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lunedì 21 aprile 2025

Mesarthim - Anthropic Bias/Departure

#PER CHI AMA: Cosmic Black
Una delle band più enigmatiche del panorama estremo è sicuramente rappresentata dagli australiani Mesarthim, che se ne escono con questo nuovo 'Anthropic Bias/Departure', che raccoglie in realtà, due singoli usciti rispettivamente nel 2022 e 2024. Ora, che siano due brani, non significa che la durata del lavoro sia esigua, visti i quasi 37 minuti di suoni che il duo aussie ci propone, miscelando, come al solito, elementi di black metal atmosferico con pesanti influenze electro-ambient, in grado di evocare immagini spaziali, attraverso una musica che si muove tra momenti di intensità estrema e fasi più contemplative. Il titolo suggerisce una tematica legata al bias antropico (l'inclinazione umana a vedere se stessi come centrali nell'universo) e alla partenza o all'allontanamento da questo punto di vista. Probabilmente (non ho le liriche nelle mie mani), proprio da questi temi cosmologici, i nostri decollano in direzione della loro galassia lontana, sprigionando quel propellente sonoro che si muove lungo le coordinate di un black atmosferico, su cui pennellare quei deliziosi grovigli di synth pulsanti. E poi, proprio su questi due elementi, giocare su un'alternanza tra parti più glaciali di chitarra e partiture elettroniche, che però sulla lunga distanza potrebbero anche stancare, data una certa prolissità nel ripetere certe strutture estetiche. Trattandosi di due soli brani, uno di 17 e l'altro di 19 minuti, non vorrei soffermarmi (e sfiancarvi), descrivendoli nei minimi dettagli. Le peculiarità rimangono infatti le medesime dei precedenti sei album e nove EP, garantendo quindi quelle classiche progressioni melodiche, corredate da un (ab)uso nell'utilizzo dei synth, su cui poi si stagliano le screaming vocals del cantante. Ecco, quindi niente di nuovo sul fronte orientale, tanta buona musica che ha un solo difetto: rischiare di diventare scontata. (Francesco Scarci)

sabato 19 aprile 2025

Wormwood - The Star

#PER CHI AMA: Melo Black
I Wormwood sono noti per il loro sound che mescola elementi di black metal con influenze melodiche e atmosfere evocative. 'The Star' rappresenta la quarta tappa della loro carriera, cominciata ormai nel 2014. E proprio in occasione del decennale della band, lo scorso anno ha visto l'uscita di quest'album ad andare a esplorare temi legati al collasso della società attraverso la loro lente oscura. Sette i brani a disposizione del quintetto di Stoccolma, a cominciare dall'iniziale "Stjärnfall", cantata in lingua madre, e che mette da subito in mostra le caratteristiche della band scandinava, ossia quello di alternare passaggi aggressivi e momenti più melodici (si ascolti il lungo break atmosferico di "pink floydiana" memoria, per capire cosa intendo), creando un contrasto che tiene l'ascoltatore coinvolto per tutto il tempo, nonostante la proposta dei nostri non brilli proprio in termini di originalità. Eppure è proprio grazie a questa modalità, all'uso di vocals sia in screaming che più pulite e accattivanti, che l'attenzione si mantiene sempre ai massimi livelli. Se passiamo a "A Distant Glow", non possiamo non notare le affinità con i Katatonia di 'Brave Murder Day' e non posso che esultare di fronte alle facili e melodiche linee di chitarra proposte. Parimenti, "Liminal", ma in generale un po' tutti i brani qui contenuti, mostrano caratteristiche piuttosto simili, con un uso distorto delle chitarre (spesso e volentieri in tremolo picking) coadiuvate da un ottimo lavoro alle tastiere, una batteria secca ma incisiva e ampie sezioni strumentali che offrono respiro e profondità, e in chiusura non mancano neppure ottimi assoli. Senza dimenticare anche qualche variazione dal sapore folk che possiamo riscontrare qua e là, e che proprio in "Liminal", nella successiva "Galactic Blood" o in "Suffer Existence", ne sento la maggior influenza. Poi citavo per l'opening track, i suoi break atmosferici, ebbene anche quelli fanno parte del corredo della band svedese, che sia attraverso l'uso di parti acustiche o dell'efficace violino di Martin Björklund, contribuiscono a rendere la proposta dei Wormwood costantemente accattivante, arricchendo ulteriormente il paesaggio sonoro. Non mancano nemmeno le tracce mega tirate (la già citata "Suffer Existence" ne è un esempio), tra blast beat, furiose gallopate, screaming selvaggi, voci femminili e parti folkloriche, giusto a ricordare che la band sa muoversi a 360° con grande disinvoltura e abilità tecnica. E il finale affidato a "Ro" rappresenta la summa di tutto questo, ancora con porzioni furiose, voci femminili, delicate componenti atmosferiche e parti più progressive. Insomma, 'The Star' è un lavoro a cui dare più di una chance, ve lo garantisco. (Francesco Scarci)

(Black Lodge Records - 2024)
Voto: 76

https://wormwood-official.bandcamp.com/album/the-star

mercoledì 16 aprile 2025

Gonemage - Entranced by the Ice Storm

#PER CHI AMA: Experimental Black Metal
Dallas, Texas: è da qui che arrivano i Gonemage, la creatura solitaria di tal Galimgim che propone un EP di due pezzi che dovrebbe fare da apripista al nuovo album. 'Entranced by the Ice Storm' è cosi un assaggio di quello che ci dovremmo verosimilmente aspettare nel prossimo futuro. Il sound del factotum americano suona come una celebrazione, un frammento di un universo sonoro dove il black sinfonico degli anni ’90 si scontra con l’eco spettrale di sintetizzatori 8-bit e 16-bit, un’ode al caos digitale e alla furia primordiale. In queste due brevi ma dense composizioni, il mastermind statunitense sembra fondere l’eredità black con le texture di un computer anni '80 (ah, il mio bel Commodore 64, che ricordi/nds). È in questo contesto che il sipario si apre con "Entranced by the Ice Storm", una song in cui convivono synth retrò con riff affilati come stalattiti e Galimgim che si palesa dietro al microfono con grim vocals demoniache. L’atmosfera sintetica mi ha evocato un che dei nostri Progenie Terrestre Pura, anche se la proposta della band strizza l'occhio a un symph black industrialoide, contaminato da derive old fashion dei Dødheimsgard. I chiptune della seconda "Giga Axe Beam" pulsano invece come la scheda madre del mio computer mentre ascolto black metal, in un contrasto ipnotico e disorientante, per un esperimento che certo non si piega alle convenzioni, mentre le voci si sdoppiano o forse triplicano, in un tripudio di suoni che sembrano addirittura evocare un che dei Mr. Bungle, in un lavoro che alla fine è tutto da scoprire. (Francesco Scarci)

(Lilang Isla - 2025)
Voto: 69

https://gonemage.bandcamp.com/album/entranced-by-the-ice-storm

martedì 15 aprile 2025

Dark Oath - Ages of Man

#PER CHI AMA: Symph Death
I Dark Oath, band portoghese che sembra essermi sfuggita negli ultimi anni, tornano in scena con il loro secondo album, 'Ages of Man', pubblicato ben otto anni dopo il debutto 'When Fire Engulfs the Earth'. Questo nuovo lavoro rappresenta un ambizioso viaggio attraverso le epoche dell’umanità, narrate secondo la visione del poeta greco Esiodo. Si tratta di un concept album suddiviso in nove tracce, ognuna dedicata a una delle cinque età della storia dell'uomo – Oro, Argento, Bronzo, Eroica e Ferro – mescolando con maestria death metal melodico, orchestrazioni sinfoniche e suggestioni folk. Il risultato è un’opera sonora che si muove tra il maestoso e l’opprimente, capace di trascinare l’ascoltatore in atmosfere mitologiche dense di grandezza e decadimento. La forza della band risiede nel possente growling di Sara Leitão e nella raffinata abilità compositiva di Joël Martins alle chitarre, che donano spessore tecnico all’intero lavoro. Tuttavia, è proprio la densità dell’album a renderlo, forse, eccessivamente monolitico in alcuni episodi. Nonostante ciò, ogni traccia sembra delineare un capitolo distinto di questo viaggio epico, dipingendo affreschi sonori ricchi di pathos e dettagli evocativi. Il disco si apre con "Gold I (Dawn of Time)", un’introduzione che evoca l’alba di un’era primordiale. Un’orchestrazione dai toni delicati trasporta in un’utopia lontana prima che l’irruenza del death metal prenda il sopravvento con riff taglienti e blast beat incisivi. L’atmosfera iniziale è insieme trionfale e fragile, come a suggerire l’inevitabile caducità dell’età dell’oro. La voce di Sara Leitão entra potente, come un manifesto della perfezione originaria dell’uomo in armonia con il divino. Il viaggio prosegue con "Gold II (Fall of Time)", dove melodie accattivanti si intrecciano a un ritmo più serrato, mentre le orchestrazioni volgono verso tonalità malinconiche. Qui i Dark Oath raggiungono una delle vette del disco, ma il successivo "Silver I (A New King)" cambia registro: pur mantenendo alta l’intensità con un drumming preciso e quasi marziale, le melodie restano accessibili e memorabili. Con "Silver II (Life of Sorrow and Pain)" emerge invece una dimensione più oscura e malinconica: i riff si fanno più densi, la batteria rallenta in passaggi carichi di dramma, e le orchestrazioni ricamano un sottofondo di tristezza elegiaca. L’età del Bronzo prende forma con "Bronze I (Stolen Flame)", che omaggia il mito di Prometeo con riff più posati ma comunque potenti, mentre "Bronze II (Raging Waters)" incarna un caos primordiale attraverso percussioni impetuose che evocano tempeste marine e muri sonori travolgenti. In questa sezione l’equilibrio tra violenza e armonie sinfoniche, influenzato dalla scuola dei Fleshgod Apocalypse, raggiunge un punto culminante, creando suggestioni tanto intense quanto seducenti. Segue l’età Eroica, che si apre con "Heroic I (Sons of Gods and Mortal Men)", un brano intriso di gloria cinematografica e tragedia epica, arricchito da accenni folk che aggiungono una nota di unicità. Si giunge infine a "Heroic II (Elysian Fields)", un inno solenne che ci traghetta verso l’ultimo capitolo: "Iron (Through the Veil of Night)". Questo brano conclusivo si avvale della partecipazione di Paolo Rossi dei Fleshgod Apocalypse, le cui appassionate clean vocals si intrecciano magistralmente con gli elementi dark e sinfonici del pezzo. Il crescendo finale è una danza evocativa tra oscurità e magnificenza, chiudendo il disco in modo potente e appagante. Con 'Ages of Man', i Dark Oath dimostrano di avere la capacità di creare un’opera complessa e coerente, capace di trasportare l’ascoltatore in un mondo mitologico tanto affascinante quanto imponente. Un album che richiede attenzione ma ripaga con atmosfere e visioni musicali profonde e coinvolgenti. (Francesco Scarci)

venerdì 11 aprile 2025

Harakiri for the Sky - Scorched Earth

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Rock
Ragazzi, credo di aver già spolpato questo disco a forza di ascoltarlo! 'Scorched Earth', sesto capitolo degli austriaci Harakiri for the Sky, è una bomba che non tradisce lo stile che li ha resi grandi, ma ci aggiunge quel tocco in più, quei dettagli sonori che fanno la differenza. Qui si sente un’influenza post-rock ancora più marcata, che amplifica la vena introspettiva che colpisce dritto al cuore. Si parte con "Heal Me", un’apertura che è un’esplosione di (post-) black melodico, con accelerazioni da brividi e la voce di Tim Yatras degli Austere, che s'incastra alla perfezione. Tra squarci eterei e una malinconia che ti prende alla gola, grazie a chitarre, tastiere da standing ovation e alle urla taglienti di J.J., questo pezzo è già un biglietto da visita pazzesco. E poi arriva "Keep Me Longing" e, giuro, pensavo che la prima traccia fosse il top, ma qui si sale ancora! Melodie che ti mandano in estasi, raffiche furiose, atmosfere shoegaze da sogno e break acustici che ti avvolgono: c’è tutto, e funziona alla grande. La complessità di questi brani è impressionante, ti travolge con emozioni forti, anche grazie a testi che parlano di un mondo che cade a pezzi e della sua fragilità – roba che ti fa pensare. Le canzoni sono belle lunghe, siamo sugli otto minuti di media, e nella mia versione limitata (oltre 70 minuti con due bonus track, tra cui la cover spettacolare di "Street Spirit (Fade Out)" dei Radiohead cantata dal cantante dei Groza), diventano vere e proprie mini-suite dove il duo viennese-salisburghese riversa tutto il proprio talento. Sentite "Without You I'm Just a Sad Song": quel break acustico alla Alcest è pura poesia, un brano elegante e sfaccettato che farà impazzire i fan di vecchia data e conquisterà chiunque si avvicini alla band per la prima volta. Il livello resta altissimo con "No Graves but the Sea" e soprattutto "With Autumn I'll Surrender", dove una melodia catchy guida un pezzo oscuro e avvolgente che ti tiene incollato dall’inizio alla fine. Ok, magari la durata totale del disco potrebbe spaventare i meno pazienti, ma la cura e la raffinatezza con cui questi due austriaci si muovono tra le tracce sono semplicemente da applausi. Non posso non citare poi, "Too Late for Goodbyes", con la voce potente di Serena Cherry degli Svalbard che affianca J.J. in un duetto che spacca, e la chiusura con "Elysian Fields", dove Daniel Lang dei Backwards Charm porta un vibe quasi pop, spingendo gli Harakiri fuori dalla loro comfort zone con un risultato sorprendente. Insomma, 'Scorched Earth' è un disco riuscitissimo, un viaggio sonoro che consiglio a chiunque a occhi chiusi. (Francesco Scarci)

giovedì 10 aprile 2025

Zéro Absolu - La Saignée

#PER CHI AMA: Post Black
Gli Zéro Absolu rappresentano la rinascita dei Glaciation, storica band black metal francese attiva dal 2011 al 2016 e poi tornata in scena tra il 2021 e il 2024. A causa di dispute legali legate ai diritti sul nome, il gruppo ha deciso di ripartire con una nuova identità. E così, dalle ceneri di una battaglia ancora calda, prende vita 'La Saignée', un album che si presenta come una ferita aperta, intrisa di rabbia e tormento. Questo senso di sofferenza si manifesta attraverso due composizioni mastodontiche: la title track, "La Saignée", un brano di oltre 20 minuti che apre il disco, e i successivi 13 minuti di "Le Temps Détruit Tout". Il progetto, guidato da Valnoir, si sviluppa su un campo sonoro dove il black atmosferico incontra il post-black, tracciando paesaggi cupi e struggenti, arricchiti da melodie strazianti e sintetizzatori lucenti come ghiaccio sotto un cielo plumbeo. La band, supportata da membri di Regarde les Hommes Tomber e Alcest, sorprende per la sua abili nell'unire riff taglienti come lame gelide a melodie eteree e celestiali, generando un flusso musicale tanto travolgente quanto emotivamente intenso. Nonostante l'essenza black rimanga dominante, ci sono momenti di straordinaria bellezza atmosferica, chiaramente influenzati dall’approccio onirico tipico degli Alcest. Tuttavia, proprio quando sembra regnare una calma paradisiaca, il caos si risveglia e irrompe con la sua furia devastante. Il secondo capitolo dell’album non si discosta da queste atmosfere, proponendo un attacco sonoro implacabile, con ritmi feroci e urla graffianti che trasudano veleno puro attraverso uno screaming viscerale. Eppure, le sezioni ambient, arricchite da spoken word e sintetizzatori sinistri e ipnotici, tendono progressivamente a emergere, conducendo l’ascoltatore in un paesaggio desolato e mortifero. È qui che l’album si avvia verso il suo epilogo: un ultimo riff che esplode in tutta la sua possente disperazione e un grido finale destinato a dissolversi nel vento gelido. (Francesco Scarci)

lunedì 7 aprile 2025

Caelestra - Bastion

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze
Il debutto dei Caelestra mi decisamente aveva catturato, un’eco di emozioni crude e immediate che ancora risuona nella mia memoria. Con 'Bastion', pubblicato nel dicembre 2024 senza clamori o annunci roboanti, Frank Harper propone un lavoro che porta il peso della lotta della moglie contro la fibrosi cistica. È un disco che si muove tra ombre di tristezza e barlumi di celebrazione, un riflesso di vita che, pur non eguagliando la scintilla diretta del predecessore, si staglia come un’opera dignitosa, carica di un’intensità velata di malinconia. 'Bastion' si dipana attraverso una fusione di post-metal e progressive black metal, tessendo un arazzo sonoro ricco e stratificato, ma forse meno immediato di quanto ci si potesse aspettare. L’apertura con “Halcyon” è un abbraccio dolceamaro, un’intro che si espande in paesaggi sonori che richiamano il respiro cosmico di Devin Townsend, accogliendo l’ascoltatore in un’atmosfera densa di nostalgia. Laddove il primo album brillava per la sua accessibilità, qui Harper opta per una complessità più meditata, come si sente in “Soteria”: un brano che dal post-black vira verso lidi shoegaze, con vocalizzi che dallo screaming si dissolvono in sospiri eterei, accompagnati da synth celestiali che sembrano guidarci verso un aldilà irraggiungibile. È un momento di rara bellezza, un punto di forza che testimonia la capacità di Harper di bilanciare aggressività e delicatezza. “Finisterre” colpisce con ritmiche che ruggiscono come un urlo soffocato, eco del dolore che abita l’anima del mastermind, ma si placa in sezioni più quiete, quasi a voler offrire un respiro, un equilibrio che dà corpo al suono della sua one-man band. L’effetto sorpresa del debutto, tuttavia, sembra essere svanito, lasciando spazio a una sensazione di déjà-vu che a tratti, ne offusca l’impatto. Eppure, in pezzi come “The Hollow Altar”, gli arrangiamenti si ergono con un’aura cinematografica: dai cori iniziali che si librano come un lamento sacro, si passa a un’esplosione ritmica che evolve in un intreccio denso di significato, un altro segnale della cura che Harper riversa nel suo mestiere. La chiusura arriva con “Eos”, una suite di 11 minuti che si snoda lenta e struggente. Le sue melodie malinconiche, intrecciate a una musicalità estrema – veloce, dinamica, a tratti furiosa – colpiscono nel profondo, come un addio che non trova pace. È qui che 'Bastion' rivela il suo cuore: un disco che, pur non raggiungendo l’altezza del predecessore, si distingue per la sua sincerità e per la capacità di trasformare il dolore in arte. Non è un trionfo, ma un viaggio significativo, un’ode alla resilienza che merita di essere ascoltata con attenzione, anche se con un pizzico di rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere. (Francesco Scarci)

domenica 6 aprile 2025

Ulver - Liminal Animals

#PER CHI AMA: Electro/Psych Rock
Uscito digitalmente a fine novembre dello scorso anno, e solo fisicamente il 7 marzo di quest'anno, 'Liminal Animals' è l'ultimo lavoro degli Ulver. Non è solo un album, è un lungometraggio audace, un viaggio psichedelico che sfuma i contorni della realtà, un’inquadratura sfocata dove i lupi norvegesi, ormai lontani dai roventi paesaggi del metal, ci guidano attraverso un crepuscolo liminale. La dedica a Tore Ylwizaker, il tastierista scomparso nell’agosto scorso, aleggia come un’ombra sul set, un requiem muto che s'insinua nei suoi fotogrammi. Kristoffer Rygg, il regista visionario un tempo noto come Garm, dirige i suoi fedeli compagni di scena in un abisso di synth malinconici e paesaggi sonori che si stagliano come quinte di un teatro oscuro. La cinepresa si sofferma su "A City in the Skies": un piano sequenza mozzafiato di una metropoli sospesa, costruita con riff sintetici e percussioni che ticchettano come pioggia su vetri ghiacciati. È un miraggio architettonico, una skyline di grandezza fragile che si sgretola sotto il peso del suo stesso splendore, un tableau vivant di synth-pop che si spegne in dissolvenza. Poi, un taglio netto su "Forgive Us": la luce si abbassa, l’obiettivo cattura Rygg in un primo piano straziante, la sua voce è un monologo che vibra di emozione cruda. La tromba di Nils Petter Molvær irrompe poi come un lamento solitario, un suono che stride nel buio, mentre un coro di voci melliflue s'insinua come un flashback ossessivo, un’implorazione che si perde nel vento di una sala vuota. "Nocturne #1" è uno stacco atmosferico, una sequenza muta, un’eco che ricorda quei giorni in cui gli Ulver scrivevano per cortometraggi ambient. La scena si sposta su "Locusts": un montaggio serrato di synth pulsanti e percussioni tribali, con i vocalizzi di Rygg che si liberano come un narratore fuori campo sopra un’invasione di ombre ronzanti, un quadro di tensione che si dissolve in un nero profondo. "Hollywood Babylon" cambia registro: un’inquadratura grandangolare su un boulevard al neon, troppo lucido, troppo pop, un’interferenza che stride nella pellicola oscura, ma che si piega al cinismo delle sue liriche taglienti. "The Red Light" rallenta il ritmo: una ripresa che segue una figura indistinta per strade bagnate con i synth e ritmi spezzati che costruiscono un’atmosfera da thriller notturno, girata tra i vicoli di una città senza nome. "Nocturne #2" è un’interruzione onirica, un montaggio di post-rock cinematico che richiama le distopie di "Blade Runner": pioggia al neon, synth che si espandono come un cielo artificiale, un respiro prima del finale. Si arriva al lungo finale con "Helian (Trakl)", una song di oltre undici minuti che si dipana come un ultimo atto monumentale. Jørn H. Sværen entra in scena, la sua voce recitante che declama Georg Trakl sembra quella di un poeta maledetto su un mare di synth e pulsazioni dub. È un piano sequenza infinito, con la musica che si gonfia in un crescendo di malinconia che si spegne in un fade-out lento, un sipario che cala su un film imprevedibile, seducente, ulveriano fino al midollo. (Francesco Scarci)

(House of Mythology - 2024)
Voto: 75

https://ulver.bandcamp.com/album/liminal-animals

venerdì 4 aprile 2025

Zeal & Ardor - Greif

#PER CHI AMA: Alternative/Avantgarde
Prosegue il percorso alquanto accattivante intrapreso dagli svizzero-statunitensi Zeal & Ardor, che giunge al traguardo del quarto album, il qui presente 'Greif'. L'audacia di Manuel Gagneux, leader della band, si conferma sin dalle prime battute con dei pezzi solidi, orecchiabili, originali e che vanno a consolidare la reputazione dei nostri come pionieri del crossover tra metal, blues e gospel. "Fend You Off" è subito una bomba, con le chitarre che s'intrecciano con percussioni evocative e le spettacolari melodie vocali del frontman, che si esibisce sin da subito, con un'eccellente performance, soprattutto nel ritornello azzeccatissimo del brano. "Kilonova" parte da quello che sembra essere il battito di un cuore per poi continuare su una ritmica tribale oscura e ipnotica. "Are You The Only One Now?" sembra uno di quei brani intimistici dei Radiohead che però va in crescendo a sfociare territori più estremi, ma comunque sempre molto melodici. "Go Home My Friend", al pari di "369", è il classico brano gospel di scuola Zeal & Ardor che abbiamo imparato ad apprezzare sin dal primo straordinario 'Devil is Fine'. Con "Clawing Out" ci muoviamo nei paraggi di band come i francesi CROWN, coniugando il metal con elettronica industriale. Qua e là troviamo anche pezzi che rappresentano un po' una novità per la band: penso alla cantautorale "To my Ilk" o a "Thrill" che chiama in causa addirittura gli ultimi Muse, palesando quindi una eterogeneità di fondo in questo lavoro più spiccata che nei precedenti album, spalancando le porte quindi a nuove frotte di fan. Insomma, "Greif" è un'opera che non solo soddisfa le aspettative degli storici fan degli Zeal & Ardor, ma probabilmente le supera ampiamente. Con la sua combinazione di sonorità robuste, testi evocativi e una produzione impeccabile, quest'album dimostra come gli Zeal & Ardor possano essere una forza innovativa nel panorama musicale alternativo, offrendo un'esperienza sonora che invita all'ascolto attento e alla riflessione profonda. (Francesco Scarci)
 
(Self - 2024)
Voto: 77
 

lunedì 31 marzo 2025

Total Fucking Destruction - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind/Death
Un caos primordiale irrompe sin dai primi secondi: un’apertura scomposta e stridente, dove un sax lamentoso si scontra con strumenti distorti in un turbine di suoni che aggredisce i timpani come un presagio di tempesta. Una voce s'insinua, un bisbiglio inquietante che sembra emergere da un angolo oscuro. Siamo di fronte a un disco che attinge alle radici dell’hardcore americano più crudo, ma le trasforma in un assalto grind senza compromessi. La band si muove con una precisione brutale: ritmi serrati e convulsi, strumenti che s'inseguono in un unisono feroce, per poi spezzarsi in pause calcolate, minimali, che amplificano l’impatto di ogni colpo. Il suono è spoglio, quasi ascetico, valorizzato da una produzione che lascia respirare gli strumenti nella loro essenza, con una distorsione grezza che non ha bisogno di orpelli. Persino i rari momenti di arpeggio emergono nudi, senza fronzoli, mentre le chitarre si lanciano in armonizzazioni travolgenti, semplici ma taglienti come lame. I brani sono schegge: alcuni brevissimi, altri poco più lunghi, tutti definiti da stacchi secchi, ipnotici e carichi di una violenza fredda. C’è varietà nella struttura – pezzi che si contorcono in cambi repentini, altri che procedono dritti come un ariete – ma l’energia non cala mai. Le voci sono un coro di tormenti: un urlo isterico domina la scena, accompagnato da growl gutturali e rantoli cupi che grondano disgusto. L’ironia, però, si fa strada tra le crepe, un ghigno sinistro che alleggerisce il peso dell’assalto. E poi c’è la batteria, un’entità posseduta suonata da Richard Hoak, ex-Brutal Truth, che martella senza sosta, spingendo i brani in una spirale di pura furia. A spezzare il muro sonoro arrivano assoli di chitarra desertici, dilatati, che si estendono come oasi di desolazione in contrasto con la frenesia circostante – così lunghi da sembrare brani a sé, in un disco dove tutto il resto è compresso in esplosioni di pochi istanti. È un inferno musicale che non fa prigionieri, ma che colpisce per la sua coerenza selvaggia. (Francesco Scarci)

(Deaf American Recordings - 2000)
Voto: 67

https://www.facebook.com/tfdgrind?sk=wall

domenica 30 marzo 2025

Octoploid - Beyond The Aeons

#PER CHI AMA: Melo Death/Folk
Se sei un appassionato degli Amorphis, preparati a essere travolto da 'Beyond The Aeons', il fantastico album di debutto degli Octoploid! Questa si configura come una sorta di side project di Olli-Pekka Laine (bassista degli Amorphis) includendo anche un altro ex, Kim Rantala, il vecchio tastierista che ha lasciato il segno ai tempi di 'Elegy'. E inevitablmente, le influenze non tardano a farsi sentire, in un'opera che si distingue per la combinazione di elementi di death progressivo con influenze folk e sonorità psichedeliche. Vi ricorda niente? L'apertura è un vero colpo al cuore con "The Dawns in Nothingness", dove si fa sentire l’incredibile voce di Mikko Kotamäki degli Swallow the Sun (che ritroveremo anche in "The Hallowed Flame" e nella meno convincente "Concealed Serenity"). Questo brano, come opener, cattura immediatamente l’attenzione con i suoi riff potenti e melodie irresistibili, rievocando il fascino degli anni '70, mostrando una notevole abilità nel mescolare sonorità diverse, creando transizioni fluide tra momenti di pura aggressività e sezioni più melodiche. "Coast of the Drowned Sailors" è un inno agli Amorphis di 'Tales from the Thousand Lakes'. Qui, la voce di Tomi Koivusaari, che mi ha fatto innamorare delle melodie avvolgenti dei finlandesi, si unisce a quella di Janitor Muurinen degli Xysma, creando un connubio di ricordi e nuova magia. L’affinità con gli Amorphis è palpabile: entrambe le band sanno come incantare con la melodia e atmosfere psichedeliche, ma gli Octoploid si divertono a esplorare un approccio più giocoso e variegato. Andando avanti nell'ascolto, cambiano le performance dietro al microfono, con la comparsata di Tomi Joutsen (attuale frontman degli Amorphis) nell'inizialmente allegra - prima di addentrarsi in territori più oscuri e death oriented - "Human Amoral", Petri Eskelinen (dei Rapture) nell'inizialmente vivace - poi più tetra - "Shattered Wings". Infine, Jón Aldará, il talentuoso cantante degli Iotunn, arricchisce con la sua voce "A Dusk of Vex", dando un ulteriore tocco a questo debutto impressionante che, pur richiamando gli Amorphis, conquista per la sua freschezza unica e irresistibile. (Francesco Scarci)

(Reigning Phoenix Music - 2024)
Voto: 80

https://octoploid.bandcamp.com/album/beyond-the-aeons

sabato 29 marzo 2025

Vola - Friend of a Phantom

#PER CHI AMA: Djent/Groove Metal
'Friend of a Phantom', il quarto album in studio dei danesi Vola, consolida ulteriormente – se mai ce ne fosse stato bisogno – il loro sound unico, un mix eclettico di sonorità djent/progressive arricchite da sfumature pop che creano un insieme sonoro vibrante e complesso. L'apertura affidata a "Cannibal" incarna alla perfezione questa formula: un riff djent vigoroso squarcia l’oscurità, accompagnato da melodie accattivanti e dalla voce pulita di Asger Mygind, che si contrappone al growl iconico di Anders Fridén (In Flames). Questo dinamico equilibrio tra aggressività e melodia, già evidente nell'opener, diventerà un leitmotiv dell'intero disco, rappresentando uno dei tratti distintivi del quartetto di Copenaghen. Consapevoli della loro identità e delle loro capacità, i Vola confezionano una serie di tracce irresistibili, arricchite da chitarre incisive e melodie indimenticabili. Basti ascoltare "Break My Lying Tongue", il cui riff iniziale si imprime nella mente al primo ascolto, o lasciarsi catturare dall'intensità emotiva della ballad "Glass Mannequin". L’album si distingue anche per l’abilità nel creare contrasti evocativi, come nelle atmosfere sognanti di "We Will Not Disband" (e della bellissima e malinconica "I Don't Know How We Got Here") o nei synth lussureggianti che avvolgono "Paper Wolf". La versatilità della band emerge inoltre nelle derive post-rock di brani come "Bleed Out", che richiama vagamente l'approccio sperimentale di The Ocean. La qualità produttiva è eccezionale: ogni strumento emerge con una nitidezza impressionante in un mix curato nei minimi dettagli. L’effetto complessivo è un’esperienza immersiva che valorizza ogni sfumatura dell’opera e dimostra la maturità raggiunta dalla band. 'Friend of a Phantom' non è soltanto una conferma del talento dei Vola, ma anche un piccolo capolavoro che merita di essere esplorato e ammirato fino in fondo. (Francesco Scarci)

lunedì 24 marzo 2025

Panzerfaust - The Suns of Perdition - Chapter IV: To Shadow Zion

#PER CHI AMA: Black/Death
Ignoravo l’esistenza dei Panzerfaust, e ora mi maledico per questo abisso di ignoranza! È stata una casualità, un inciampo su Spotify, a condurmi tra le spire di 'The Suns of Perdition - Chapter IV: To Shadow Zion', l’ultimo atto dei canadesi, e sono rimasto pietrificato, la bocca spalancata davanti a un’oscurità che mi ha divorato l’anima. Questo disco non è solo un album: è il capitolo finale, trionfale e funereo, che sigilla l'oscura tetralogia iniziata nel 2019, un’opera monumentale che mi ha trafitto con la sua cupezza fin dalle prime note. “The Hesychasm Unchained” mi ha ghermito con ritmiche iniziali che stillano disperazione, mentre i vocalizzi dei due cantanti – simili a lamenti di dannati – s'incastrano in una struttura ritmica che soffoca, un mélange spaventoso e irresistibile di black e death, brutale eppure melodico, marchio di fabbrica di questo quartetto dell’Ontario. È un’epopea macabra, una cavalcata di cinque capitoli che si dipana per tre quarti d’ora, un viaggio nelle tenebre dove l’opener brilla come un faro nero, ma dove ogni traccia pulsa di un’energia maledetta. “When Even the Ground Is Hostile” irrompe con sincopi che tagliano come lame arrugginite, mentre “The Damascene Conversions” si erge più lenta, quasi solenne, con una dinamica che intreccia cambi di ritmo, graffi acustici che lacerano il silenzio e armonie strumentali che affascinano come un rituale proibito. Niente interludi, stavolta: il flusso è inesorabile, un torrente di desolazione sorretto da atmosfere che ti avvolgono come nebbia su un camposanto abbandonato, amplificando una narrazione che stringe il cuore in una morsa. E poi, l’apice del terrore: “Occam's Fucking Razor” è una lama di black/death sghembo e martellante, un assalto che squarcia ogni speranza, seguito dalla conclusiva “To Shadow Zion (No Sanctuary)”, un monolito opprimente che cala il sipario su questo disco come una sentenza di morte. Non ho scampo: questo lavoro mi ha incatenato, obbligandomi a scavare nelle viscere degli altri capitoli della saga. I Panzerfaust sono una rivelazione oscura, e io sono condannato a seguirli nell’abisso!(Francesco Scarci)

sabato 22 marzo 2025

Saor - Amidst the Ruins

#PER CHI AMA: Folk/Black
Dalle nebbie delle Highlands, dove il vento canta inni di un passato dimenticato, i Saor, guidati dal visionario Andy Marshall, hanno rilasciato un nuovo capitolo sonoro in grado di scuotere le fondamenta del tempo. 'Amidst the Ruins', sesto capitolo della loro discografia, si manifesta come un portale verso l’anima selvaggia della Caledonia. Cinque brani, cinque torri di suono che si ergono tra le rovine di un mondo perduto, intrecciando black atmosferico a melodie folkloriche, in un arazzo di tragica bellezza che risuona tra le valli e i glen della Scozia, un inno alla terra e ai suoi spiriti ancestrali. La title track è il primo brano e si presenta, travolgendoci con i suoi riff possenti e i tamburi che rullano come un esercito in marcia, mentre le melodie delle tastiere soffiano come brezze lontane. La voce di Marshall stride come un corvo sopra le rovine, mentre flauti e cornamuse si levano in un canto di gloria e rovina. È un viaggio in epoche lontane tra le pietre spezzate di antichi castelli, dove ogni nota è un colpo di spada e ogni melodia, un’eco di un regno caduto. Ma non scopriamo certo oggi il valore di una band che adoro da sempre. Questo è quanto possiamo godere già dall'opening track e dalle sue eccelse melodie cinematiche, ma anche dalla successiva "Echoes of the Ancient Land", che esplode sin dall'inizio con ritmiche che galoppano come cavalli selvaggi su e giù per le colline. Poi, un’orgia di fiati e archi succede al caos, dipingendo visioni di foreste fiabesche. L’atmosfera è maestosa, un’ode ai tempi in cui gli dèi camminavano tra gli uomini, con un crescendo musicale e vocale - complice per quest'ultimo le splendide clean vocals di Marshall - che spinge verso cime nebbiose, ma solo per lasciarci poi cadere in un abisso di malinconia che si concretizzerà sul finale del brano. Non ci sono parole. E in "Glen of Sorrow", il tono si fa più cupo e solenne inizialmente, per poi lasciar viaggiare melodie folk e fantasie in un sound che sembra evocare anche un che degli Alcest. La voce eterea di una gentil donzella (Ella Zlotos) si affianca a quella del mastermind scozzese in un maestoso tripudio sonico. Arpeggi acustici e i tiepidi sussurri di Andy caratterizzano invece "The Sylvan Embrace"; presto la voce di Ella lo raggiungerà in questo momento di pace inquieta, dove un'ombra sembra tuttavia suggerire l'imminente ritorno del caos. Presto accontentato, visto che "Rebirth" divampa con il suo assalto di chitarre e blast-beat in un titanico inno di rinascita. Quattordici minuti di pura trascendenza in un brano che si muove in realtà su un mid-tempo malinconico e in un'atmosfera che richiama una fenice che risorge dalle ceneri, un ciclo di morte e vita che si chiude con un ruggito eterno. 'Amidst the Ruins' è un album notevole, un black metal atmosferico che non si limita a sfogare oscurità, ma la eleva con melodie folk che colpiscono l’anima. Ogni traccia è un capitolo di un’epopea, un ponte tra il passato glorioso della Scozia e un presente che ne reclama l’eredità. (Francesco Scarci)

giovedì 20 marzo 2025

Sólstafir - Hin Helga Kvöl

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Folk
'Hin Helga Kvöl' è il nuovo album dei Sólstafir, un viaggio sonoro che si snoda come una strada polverosa attraverso un paesaggio desolato, dove il sole tramonta su un orizzonte di emozioni contrastanti. Come da sempre la band islandese ci ha abituato, nel loro sound riusciamo a trovare un mix di post-rock, metal e influenze folk, che cattura l'essenza di una terra antica e misteriosa. L'album si apre con "Hún Andar," un brano che introduce l'ascoltatore a un'atmosfera quasi mistica. Le chitarre vibrano come il canto di una chitarra acustica suonata attorno a un fuoco, mentre la voce di Aðalbjörn Tryggvason si erge come una figura solitaria in un vasto deserto, in un canto antico rafforzato dall'utilizzo delle liriche in islandese, ormai vero marchio di fabbrica per i nostri. La produzione è curata, permettendo a ogni strumento di risaltare senza sopraffare l'emozione trasmessa dalle liriche incentrate su temi emozionali. La title track ha un incipit oscuro che dà ampio spazio alla tribalità possente delle sue percussioni (in certi punti mi ha evocato addirittura gli Slayer), lasciando poi il posto a un riffing serrato, epico che evoca immagini di battaglie passate e paesaggi maestosi, in cui oltre a brandire le spade, è la voce del frontman a ergere il suo grido in cielo. La varietà stilistica è uno dei punti di forza del quartetto di Reykjavík e "Blakkrakki" dimostra la capacità di variazione del tema con la più classica impostazione alternative southern rock della band. "Sálumessa" incarna, con le sue melodie lente e soffuse, quello spirito magico e ancestrale che caratterizza le composizioni dei nostri. "Vor ás" prosegue in una dimensione ultraterrena, aggiungendo addirittura la voce femminile di tal Erna Hrönn Ólafsdóttir in una song oscura e non so ancora, se realmente ben riuscita. Un malinconico pianoforte introduce a "Freygátan", in cui troviamo un altro ospite, Borgar Magnason, al doppio basso, per una song dal forte sapore depressive rock. E a proposito di forza, ecco arrivare "Nú Mun Ljósið Deyja", traccia rabbiosa e ricca di intensità emotiva. In chiusura, la ritualistica "Kuml (Forspil, Sálmur, Kveðja)" offre l'ennesima dimostrazione della sapienza dei nostri nel trasportare l'ascoltatore in luoghi lontani, grazie all'utilizzo di sax e voci pulite all'interno di una elegante cornice atmosferica. Sicuramente, 'Hin Helga Kvöl' non è la migliore opera dei Solstafir, ma comunque è un buon lavoro atto a sancire l'originalità della band nordica. (Francesco Scarci)

martedì 18 marzo 2025

Isleptonthemoon - Only the Stars Know of My Misfortune

#PER CHI AMA: Blackgaze/Depressive Black
Per gli amanti di sonorità depressive/blackgaze, ecco 'Only the Stars Know of My Misfortune', ultimo album della band statunitense Isleptonthemoon. Il tutto è confermato sin dall'iniziale "Safety", che ci permette di inserirci nella trame oscure e introspettive (direi post-rock) della one-man-band di Atlanta, prima delle esplosioni post black che ci accompagneranno invece nella seconda parte della traccia, tra screaming vocals e furenti blast beat. Questo sarà un canovaccio che vedremo ripetersi in più occasioni all'interno del disco, già a partire dalla furiosa ritmica di "Dimming Light", che lascia comunque aperta la porta ad aperture melodiche ed eteree, per quanto, a un primo ascolto, potrebbe suonare come una song caustica e caotica, che trova anche modo di evocare i Deafheaven degli esordi. Sublime per le mie orecchie, tanto che ho già ordinato il vinile. E si prosegue con le chitarre acustiche di "Maybe I Don’t Know It Yet, but Good Things Are Coming Soon", e uno slowcore che ben s'incastra in un contesto più allargato del disco. Il finale è puro depressive/suicidal black metal con un melodico tremolo picking da lacrimoni. Ancora poesia per le mie orecchie con "I Belong to the Void" e le sue atmosfere soffuse che vanno via via crescendo in una evoluzione sonora tesa tra blackgaze (scuola Alcest), luci soffuse post rock e un'emozionalità intensa, immensa. "Like Dying" sembra iniziare con modalità affini ai nostri Klimt 1918 per poi evolvere invece verso sonorità post black di grande impatto e una coda dal piglio ambient. La chiusura affidata alla malinconica "Keep Hidden", ci dice che quella che abbiamo nelle nostre mani è una piccola gemma da tenerci stretti, un lavoro dove ogni traccia è un tassello di un mosaico emotivo complesso e autentico. (Francesco Scarci)
 
(Bindrune Recordings - 2024)
Voto: 80
 

sabato 15 marzo 2025

Ofnus - Valediction

#PER CHI AMA: Black Melodico
Li ho adorati con il loro primo lavoro, 'Time Held Me Grey and Dying'. Ora i gallesi Ofnus ritornano con un disco ancor più severo e oscuro. 'Valediction' è il titolo che racchiude le sei nuove tracce, che esplorano i meandri del dolore e della morte. L'album si apre con "The Shattering", un brano che sembra evocare il momento in cui la realtà si frantuma sotto il peso della perdita. Le chitarre, sparate a velocità estreme, s'intrecciano in un lamento straziante, mentre la batteria pulsa impazzita come un cuore che si rifiuta di fermarsi, nonostante il dolore. È un incipit affidato a un post black arrembante che non lascia scampo, trascinando l'ascoltatore in un abisso di disperazione. Tuttavia, scorgiamo anche parti più malinconiche, in cui le melodie (e le clean vocals) smorzano la furia ancestrale dissipata. Segue la più meditabonda "Reflections of Delusion", un pezzo che si muove tra atmosfere eteree e riff aguzzi, come se la mente cercasse di aggrapparsi a ricordi distorti, ormai corrotti dal tempo. Il canto del frontman rimbalza da uno screaming acuminato a un growl profondo, mentre l'assolo conclusivo regala attimi di una vena progressiva che sembra custodita gelosamente dal quintetto gallese. Con "Throes of Agony", la proposta sembra convolare verso un apice di intensità emotiva, anche se il brano è un vortice di ritmiche tormentate che si perdono nel vuoto. La produzione è cruda e viscerale, andando quasi ad amplificare il tormento che la band vuole trasmettere. È forse con le più lunghe "Proteus" e "Zenith Dolour" (21 minuti totali) che i nostri raggiungono le vette più rappresentative di un album decisamente più feroce del precedente. Qui meglio si bilanciano furia e malinconia, attraverso chiaroscuri chitarristici e atmosfere più delicate. Infine, la title track "Valediction" chiude il cerchio con una maestosità funerea, tra galoppate imbizzarrite e frammenti melodici. È un addio, un ultimo sguardo al passato prima di essere inghiottiti dall'oblio. Qui, gli Ofnus dimostrano tutta la loro abilità nel creare un'atmosfera che è al tempo stesso opprimente e catartica, lasciando l'ascoltatore svuotato, ma stranamente purificato. Un disco da ascoltare per confrontarsi con i propri tormenti interiori. (Francesco Scarci)

(Naturmacht Productions - 2025)
Voto: 74
 

giovedì 13 marzo 2025

Sear Bliss - Heavenly Down

#PER CHI AMA: Symph Black
I Sear Bliss potrebbero essere annoverati tra i pionieri del black metal atmosferico-avanguardistico. Me ne innamorai infatti quando nel 1998 uscì 'The Haunting', in cui faceva la comparsa nell'intelaiatura ritmica della band, la tromba. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e i nostri sono tornati alla carica nel 2024 con 'Heavenly Down', nono album per la band che non solo conferma il loro status di maestri del genere, ma li proietta verso nuove dimensioni sonore. Questo disco è un viaggio cosmico, un’esplorazione tra cieli tempestosi e abissi emotivi, dove ogni nota sembra avere un’anima, tra atmosfere epiche e tromboni trionfali che già si svelano nell'opening track, "Infinite Grey", che ci dà buone sensazioni di come sia la band oggi, dopo un silenzio durato sei anni. E se c’è una cosa che i Sear Bliss sanno fare meglio di chiunque altro, è quello di fondere il potere distruttivo del black metal con melodie che ti sollevano da terra. E questo nuovo disco non fa eccezione, dando largo spazio ai tromboni, vero marchio di fabbrica della band, che risuonano maestosi e aggiungono un’aura epica, quasi cinematografica ai brani. "Watershed" rappresenta il secondo indizio, con il suo mid-tempo ragionato e i suoi fiati a prendersi il giusto spazio che meritano. "The Upper World" è il terzo indizio, e a questo punto, come diceva Agatha Christie, tre indizi ci consegnano la prova di come il quintetto magiaro sia in grado di offrire melodie taglienti, passaggi orchestrali, creando un contrasto perfetto tra caos e armonia, epicità e melodia che troverà modo di esplicarsi anche attraverso altri splendidi brani, tra cui la più mite e onirica title-track e la cosmico-sperimental-elettronica "The Winding Path", un pezzo di notevole spessore che racchiude l'essenza di questo sorprendente 'Heavenly Down'. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Productions - 2024)
Voto: 80

https://searblisshhr.bandcamp.com/album/heavenly-down

martedì 11 marzo 2025

Räum – Emperor of the Sun

#PER CHI AMA: Raw Black
Dagli abissi di Liegi, ritroviamo i Räum che tornano a squarciare la realtà con 'Emperor of the Sun', secondo sigillo scagliato nel vuoto in questo inizio 2025, come sempre sotto l’egida della Les Acteurs de l’Ombre Productions. Dopo aver recensito, non troppo brillantemente a dire il vero, il precedente 'Cursed by the Crown', mi ritrovo oggi ad ascoltare una band che nel frattempo dovrebbe aver affinato la propria arte, costruendo un altare di gelo e fiamme che brilla di un’oscurità tanto feroce quanto ipnotica. Sette lame di un black metal che sanguina melodia (poca) e disperazione (tanta), laddove non c’è redenzione, ma un inno alla caduta, un’eco di grandezza e rovina che si riflette nei resti di un’umanità condannata a divorare se stessa. Il nuovo disco si apre con "Eclipse of the Empyreal Dawn" e uno squarcio di chitarre gelide che si leva su un drumming furioso, mentre folate atmosferiche s'intrecciano a un cantato che sembra emergere dalle viscere della terra. L’atmosfera è densa, quasi sulfurea, ma vi garantisco che lo sarà ancor di più in "Grounds of Desolation", un’eclissi che soffoca la luce con melodie eteree, un lamento da terre desolate spezzate da un black mid-tempo, che vede in un asfissiante break centrale, un interludio spoglio, quasi spettrale che lascia spazio a un vuoto che inghiotte. Ci eravamo persi "Nemo Me Impune Lacessit", ma che dire di un brano sparato alla velocità della luce e tagliente come schegge di ossidiana, grazie al suo black crudo, selvaggio e lacerante? E sulla medesima falsariga, ecco accendersi le fiamme di "Towards the Flames", un assalto furioso, al fulmicotone, con un riff impetuoso, uno screaming indemoniato che si eleva su un drumming martellante. Non troppa originalità per i nostri, ma questo già lo immaginavo. E la causticità sonora prosegue anche in "Obscure", un altro brano in cui non c'è il benché minimo avviso di tregua. Solo blast-beat feroci e chitarre in tremolo picking che urlano la propria malvagità, guidandoci attraverso il puro caos. Con la title track, il ritmo sembra finalmente rallentare in un'introduzione lenta e inquietante che dura, ahimè, solo pochi secondi. Poi spazio ad altre sciabolate ritmiche, sebbene il riffing torni a muoversi su ritmi più compassati e oscuri. Quello dei Räum è un suono alla fine troppo glaciale per i miei gusti, non che sia male ma mi trasmette poco, ma questo l'avevo già sottolineato un paio di anni fa. E la conclusiva "A Path to the Abyss" non stravolge la mia valutazione finale, vista la sua viscerale brutalità che chiude la porta di quell'abisso infernale in cui siamo sprofondati. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

https://ladlo.bandcamp.com/album/emperor-of-the-sun

lunedì 10 marzo 2025

Vuur & Zijde - Boezem

#PER CHI AMA: Post Black/Post Punk
'Boezem' degli olandesi Vuur & Zijde è un debutto audace e sorprendente, che fonde abilmente elementi di post-punk, shoegaze e black metal, in un'unica esperienza musicale avvolgente. La band, composta da membri di Terzij de Horde, Witte Wieven, Laster (tutta gente che abbiamo già incontrato qui nel Pozzo), ha creato un album che si distingue per la sua personalità e originalità, attraverso un viaggio sonoro peculiare, che vede aprirsi con "Onbemind", song roboante, melodica e malinconica, complice anche la voce della brava Famke, dotata di una timbrica pulita che si pone su un'architettura ritmica presa in prestito dal post black. L'impatto è dei migliori, perché decisamente inaspettato e soprattutto perché, a fronte di una possente ritmica, c'è sempre la calda voce di Famke (stravagante peraltro l'uso dell'olandese nelle liriche) a smorzare toni altrimenti collocati su un mid-tempo, sempre teso a improvvise accelerazioni, ma anche a momenti più onirici, proprio come accade nella seconda traccia. L'album è comunque un susseguirsi di buoni pezzi, con le chitarre sempre cariche di profondità malinconica, capaci di intrecciarsi e ben amalgamarsi con synth sognanti e ritmi a tratti, danzanti. Chiaro, ci sono anche momenti più ostici da digerire, e "Ús" è un bell'esempio di sonorità lente e dissonanti. Ci pensa poi "Omheind" a far ripartire le danze con il suo post punk incisivo e raffinato, con quel bel passo pulsante a guidarne le melodie, cosa che si riproporrà anche in "Adem". "Kuier" è decisamente lenta e oscura, più affine musicalmente a "Ús", ma forse la sua ridondanza ritmica la rende meno convincente rispetto alle altre. Meglio "II", sebbene anche qui, ci si attesti su sonorità claustrofobiche non cosi facili da digerire. Con "Nest" ci troviamo di fronte a pura e semplice furia black, corredata però dalla pulizia vocale di Famke a stemperarne ancora le frustate ritmiche. Alla fine, 'Boezem' è un album complicato che invita a inevitabilmente a numerosi ascolti per poterne cogliere ogni sfumatura più recondita. Bravi, buon esordio. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2024)
Voto: 75

https://vuurenzijde.bandcamp.com/album/boezem