i membri della band marchigiana sono padre, figlio e zio). Ancora quattro i pezzi che compongono questo disco (come fu per 'Natura') per una durata complessiva di 39 minuti, quindi pronti per delle mezze maratone musicali? È un inizio comunque lento ma progressivo quello del trio di Jesi, con le melodie di "Ventre I", un pezzo di quattro minuti e pochi spiccioli, di sonorità ipnotico-strumentali, che ammiccano a destra e a manca, a tutte quelle che rappresentano palesemente le influenze musicali dei nostri, dal psych-math rock, al noise e il post rock. Non manca quindi niente per chi è avezzo a questo genere di suoni, che in questo caso, si confermano comunque tortuosi e un po' ostici da digerire nelle loro oscure dilatazioni spazio-temporali. Se il primo brano ha una durata "umana", già con "Ventre II" ci dobbiamo preparare a 10 minuti di sonorità più psichedeliche: l'apertura è affidata ad un semplice ma disturbante giro di chitarra che per oltre 120 secondi riesce nell'intento di intorpidire le nostre fragili menti. Poi parte un riffing circolare, dal mood un po' introverso, che continuerà un'opera di rincoglionimento totale per dei cervelli già comunque in panne. Lo dicevo anche ai tempi di 'Natura' che i suoi suoni ridondanti ci trascinavano in un vortice sonico da cui era difficile uscirne integri mentalmente, non posso far altro che confermarlo anche in questo nuovo disco, che trova comunque modo di stemperare i suoi loop infernali con porzioni sonore più oniriche, come quelle che aprono "Ventre III", una montagna da 15 minuti da scalare, riempita in realtà nei suoi primi cinque giri di orologio, da una blandissima spizzata strumentale che va tuttavia lentamente crescendo, irrobustendosi, e al contempo dilatandosi e diluendosi in strali psichedelico-siderali (mi sembra addirittura di udire una sorta di vento galattico dal decimo minuto in poi) che si dissolveranno in suoni dronico/ambientali nei suoi ultimi tre minuti. In chiusura, i nove minuti di "Ventre IV" che gioca su una robusta altalena sonica di "primusiana" memoria, tra giochi in chiaroscuro di basso, chitarra e batteria che approderanno ad un flebile e compassato atmosferico finale. Bella conferma, senza ombra di dubbio. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fuctory - 2023)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/album/ventre 

lunedì 5 giugno 2023

THËM - Frames

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Belli ruvidi e ignoranti, con alle spalle liriche interessanti che si esplicano attraverso le nove tracce contenute in questo 'Frames', delle cornici che sembrano raccontare le perdite, i disagi personali, i fallimenti, le analisi dei percorsi di vita di questa nuova realtà italica che risponde al nome di THËM, band in giro solamente dall'inverno 2022 e che arriva alla genesi del debut album grazie alla Overdub Recordings. Poi spazio alla musica, a quel basso/batteria che apre in modo dirompente "Blinded", alle urla incisive del frontman, ad una musicalità che rivela una certa malinconia di fondo, un post rock che si unisce in modo accattivante al post hardcore. Bomba. Mi hanno già conquistato i tre musicisti nostrani, chitarra/voce, basso e batteria, un'essenzialità disarmante per quanto incisiva in quel flusso sonoro che prosegue nell'irrequietudine di "Smart Pressure" o nella tensione sospesa di "Restless", un pezzo che sembra aggiungere anche una componente post punk alla proposta dei THËM, una cavalcata inquietante in grado di arrecare un enorme sensazione d'ansia che si interrompe improvvisamente, cedendo il passo alla più meditabonda "Purgatory", più incellofanata nella sua esplosività, ma non per questo meno incisiva. "Fragments" è una breve song che poggia su una ritmica serrata, caustica, essenziale, uno schiaffeggiare secco giusto per la durata di un paio di minuti. A placare gli animi arriva "Sober", una traccia di pink floydiana memoria nelle partiture più atmosferiche ma anche per un cantato che potrebbe evocare quello del vecchio e immortale Roger Waters, ultimamente sempre più sulle prime pagine dei giornali internazionali. E allora, in una sorta di tributo alla band inglese, la traccia si muove con fare magnetico in meandri oscuri che potrebbero essere assimilabili a quelli della psiche umana. Più garage punk invece la successiva "Ghost of Myself", non proprio la mia canzone preferita dell'album, ma qualche difetto era pure lecito trovarlo a una band all'esordio. Ancora pulsazioni inquiete emergono dall'iniziale tessuto sonoro di "Strong" che ci delizia con un sound cupo e minaccioso, espressione di un pessimismo cosmico che sembra dilagare nei solchi di 'Frames'. In chiusura, la riflessività di "Time" sembra sancire quella specie di rassegnazione splenica che permea l'album a quanto sbagliato in passato ma con un barlume di speranza volto a fare meglio in un futuro che rimane comunque pieno di incertezza. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 73

https://thembnd.bandcamp.com/album/frames

venerdì 5 maggio 2023

Mushroom Giant - In a Forest

#PER CHI AMA: Post Rock
Li avevo recensiti due anni fa in occasione del decennale dell'etichetta Bird's Robe Records, con l'album 'Painted Mantra', uscito originariamente nel 2014. Li ritrovo oggi con un album nuovo di zecca, 'In a Forest', ed un sound che non si discosta poi di molto da quella che è l'architettura post rock di fondo degli australiani Mushroom Giant. Il "Fungo Gigante" ci offre sette nuove tracce, che si rivelano introspettive nel loro incedere sin dall'iniziale "Owls", che richiama inequivocabilmente in causa i due gufi ritratti in copertina. I suoni dicevo, sono alquanto introversi, ma ci stanno se l'intento è quello di narrare di una foresta e dei suoi misteriosi abitanti. La band di Melbourne è sapiente nel miscelare post rock con una buona dose di dark, progressive e suoni cinematici vari, per quello che è il marchio di fabbrica del quartetto australiano. Poi, chi li conosce, sa perfettamente cosa aspettarsi dall'ascolto di questo nuovo capitolo: le atmosfere spettrali che si respirano nella seconda metà della prima traccia sono un esempio delle caratteristiche dei nostri ma non solo. Io li ricordo anche come abili costruttori di break di pink floydiana memoria e a tal proposito mi viene in soccorso la settantiana e nebulosa "And the Earthly Remains". "Vestige" è caratterizzata da una stratificazione di chitarre che esibisce la tecnica-compositiva dell'ensemble, che necessiterebbe tuttavia di un bravo vocalist per dare una narrazione a quello che la band allestisce in sede musicale, e per tirarci fuori dalle sabbie mobili di un genere, a volte, troppo spesso ingessato nei suoi rigidi paradigmi. "Earthrise", song da cui è stato peraltro estratto un video, parte lenta e malinconica, ma sarà in grado di aumentare i giri del motore grazie a una splendida chitarra solista che si sovrappone a una ritmica più ordinaria. "Aire River Rapids" sembra prendere le distanze dal post rock dei primi pezzi, risultando decisamente la più pesante delle tracce, complice un robustissimo riff e un drumming bello potente. Ah, una voce un po' urlata, come avrebbe fatto comodo nelle insenature di questo pezzo, e forse ancor di più nella successiva e sinistra "Mountain Ash" che sfodera un grande lavoro sia alla chitarra solista, e ancor di più a quella ritmica, che improvvisamente s'interrompe per cedere il passo a "And the Earthly Remains". "The Green Expanse" propone il secondo video di questo lavoro: un'apertura dai tratti ambient e poi i classici suoni dilatati del post rock, per una chiusura che ha il solo difetto di risultare un po' troppo scontata nei suoi contenuti, nonostante l'eccelso lavoro svolto a livello di suoni. Il fatto è che, attenendosi troppo agli standard del genere (e penso anche al tremolo picking proposto qui), il rischio è quello di sapere già cosa ci sarà ad aspettarci nell'evoluzione di un brano, e per questo opterei, anche a piccolissime dosi, all'inserimento di una voce o anche di un parlato, che dia maggiore imprevedibilità ad un disco che ha il solo rischio, di risuonarvi nelle orecchie come già sentito. E sarebbe un peccato. (Francesco Scarci)

lunedì 1 maggio 2023

Atsuko Chiba - Water, It Feels Like It's Growing

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Con un moniker fantastico, mi avvicino con una certa curiosità agli Atsuko Chiba, band originaria del Canada il cui nome sembra derivare dal protagonista di un anime giapponese. ‘Water, It Feels Like It's Growing’ è il loro terzo lavoro che ci delizia con un post rock ritualistico, sperimentale e riflessivo. Almeno questo è quanto testimoniato nella splendida traccia d’apertura, “Sunbath”, che si muove tra atmosfere ipnotiche guidate da un eccellente lavoro di basso e chitarre e dalla gentile ugola del frontman. Echi di Tool, Lingua e A Perfect Circle si coniugano in questo primo splendido pezzo che ci accompagna a “So Much For”, song alquanto imprevedibile per quel che concerne una musicalità in bilico tra prog rock, alternative, math e suoni sperimentali che sembrano scomodare addirittura i The Mars Volta, mentre la voce sembra aver perso qui quella morbidezza che avevo apprezzato nell’opener, per una versione più in linea con la band australiana e anche con Mike Patton. La traccia, per quanto dotata di una certa dose di originalità, devo ammettere non mi faccia del tutto impazzire. Molto meglio la successiva “Shook (I’m Often)”, più dotati di ritmi compassati e di una buona base melodica su cui poggia la meritevole voce del cantante canadese che si conferma ad altissimi livelli anche nella successiva “Seeds”, meravigliosa, con quei suoi ritmi pulsanti e synth che donano al pezzo un certo spessore, complice peraltro l’utilizzo di violino e violoncello nel break centrale del brano. Quando gli Atsuko Chiba provano a uscire dagli schemi per voler strafare, perdono un po’ della loro magia, leggasi la prova di “Link”, un pezzo che risente di una certa vena post punk sperimentale che tuttavia non riesce a sfondare, complice ancora una volta un utilizzo più alternativo e meno suadente del cantato che sembra snaturare il sound dei nostri. In chiusura, ecco la title track, un connubio tra psych blues post rock dalla verve pink floydiana che ci lascia con uno splendido assolo che sottolinea, ancora una volta, la classe e l’eleganza che permea questi straordinari musicisti. (Francesco Scarci)

(Mothland – 2023)
Voto: 75
 

sabato 29 aprile 2023

Les Dunes - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Come evolvono a volte le cose. La Norvegia, patria natia del black metal, ora è fucina infinita di talenti che si muovono in un sottobosco brulicante di eleganti sonorità post, prog e symph rock che ci hanno permesso ultimamente di perlustrare in lungo e in largo il territorio scandinavo. Oggi mi fermo a Haugesund, piccolo paesino nella contea di Rogaland, luogo da cui provengono questi Les Dunes. Anche qui, che cambiamento: una volta s’incensava la lingua degli antenati vichinghi, oggi si utilizza addirittura la lingua di altre nazioni. I Les Dunes non sono poi gli ultimi arrivati, visto che tra le proprie fila, inglobano membri di The Low Frequency in Stereo, Lumen Drones, Helldorado, Undergrunnen e Action & Tension & Space, che in questo album autointitolato, sciorinano otto pezzi strumentali condensanti post rock dai tratti dilatati, malinconici e meditabondi, che potrebbero evocare le sonorità intimiste di act quali Explosions in the Sky o addirittura Sigur Rós, laddove il trio si lancia in partiture più ambient (“Keisarholi”). Un approccio cosi tranquillo, che sfiora lo slowcore degli anni ’90, fatto di chitarre in tremolo picking, melodie soffuse (“Spectral Lanes”) e suoni minimalisti, ha però pregi e tanti difetti: nei primi collocherei una sana voglia di abbandonarsi ad un mondo sognante, tra i difetti, il fatto che dopo sole quattro canzoni non ne posso davvero più di andar oltre, inducendomi a slittare la finalizzazione della mia recensione il giorno seguente. L’effetto però si è rivelato il medesimo, con quello stesso desiderio di skippare al brano successivo e poi ancora avanti, perché dopo un po’, l’ascolto diventa dilaniante, noioso (“Zosima”), nonostante la band sia comunque composta da ottimi musicisti. Il fatto che rimane è che dopo un po’ non se ne può più, sebbene qualche buon spunto sia anche riscontrabile nel disco, ma forse qui più che altrove, l’assenza di un vocalist si fa sentire più che mai. In definitiva, ‘Les Dunes’ è un disco che mi sento di consigliare a chi non può proprio fare a meno della dose quotidiana di post rock strumentale, tutti gli altri si astengano se non vogliono ritrovarsi con un cappio al collo dopo pochi minuti. (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte – 2023)
Voto: 60

https://lesdunes.bandcamp.com/album/les-dunes

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

lunedì 3 aprile 2023

Fargo - Geli

#PER CHI AMA: Post Metal, Russian Circle
Quattro lunghissime tracce strumentali per i teutonici Fargo e il loro post-rock/metal sognante, reso ancor più suggestivo dall'idea di affidare i titoli dei brani ai nomi di alcun città tedesche (esperimento già fatto in occasione dei primi due EP). E allora, ecco che il nostro tour di 'Geli' (nickname dato a Angelika Zwarg, madre di due cari amici della band, che fu una insegnante d'arte e pittrice che morì nel 2018 dopo una lunga malattia) parte da "Dresden", affascinante città della Sassonia che sorge sulle sponde del fiume Elba, e da qui si snoda lungo i suoi nove minuti, attraverso sonorità dapprima delicate, e poi decisamente più dirompenti, laddove il rifferama si fa più pesante e contestualmente, si palesano, come unica eccezione, anche le strazianti vocals del frontman. Poi, a braccetto bello veder andare chitarra, basso e batteria, con ampie porzioni strumentali ad accompagnarci in quei landscape sonico-atmosferici, sorretti da un ispirato tremolo picking. La seconda tappa fa sosta in Baviera a "Regensburg", sul bel Danubio blu. Sarà la componente poetica legata a quella del fiume più famoso d'Europa a renderla anche più morbida? Una morbidezza che durerà comunque giusto il tempo di un paio di giri di orologio per lasciare poi spazio ancora ad esplosioni chitarristiche, interrotte comunque da parti più atmosferiche, e nel finale decisamente malinconiche. Peccato solo che qui non si palesi quella lacerante voce che avevamo potuto apprezzare nell'opener, avrebbe fatto giusto comodo per spezzare la monoliticità del riff portante, sorretto peraltro da un drumming che sembra scandire il tempo come le lancette di un orologio. Terzo stop nella capitale, "Berlin", la traccia più lunga con i suoi quasi 10 minuti. Un incipit che mi ha evocato la colonna sonora di "Inception", la splendida "Time" di Hans Zimmer, una scalata lenta e sensuale che per oltre tre minuti sembra quasi rassicurarci con le sue melodie, per poi ringhiare grazie all'ardore delle sue chitarre. Ma il nostro collettivo, che si avvale peraltro anche di un paio di guest star, è abile nell'alternanza di tempi, grazie e soprattutto alla prova magistrale del batterista dietro alle pelli. La band ci porterà con ottime idee fino all'ultima sosta del loro tour, a "Pforzheim", città che in tutta franchezza non conoscevo, ma che nelle sue note racchiude a mio avviso il meglio di questo disco, essendo cosi ricca di pathos, forza e intensità, pur includendo un sample di due minuti di un discorso di Winston Churchill contro le ideologie omicide, il medesimo però che abbiamo già sentito nel 1984 in "Aces High" degli Iron Maiden. Suggestivo ma forse un po' troppo abusato. Nonostante qualche piccola sbavatura comunque, 'Geli' rappresenta un ottimo debutto su lunga distanza per i nostri, sebbene io proverei a puntare maggiormente sulla presenza di un vocalist come parte integrante del collettivo. (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte - 2023)
Voto: 74
 

venerdì 17 marzo 2023

Jeffk - TAR

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Tornano le uscite della Golden Antenna Records e l'etichetta tedesca ci propone oggi la seconda release dei conterranei Jeffk che, a distanza di cinque anni dal precedente 'Inadequate Shelter', si riaffacciano con questo 'TAR'. La band, originaria di Lipsia, propone un post rock strumentale che sembra strizzare l'occhiolino ai God is an Astronaut con al seguito tutta la serie di clichè tipici del genere. Si parte da "Fingers" e dalle sue melodie dilatate, quasi intimistiche, spezzate però qua e là da frangenti metal decisamente più ruvidi che sembrano allontanare il terzetto dal post rock. Non so voi, ma verso il sesto minuto del brano ci ho sentito poi un che della melodia della Marcia Imperiale che accompagnava la comparsa de La Morte Nera in 'Star Wars'. Chiamatela suggestione o quello che volete, ma l'atmosfera da li in poi si farà più cupa, almeno fino a quando nel mio stereo partirà "Arcades", song che si muove con un ipnotico giro di chitarre in tremolo picking, accompagnato da una fantasiosa batteria, che evolverà ancora una volta nel finale verso tonalità più fosche e apocalittiche, quasi fosse il marchio di fabbrica dei Jeffk. Con "Ratio" si parte invece decisamente più delicati grazie ad una linea di basso che guida l'incedere di un brano che non mostra in realtà significativi sussulti, se non in una parte centrale più robusta e in una chiusura ancora spettrale. Con "Idle Eyes" ci approcciamo al singolo per cui i nostri hanno girato anche un delirante video. L'inizio è lento e straniante, per poi pigiare successivamente sull'acceleratore grazie ad un sound decisamente più energico, anche se brevi break atmosferici provano a minimizzarne l'irruenza. Una voce urlata qui avrebbe fatto di certo la sua porca figura, soprattutto per donare un po' più di variazioni al tema, laddove il trio teutonico persegue una certa ridondanza ritmica ed effettistica. Tuttavia, devo ammettere che anche questo brano, cosi come tutto l'album, si rivelerà convincente. Anche le residue due tracce, "Lake Bled" e "Swarm", regalano interessanti sprazzi di musica raffinata, peraltro con una ricerca tecnica di un certo livello, leggasi i numeri da circo con cui si destreggia il batterista dietro alle pelli, per quella che sembra essere una continua ricerca di cambi di tempo che possano intrattenere nel migliore dei modi l'ascoltatore. Anche qui non ci troviamo certo di fronte ad una proposta di semplice assimilazione, bisogna infatti entrare in profondità nel mood di questi musicisti, per capirne le intenzioni e assaporarne ogni singola sfumatura. La chiusura affidata a "Swarm" sublima infatti la ruvida emozionalità che 'TAR' è in grado di sprigionare lungo i sui quasi tre quarti d'ora di musica. Non certo la più semplice delle passeggiate, ma spesso anche un buon trekking in montagna con l'aria tagliente può regalare piacevoli emozioni. (Francesco Scarci)

(Golden Antenna Records - 2023)
Voto: 74

https://jeffk.bandcamp.com/album/tar

giovedì 8 dicembre 2022

Behind Closed Doors - Caged in Helices

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal
È un trio internazionale quello dei Behind Closed Doors (stravagante questo moniker), formato da prodi menestrelli provenienti da Germania, Paesi Bassi e Svezia, che si sono trovati per rilasciare questo affascinante affresco di post metal strumentale. Sapete quanto storca il naso a non avere un cantato eppure questo 'Caged in Helices' riesce a superare egregiamente la prova del fuoco anche senza un vocalist. Questo perchè i nostri non sono certo degli sprovveduti, avendo arricchito la propria proposta metallica di archi (tra cui Ben Mathot degli Ayreon) che vanno a colmare il vuoto lasciato dalla voce. Questo quanto si può ascoltare già nell'iniziale "The Anti Will", che nei suoi otto minuti ne fa proprio di tutti i colori, attraversando un corridoio fatto di post-rock, post-metal, suoni cinematici e ancora math rock, progressive, musica classica e potrei continuare all'infinito, aggiungendo anche soundtrack e djent, con quella granitica chitarra in chiusura, una vera mazzata nei denti. Spettacolo puro. "Kaleidoscope Antlers" riparte da questo potpourri di generi e stili, da un bel chitarrone avvolto dagli archi che potrebbero evocare in un qualche modo i Metallica ai tempi dell'esperimento sinfonico di 'S&M'. Tecnica squisita, eleganza musicale e ricerca per la melodia contraddistinguono questa e le song a seguire, di cui sottolinerei le due maratone affidate a "Black Pyramid" e "Ad Aspera Adastra, But Why And For What?", due pezzoni tra i nove e i dieci minuti che sottolineano, manco ce ne fosse bisogno, le eccelse qualità compositive della band. La prima delle due peraltro sfoggia una linea di basso davvero da urlo che entra nel cervello e da li non ne esce più. Questa poi è la canzone dove forse la componente orchestrale è meno invasiva e il sound decisamente più incisivo, anche se un paio di break atmosferici ne bilanciano l'irruenza ritmica. In "Ad Aspera..." viola, violino e violoncello tornano a far danni, insinuandosi nelle trame sofisticate di una song dal piglio decisamente minaccioso. Peccato per un lunghissimo break centrale che renderà il brano più suscettibile allo "skip". Il pezzo che poi in realtà ho maggiormente apprezzato è "The Essence of Doubt", con quella sua chitarra orientaleggiante e la sua coda djent, ipnotica quanto basta per tenermi agganciato ad un lavoro che, per quanto privo di un cantante, ha tutte le carte in regola per spaccare culi a destra e a manca. (Francesco Scarci)

Solitär - Bus Driver Immigrant Mechanic

#PER CHI AMA: Psych/Dream Pop
Il polistrumentista svedese, Mikael Tuominen, già presente in formazioni del calibro di Kungens Män e Automatism, si cimenta in un primo disco solista, uscito via Tonzonen Records, carico di atmosfere dense, intrise di intimità e ispirazione. Il canto sempre quasi sommesso e schivo, si presta molto bene alla forma di psichedelia che l'autore mischia spesso a fattori folk e post rock, melodie luminescenti, spesso ipnotiche ed estatiche. Si parte con "Electric Sea", un bel brano dai tratti desertici, un'evoluzione corale e mantra doorsiani con una buona dose di ricordi, che portano alle sonorità di "Fire Walker" dei Black Rebel Motorcycle Club, uno stile che ritroviamo peraltro in molte parti dell'album. "Ship of Excitement" inizia con un sound che ricorda certe cose dei Cocteau Twins per leggerezza e utilizzo delle chitarre, mentre "Concrete Spaceship", cerca di aumentare il ritmo senza aumentare il rumore, creando un'atmosfera surreale e sospesa, con un uso del noise guitar molto intelligente. A sorpresa in una veste psych folk sommessa e sofferta, avvolta in una luce abbagliante, Solitär si cimenta in una versione originalissima di "The Price", la storica canzone dei Twisted Sister, ottenendo davvero un bel risultato. 'Bus Driver Immigrant Mechanic' evolve brano dopo brano, pur rimanendo in un contesto di musica ipnotica e statica, elettronica e minimale, shoegaze, un post rock di scuola Mùm con qualche richiamo a certa psichedelia evoluta in stile Legendary Pink Dots. Le atmosfere soffuse richiamano magma sonori notturni come la versione di "Satellite of Love" di Milla Jovovich in "Million Dollar Hotel", dotata di un umore malinconico ma sognante. "Spegel Spegel" potrebbe essere un brano dimenticato in qualche cassetto dei Crime and the City Solution, suonato dai Mercury Rev, mentre per "It Rains" potremmo scomodare Hugo Race e la sua musica lunare. La cupa "A Flash in a Glass Jar" è figlia di certa new wave di classe, e sfodera sonorità vicine agli Echo and the Bunnymen, con un lento incedere e tappeti di tastiere maestosi all'orizzonte, con una coda finale assai cinematografica. Chiude il cerchio la brevissima e acustica "Brus", l'unica traccia cantata in lingua svedese, per il resto la lingua utilizzata è quella della terra d'Albione. In definitiva, devo ammettere che 'Bus Driver Immigrant Mechanic' è un album intrigante, profondo e molto sofisticato, certo non è d'impatto e non funzionerà tra i rockers più duri e puri, ma per chi cerca buona musica introspettiva questa è proprio una valida alternativa. Un disco ragionato e ben prodotto con suoni caldi, profondi e intimi, un disco per tipi solitari a tutti gli effetti. (Bob Stoner)