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lunedì 13 ottobre 2025

Superion Tyrant - Demo MMXXV

#PER CHI AMA: Death/Grind
Della serie lavori da cui tenersi alla larga, ecco il demo 2025 degli italiani Superion Tyrant, quartetto che vede tra le proprie fila, membri di Node, Derelict, Mind Snare e Heathen/Lifecode, quindi non certo gli ultimi sprovveduti. E forti di queste provenienze dal mondo black/death, il four-piece italico si lancia in sonorità che abbracciano anche il grind e che in tutta franchezza, non mi vedono proprio supportare questo genere. Quattro pezzi più intro per nemmeno undici minuti di musica, che vogliono i nostri stuprare la propria strumentazione in un sound che potrebbe evocare i Napalm Death di 30 anni fa. Ecco, 30 anni fa queste sonorità mi potevano andare anche bene (d'altro canto amavo il suono rilasciato dal martello pneumatico), oggi non più. Desidero qualcosa di fresco, moderno e innovativo, anche e soprattutto in ambito estremo, quello che sa sempre amo. Altrimenti, preferisco andarmi a prendere gli originali, che erano decisamente meglio. Tecnicamente ineccepibili, ma nulla di più, nemmeno l'ombra di un assolo per regalarmi un sussulto, ma la costante sensazione di stare su una carrozza del treno impazzita (il finale di "Allotropic Deathforms" è emblematico). (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 50

Malepeste - Ex Nihilo

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal
Ci sono voluti ben dieci anni per veder il ritorno sulle scene dei francesi Malapeste, se escludiamo uno split album con i Dysylumn nel 2018. 'Ex Nihilo' è dunque il nuovo lavoro, il terzo per i nostri, che vede la luce grazie al supporto della sempre attenta Les Acteurs de l'Ombre Productions. Sei nuovi pezzi a testimoniare il processo evolutivo del quintetto di Lione, alle prese qui con un suono che bilancia tradizione e introspezione e che vede i Deathspell Omega come fonte di ispirazione per le strutture dissonanti che ci accolgono sin dall'iniziale "Ab Chaos", un pezzo breve che funge più da introduzione che altro. La musica dei Malepeste inizia infatti meglio a fluire dalla seconda "Quaestionis", un pezzo sicuramente obliquo per le sue linee ritmico-melodiche, che vedono i nostri muoversi su un black mid-tempo dotato di arrangiamenti stratificati con un uso minimale dei synth che servono a creare un velo atmosferico ritualistico al tutto. L'utilizzo delle vocals poi non è mai troppo efferato, passando da rauchi gutturali a urla strazianti e pulite, che per certi versi mi hanno evocato i Primordial. Il basso è lì, con la sua carica pulsante a guidare una musicalità che di estremo sembra aver ben poco, se non qualche fiammata di blast beat qua e là lungo il disco. Abbiamo citato i gods irlandesi nella seconda traccia, li citerei anche nella terza "Imperium", per i vocalizzi di Larsen che ricordano a più riprese, quelli di Alan A. Nemtheanga, anche se con un minor grado emozionale. La musica prosegue poi su ritmi mai troppo forsennati, sebbene nella seconda metà del brano, la ritmica si faccia decisamente più tellurica. "Stupor" si muove su dinamiche affini tra mid-tempo e una raffinata componente liturgica (scuola primi Batushka) che alla fine potrebbe essere quell'elemento che contraddistingue il sound del five-piece transalpino e che troverà maggior spazio nelle atmosfere più criptiche della successiva "Acceptio", un brano che vanta peraltro un'interessante componente solistica e una coda dal piglio solenne. In chiusura, ecco "Relapsus", il cui significato latino evoca la ricaduta, con il brano che sembra avere un andamento ciclico, come se tornasse su se stesso, ricreando la tensione iniziale e chiudendo il cerchio attraverso un suono che trova modo di esplodere in maniera definitiva, muovendosi sempre in bilico tra un black melodico dalle venature dissonanti e le ormai già citate, sonorità liturgiche. Insomma, un ritorno gradito, soprattutto per tastare lo stato di forma dei Malepeste e i segni di un sound in costante evoluzione. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 73

venerdì 10 ottobre 2025

Lycan Rex - Black Fire and Vitriol

#PER CHI AMA: Raw Black
Non sempre sono cosi fortunato a imbattermi in album stratosferici, buoni o banalmente normali. Capita anche la volta che mi ritrovi ad ascoltare dischi, dai quali meglio tenersi alla larga. È il caso dell'EP di debutto degli statunitensi Lycan Rex, intitolato 'Black Fire and Vitriol', orribile già dalla sua copertina. Per quanto riguarda l'aspetto musicale poi, diciamo che la one-man-band originaria dell'Illinois, non è affatto agevolata da una produzione, qui alquanto approssimativa e da una proposta che abbraccia un black, a tratti cacofonico, che non lascia ben sperare. Sei i pezzi a disposizione, per quindici minuti di musica selvaggia, nuda, cruda, che ci rimanda a un raw black/thrash/punk di stampo anni novanta, con chitarre ronzanti, laceranti screaming vocals, un timido tentativo di creare atmosfere nebulose con tiepidi tastiere in sottofondo, e poco altro. Fatico a trovare un pezzo più interessante degli altri proprio perchè il livello è tendente verso il basso, e anche più basso e allora quindi, meglio skippare in avanti e lasciare questo lavoro a chi nutre il proprio cervello con sonorità estreme e nefande. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 45

Dor - The Dream In Which I Die

#PER CHI AMA: Dark/Folk/Psych
E questi Dor da dove saltano fuori? Dal flyer informativo in mio possesso, leggo che si tratta di un quartetto italico, nato in realtà come one-man-band nel 2019, che torna sulla scena con questo 'The Dream In Which I Die', a distanza di un paio d'anni dal full length d'esordio, intitolato 'In Circle'. Questa seconda loro fatica, al pari del predecessore, è ispirata alla letteratura, più specificatamente alla rilettura di Giorgio Manganelli al 'Pinocchio' del Collodi, e sembrerebbe far ripartire la band là dove aveva lasciato, ossia da uno psichedelico e occulto dark rock, tuttavia esplorando qui sentieri musicali leggermente differenti. Guardando la cover dell'album, è inevitabile che il primo pensiero vada a 'In the Court of the Crimson King' dei King Crimson, ma musicalmente parlando, non trovo ci siano cosi tanti punti in comune con la famosa band progressive britannica. Le dodici tracce incluse si muovono infatti dagli umori dissonanti dell'opener "Silence", un pezzo non certo semplice da digerire tra spoken words, litaniche e sghembe linee ritmiche che in taluni frangenti mi hanno fatto pensare anche a derive noise (forse la reale novità tra l'esordio dei nostri e questa seconda fatica). Un delicato arpeggio apre e guida "Mangiafuoco", attraverso vicoli bui che sembrano quasi proiettarmi nella narrazione dell'oscura e losca figura del burattinaio collodiano. Un riffone imponente, altra novità rispetto a 'In Circle', apre la successiva "Rigmarole", una song sinistra, poco lineare, a tratti malata, e che nelle sue distorsioni ritmiche, mi ha evocato certe cose dei Black Heart Procession. Apprezzabili i tocchi di piano nella seconda metà del brano che provano a contrapporsi a un clima che si fa ben più cupo e morboso nel finale. "When My Life Was Ebbing Away" ha un incipit tiepido al pari delle sue vocals, timide in sottofondo, a richiamare il dark folk statunitense. Saranno nuovamente le sonorità oblique delle chitarre a prendere il sopravvento nel corso del brano, quasi a indicare la nuova via intrapresa dal combo abruzzese. Avendo ascoltato anche il precedente album, posso immaginare che chi aveva apprezzato quel disco, magari si troverà maggiormente in difficoltà qui, dove in certi frangenti, si viene investiti da roboanti approcci ritmici. Non è certo il caso della sognante "Time Machine", in linea con le sonorità intime e minimali del debutto. Tralasciando il superfluo intermezzo di "Gazing", ascoltatevi semmai le divagazioni math/jazz di "The Light Keeper", per scoprire le nuove avanguardistiche e intellettualoidi trovate della band italica, che ama sicuramente sperimentare, catalizzando con molteplici trovate (e l'utilizzo di svariati strumenti) l'attenzione di chi ascolta. Lo facevano più timidamente nel primo lavoro, affidandosi ad atmosfere sognanti atte quasi a cullare l'ascoltatore, lo fanno in modo più diretto e "shockante" in questa release, quasi a voler sottolineare una progressione stilistica rispetto agli esordi. Forti poi di una produzione cristallina che enfatizza ogni singolo strumento (spettacolari a tal proposito le percussioni iniziali di "Icona", che mi deflagrano in cuffia), i Dor cavalcano l'onda del post rock cinematico nel finale di "Rest", affidandosi invece a deviate suggestioni dark folk nella conclusiva "Nobody Knows". Alla fine, per il sottoscritto che ha ascoltato prima il qui presente disco rispetto al debut, sembra evidente il passo in avanti stilistico, soprattutto alla luce di una maggior varietà dei suoni, dopo le eccessivamente blande melodie degli esordi, che forse non mi avrebbero entusiasmato più di tanto. (Francesco Scarci)

(Dischi Bervisti - 2025)
Voto: 75

giovedì 9 ottobre 2025

Mysthicon - Bieśń

#PER CHI AMA: Black/Death
Dieci anni di vita e due soli album (e un EP) all'attivo per questo quintetto polacco, nato dalla collaborazione di alcuni membri (ed ex) di Lux Occulta, Vader, Hate, Batushka e Karpathian Relict, per una band quindi, con un certo pedigree alle spalle. 'Bieśń' si configura quindi come un lavoro solido e sicuramente votato a sonorità estreme, visti gli interpreti coinvolti. Lo si evince immediatamente dall'esplosività di "Shapes", la traccia che apre il disco in modo piuttosto deciso, evocando però sin dai primi passaggi, echi dei primi Rotting Christ, a livello vocale, e dei Samael a livello atmosferico, anche se in certe rasoiate di chitarra, mi è venuto in mente addirittura 'Skydancer' dei Dark Tranquillity. Insomma, avrete già intuito che all'interno dei sei pezzi di 'Bieśń', tra cui una cover dei Lux Occulta ("Creation"), troviamo tutto quello che l'armamentario estremo ha da offrire: black, death, partiture atmosferiche e anche un pizzico di doom. Sebbene la produzione di 'Bieśń' sia un esempio di equilibrio tra crudezza e modernità, gli arrangiamenti sono stratificati e dinamici, con un uso prominente di chitarre che dominano attraverso riffs distorti ma sempre melodici, ben supportati da una batteria che varia da ritmi mid-tempo a blast beat sporadici, creando un contrasto tra aggressività e atmosfera. Il basso fa il suo, fornendo un fondale solido e pulsante, ma anche aprendo timidamente una song come "Unbearable Silence", in cui si assiste anche a un dicotomico utilizzo delle voci, pulite e strazianti (e in taluni casi anche growl). Lo screaming si palesa comunque con un timbro in grado di emanare un senso di disperazione viscerale, in una traccia che si muove in bilico tra sfuriate black e rallentamenti più ragionati, senza mai per forza rinunciare alla melodia. Tra i brani chiave citerei anche "We Are The Worms", un inno alla putrefazione, che si srotola con un rifferama groovy che marcia oppressivo, creando un contrasto tra il doom e un bridge black che accelera il tempo, e per finire, vocals piuttosto convincenti, soprattutto nella loro conformazione più graffiante. Buona e non esagerata la componente tastieristica che va a bilanciare le scorribande black in cui si lanciano i nostri, evocando, per certi versi, anche un che dei Lux Occulta, laddove emergono blande influenze dalle tinte sinfoniche. Certo, i Lux Occulta erano a mio avviso - ma io sono un loro grande fan - una spanna sopra nel creare possenti sinfonie, ma il tentativo di inseguire certi sperimentalismi, si confermano vincenti. Se da un lato ho trovato "Na Naszej Krwi" più trascurabile per la sua sterile e fine a se stessa veemenza, è invece su "The Storyteller" che mi soffermerei maggiormente. Qui è più evidente la ricerca di conferire maggior melodia e nel creare ambientazioni sinistre e orrorifiche, senza tuttavia strafare in termini di velocità ingaggiate, ma concentrandosi piuttosto su una narrazione oscura, coadiuvata da interessanti giri di basso e aperture atmosferiche. Chiudere con "Creation" dei Lux Occulta, estratta dal debut 'The Forgotten Arts', poteva portare i suoi rischi, invece il brano viene reinterpretato alla grande, con un approccio più pesante rispetto all'originale, godendo peraltro di una produzione mille volte migliore, e un esito finale, davvero positivo. Insomma, se siete amanti degli estremismi sonori black/death spruzzati di una buona dose di melodia, il nuovo disco dei Mysthicon, potrebbe fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 72

Nihili Locus - Semper

#PER CHI AMA: Black/Doom
Prima di recensire 'Semper', ho voluto riascoltare '...Ad Nihilum Recidunt Omnia', EP di debutto della band piemontese, per capire cosa mi fece scattare l'amore per questa band e se il nuovo lavoro, potesse ripristinare quell'interesse che era andato perduto con il precedente 'Mors'. Ebbene, una capacità emozionale non indifferente, una forte componente melodica e l'utilizzo delle voci femminili, resero quel breve dischetto una pietra miliare del black/death/doom italico. Ora, eccoci alla resa dei conti, a quasi 30 anni da quel lavoro, con una band che vede riproposta per 4/6, la sua formazione originale. 'Semper' esce per la My Kingdom Music e sembra già dal suo incipit, "Lugubri Lai", abbandonarsi ad atmosfere desolate, toni cupi e malinconici, che vogliono realmente restituirmi quei suoni che tanto avevo apprezzato a metà anni '90. È in effetti un tuffo nel passato il mio, quello che mi catapulta in un periodo che vide affacciarsi altre realtà del calibro di Cultus Sanguine, Necromass, Sadist, Novembre, Opera IX, per una scena che non ha mai dovuto invidiare altre nazioni. E cosi i Nihili Locus sono ritornati dopo un silenzio durato altri 15 anni (fatto salvo per un paio di compilation) con il loro black doom decadente, drammatico e decisamente oscuro, che farà la gioia di chi come me, è cresciuto e si è formato con queste sonorità. Certo, il primo commento che mi verrebbe da fare, è che io nel frattempo mi sono evoluto nei miei ascolti e nel mio essere esigente in fatto di musica estrema, mentre i Nihili Locus, appaiono ancorati a un sound vetusto, che necessiterebbe di un tocco più moderno. Ma non siamo di fronte a una realtà mainstream e quindi, ci sta che la band abbia mantenuto inalterata quelle peculiarità che li avevano contraddistinti a suo tempo. Durante l'ascolto del cd, ritrovo alcuni elementi del passato nelle note anguste di "Pensieri Nebulosi", song che ci avvolge con il suo plumbeo presagio di morte, forte anche dell'utilizzo della lingua italiana nei testi, che aumenta in un qualche modo la sinistra atmosfera che sprigiona il brano, al pari con l'utilizzo di inquietanti tocchi di tastiera. Il pezzo è buono, non una spada, ma il suo giro di chitarra sicuramente mostra un certo fascino. Lo stesso che emana la successiva "(Grida) La Notte Eterna", dove le liriche sono riconoscibilissime e la song si caratterizza per un incedere cadenzato e solenne, cesellato poi da melodici giri di chitarra che accompagnano una voce sgraziata ma incisiva, in un'atmosfera surreale che si farà man mano più oscura e angosciante. "Incolore Aberrazione" palesa nuovamente il binomio vincente tra la melodia della chitarra e la straziante componente vocale, in un pezzo un po' più complesso e meno lineare da digerire. In chiusura, "Il Tuo Sangue per i Miei Maiali" si presenta malvagia più che mai, una traccia che avrei visto bene in un film come The Blair Witch Project, ma che da metà in poi, rivela un'attitudine accomunabile ai primi lavori della band di Nichelino, quella che mi fece innamorare di questa band che a distanza di oltre 30 anni dalla sua formazione, rimane ancora ben radicata nell'underground italico. 'Semper' alla fine è un gradito ritorno, utile per saggiare lo stato di forma dei Nihili Locus, dopo tante interruzioni nella loro storia. Tuttavia, a mio avviso, il sound della band necessita ancora di un lavoro di sgrezzamento, indispensabile per poter stare al pari dell'infinità di band che oggi popola il mondo estremo. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2025)
Voto: 70

martedì 7 ottobre 2025

Les Bâtards du Roi - Les Chemins de l'Exil

#PER CHI AMA: Medieval Black
Da Orléans, ecco i Les Bâtards du Roi (LBdR), che ritornano, a un anno di distanza dal precedente omonimo disco di debutto, con questo 'Les Chemins de l'Exil'. Un ritorno gradito quello del trio transalpino, da sempre concentrato a narrare eventi storici dell'epoca medievale, attraverso l'irruenza del black metal. E i nove pezzi qui contenuti proseguono infatti il percorso intrapreso lo scorso anno, proponendo un black melodico che riprende un po' le linee guida della Les Acteurs de l'Ombre Productions, sempre attenta nella produzione di band allineate al loro "credo". Abbiamo recensito i Darkenhöld a giugno e mi verrebbe da dire che i LBdR sembrano seguire il medesimo filone, forse con un briciolo di melodia in più e anche con un pizzico di freschezza in più, cosa che si era invece persa nelle ultime release della band nizzarda. E cosi il disco si apre con i soffici tocchi di "La Forêt" che lasceranno ben presto a un riffing potente e a seguire, a una parte ben più atmosferica, in cui il vocalist Regicide lascia andare il proprio screaming. Ma che l'approccio dei nostri verso gli aspetti melodici sia palese, si evince anche dalle linee di chitarra della seconda "L'Âme Sans Repos", un pezzo che nonostante un esplosivo incipit, si assesta successivamente su un mid-tempo ragionato, sorretto da una chitarra in tremolo picking e da un drumming davvero incisivo, che a tratti sfora nel post black. È tuttavia nella terza "Vers l'Étoile Solitaire" che ravviso una maggior voglia di sperimentare: forse in quel cantato pulito in lingua madre che apre il brano o ancora, nelle ottime linee melodiche e nel break semi-acustico nella seconda metà, seguito da bridge/assolo che contribuiscono a confezionare quello che sarà poi il mio brano preferito del lotto. Apprezzabile anche "Le Chevalier au Corbeau", che non sembra aver niente a che fare col black, almeno nel suo incipit: poi spazio a una bella cavalcata, voci che si alternano tra pulito e scream, momenti a tratti ruffiani, che contribuiscono comunque a rendere più accessibile la proposta dei nostri. E ulteriori conferme arrivano dalle aperture delle successive "Ord Vil Merdos " e "Le Val Dormant", quest'ultima addirittura melliflua nei suoi primi 90 secondi. E alla fine, questi si riveleranno tutti i punti di forza per i LBdR, per prendere le distanze da Darkenhöld e soci e da un approccio oramai troppo intransigente. Non siamo ancora su livelli eccelsi, ma la strada intrapresa, mi sembra quella corretta. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 73

lunedì 29 settembre 2025

Mylingen - Svartsyn

#PER CHI AMA: Black/Doom
Un altro gruppo fuoriesce dalle nebbie scandinave. Si tratta del duo svedese dei Mylingen, al loro terzo capitolo in discografia con questo nuovo EP, 'Svartsyn', dopo un full length e un altro EP, quello di debutto. E dalle fredde lande della Svezia che attendersi se non un black dalle tinte melodiche, forse anche legato alla militanza di Viktor Jonas negli Apathy Noir. Il risultato che ne viene fuori è comunque assai confortante tra scudisciate black, arpeggi folk e partiture doom, che mi hanno portato a pensare ai nostri come la risposta europea agli Agalloch sin dalla title track che apre il dischetto. Fatto sta che la band mi seduce sin dal primo ascolto con la propria furia black controllata, che si palesa attraverso riff acuminati, i classici tremolo picking ad amplificare la componente melodica, break acustici (presenti un po' ovunque lungo tutto il lavoro), eterei passaggi tastieristici e uno screaming lacerante, che sa il fatto suo, a completare un lavoro che sembrerebbe già avere connotati di maturità di un certo tipo. "Hatets Avgrund" parte a mille per rallentare quasi immediatamente; ma è la parte centrale a colpirmi per le sue affascinanti melodie ancestrali, figlie probabilmente di un retaggio folklorico che ben va a braccetto con l'intermezzo acustico che segue e amplifica la portata emotiva del brano. La chiusura è affidata all'intensità alchemica di "Månens Kraft", un brano di oltre nove minuti, in cui ci ho sentito un che di viking nelle note iniziali, prima che cedessero il posto a chitarra acustica e keys in un suggestivo intermezzo malinconico, per poi lasciarsi sopraffare dall'asprezza delle chitarre che vanno a chiudere veementemente, ma anche con una certa eleganza, una release sicuramente intensa, tagliente, epica, e a cui concedere senza esitazione una chance d'ascolto. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 75

Wurmian - Immemorial Shrine

#PER CHI AMA: Death/Doom
I Wurmian sono una one-man-band francese guidata da Antoine Scholtès, il classico polistrumentista che un bel giorno (era il 2024) si è svegliato e ha deciso di mettere su una band, anche se l'artista di Clermont Ferrand, ha in realtà altri due progetti, i Lyrside (che suonano melo death) e gli Inherits the Void (dediti a un interessante black atmosferico). Nei Wurmian, Antoine, ha invece pensato di muoversi tra le pieghe di un death melodico vecchio stampo sporcato da derive doom, con 'Immemorial Shrine' a ergersi come debutto assoluto. Un disco di sette pezzi che si apre con le melodie di scuola Amorphis di "Aeon Afterglows". È palese sin dal primo secondo che non ci troviamo però di fronte alla classe dei gods finlandesi, e che il progetto è ancora in fase embrionale e merita qualche aggiustamente per trovare la sua più giusta configurazione. Però la melodia delle chitarre ha sicuramente una certa vena catchy che in un qualche modo cattura l'ascoltatore, soprattutto nella parte più atmosferica di metà brano, senza tuttavia rinunciare a una certa ruvidezza negli arrangiamenti o in alcune frequenti sfuriate ritmiche. Anche l'incipit della title track mostra forti reminiscenze verso i finlandesi e sicuramente questo sembra rappresentare il punto di forza dei Wurmian. Da rivedere invece forse la sezione ritmica, che ha un'intelaiatura dal piglio decisamente furibondo e old school, che forse tende a far perdere il focus sul sound proposto. Decisamente meglio laddove il musicista francese rallenta, rasentando territori doom alla October Tide, prestando più attenzione alla cura dei dettagli, come accade negli ultimi 90 secondi della stessa traccia. In stile Katatonia invece la terza "Haven", in cui è più evidente la ricerca di freschezza nelle linee melodiche e nel break di tastiera attorno al secondo minuto, con un giro di chitarra in sottofondo ancora a evocare i master svedesi, al pari di altre intersezioni di melodia verso il terzo e quarto minuto, quasi a voler dare modo di riprenderci prima della battaglia pronta a incombere. La voce si conferma qui, ma in generale ovunque, assai roca, un growling robusto, e forse troppo ancorato agli anni '90, su cui farei magari qualche aggiustamento. "Spires of Sorrow" si muove sulla falsariga, iniziando più roboante per poi assestarsi su un mid-tempo, per poi assestare qualche scheggia di death nudo e crudo qua e là, evocante gli At the Gates e gli Entombed. Il lavoro dei Wurmian prosegue poi sostanzialmente seguendo un canovaccio piuttosto simile, mettendosi in mostra nelle parti più atmosferiche di "Yearning Unseen", nel break centrale di "Sleeping Giants", che mi ha portato alla mente gli albori death/doom dei The Gathering (quelli senza Annecke), al pari della conclusiva e sempre (fin troppo) coerente "The Everflowing Stream", per quello che definirei il più classico dei tuffi nel passato, per una sorta di riaffermazione di suoni che mancavano tra i miei ascolti da un bel po' di tempo. (Francesco Scarci)

(Pest Records - 2025)
Voto: 68

giovedì 25 settembre 2025

Dark Solstice - Where Black Stars Beckon

#PER CHI AMA: Melo Death/Symph Black
Quello dei bavaresi Dark Solstice è un debutto assoluto, un EP che segna l'inizio di una nuova era per una band che vede comunque musicisti aver militato in precedenti formazioni, come Agathodaimon e Ristridi. 'Where Black Stars Beckon' contiene solo tre tracce, che forse non sono del tutto sufficienti per delineare la proposta di questa nuova entità teutonica. Il lavoro si posiziona infatti inizialmente sulla linea di galleggiamento di un melodeath, contaminato da influenze più moderne, dark/gothic grooveggianti. Un mix interesssante, che nell'iniziale "Pathways", mi obbliga piacevolmente a tenere l'orecchio sul pezzo: partenza in sordina, una buona dose di melodia, una ritmica compassata, un discreto growl, una cascata di riff, una certa varietà nei tempi, chorus puliti e qualche zampata di black melodico dal taglio scandinavo, che non guasta mai. E il gioco è fatto. Più classica e rocciosa invece la successiva "Open", che sfodera un riffing groove che marcia oppressivo e furente, mentre il cantato di Jonathan Rittirsch spinge al limite la propria ugola. Il brano sembra scivolare via senza fare una piega, tuttavia la ritmica va mutando verso sonorità quasi symph black, a ricordarmi da dove sono venuti gli Emperor a metà degli anni '90. Un cambio di rotta inaspettato rispetto al primo pezzo. E un nuovo cambio di rotta con la traccia finale, la title track, che si affida a una buona linea di tastiere per aprire le danze e lanciarsi poi in un cosmic black che per certi versi mi ha evocato i Mesarthim, fatto salvo per un growling sempre più orientato verso lidi death, e aancora giri di chitarra decisamente ricchi di groove (per non parlare di un assolo da urlo). Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, potremmo sentirne delle belle, quando a breve, mi aspetto di poter ascoltare un più strutturato full length dei Dark Solstice. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

Skyforger - Teikas

#PER CHI AMA: Pagan/Folk
Nel panorama del folk metal europeo, dove le tradizioni antiche si fondono con la furia del metal estremo, gli Skyforger rappresentano un pilastro indiscusso, una band che dal 1995 a oggi, ha portato con fierezza la voce della propria eredità culturale. 'Teikas" è il settimo album dell'ensemble lettone, che da sempre mescola pagan metal con elementi folk autentici, e ancora oggi mantiene un ruolo centrale nella scena, quasi come se fossero i custodi di un prezioso segreto. Il nuovo lavoro segna un gradito ritorno, dopo un preoccupante decennio di silenzio discografico. Il disco è influenzato dalle radici black metal dei primi lavori (e "Dieva Suss" già conferma questo spirito indomito) ma arricchito da un folk più maturo e narrativo, confermando i nostri come un punto di riferimento per chi cerca un metal che sia al tempo stesso brutale e culturalmente profondo, complici anche liriche che affrontano miti e leggende della tradizione lettone. Gli arrangiamenti poi sono stratificati e organici, con un uso di strumenti folk, mai invasivi, come cornamuse e flauti, che s'intrecciano a riff black/speed metal affilati e una batteria martellante, creando un contrasto tra aggressività e melodia epica. La voce di Pēteris Kvetkovskis al microfono alterna growl feroci a un cantato pulito. Per quanto riguarda i brani chiave, citerei "Spēlmanis", che palesa una certa vena speed metal, arricchita da lievi derive folkloriche. Ottima quella linea di basso potente che apre invece la più roboante "Spīgana", mentre "Mājas Kungs" si distingue per la sua tellurica intro, l'intensità epica, e un rifferama compassato che marcia, rutilante, alla stregua di un corteo funebre, e si muove tra porzioni atmosferiche quasi fiabesche, merito di un flauto che si guadagna la scena per la melodia che rilascia. Una chitarra poi ne raddoppia il suono per prenderne successivamente il posto e lanciarsi in un bell'assolo, elemento che di certo non scarseggia in questa release. E se l'incipit di "Rex Semigalliae" sembra uno dei vecchi pezzi acustici degli In Flames, di sicuro quando inizia a premere sull'acceleratore, fa capire come i nostri negli ultimi dieci anni, non si siano certo cullati sugli allori, ma accanto a quel sound che evoca anche i vecchi Annihilator e Skyclad, si divertono ancora a impreziosire il proprio sound con tutto l'armamentario folk in loro possesso e, ciliegina sulla torta, a piazzarci un altro fantastico assolo in chiusura. Le cornamusa aprono "Svētbirzs" e sembra quasi che la band ci voglia narrare qualcosa della storia del proprio paese, in un brano decisamente più controllato rispetto ai precedenti. E se "Velnakmens" lascia intravedere alcune reminiscenze di "Iron Maideniana" memoria nella linea delle chitarre, ecco che zampogne e zampognari, calano quegli elementi etnici per rendere il brano più peculiare. Il disco contiene 13 tracce e sarebbe delirante soffermarsi su tutte, cosi ecco che la conclusiva "Vecie Latvieši" chiude con un finale fatto di ancestrali melodie folk che chiudono un disco che brucia ancora come un fuoco antico. (Francesco Scarci)

(Thunderforge Records - 2025)
Voto: 74

mercoledì 24 settembre 2025

Waste Cult - Blame

#PER CHI AMA: Sludge/Doom/Stoner
È stata una bella sorpresa appurare che i Waste Cult provengono dal nostro Belpaese, Bologna per l'esattezza, e vederli pubblicati dalla Aesthetic Death è stata ulteriore fonte di orgoglio. In una scena doom metal contemporanea poi, dove questo sound spesso oscilla tra revival nostalgici e ibridazioni estreme, i quattro musicisti nostrani si collocano quasi come una voce autentica e introspettiva della scena italica, con 'Blame' che ne segna il debutto sulla lunga distanza. La band si affida a un doom sporcato di venature stoner e post-metal, per dar fiato alla propria voce, provando a consolidare una presenza significativa nell'underground europeo. Per quanto riguarda poi gli aspetti puramente contenutistici del disco, diciamo che ci troviamo di fronte a un lp di 45 minuti, che include otto pezzi, di cui una traccia strumentale ("Kerberos"), che si muovono su un fronte che vede la band proporre un doom classico, ma andando anche a esplorare poi anfratti più moderni. Forti di una produzione equilibrata, il disco si muove con chitarre che dominano attraverso riff potenti e distorti di scuola "sabbatiana", supportati da un bel basso tellurico e da un drumming che varia da ritmi lenti e cadenzati a groove più dinamici. Il primo nome che mi è venuto alla mente durante il mio ascolto è stato quello dei primi (non primissimi) Cathedral (la stoner "Delirium of Manners" mi ricorda parecchio da vicino la band di Lee Dorian e soci) ma anche i Monster Magnet. Questo mi dice almeno l'opener "Ad Astra", che vanta peraltro qualche riffone di scuola Paradise Lost (ai tempi di 'Shades of God'). Più morbida e introspettiva invece la title track, che apre con un tiepido arpeggio di chitarra, prima di sferragliare un rifferama più di matrice post e acquietarsi nuovamente nel caldo abbraccio di melodie crepuscolari. La voce del frontman, sempre pulita, segue un po' pedissequamente i dettami del genere; se la cava bene, ma secondo me c'è spazio per il miglioramento. Altri brani interessanti sono "Blended as One", più atmosferica, più post metal a livello ritmico, più affine anche al mio palato, devo ammettere, fatto salvo sempre per una componente vocale che qui sembra rimanere troppo nelle retrovie. E ancora, ho apprezzato la più ipno-cosmica, "The Warmest Shelter", che si affida a larghi spazi strumentali, mentre il finale consegnato a "Maze", il pezzo più lungo del disco, sembra il giusto compromesso, in bilico tra arpeggi e dinamiche linee di chitarra (e tra vocals pulite e qualche sporadico growl), a chiudere un disco interessante, considerato anche il bagaglio di musicisti che affonda le proprie radici in territori punk/thrash. Diamogli quindi un ascolto a questi Waste Cult e facciamo in modo che la nostra scena si elevi al pari delle altre grandi europee. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 70

martedì 23 settembre 2025

Undead - This Side of the Grave

#PER CHI AMA: Swedish Death
Sembra che in queste ultime sere se non ho piantato nelle orecchie un bel disco di death old school, non riesca a dormire bene. Dopo aver recensito ieri gli svedesi Grand Cadaver, oggi mi ritrovo alle prese con gli spagnoli Undead, che sembrano volermi fare un altro giro nelle lande sconfinate scandinave. 'The Side of the Grave' è il loro nuovo EP, il terzo della discografia che conta anche due full length. Le coordinate stilistiche penso siano piuttosto chiare: Swedish death che ricorda non poco quei suoni emersi dai capolavori dei primi Entombed e Dismember, con le classiche chitarre ribassate, un bel growling chiaro e distintivo, ritmiche serratissime e una solidità di base inamovibile. Se da un lato questi sono i punti di forza del quartetto di Madrid, alla fine si riveleranno anche un inevitabile boomerang, che spinge a dire che l'inventiva dei nostri è pari quasi a zero e che gli originali erano decisamente meglio. Eppure, i brani sono interessanti, diretti, oscuri, addirittura con un pizzico di melodia (il mio preferito è il più ipnotico e morboso "I am the Curse") e con tematiche che evocano addirittura la spiritualità orientale (penso a "Samsara" che rimanda al ciclo buddhista di morte e rinascita). Ottima sicuramente la porzione tecnica (pirotecnico l'assolo di "Blood Enemy") ma quello che mi rimane alla fine dopo l'ultimo brano di questo EP, è una forte sensazione di aver ascoltato qualcosa che emula quello che realmente mi faceva impazzire nel 1991. Peccato solo che oggi siamo nel 2025. (Francesco Scarci)

(Edged Circle Productions - 2025)
Voto: 63

Vigljós - Tome II: Ignis Sacer

#PER CHI AMA: Raw Black/Psichedelia
Dalla Svizzera con furore. È proprio il caso di dirlo. Gli svizzeri Vigljós tornano con un nuovo album, dopo il debutto dello scorso anno intitolato 'Tome I: Apidæ'. Quanto contenuto in questo 'Tome II: Ignis Sacer' è un feroce black metal che vede come tematica principale la vita delle api, si avete letto bene, il cui senso metaforico è da rapportarsi però ai cicli di vita e di morte della società. Per quanto riguarda gli aspetti puramente musicali, la band fonde la freddezza del black metal con elementi più psichedelici (ascoltate la seconda metà di "A Seed of Aberration" per capire meglio la proposta del quartetto di Basilea) e medievali (l'intro "Sowing" o "Fallow - A New Cycle Begins" sono alquanto emblematiche a tal proposito). Quindi se da un lato la proposta nuda e cruda di un rozzo black metal potrebbe suonare alquanto abusata, tra deliranti grim vocals, blast-beat impazziti e chitarre taglienti più di una lama di rasoio, è in realtà poi il contorno ad arricchire una proposta, che rischierebbe di passare totalmente inosservata. E fortunatamente, il risultato non è affatto male, con le ritmiche incendiarie che rallentano in "The Rot", mentre la voce di L, continua a urlare sgraziatamente, e in sottofondo si palesa un po' ovunque, l'eco di un mellotron. Chiaro che non ci troviamo di fronte a chissà quale proposta innovativa: forse l'idea di fondo era quella di mantenere la ruvidezza del black, con giusto una spolverata di elementi psichedelici. Diciamo quindi che ci sono cose apprezzabili, il tentativo di miscelare raw black con elementi esoterici appunto, mentre altre, quelle più puramente ancorate a una tradizione di stampo '90s, che francamente iniziano un po' a stancare (dae un ascolto a "Claviceps" o "Delusions of Grandeur", con quest'ultimo pezzo che puzza addirittura di black'n'roll, ma che per lo meno sfodera interessanti divagazioni dal sapore settantiano). "Decadency and Degeneration" ha un piglio che richiama ancora il black'n'rock, ma le chitarre in sospensione, il vortice di furia incontrollata che si palesa dopo 90 secondi, e quello screaming, alla lunga fastidioso, la ricolloca nei ranghi, dopo poco. Un altro tentativo apprezzabile lo ritroviamo nel sound compassato di "Harvest", che in sottofondo sforna visioni oniriche di doorsiana memoria. Insomma, l'avrete capito, c'è ancora da lavorara affinchè il sottoscritto diventi un fan della band elvetica anche se, devo pur ammettere, di apprezzare il tentativo di portare nuove idee a un genere quasi in fase di stagnazione. E allora serve più coraggio se si vuole fondere tradizione e innovazione e i Vigljós porebbero anche averlo. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

lunedì 22 settembre 2025

Grand Cadaver - The Rot Beneath

#PER CHI AMA: Swedish Death
Nel vasto universo del metal, spesso orientato verso tendenze fugaci e mode effimere, i Grand Cadaver si ergono come un autentico baluardo di integrità musicale. Questo supergruppo svedese, attivo dal 2020, ha saputo riportare alla ribalta il classico death metal di Stoccolma, infondendovi un'elettrizzante energia brutale che lo rende fresco e intramontabile. Formati da veterani di spicco della scena musicale come Mikael Stanne (Dark Tranquillity), Christian Jansson (Pagandom) e Daniel Liljekvist (ex-Katatonia), i cinque svedesi si sono guadagnati un ruolo di rilievo nel rinascimento old school, mescolando l'eredità sonora di leggende come i primi Entombed, Unleashed e Dismember con una vitalità sorprendente. Il loro ultimo EP, 'The Rot Beneath', condensa in quattro brani l'essenza del loro stile, che sia chiaro, non inventa certo nulla di nuovo. Si tratta di un manifesto sonoro che celebra la tradizione dello Swedish death metal, pertanto aspettatevi chitarre ronzanti e iper ribassate che creano un'atmosfera viscerale di decomposizione, mentre ogni traccia testimonia la loro abilità nel salvaguardare un genere che rifiuta ostinatamente di soccombere al tempo. La conclusiva "Darkened Apathy" si distingue per il suo audace rallentamento, quasi a voler dimostrare che anche nel caos devastante del metal, c'è spazio per momenti di inquietante e deturpante introspezione. Lasciatevi travolgere allora dall'aggressività incandescente delle chitarre, dalle vocalità abrasive di Mikael Stanne e dai bombardanti blast beat di Daniel Liljekvist. Per chi ancora custodisce con reverenza l'inarrestabile potenza dei mostri sacri degli anni '90, i Grand Cadaver sono una band che merita un posto rilevante. (Francesco Scarci) 

(Majestic Mountain Records - 2025)
Voto: 70

martedì 9 settembre 2025

Postmortal - Profundis Omnis


#PER CHI AMA: Funeral Doom
Dici Aesthetic Death e, il più delle volte, dici funeral doom. E cosi, in quel vasto e spesso soffocante regno, dove ogni nota sembra un passo verso l'abisso, i Postmortal emergono come un sussurro pronto a trasformarsi in un rombo sotterraneo. 'Profundis Omnis' è il loro debutto su lunga distanza, sebbene altri vagiti siano emersi dalle viscere nel 2018. Questo disco si palesa attraverso quasi un'ora di meditazione lugubre su temi di dolore, morte e disperazione, incarnando i dettami del funeral doom, nella sua forma più primordiale e intransigente. Ascoltando il duo di Cracovia sin dall'opener "Fallen", posso dire che è inequivocabilmente ispirato ai maestri del genere quali Thergothon, Shape of Despair ed Evoken. Pur non reinventano la formula, la distillano in un'essenza cruda e malata, complice peraltro un contesto low-fi che privilegia l'opacità e la profondità emotiva su ogni artificio tecnico. Il suono è un monolite compatto, con un basso e voce cavernose che rimbombano come un'eco nelle catacombe, mentre le chitarre striscianti, sembrano avvolte in un velo di riverbero che amplifica quella fastidiosa sensazione di soffocamento. Insomma, non di certo una scampagnata in un verde prato in una giornata di primavera, tutt'altro. Direi piuttosto una lenta discesa negli inferi, accompagnata da uno slow-tempo funereo con sporadici cambi di tempo che contribuiscono a opprimere ulteriormente quel peso che grava su un cuore già in agonia. Non sono sufficienti quelle tiepide tastiere in "Darkest Desire", che aggiungono un velato alone gotico all'incedere del disco, per provare alleggerire un lavoro pachidermico, e in grado di generare solo una plumbea angoscia esistenziale. Come quella sprigionata nelle note iniziali di "Decay of Paradise" da spettrali vocals che provano a fare da contraltare al growling profondo di Dawid in un pezzo comunque asfissiante, che non vede troppi sussulti, fatto salvo per una seconda parte di brano più atmosferica. Il disco continua a presentarsi come una montagna invalicabile e i quasi 22 minuti delle successive "Prophecy of the Endless" e "Queen of Woe", non mi agevolano certo il compito nel descrivervi un classico sound funeral doom che persiste nel mantenerci intrappolati in una profondità abissale dalla quale sarà assai complicato venirne fuori. Per pochi impavidi coraggiosi. (Francesco Scarci) 
 
(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 67
 

Mellom - The Empire of Gloom

#PER CHI AMA: Black/Death
In un panorama metal dove l'oscurità è spesso un'arma a doppio taglio, i teutonici Mellom irrompono con 'The Empire of Gloom', debut album uscito a inizio 2025, un disco che trasforma il black/death metal in un monolito di piombo fuso, pesante come un sudario di cenere che si deposita lenta ma inesorabile. Questo duo originario di Francoforte, costituito dai musicisti David Hübsch e Skadi, emerge dalle nebbie dell'underground come un'entità che non urla solo la propria rabbia, ma la sussurra attraverso corrosivi strati di black metal atmosferico. Radicati in una tradizione black metal dal piglio scandinavo, i Mellom non reinventano di certo la ruota, ma la ricoprono sicuramente di una ruggine stridente, con un lavoro che pesa sull'anima senza bisogno di artifici di alcuna sorta. La produzione, affidata a un approccio diretto e senza troppi fronzoli, sembra essere il vero collante di questo impero di tenebre, in cui gli arrangiamenti si mostrano minimalisti ma stratificati, con l'incedere sonoro che si muove tra serrate scorribande black ("Rules of the Universe" e a ruota, la successiva "The Last Dance") e frangenti più mid-tempo oriented (ascoltatevi "Burden", la title track o la più doomish "Feed the Machine", in cui ho sentito qualche eco dei Rotting Christ nella marzialità delle sue chitarre). Alla fine, quello che ne viene fuori è un disco sano e onesto che, come detto, non scopre certo l'acqua calda, ma trasforma il metal estremo in una terapia oscura e senza compromessi, con il caustico screaming di Skadi ad accompagnare un riffing glaciale, a tratti disturbante, con linee melodiche non troppo catchy, ma comunque presenti. Il disco è sicuramente ostico da ascoltare, complici le laceranti vocals della frontwoman, ma anche l'assenza di certi picchi melodici, a cui recentemente il black ha aperto. Ciò non toglie che per chi è un fan di certe sonorità "old fashion", 'The Empire of Gloom' potrebbe rappresentare un'alternativa ai vecchi classici. Prima di chiudere, vorrei citarvi un ultimo brano, "Beyond the Endless Waves", che con il suo melodico tremolo picking, e le sue clean vocals, potrebbe rivelarsi il pezzo più accessibile del lotto, sicuramente il mio preferito, emblema di un disco che presenta al mondo questi nuovi Mellom, che con qualche aggiustamento in futuro, potrebbero essere anche una paicevole sorpresa. (Francesco Scarci)

lunedì 8 settembre 2025

Contemplation - Au Bord du Précipice

#PER CHI AMA: Atmospheric Death/Doom
Nell'underground più profondo, la one-man band francese dei Contemplation sembra volersi distinguere come un progetto visionario, guidato dal polistrumentista francese Matthieu Ducheine. Il secondo full-length (ci sarebbe anche un disco in collaborazione con i Chrono.fixion), 'Au Bord du Précipice', vorrebbe infatti rappresentare un audace esperimento in grado di fondere doom death con elementi atmosferici, pagani e folk, nel tentativo di creare un ibrido unico nel suo genere. Attivo dal 2021 con un debutto omonimo, all'insegna di un death più sinfonico, il factotum Ducheine si lancia in sonorità affini (seppur più cupe e funeral) anche in questo lavoro, sciorinando arrangiamenti complessi, coadiuvati da un violino contemplativo, che lui stesso suona, chitarre super ribassate, e in generale, una linea ritmica solida e profonda, ammorbidita da eterei synth, e imbestialita da uno spaventoso growl cavernoso (per cui auspico a breve di affiancare clean vocals). Se i testi sembrano esplorare temi introspettivi, la musica esprime, attraverso il malinconico suono del violino, immagini di paesaggi desolati e montagne intese come rifugio spirituale, con il titolo dell'album a suggerire una condizione al confine dell'abisso esistenziale, decisamente in linea con l'estetica doom. Musicalmente, ho adorato "Endless Mental Slavery", per la sua atmosfera pesante e meditativa, frutto di un riffing pachidermico che s'intreccia con le splendide dinamiche offerte dal violino. La title track, introduce elementi sperimentali (qualcuno li definisce addirittura dub) più marcati con ritmiche che emergono da un'intro atmosferica, a cui il violino fa costantemente da contraltare, senza scordare comunque una linea melodica notevole, sempre presente nell'intelaiatura musicale dei Contemplation. Fatto sta, che la proposta della band transalpina si lascia piacevolmente e sorprendentemente ascoltare, pur proponendo un genere di per sé, assai ostico. Eppure, con sperimentazioni vocali che mi hanno evocato un che dei Violet Cold ("Le Recours Aux Montagnes"), raffinate linee melodiche e ampie parti atmosferiche ("Dust to Dust"), il disco ha saputo conquistarmi per la sua originalità sin dalle prime note. (Francesco Scarci)

mercoledì 3 settembre 2025

She’s Green - Chrysalis

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Uscito poco più di due settimane fa, 'Chrysalis' è il secondo EP dei She’s Green, quintetto originario di Minneapolis e attivo dal 2022, che si muove con disinvoltura tra indie rock, shoegaze e dream-pop. Composto da Zofia Smith (voce), Liam Armstrong e Raines Lucas (chitarre), Teddy Nordvold (basso) e Kevin Seebeck (batteria), il gruppo conferma con questa uscita un’evoluzione sonora che amplia i confini del loro sound, mantenendo intatto quel gusto etereo che li aveva fatti emergere sulla scena a suo tempo. Il risultato che ne viene fuori è un suono che coniuga densità evocativa e limpidezza: le chitarre in tremolo picking s'intrecciano malinconicamente a timbri naturali in una stratificazione che trasforma l’ambient in un organismo vivo con una poetica affascinante che lascia spazio a ogni strumento per respirare e mantenere la propria identità. Questo è quanto si evince già in apertura con "Graze", un crocevia di immagini intense che, a braccetto con la potenza sonica dei nostri, instaurano un’atmosfera d'inquietudine palpabile. A ruota segue "Willow", più vibrante e ritmata, in cui la voce di Zofia, si fa fragile ma urgente, e sembra stagliarsi calda al tramonto, al termine di una giornata di fine estate. "Figurines" è più introspettiva e forse troppo melliflua per il sottoscritto, con quel suo dream pop assai spinto, mentre "Silhouette" opta per un minimalismo (anche nella durata) romantico e poetico, costruendo un climax emotivo soffuso e sospeso. A chiudere il tutto, ecco "Little Birds", la giusta conclusione per un lavoro del genere, una traccia commovente, un vellutato ed etereo viaggio intimistico nel profondo delle nostre anime. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)

martedì 2 settembre 2025

Tetramorphe Impure - The Sunset Of Being

#PER CHI AMA: Death/Doom
Immaginate un crepuscolo che non svanisce mai, un orizzonte avvolto da una nebbia di piombo che inghiottisce ogni barlume di luce. Ecco, questo potrebbe essere il mondo evocato da 'The Sunset of Being', debutto discografico dei Tetramorphe Impure, via Aesthetic Death, dopo una gavetta durata quasi vent'anni nel sottobosco italico. Quello che vi presento, è il progetto solista di Damien, uno che ha suonato nei Mortuary Drape ai tempi di 'Buried in Time', e che ha pensato bene di tuffarsi nel funeral doom, dopo aver esplorato il black con i Comando Praetorio. E cosi, affondando le radici negli abissi di band quali Thergothon e Skepticism, il buon Damien si è lanciato con questo monolite sonoro in una scena doom sempre più affollata di epigoni, cercando di distinguersi dalla massa, nel trasformare la lentezza in un'arma affilata, un suono che non aggredisce ma erode. Forte di una produzione curata e incisiva, il lavoro si conferma come un'opera di oppressione sonora capace di sfoggiare un suono plumbeo, denso come fango che inghiotte ogni passo, dove il basso rimbomba come un tuono sotterraneo e le chitarre si trascinano in riff corrosivi che sembrano scolpiti nella roccia erosa dal tempo. Non c'è spazio per troppi fronzoli qui, gli arrangiamenti privilegiano una stratificazione essenziale, con il drumming che procede a ritmi funerei e accelerazioni sporadiche che evocano un cuore in affanno, e il basso che funge da spina dorsale, ancorando il tutto in un abisso di gravità. Quattro pezzi per quasi 40 minuti di musica in cui le chitarre, avvolte in un pesante velo di distorsione, si muovono in territori death, mentre sporadici inserti di tastiere aggiungono un velo di nebbia eterea, senza mai alleggerire il fardello che questo disco si porta. Nell'apertura affidata a "Forsaken Light", emerge subito un senso di abbandono, con immagini di discesa verso l'oblio che riecheggiano le angosce esistenziali di un mondo che sta per cadere a pezzi, e in cui Damien infonde il proprio tocco personale, nel proporre un death doom intriso di una malinconia goticheggiante, alternando peraltro growling vocals a un pulito intonato e spettrale. "Night Chants" sembra rallentare ulteriormente, sebbene non manchi una sfuriata death dopo un paio di giri d'orologio, ma è da qui che si aprono passaggi più crepuscolari, quasi esoterici e decisamente più originali per l'economia dell'album. "Spirit of Gravity" mostra il suo cuore oscuro, chiamando in causa, nelle sue linee di chitarra, un che dei primi Paradise Lost, in un pezzo che si palesa con un pesante rifferama doom e un'alternanza vocale ipnotica e sinistra. Infine, la title track chiude il cerchio con una violenta discesa negli abissi, dove i growl si dissolvono in clean malinconici, accompagnati da timide tastiere che evocano un tramonto eterno – un finale che incarna la dissoluzione, rendendolo il culmine significativo di un album che non concede redenzione. (Francesco Scarci)