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venerdì 20 giugno 2025

Mürrmürr - Katharos

#PER CHI AMA: Post Black/Blackgaze
Secondo EP per i francesi Mürrmürr, intitolato 'Katharos' e pubblicato ad aprile di quest'anno. La band cerca di consolidare il proprio stile intrecciando la furia gelida del black metal con atmosfere e melodie più evocative, sulla scia di gruppi come Alcest, Harakiri for the Sky e Regarde Les Hommes Tomber. Questo lavoro, composto da quattro tracce, esplora le guerre di religione del XVI secolo in Francia, un tema di forte attualità, che si riflette tanto nei testi quanto nell'intensità emotiva della musica. L'apertura dell'EP è affidata a "Luther", un vero pugno nello stomaco. Il brano parte in sordina per poi esplodere in un assalto frontale caratterizzato da una ritmica tagliente, blast-beat feroci, chitarre e screaming laceranti che stabiliscono immediatamente il tono ferino del lavoro. Tuttavia, la traccia evolve sapientemente (il rischio di bocciature era già dietro l'angolo) grazie a un'apertura melodica che richiama il blackgaze, con arpeggi eterei e un uso sapiente delle dinamiche, capaci alla fine di trasmettere un forte senso di disperazione, che si sposa perfettamente con il concept del disco. È il brano più diretto del disco ma non per questo privo di profondità, andando infatti a dissolversi in un'atmosfera quasi onirica. La title track mostra l'altra faccia della medaglia del quintetto di Dunkerque, affidandosi invece a un mid-tempo compassato, chitarre più pulite e vocalizzi evocativi che conferiscono al pezzo una certa solennità. "Mas d'Asilh" si apre con un'intro atmosferica che potrebbe ricordare i primi Alcest, sviluppandosi poi attraverso cambi di tempo grazie alle chitarre in precario equilibrio tra il caustico e il contemplativo, e un utilizzo poi del basso, a dir poco notevole. La conclusiva "Bartimé" si muove su coordinate similari, con le vocals e le linee di chitarre strazianti che rappresentano il fil rouge con i brani precedenti, prima di un epico finale in crescendo. Resta ancora parecchio lavoro da fare per cercare di prendere le distanze dai mostri sacri del genere e mostrare maggiore personalità, ma la strada intrapresa sembra essere quella giusta. (Francesco Scarci)

(Epictural Production - 2025)
Voto: 68

Golden Heir Sun/Euypnos - A Journey to the Underwater Moon

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
Come direbbero gli inglesi "this is not my cup of tea", giusto per identificare un qualcosa che non fa al caso loro. Ecco, lo split tra le due one-man-band italiane, Golden Heir Sun ed Euypnos, potrebbe non rientrare nei miei parametri musicali, però mi reputo una persona di mentalità aperta e voglio quindi approcciarmi senza pregiudizi, alla proposta dronico-psichedelica, di queste due realtà assai visionarie. Due sono anche le lunghe tracce disponibili in questa stravagante, quanto intrigante collaborazione. Si parte con "A Vessel Of Clouds (Through A Field Of Tidal Waves At Sunset)" e un minimalismo sonoro distopico, estraneo a qualsiasi forma musicale strutturata. Quei suoni dronici che entrano nelle nostre teste, hanno un effetto alienante sin dalle prime angoscianti note che, in realtà, perdureranno simili per i quasi dieci minuti del brano, dove salmodianti voci sembrano apparire, a un certo punto, come fantasmi pronti a terrorizzarci. Credo che questo sia l'effetto desiderato dai due frontman, che danno la loro personale interpretazione alla loro pseudo jam session, che porta con sé suoni riverberati, accompagnati da sintetizzatori sottili che evocano il movimento dell'acqua, completamente privi dell'utilizzo di percussioni, fatto salvo per il field recording iin sottofondo. L'influenza di tecniche di produzione ispirate a Brian Eno e Ben Frost, è percepibile nella costruzione dei paesaggi sonori, al pari dell'astrattismo dell'artwork che sembra completare l'esperienza sensoriale. La seconda suite "A Sight Of The Moon Beyond The Maelstrom (...And Then Nothing)", con i suoi nove minuti e mezzo, prosegue il viaggio in una dimensione sonora destrutturata, fatta di echi ambient/noise, addensati di contenuti catartici, che potrebbero indurvi a una profonda analisi introspettiva, ma anche portarvi definitivamente alla follia. 'A Journey to the Underwater Moon' è disponibile in tiratura limitata di 50 cassette, questo perchè è un misterioso lavoro destinato a una ristrettissima nicchia di ascoltatori. (Francesco Scarci)

Lights of Vimana – Neopolis

#PER CHI AMA: Death/Doom/Gothic
Uno dei nostri amici, collaboratore a tempo perso e figura interessante del panorama doom mondiale, Jeremy Lewis (ex Dalla Nebbia, Mesmur, Pantheist), mi ha inviato il disco di debutto dei Lights of Vimana, nuova creatura internazionale che vede tra le sue fila, oltre allo stesso Jeremy, anche Déhà, per cui non servono troppe presentazioni, e il nostro Riccardo Conforti (Void of Silence). Pubblicato per l'italiana Dusktone, il trio rilascia cinque brani che si collocano nelle pieghe di un death doom goticheggiante, strizzando l'occhiolino ai Draconian, ai Void of Silence più intimisti e ai The Foreshadowing. Il disco si apre con gli inquietanti synth di "Nowhere", un brano di oltre 14 minuti che mette immediatamente in chiaro la direzione stilistica del gruppo. Quella chitarra che sembra disegnare melodie degne della colonna sonora di Blade Runner segna l'inizio dell'esplorazione nel mondo dei Lights of Vimana. Veniamo immediatamente avvolti dalle malinconiche melodie della band, in cui riesco a percepire il retaggio di tutti e tre i musicisti: sia nella delicatezza delle dense atmosfere (bravo Riccardo nel creare una certa nebulosità con le sue tastiere), che nella muscolare pesantezza delle ritmiche (e chi meglio di Jeremy alle chitarre può offrire questo?), per finire con le sofferenti vocals del polistrumentista belga, perfetto sia nella componente pulita che nel growl. Il risultato finale è decisamente notevole, soprattutto nel finale del brano, dove la componente orchestrale aumenta progressivamente. La cinematicità del trio si palesa anche nelle note iniziali di "Endure", forse più morbida a livello chitarristico, non per questo meno efficace o sorprendente. In questo caso ne beneficia la componente emozionale, sorretta anche dalle iniziali vocals meditative di Déhà che esploderanno, contestualmente a un inasprimento delle chitarre, nel suo riconoscibilissimo growl. Attenzione perché qui compaiono anche le vocals femminili di Nicole Fiameni degli Eurynome a fare da contraltare alle voci da orco del frontman belga. Effetto prevedibile ma assai efficace, che richiama mostri sacri come i Tristania. Le atmosfere si fanno più solenni, e ribadisco che il lavoro maturo di Riccardo alle tastiere si sente forte nelle note del disco, alzando enormemente il livello, senza nulla togliere agli altri interpreti. "Real" è un'altra mezza maratona di oltre 11 minuti in cui la componente cinematica continua ad andare a braccetto con la pesantezza del doom, coadiuvata dall'intensità roboante del riffing di Jeremy. Un break centrale rallenta i sensi prima di un etereo finale in crescendo che mi ha evocato i Draconian. La title track è un pezzo strumentale, sospinto dalle iniziali tinte apocalittiche, degne del mondo brutale in cui stiamo vivendo, per cedere poi il passo a panorami più positivi, quasi a voler dire che c'è ancora speranza per un pianeta devastato dalle guerre. A chiudere, ecco "Remember Me", che riprende quel discorso musicale già abbracciato da "Endure" e "Real": ancora in primo piano il chitarrismo di Jeremy e le atmosfere orchestrali imbastite dall'eccellente Riccardo, su cui si alterneranno le voci pulite e catarrose di Déhà, a chiudere uno dei debutti più intriganti dell'anno. Ma da questi tre musicisti, d'altro canto, non ci si poteva aspettare di meno. Straordinari. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone - 2025)
Voto: 82
 

domenica 15 giugno 2025

Carcolh – Twilight of the Mortals

#PER CHI AMA: Doom
Il Carcolh è una creatura leggendaria del folklore francese, una specie di incrocio tra un serpente e un mollusco tentacolare. Questo è quanto ci racconta sul proprio sito Wikipedia, a proposito di questo mostro mitologico che, fatalità, è anche il nome della band di oggi, cinque doomsters di Bordeaux che con questo 'Twilight of the Mortals', raggiungono l'ambizioso traguardo delle tre uscite discografiche. Un arazzo sonoro che si abbevera alle fonti sacre del doom metal tradizionale, che tributa omaggio ai maestri del genere, Candlemass, Solitude Aeturnus e Black Sabbath, cercando al tempo stesso, di lasciare un’impronta personale in un territorio tanto venerato quanto assai insidioso. Il disco si apre con "For Every Second..." che stabilisce immediatamente il tono abbracciato dai nostri: riff lenti, striscianti, che si muovono come monoliti in una landa desolata, guidati dalla voce di Sébastien Fanton, la cui timbrica potrebbe richiamare l'epico lamento di Robert Lowe. Fin qui nulla di nuovo, perché l'album sembra inciampare in una sorta di riverenza verso le colonne portanti di un genere che sembra ormai impantanato. Un brano come "Ashes Are Falling Down" prova a fare la differenza, inserendo melodie accattivanti e assoli eleganti a spezzare la monotonia di fondo, e mantenendo alta la tensione emotiva. Lo stesso dicasi per la successiva "The Battle Is Lost", vibrante nelle sue linee di chitarra, sebbene certi passaggi sembrino scivolare in territori già battuti da 'Epicus Doomicus Metallicus', l'epico debutto dei Candlemass. Poi ci troviamo di fronte a due maratone musicali: "My Prayers Are for Rain" include oltre dieci minuti di melodie strazianti e dense atmosfere che sembrano insinuarsi come luce fioca in una cattedrale in rovina. I quasi dodici minuti di "Empty Thrones" invece, sembrano voler enfatizzare la solennità della proposta dei transalpini, sciorinando un bel riffone di scuola Sabbath con la voce del bravo Sébastian a guidare l’ascoltatore tra le rovine evocate dai testi. Il risultato però continua a faticare nello scrollarsi di dosso l’ombra ingombrante dei suoi ispiratori, rischiando di essere percepito come un esercizio di stile più che come un’opera innovativa. Insomma, 'Twilight of the Mortals' mostra la competenza dei Carcolh nel muoversi nel delicato mondo del doom, ma al contempo pecca in una certa mancanza di imprevedibilità, trovandosi troppo spesso a specchiarsi nel sound immortale dei maestri, senza osare un passo deciso verso un’identità propria. Per ora, quest'album rimane un crepuscolo che illumina, ma non abbaglia. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2025)
Voto: 70

https://carcolh.bandcamp.com/album/twilight-of-the-mortals

Neldoreth - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Metal
Il debutto dei lombardi Neldoreth si presentò come un fulgido esempio di black metal dalle forti tinte norvegesi, con l’influenza scandinava che appariva fin troppo evidente in alcune porzioni di questo EP. Il dischetto propone infatti quattro brani minimalisti e genuini, caratterizzati da una batteria velocissima e riff gelidi, elementi che danno vita a un lavoro sicuramente semplice ma gradevole. Le linee vocali, in puro stile grim, risultano piuttosto convincenti e ben inserite nel contesto estremo proposto. Due delle quattro canzoni sono chiaramente ispirate all’universo tolkieniano, e tra queste spicca "Moria" (l'altra è "Ered Gorgorth"), che sembra anche la traccia più convincente di questo demo cd, che vide giusto un seguito l'anno successivo, prima di veder affievolire la fiamma nera di questo trio valtellinese. (Francesco Scarci)

venerdì 13 giugno 2025

Darkenhöld - Le Fléau du Rocher

#PER CHI AMA: Medieval Black
Con un nuovo album (il sesto), i francesi Darkenhöld tornano a percorrere i sentieri del melodic black dalle tinte medievali, terreno che conoscono davvero bene, dopo 17 anni di militanza nella scena metal estrema. 'Le Fléau du Rocher' si presenta quindi come un lavoro tecnicamente maturo e concettualmente coerente con il passato, ma che fatica a liberarsi completamente dai vincoli di una formula ormai consolidata. Il trio nizzardo, se da un lato, conferma la propria capacità di costruire atmosfere evocative e coinvolgenti, dal l'altro sembra non aver fatto passi in avanti rispetto al precedente 'Arcanes & Sortilèges', che il sottoscritto aveva recensito nel 2020. "Codex De La Chevalerie" e "Gardienne Des Dryades" mostrano come il trio abbia affinato negli anni l'arte narrativo-sonora, mescolando melodie oscure con superba narrazione. La produzione è equilibrata e permette a ogni strumento di trovare il proprio spazio nell'architettura complessiva dell'opera. L'aspetto più riuscito dell'album risiede forse nella capacità dei nostri di mantenere una tensione narrativa costante attraverso tutti i brani con brevi passaggi strumentali, quali "Temps Enfouis" e "Sortilège Ancestral", a dare un certo respiro contemplativo a un black talvolta tirato, mentre tracce come "L'Ascension du Mage Noir" e la title track, dimostrano come la band sappia ancora scrivere episodi di black melodico efficace e coinvolgente. Tuttavia, è proprio qui che emergono i limiti più evidenti del lavoro. La musica infatti, porta insieme composizioni intricate che soffrono di una certa mancanza di innovazione. Il problema di 'Le Fléau du Rocher' non è tanto nella qualità dell'esecuzione, quanto nella prevedibilità dell'approccio compositivo. Dopo diciassette anni di carriera, sembra che i Darkenhold abbiano raggiunto la propria zona di comfort che, pur mantenendo risultati solidi, ne limiti la capacità di sorprendere. Le atmosfere medievaleggianti, i temi cavallereschi e la struttura generale delle composizioni sembrano ricalcare troppo fedelmente pattern già esplorati in passato e quindi la sensazione, almeno per l'ascoltatore esperto, è quella di un déjà-vu che alla fine smorza gli entusiasmi. Pur non denigrando valide intuizioni melodiche, il mio personale verdetto finale si configura come un album che può soddisfare pienamente le aspettative dei fan o di chi cerca un melodic black metal di qualità, senza però riuscire a trascenderle. 'Le Fléau du Rocher' è un lavoro che conferma la competenza tecnica e l'identità artistica dei Darkenhöld, ma che al tempo stesso, evidenzia come la band fatichi a rinnovare una formula che inizia a evidenziare le rughe di un tempo passato. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 62

https://ladlo.bandcamp.com/album/le-fl-au-du-rocher

giovedì 22 maggio 2025

Erotic Temple - Erotic Mass

#PER CHI AMA: Raw Black/Grind
Pronti per il caos sovrano? Si, perché 'Erotic Mass' dei giapponesi Erotic Temple, sembra più un esperimento mal riuscito piuttosto che un progetto ben definito, lasciando l'ascoltatore con una sensazione di disorientamento sin dalle prime note. Tralasciando intro e outro, forse i migliori pezzi del lotto (la registrazione di due amplessi), la successiva "Analmancy", registrata probabilmente in cantina con un aratro, è puro raw black/grind con riff similari più a una sega elettrica che a una chitarra, con le vocals demoniache che sembrano sgorgare direttamente dall'inferno. Chissà se sia un atto provocatorio o cosa, ma il risultato non è certamente dei migliori. Che dire poi dei sette secondi di "Immortal Penis" o la sudicia e caustica "Blasphemous Bloody Vulva", tra chitarre zanzarose, voci che sembrano uscire da un tombino e un assolo che avrebbe potuto anche essere interessante, ma che questa registrazione affossa malamente. Ecco, il disco procede su questa farsa con altri quattro "brani" che, messi insieme, raggiungono forse i sei minuti scarsi di putrida cacofonia, per un lavoro che, definire deludente, potrebbe risultare addirittura essere eufemistico. (Francesco Scarci)

sabato 10 maggio 2025

Aeonist - Deus Vult

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Dalle placide e misteriose terre slovene emergono gli Aeonist, un progetto solista orchestrato dall’enigmatico polistrumentista Tilen Šimon. Dopo il promettente debutto sulla lunga distanza dello scorso anno, Šimon torna con 'Deus Vult', un EP composto da tre tracce in cui il black metal atmosferico s'intreccia a melodie medievali e suggestioni dungeon synth, evocando un’aura dal fascino antico e templare. Concepito come un viaggio musicale in tre atti, 'Deus Vult' si erge come un monolito di introspezione oscura, un’ode alla volontà divina, immersa in un paesaggio sonoro di gelo e malinconia. Si parte con "Deus Vult I", dove una ritualistica base di synth apre la strada a una chitarra dai toni eterei e spettrali. L’atmosfera evoca le mura di un’abbazia dimenticata, con melodie che s'innalzano come preghiere e un canto disperato che sorge nel cuore del brano. Qui il black metal prende forma su un mid-tempo solenne, mentre cori quasi monastici verso la fine, intensificano l’esperienza, donando profondità al brano nonostante una lieve tendenza alla ripetitività. Con "Deus Vult II", l’EP si addentra in territori più cupi, aprendo con un passo quasi doom che lascerà spazio da l' a poco, a un black più frenetico e soffocante. Šimon modula il suo screaming con una rabbia controllata, accompagnando l’ascoltatore in un viaggio opprimente attraverso le ombre della storia medievale, fatta di fede assoluta e terre flagellate dalla peste. Pur arrivando a sfiorare i dieci minuti di durata, il brano risulta talvolta appesantito da una certa ridondanza compositiva che ne diluisce leggermente l’impatto emotivo. Infine, "Deus Vult III" chiude l’opera con un’atmosfera contemplativa dominata dai sintetizzatori dungeon synth. Sebbene il brano tenda a concludere l’EP forse troppo rapidamente rispetto al potenziale evocativo dei due capitoli precedenti, questo racchiude comunque quel senso di chiusura ritualistica che caratterizza l’intero lavoro. Non vi resta che accendere una candela, chiudere gli occhi e lasciare che queste tre invocazioni vi trascinino in un abisso di gloria e rovina. (Francesco Scarci)

martedì 6 maggio 2025

Sunrot - Passages

#PER CHI AMA: Sludge/Drone
I Sunrot si trascinano fuori dalle fogne del New Jersey con 'Passages', un EP di cinque tracce rilasciato dalla Prosthetic Records, come un caso irrisolto lasciato a marcire. Nato negli stessi vicoli creativi di 'The Unfailing Rope', questo EP in realtà non ne rappresenta un seguito, ma una piaga che si gonfia, un groviglio di sludge e noise che si contorce per sedici minuti in un vicolo cieco di sofferenza. Questo quintetto non ha carezze da offrire, solo il tanfo di un’esistenza schiacciata sotto un cielo di piombo, un biglietto per un passaggio che finisce dritto nell’oblio. "Death Knell" è il primo passo, ma non c’è musica: solo un ronzio che stride come il respiro di un ubriaco che sta tirando le cuoia. È un’apertura cruda, un’ombra sonora che afferra alla gola e non molla. Poi arriva "The First Wound", con Dylan Walker dei Full of Hell alla voce, che si unisce al gioco come un sicario in prestito: i riff strisciano come larve su un corpo freddo, il drumming colpisce come un pestaggio in un parcheggio deserto, e le urla si mescolano in un coro di anime perse. È una ferita slabbrata, un ricordo che puzza di marcio sotto strati di distorsione, un urlo che svanisce nel frastuono di una città che non dorme mai. "Sleep" è un vicolo senza uscita. Con Brandon Hill degli Stress Test alla voce, mi aspettavo un indizio, magari una svolta, ma è solo un rumore informe, voci filtrate che si perdono come parole sussurrate in un confessionale abbandonato. È un sonno da barbiturici, un’interruzione che ti lascia a galleggiare in un nero senza fondo. "Untethered" inizia lento, un bagliore post-metal che si spegnerà subito in un riff sludge in grado di pestarti come un creditore incazzato. In sottofondo, il violoncello di Jack Carino entra in scena come un lamento che taglia il buio, mentre le voci si torcono accanto allo screaming acido del frontman, in un dialogo tra fantasmi in una stanza senza porte. "Ra" chiude il dischetto, ma non c’è soluzione: spoken words si mescolano a disturbanti derive droniche che ronzano come un neon rotto in un motel di quart’ordine. È un addio che non dice niente, un epilogo muto e opaco. (Francesco Scarci)

(Prosthetic Records - 2025)
Voto: 65

https://sunrot.bandcamp.com/album/passages

domenica 4 maggio 2025

Onirophagus - Revelations from the Void

#PER CHI AMA: Death/Doom
A volte la buona riuscita di un album dipende anche dal moniker della band, non credete? Gli spagnoli Onirophagus, con questo nome, non partono già bene, diciamolo chiaro e tondo. La proposta poi di 'Revelations from the Void', terzo lavoro per il quintetto catalano, non brilla in fatto di originalità: cinque lunghi brani di death doom canonico che abbiamo sentito e risentito nel corso degli ultimi 30 anni. "The Hollow Valley" apre il cd con riff di chitarra pesanti come un macigno che si trascinano senza mai realmente raggiungere un climax significativo, mentre il growl potente di Paingrinder, evoca un senso di terrore e oscurità. Le percussioni provano ad aggiungere un po' di dinamismo, accanto ad alcune accelerazioni black nel finale, ma il risultato pare alquanto prevedibile. Attenzione, non sto parlando che quello fra le mani sia un brutto album, ma ecco, pur esplorando una vasta gamma di ritmi e stili, con momenti di lentezza opprimente alternati a sezioni ritmiche più dinamiche, non sento la freschezza che mi sarei aspettato. E la successiva "Landsickness" sembra sprofondare ulteriormente in territori derivativi sin dai suoi giri iniziali di chitarra, chiamando in causa le sonorità più retrò di gente come Officium Triste e Saturnus nei momenti più doomish, e Avulsed in quelli più death oriented. Le song scivolano lentamente, proiettandomi con "The Tome" a sonorità anni '90, evocando anche i mostri sacri My Dying Bride e i primissimi Anathema, provandone qui però ad alterare quell'inerzia con deflagranti accelerazioni death, che talvolta riescono anche a colpire nel segno, complice l'utilizzo di vocals più pulite. La ritmica rallentata di "Black Brew", con quei suoi rintocchi di campana, sembra cosa trita e ritrita, ma le caustiche accelerazioni (la parte che alla fine prediligo), ci consegnano una veste differente e meno indolente della band. In chiusura, rimane l'ultimo Everest da scalare, ossia i quasi 16 minuti della conclusiva "Stargazing into the Void", un pezzo drammatico nel suo incedere iniziale, complice anche l'utilizzo di uno splendido violino e di sonorità che rimandano anche a i The Blood Divine. Ciò restituisce lustro a una release che rischierebbe di cadere nell'anonimato della moltitudine di album che ogni giorno viene rilasciato. Il sound è comunque un onesto death doom malinconico che poco altro ha da aggiungere. Insomma, alla fine, mi sento di consigliare il disco ai soli appassionati del genere in cerca di qualcosa per riempire la loro libreria musicale. (Francesco Scarci)

sabato 3 maggio 2025

Versatile - Les Litanies du Vide

#PER CHI AMA: Industrial/Symph Black
La Svizzera si conferma terreno fertile per le sonorità industrial black. Dopo aver scritto di recente sui Borgne, è il turno dei Versatile, che fanno il loro ingresso nella scena con il debut 'Les Litanies du Vide'. Quest'album, un amalgama di black metal dissonante, industrial freddo e una certa macabra teatralità, si presenta colmo di un’energia inquietante. Pubblicato dalla Les Acteurs de l’Ombre Productions, questo lavoro offre un ennesimo viaggio sonoro complesso, arricchito di visioni apocalittiche e influenze ispirate alle catacombe parigine e alla Corte dei Miracoli. Più che suonare sinistro, l'album lo incarna, con una feroce audacia estetica. Il disco si apre con "Géhenne", un'anticamera orchestrale che prepara il terreno al travolgente “Enfant Zéro”, dove riff abrasivi s'intrecciano con un drumming implacabile e le urla strazianti di Hatred Salander. Il modernismo del black metal dei nostri emerge in una fusione di texture elettroniche e grooveggianti, che possono ricordare una sintesi tra i The Kovenant e gli Aborym, ma qui con un’anima più oscura. Inizialmente, devo ammettere che temevo di trovarmi di fronte a un gruppo con poche idee e ben confuse, ma sono stato sorpreso dalla capacità dei Versatile di equilibrare caos e struttura. Se brani come “Morphée” sembrano essere un’esplosione di declamazioni possedute e passaggi onirici, con un’intensità che alterna violenza pura a momenti di oscura poesia, un brano come "La Régente Blême", incarna la moltitudine di anime che permeano questo quartetto di Ginevra, tra ammiccamenti vampireschi e derive elettro-industrialoidi, che si fanno ancor più evidenti nella successiva "Ieshara". "Graisse" si distingue per il suo approccio prog black, con ubriacanti cambi di tempo e campionamenti che ci conducono in un racconto distopico, in una proposta sonora che potrebbe quasi evocare i nostrani Sadist. “Alter Ego” sonda territori cyberpunk, mescolando francese e inglese in un duello linguistico, che amplifica il senso di alienazione. Ciò che rende l’album davvero diabolico è tuttavia il suo approccio eclettico e innovativo. I Versatile non si accontentano di replicare il black metal ortodosso: lo smembrano, lo arricchiscono con partiture industriali e sinfoniche, ricostruendolo poi in una forma moderna e profondamente inquietante. Le chitarre di Cinis e Famine rilasciano arpeggi dissonanti mentre la batteria di Morphée colpisce con precisione cibernetica che sottolinea l'estetica industriale della band. Tuttavia, non suona tutto cosi perfetto ma glielo si può anche perdonare ai Versatile, visto lo status di debutto di quest'opera. L’assalto sonoro ridondante infatti può talvolta risultare monotono cosi come l'eccessiva complessità di alcuni passaggi rischia di attenuarne l’impatto. Ma questi sono peccatucci di gioventù, in un’opera che osa tanto da creare una definita identità. 'Les Litanies du Vide' colpisce per la sua violenza controllata e per un immaginario grottesco, che portano il black metal verso nuovi orizzonti, mantenendone intatta l'anima oscura. È un’esperienza che attrae e respinge, un’aberrazione affascinante e inquietante. Un debutto potente e visionario sicuramente consigliato agli amanti di Dimmu Borgir, Borgne o Blut Aus Nord. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 aprile 2025

Borgne - Renaître de ses Fanges

#PER CHI AMA: Industrial Black
Sono quasi tre decadi che gli svizzeri Borgne regnano incontrastati negli abissi dell'industrial black, alla stregua di una macchina sonora implacabile, che plasma paesaggi sonori che oscillano tra il caos nichilista e una malvagità primordiale. Con 'Renaître de ses Fanges', undicesimo capitolo della loro discografia, il duo svizzero guidato da Bornyhake, e affiancato dalla sempre più centrale Lady Kaos, torna a scandagliare le profondità dell’animo umano, dandoci modo di immergerci in un viaggio oscuro e tormentato, come già certificato nell'apertura affidata a "Introspection du Néant", un preludio freddo e inquietante che sembra evocare le atmosfere di un’astronave derelitta, prossima a raggiungere l'orizzonte degli eventi. Dopo un inizio in sordina, è con "Comme une Tempête en Moi qui Gronde" che il disco rivela la sua vera natura: un assalto di black glaciale, con riff distorti, melodie minacciose e una drum machine martellante che scandisce ritmi disumani, ci coglie quasi di sorpresa. La produzione, cruda e glaciale, amplifica un senso di disagio che ritroveremo forte lungo gli oltre 60 minuti del disco, mentre le tastiere di Lady Kaos aggiungono un’epica malvagità, un tocco che dona carattere ma non sempre riesce a elevare i brani oltre una formula già esplorata. Rispetto al precedente 'Temps Morts' infatti, che si distingueva per le sue digressioni elettroniche e una forte aura enigmatica, 'Renaître de Ses Fanges' appare più diretto, quasi a segnare un ritorno a un black più canonico, seppur filtrato attraverso la lente industriale. Brani come "Même si l’Enfer m’Attire Dans sa Perdition" (la traccia più lunga del lotto con i suoi quasi 11 minuti) o l'acuminata "Ils me Rongent de l’Intérieur", vanno a segno, colpendo per intensità e per i riff contorti, ma forse mancano di quei ganci memorabili che hanno reso i lavori precedenti così avvincenti. Qui, la struttura dei brani, sempre lunga e complessa, tende quasi a ripiegarsi su se stessa, con pattern di accordi che, per quanto efficaci, sembrano reiterare soluzioni già proposte nella discografia dal duo di Losanna, e probabilmente da qualche altro interprete del panorama estremo. Un elemento di forza rimane comunque inalterato nell'intelaiatura dei nostri: l’atmosfera. Si, perché anche questo nuovo album ci permette di affondare in paesaggi apocalittici, sorretti da synth eterei e da un senso di vastità che richiama, inequivocabilmente, i Blut Aus Nord o i Lunar Aurora. La conclusiva "Royaumes de Poussière et de Cendre" potrebbe rappresentare il momento più ispirato, con quel suo mid-tempo affranto e un’atmosfera avvolgente che sembra suggerire una profondità stilistica che il resto del disco non sempre mantiene. Eppure, anche qui, si avverte una certa mancanza di audacia: dove 'Temps Morts' osava con deviazioni sperimentali, 'Renaître de ses Fanges' si accontenta di consolidare un suono ormai familiare, senza spingersi oltre i confini che i Borgne stessi hanno tracciato in passato. Forse, non aiuta il confronto con la loro storia, avendo costruito la propria carriera su un’evoluzione costante, alternando pulsioni sperimentali a una ferocia old school. Quest'album, invece, sembra un passo indietro, un’opera che, seppur ben confezionata, non riesce a eguagliare la personalità travolgente di 'Y' o l’audacia di 'Temps Morts'. In definitiva, 'Renaître de ses Fanges' è un album che non delude, ma nemmeno esalta. È un viaggio oscuro e ben eseguito, capace di trascinare l’ascoltatore in un vortice di disperazione e caos, ma che manca di quella scintilla innovativa che aveva reso i precedenti lavori così memorabili. (Francesco Scarci)

domenica 27 aprile 2025

Ex Deo - Year of the Four Emperors

#PER CHI AMA: Symph Death
Gli Ex Deo tornano con 'Year of the Four Emperors', un EP che s'inserisce con decisione nel solco dell’epic death metal, un terreno che la band canadese calca da parecchi anni sotto la guida di Maurizio Iacono. Questo lavoro, ispirato al turbolento anno 69 d.C., si compone di quattro brani che cercano di catturare il peso della storia romana attraverso un sound robusto e narrativo. Non mancano intensità e ambizione, anche se il risultato non scuote le fondamenta come potrebbe suggerire il tema. Il disco si apre con “Galba”, un brano che avanza con riff solidi e ritmi marcati, accompagnati da arrangiamenti sinfonici che tentano di riflettere le tensioni dell’epoca. L’effetto è suggestivo, un’immersione sonora che richiama le lotte di potere di un impero in crisi, anche se non sempre la forza delle note raggiunge l’epicità promessa. Segue “Otho”, più cupo e complesso, un pezzo che richiede attenzione per essere apprezzato, ma che non devia dalla struttura ormai consolidata degli Ex Deo. “Vespasian” e “Vitellius” chiudono l’EP, offrendo un’alternanza di chitarre più controllate e sezioni orchestrali che omaggiano i protagonisti storici, senza però spingersi troppo lontano dal sentiero battuto nei lavori precedenti. 'Year of the Four Emperors' non si limita a essere un semplice episodio di death metal: prova a esplorare territori più ampi con dinamiche variegate e una certa complessità strutturale, suggerendo un’evoluzione, seppur cauta, rispetto al passato della band. Si percepisce come un punto di passaggio, un’interlocuzione tra ciò che gli Ex Deo sono stati e ciò che potrebbero ancora diventare. La produzione è curata e l’intensità rimane costante, ma l’impatto complessivo non travolge. È un ascolto valido per chi apprezza il genere e il connubio tra musica e storia, senza però rappresentare una svolta memorabile. Roma rivive, sì, ma con un’eco che non sempre risuona con la forza che ci si potrebbe attendere. (Francesco Scarci)

(Reigning Phoenix Music - 2025)
Voto: 68

https://www.facebook.com/exdeo

giovedì 24 aprile 2025

Iotunn - Kinship

#PER CHI AMA: Melo Death
 'Kinship', il secondo album del gruppo danese Iotunn, è un'autentica pietra miliare che ridefinisce i canoni del progressive death metal. Pubblicato il 25 ottobre scorso, rappresenta non solo una degna prosecuzione dell'acclamato debutto, 'Access All Worlds', ma anche una dichiarazione di maturità artistica e musicale che va ad alzare ulteriormente l'asticella. L'album si apre con "Kinship Elegiac", una traccia mastodontica di quasi 14 minuti che cattura immediatamente l'attenzione grazie alla sua imponenza. Qui la band fonde con maestria riff robusti e melodie rarefatte, dando vita a un intreccio sonoro che riesce a essere tanto maestoso quanto intimo, merito soprattutto delle straordinarie interpretazioni vocali di Jón Aldará (Barren Earth, Hamferð, ex-Solbrud), una vera punta di diamante. Il loro stile potrebbe richiamare influenze da band come Wintersun e Amorphis, ma è proprio la voce di Jón, particolarmente incisiva nelle linee pulite rispetto al growl, a rendere l'intero lavoro irresistibile, aggiungendo un valore unico. Non sorprende quindi che 'Kinship' sia rapidamente entrato nella mia personale top 5 del 2024. Ogni brano si sviluppa come un racconto carico di pathos, arricchito da cambi repentini di ritmo e dinamiche che tengono l'ascoltatore incollato, come travolto dall’energia delle ritmiche, dal magnetismo vocale del frontman, dalle melodie di chitarra mozzafiato e dagli assoli coinvolgenti. Pezzi come "Mistland", la travolgente "The Coming End", e la roboante "Earth to Sky" sono veri capolavori: i loro ritornelli epici, le parti più atmosferiche e gli assoli sensazionali (spettacolare quelli della conclusiva e più introspettiva "The Anguished Ethereal") sottolineano una capacità tecnica ben oltre la media. In conclusione, 'Kinship' si profila come un autentico capolavoro nel panorama metal, che non solo supera brillantemente le aspettative dei fan, ma si impone come uno dei lavori più memorabili degli ultimi anni, grazie alla sua combinazione impeccabile di potenza sonora, testi evocativi e una produzione di altissimo livello. Destinato a essere un classico intramontabile, 'Kinship' invita ad ascolti ripetuti per scoprire ogni dettaglio e sfumatura della sua immensa bellezza. (Francesco Scarci)
 
(Metal Blade - 2024)
Voto: 88
 

lunedì 21 aprile 2025

Mesarthim - Anthropic Bias/Departure

#PER CHI AMA: Cosmic Black
Una delle band più enigmatiche del panorama estremo è sicuramente rappresentata dagli australiani Mesarthim, che se ne escono con questo nuovo 'Anthropic Bias/Departure', che raccoglie in realtà, due singoli usciti rispettivamente nel 2022 e 2024. Ora, che siano due brani, non significa che la durata del lavoro sia esigua, visti i quasi 37 minuti di suoni che il duo aussie ci propone, miscelando, come al solito, elementi di black metal atmosferico con pesanti influenze electro-ambient, in grado di evocare immagini spaziali, attraverso una musica che si muove tra momenti di intensità estrema e fasi più contemplative. Il titolo suggerisce una tematica legata al bias antropico (l'inclinazione umana a vedere se stessi come centrali nell'universo) e alla partenza o all'allontanamento da questo punto di vista. Probabilmente (non ho le liriche nelle mie mani), proprio da questi temi cosmologici, i nostri decollano in direzione della loro galassia lontana, sprigionando quel propellente sonoro che si muove lungo le coordinate di un black atmosferico, su cui pennellare quei deliziosi grovigli di synth pulsanti. E poi, proprio su questi due elementi, giocare su un'alternanza tra parti più glaciali di chitarra e partiture elettroniche, che però sulla lunga distanza potrebbero anche stancare, data una certa prolissità nel ripetere certe strutture estetiche. Trattandosi di due soli brani, uno di 17 e l'altro di 19 minuti, non vorrei soffermarmi (e sfiancarvi), descrivendoli nei minimi dettagli. Le peculiarità rimangono infatti le medesime dei precedenti sei album e nove EP, garantendo quindi quelle classiche progressioni melodiche, corredate da un (ab)uso nell'utilizzo dei synth, su cui poi si stagliano le screaming vocals del cantante. Ecco, quindi niente di nuovo sul fronte orientale, tanta buona musica che ha un solo difetto: rischiare di diventare scontata. (Francesco Scarci)