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lunedì 11 marzo 2019

Fretting Obscurity - Flags in the Dust

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema
Quando di mezzo c'è la Endless Winter, è lecito aspettarsi solo una bella dose di death doom. Alla stregua della Solitude Productions, l'etichetta di Taganrog è ormai diventata infatti portatrice di tenebre sulla Terra. Non ultimi ad ascriversi alla categoria suoni del destino, arrivano gli ucraini Fretting Obscurity, o meglio l'ucraino Yaroslav Yakos, mente e braccio della band originaria di Kiev. Mi sa tanto che il buon Yaroslav deve essere cresciuto a pane e primi vagiti degli Anathema, visto che la lunga ed estenuante "Flags in the Dust", opener che dà peraltro il titolo al disco, lungo i suoi oltre 13 minuti, più volte fa l'occhiolino a 'Serenades' dei più famosi colleghi inglesi. Non solo Anathema nei solchi di questo disco perchè ovviamente quando il doom si fa più asfissiante (per non dire funeral), ecco che la mente ci riporta anche a 'As the Flower Withers' dei My Dying Bride. È il caso dei minuti conclusivi dell'opening track, ma emergerà anche in altri frangenti del lavoro. "If There Is No Other Way to Love 'Em" nel suo astruso e dissonante arpeggio iniziale, immette la drammatica essenza del doom nelle note poco fluide di un disco davvero complicato da digerire. Questo perchè i pezzi di Yaroslav, oltre ad essere parecchio lunghi (si oscilla tra i 13 e i 18 minuti di durata), non godono proprio di quello che si definisce easy listening. L'ascolto è frammentario, rotto, disarmonico, rarefatto, dissuadente e alla fine estenuante. Non è che la band non sia in grado di suonare sia chiaro, ma quello che è messo in scena qui, per quanto a tratti riesca a toccare le corde dell'emotività (e nella seconda traccia avviene solo dopo sette minuti), risulta davvero difficile da essere affrontato tutto d'un fiato. Pensate poi a come mi possa sentire quando mi ritrovo davanti due colossi da 18 minuti, "Eternal Return" e "Funeral Never Ends". Spaventato è la parola giusta. E non perchè ad attendermi ci sia un suono devastante, tritaossa o spaccabudelle, semplicemente perchè so già che lo stomaco si attorciglierà su se stesso e la mente collasserà dopo aver ingurgitato simili sonorità che nella prima delle due song, si lancia addirittura in una qualche accelerazione death, prima di sprofondare nella drammaticità atemporale di un suono radicale, che ha anche modo di richiamare la cupa essenzialità dei Mournful Congregation tra ipnotiche melodie di chitarra che evocano anche un che dei Tiamat di 'Wildhoney'. Alla fine, il quadro per il sottoscritto è più o meno delineato, a voi ora l'arduo compito di affrontare la scalata di una cosi ardua montagna. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 64

https://frettingobscurity.bandcamp.com/

sabato 9 marzo 2019

Frekkr - Désolations Catalaunique

#PER CHI AMA: Viking Black, Windir
La gestazione di 'Désolations Catalaunique' è stata davvero lunga, considerato che i francesi Frekkr si sono formati nel 2005 e il loro debutto è uscito solamente 13 anni dopo. Hanno voluto fare le cose con calma evidentemente i quattro musicisti di Nancy che dal 2008 (l'anno del rilascio del loro demo) a oggi, si sono presi un po' di tempo, complice forse una serie di rimaneggiamentie a livello di line-up, che aveva visto la fuoriuscita in un sol boccone, di basso, batteria e chitarra. La band non ha mai perso di vista l'obiettivo e dopo aver rilasciato una cover dei Summoning nel 2009, "Khazad Dum", per il tribute album '...And in the Darkness Bind Them', ha iniziato a lavorare su quest'album. 'Désolations Catalaunique' contiene nove tracce devote ad un black pagano, che dopo la dovuta intro sfoggia delle ottime melodie di scuola Windir, con la song "Que Grondent Ces Terres" che rappresenta una dichiarazione d'amore verso la grande band norvegese, verso la cultura norrena, i suoi miti e leggende. Un brano che sembra ricondurci indietro nel tempo di oltre un millenio a scoprire qualcosa di più della storia di quei tempi, tra suoni black, ottime melodie, vocals pulite e altre più grezze. Questa la solida base su cui i nostri sviluppano la loro musica, con "Imperator Attila" a dar sfoggio di preziosi chorus che fanno da contraltare alle grim vocals del frontman, in una song dalla comunque forte componente melodica. Anche quando si presentano le più caotiche scorribande black (aspetto decisamente da migliorare), la band mantiene intatta la base melodica. In "Insatiable" emerge più forte la parte folklorica dei nostri, facendomi pensare ai Frekkr come una band norvegese piuttosto che francese. Questo è ciò che mi colpisce maggiormente dell'act transalpino, la loro sana capacità di trasmettere musiche e sensazioni tipiche di un'altra era storica, con le liriche che vertono di battaglie tra l'impero romano e Attila re degli Unni e quant'altro riguardasse la storia della caduta di Roma. Sebbene un inizio in stile Finntroll, "D'une Génération Sacrifiée" si conferma come la mia canzone preferita del cd (insieme all'ultima): dicevamo di un intro dedito all'humppa polka di scuola finnica, poi la band ritorna successivamente sui binari del viking folk norvegese, tra cavalcate black, tocchi di piano e chorus liturgici che continueranno anche nella successiva "L'Éphémère et l'Immuable" in cui la voce del vocalist si presenta come la versione francese del buon Quorthon quando cantava in pulito. Un po' più piattina e poco rilevante "Memento Mori", anche se quel suo break acustico dopo un paio di minuti, vale decisamente il suo ascolto. Un atmosferico inizio in stile Cradle of Filth apre "Le Prix du Sang", una song che vira immediatamente sui binari del viking, con buone melodie, ma dotata di una batteria che ancora fatica a convincermi, troppo secca e scontata, forse vero punto di debolezza del quartetto francese. Poi sono i chorus a farla da padrona e delle chitarre di scuola heavy classico che ci accompagnano fino alla conclusione con "Brûlez Cette Ruine", l'ultimo grande tributo dei Frekkr per i Windir, con una melodia che ci sarebbe stata sicuramente bene su un disco come 'Arntor', e credo che simile complimento sarà quanto mai gradito dalla band. Per ora benino, c'è infatti grande spazio al miglioramento, speriamo solo non debbano passare un altro paio di lustri per sentire qualcosa di nuovo. (Francesco Scarci)

Demetra Sine Die - Post Glacial Rebound

#PER CHI AMA: Black/Post/Alternative
I Demetra Sina Die sono un progetto di Marco Paddeu che già ci ha incantato e ipnotizzato con le derive ancestrali e ultraterrene dei suoi Sepvlcrum. 'Post Glacial Rebound' è un disco che trasmette energia, quell’energia pura di qualcosa che vuole passare dal mondo delle idee alla realtà e alla carne. Distorsioni potenti, sature, carichissime di armoniche, ritmiche rituali e insistenti, vicine allo stoner ma anche a musica più raffinata come gli A Perfect Circle, la voce è una tagliola nelle parti urlate e suadente e mistica nelle parti pulite a ricordare quella di Al Cisneros degli Om e degli Sleep. Il disco scorre con facilità e con omogeneità, uno dei miei pezzi preferiti è "Gravity" con la sua voce demoniaca e gli agghiaccianti arpeggi di chitarra su di un groove incedente e deciso, molto indicata per sessioni di meditazione o di medianità spiritica. Nei suoni nove minuti di estensione arriva ad un’intensità vicina al balck metal per rilasciare la tensione con dei lunghi e religiosi accordi propri dello stile Neurosis. "Eternal Transmigration" poi, con il suo spoken words e le sue malefiche risate mi fa rizzare i peli sulla nuca; quando l’ho sentita la prima volta infatti mi sono alzato dalla sedia e mi sono guardato le spalle, avevo la netta sensazione che qualcuno fosse in piedi dietro di me e mi stesse osservando. La finale title track racchiude poi tutte le migliori caratteristiche del disco, dagli ambienti tossici a desolati fino alle dense distorsioni passando per le grida disperate di Marco su un tappeto di disagio cosmico. 'Post Glacial Rebound' è una vista dall’alto di un mondo caduto in disgrazia, dove la vita non è riuscita ad avere la meglio sull’ambiente ostile che tutto pervade e nulla perdona. Dalla sommità di una montagna innevata si vede fumo nero alzarsi in compatte colonne e ricongiungersi con il cielo plumbeo e minaccioso come ad erigere un tempio alla distruzione e alla sovranità indiscussa della natura. Le fiamme hanno eroso qualsiasi cosa, rimangono solo cenere e lacrime, le lacrime di un’umanità così ottusa da aver distrutto se stessa e aver scatenato l’ira della natura, ultima e incontrastata sovrana della terra e dell’universo a cui forse anche noi che viviamo nella “realtà”, dovremo dare più ascolto per sperare che le ambientazioni di questo notevole disco non si tramutino nell’ambientazione della nostra vita. (Matteo Baldi)

Faruln - The Black Hole of the Soul

#PER CHI AMA: Black, Satyricon
I Faruln sono la classica one-man-band proveniente dalla Svezia e Btsm è la mente diabolica che si presenta al pubblico con questo EP di debutto, che fa seguito ad un paio di demo usciti tra il 2015 e il 2017. 'The Black Hole of the Soul' esce per la Battlesk'rs Productions e presenta quattro feroci tracce di black glaciale che irrompono con la title track, corrosiva e ridondante quanto basta per richiamare grandi acts della scena scandinava, versante norvegese però; penso infatti ai Satyricon per quel modo di viaggiare su un mid-tempo affascinante, per poi lasciarsi andare saltuariamente a scorribande black, con la voce del frontman in sottofondo a blaterare versi scarsamente intellegibili. Il sound di questa prima traccia ha dei passaggi ipnotici affidati all'oscuro suono del basso, cosa che di certo non si può dire della successiva e mefistofelica "Recreator of the Great Silence", song lanciata a tutta velocità, e dotata di un'impalcatura sonora alquanto efferata nel suo incipit. Poi un rallentamento pauroso nella sua seconda parte si affida ad atmosfere cupe come le tenebre e a vocalizzi sempre posti in background per alimentare un senso di inquietudine legato all'ascolto del disco. Non c'è modo di restare tranquilli e godere delle sonorità del mastermind svedese, nemmeno quando a risuonare nel mio stereo c'è la lunga e mefitica "The Sworn Enemy". Qui la cadenza sembra farsi marziale, e la produzione piena e potente, esalta la qualità dei suoni, sia nelle accelerazioni che nei rallentamenti più ottundenti in tremolo picking. Per quanto il disco non dica assolutamente nulla di nuovo, si lascia ascoltare piacevolmente, complici anche le melodie che pervadono in modo non ingobrante, la musica dei Faruln e ci accompagneranno fino alla conclusiva e ferale "Dissolution", l'ultima scheggia black punk di questo 'The Black Hole of the Soul', un album che costituisce un buon punto di partenza per il musicista svedese. (Francesco Scarci)

(Battlesk'rs Productions/Zanjeer Zani Productions - 2019)
Voto: 66

https://www.facebook.com/Faruln/

giovedì 7 marzo 2019

Evilness - New Perspectives, No Evolution

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Forbidden, Pantera
Ci hanno impiegato ben 13 anni i francesi Evilness a venir fuori con il loro debutto su lunga distanza. Formatisi infatti in quel di Tolosa nel 2005, dopo un demo l'anno successivo, un EP nel 2013, finalmente arriva nel 2018, il tanto agognato Lp, 'New Perspectives, No Evolution'. Un titolo che sembra parafrasare un po' i contenuti di quest'album che mette in scena 12 brani (ma cinque erano già contenuti in 'Unreachable Clarity') all'insegna di un death thrash scoppiettante che rappresenterà verosimilmente una nuova prospettive per la band, ma zero evoluzione in fatto di sonorità. Questo per mettere subito i puntini sulle i e dire che non c'è granchè di innovativo nel sound di questa release, se non del sano thrash death dotato di una buona dose melodica e a tratti di ammiccamenti al prog. Penso ad esempio a "Basically Defleshed", che sembra strizzare l'occhiolino agli americani Anacrusis, con delle partiture più ricercate soprattutto a livello di porzione solistica, con un bel lavoro del bravo axeman Sébastien Chiffot. Lo stesso dicasi della successiva "Ginx", serrata a livello ritmico, ma sempre interessante nei suoi ricercati assoli. Mi aspettavo francamente di più da un brano come "Amok", semplicemente perchè in veste di ospite (con non si sa quale mansione) compare Eric Forrest, ex cantante dei Voivod, invece la song è tremendamente piatta e dotata di scarsa personalità. "21 Reasons to Bleed" è un bel pezzo thrash metal, che mi ha evocato un che dei Forbidden di 'Twisted into Form' miscelati con gli Over Kill di 'Under the Influence', complice probabilmente quel basso slappato a fine brano. Insomma un bel dejavù per un album che farà sicuramente la gioia degli amanti del thrash death, ma anche di chi ama il metalcore, considerata la natura melodico-esplosiva di "Missing One Piece", cosi carica di groove, ma anche di riffoni in Pantera style e vocalizzi graffiati. Si insomma, in 'New Perspectives, No Evolution' è possibile trovare un po' di tutto, questo perché il thrash death di anni '80-90 ha influenzato alla grande la band transalpina, visto che trovo ancora anche un che di Exodus o Anthrax e molti altri lungo l'intero lavoro, anche laddove si ravvisa una strana vena stralunata, come accade all'inizio della datata "Meeting Lady Death", la prima delle cinque song originariamente incluse nell'EP del 2013, qui ri-registrate per l'occasione, ma dotate di un piglio decisamente più old-school. In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole, solo la colonna sonora ideale per un headbanging sfrenato da scatenare con gli amici. (Francesco Scarci)

mercoledì 6 marzo 2019

Hanormale - Reborn in Butterfly

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Pensees Nocturnes
Nomen omen, il moniker Hanormale dice tutto, ossia che un sound del tutto normale non è proprio lecito aspettarselo da questo 'Reborn in Butterfly'. D'altro canto avevo già intuito dal precedente '天照大御神' che il bravo Arcanus Incubus non è personaggio del tutto convenzionale, vista peraltro la sua militanza in band altrettanto peculiari quali Mystical Fullmoon o Deviate Damaen, tanto per citarne alcune. Il terzo disco degli Hanormale si apre all'insegna del delirio sonoro ossia con una sorta di rifacimento della colonna sonora di Twin Peaks (quella a cura di Angelo Badalamenti), con quel motivetto di Laura Palmer, incastonato in una paurosa sfuriata black ("It's Happening Again"). Poi quando "Like a Hug, Darkness Embrace Us All" irrompe col suo fare jazzato, sperimentale e spericolato tra partiture etniche, prog e black, non si può che rimanere disorientati e godere appieno della fantasia e dell'imprevedibilità compositiva del musicista milanese qui supportato da una serie infinita di ospiti provenienti da molteplici band (Mechanical God Creation, Orcassassina, Deviate Damaen), da due batteristi (Mox Cristadoro e Marco Zambruni), un sax, un violoncellista e un didjeridoo. Che 'Reborn in Butterfly' sia album originale si evince dall'alternanza di stili musicali in esso contenuti, ma attenzione perchè questo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. In effetti con "Human" sprofondiamo in una sorta di funeral doom cosmico e nebuloso, che solo nel suo finale accelera a dismisura, sforando in una specie di annichilente grind isterico e controverso. Sebbene mi faccia sorridere il titolo "Satan is a Status Symbol", il pezzo inizia col malinconico tocco di violini e un mood che si conferma navigare in un versante decisamente più mansueto e inusuale per i nostri, almeno fino a quando esplode il feroce chorus che dà il titolo al brano, e la musica sghemba che ci sta attorno, con tanto di sax e violini di sottofondo. Ma le sorprese sono sempre dietro l'angolo e la song va a scemare tra clean vocals ed atmosfere soffuse. Non proprio quello che ci riserva la successiva "Ghettoblaster Black Metal", un brano che potrebbe tranquillamente stare su uno dei dischi più blasfemi degli Impaled Nazarene con ritmiche all'insegna di una crudissima carneficina. "Haguzosu" mescola ancora le carte in tavola, proponendo un sound più votato ad un obliquo prog/post rock, dotato di ispirate venature black. "Candentibus Organis" ha la peculiarità di avere testi in latino, mentre il suo sound sembra quello del vento che attraversa le campane di legno orientali, intervallate da sgroppate black e solenni (e spiritualistici) momenti, atti per lo più a confermare quanto possa essere suggestiva la proposta del folle mastermind italico. "Rare Green Areas" è la narrazione di una storia da parte di Gab dei Deviate Damaen, in una sorta di ibrido tra gli Aborym di "Psychogrotesque IV" e i Deviate Ladies di "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia!", dotato di un finale industrial da paura. Con "Al Tanoura" mi sembra di aver a che fare con i deliri sonori ed incontrollati dei Pensees Nocturnes dell'ultimo 'Grand Guignol Orchestra', con la sola differenza che gli Hanormale sono decisamente più ostici da digerire. "Iperrealismo" ci conduce nei meandri del dark ovviamente contaminato da un black truce che viene spezzato ancora una volta da un break di free jazz sperimentale che chiama in causa le sublimi divagazioni sonore di 'Knownothingism" dei Thee Maldoror Kollective. Ancora risvolti soft jazz questa volta con i tocchi di pianoforte e batteria di "The Search for the Zone" in un brano (forse il migliore del lotto) in cui convoglia un po' tutta la strumentazione alternativa della band (qui il violino è fantastico, quasi a emulare le melodie dei Ne Obliviscaris) e in cui il black trova nuovamente sfogo nel folle rincorrersi delle caustiche chitarre della band e nel disumano screaming del vocalist. Questo gioiello di musica estrema si conclude con "Requiem for Our Dead Brothers", un outro di solo pianoforte, un malinconico arrivederci che suggella l'enorme comeback discografico degli Hanormale. (Francesco Scarci)

martedì 5 marzo 2019

Master Margherita - Border 50

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Dub/Elettronica
Il consolidato musicista/DJ Moreno Antognini, che sotto le spoglie di Master Margherita sfodera musica al confine tra dub ed elettronica berlinese fin dai primi anni 2000 (innumerevoli le sue release), si scopre primo attore anche tra le fila della Ultimae Records, etichetta dai gusti molto radicali in fatto di musica, che però, con questo nuovo 'Border 50' lascia diversificare leggermente le sue proposte musicali, permettendo di spostare il tiro verso un ambient con spunti di matrice decisamente più alternativi. Una forma diversa, pensata con i ritmi lenti, psicotici e bui della Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, Bohren & Der Club of Gore e Dale Cooper Quartet & Dictaphones, dove tutto risulta sospeso e rinchiuso nell'ombra, dai rumori uditi in lontananza fino ai colpi di una batteria appena accennata. La composizione di matrice rock oriented (alla maniera dei Pink Floyd più eterei), è un punto di partenza e non un arrivo, un motivo che offre uno spunto di ispirazione ma che viene progressivamente fatto svanire in favore di un ambient più consono all'estetica dell'etichetta. Spiccano le fughe sonore dei synth e la drone music più meditativa, tipico delle produzioni della Ultimae. Il dub che vive nel background dell'artista elvetico, viene messo in sordina nella parte iniziale dell'album, anche se, per tutto l'intero fluttuare del disco si sente, nella profondità dei bassi e nel bilanciamento del suono, che Master Margherita ha la stoffa, il carattere e l'esperienza per governare al meglio questo tipo di sonorità. Dicevamo che il sound può essere anche classificato come dark ambient, poiché richiama arie e stili usati da band vicine al dark/synth wave in generale (vedi 'Time Machines' dei Coil). Sicuramente ci si mantiene all'interno del genere e lo si rivisita in chiave malinconica e scura, ottenendo un'elettronica scenografica e cosmica di scuola Martin Nonstatic (compagno di scuderia), utilizzando in maniera statica e cupa il suono elettronico di Sync24. Il trittico iniziale è spettacolare nel suo essere un colosso sonoro completo ed elegante, un suono misterioso che sfocia ("Shruti One - Ambient Mix") in un folk guidato da un flauto etnico (magistralmente suonato da Don Hooke), dal tocco estremamente magico. Da questo punto in poi i ritmi diventano sempre più rarefatti, i brani sembrano rifarsi ad una coltre di fitta nebbia e tutto sembra congelato ed immobile. Con "Cosmogram" (il brano migliore della compilation a mio avviso) l'abbandono avviene tra le stelle di una sconosciuta e nera galassia, una visione buia ed infinita. I dieci minuti abbondanti di "Border 50 Dub Mix" in compagnia di The Positronics, ci riavvicinano al dub cosmico, liquido e pulsante con i suoni rimodernati alla maniera del mitico Bill Laswell con un ricordo d'annata delle opere di 'The Scientist'. In chiusura il ritorno al drone/ambient di "Extending Downwards (Border 50 Mix)". Un disco non facile da assimilare ma che offre spunti di cristallina bellezza, sicuramente non da sottovalutare (disponibile anche in versione 24 bit). (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2018)
Voto: 73

https://ultimae.bandcamp.com/album/border-50

lunedì 4 marzo 2019

Paths - In Lands Thought Lost

#FOR FANS OF: Black/Ambient
From the rich Canadian underground, Paths returns with its third effort entitled 'In Lands Thought Lost'. This is a solo project founded by Michael Taylor in 2013. As far as I know, this is Michael´s first fully metal project as his other projects like the extinct Heaven Was Beautiful Then, and his current side project, Teeth of the Wolf, are much more acoustic and ambient. In fact, Paths was initially a black metal project with many different influences and a weird touch, which has evolved to a more ambient black metal sound. This evolution happened in only 3-4 years, where Michael has kept an interesting rate of releases, recording several demos and the aforementioned three albums.

Now, only five years after the band´s inception, Paths seems to have achieved a state of maturity and consolidation of the current sound. This might lead the band to be more known in the scene, especially if we take into account that 'In Lands Thought Lost' has been released by the excellent label Bindrune Recordings. The new opus consists of five long tracks, where it is clear that Paths has now a quite distinctive ambient black metal touch. The tracks have in general a quite ferocious tone, where the guitars play a major role, the occasional synths increase this sense of atmosphere in certain parts, like it happens in the second track “To Brave the Storm”. Anyway, the use of the synthesizer is increased through the album, making certain tracks with a stronger atmospheric touch. Pace wise, the album has unsurprisingly a good amount of fast sections, but Michael manages to vary the pace enough to compose interesting songs maintaing a high interest. Thanks to this approach, the songs flow from fast to mid-pace and slow sections in a very natural way. Moreover, apart from the mentioned keys, he introduces more acoustic and ambient sections, like those contained in the second half of “Creaking Boughs”, where he even sings with a clean voice, just only like a single man choir. The last part has also a combination of excellent guitar melodies with a slightly more prominent synthesizer. This may be one of the most interesting compositions of this album. I would like to remark Michael´s excellent job with the guitars, both at riff level and especially with certain solos, which are quite emotional and with a melancholic touch; one of my favourites is that you can listen to in “The Everbright Land”. The album closes with “South Ever South”, the longest track of 'In Lands Thoughts Lost' that summarizes all the features here contained. It has a slower start with synthesizers whose melody is very similar to the one listened to in the previous song. This is not really a problem as I love how it increases the sense of solemnity. This is clearly the most solemn and epic track of the cd, with occasionally faster sections but a mainly slow-mid tempo. These calmer parts help Paths to have a greater room to create a hypnotic and beautiful composition. This is undoubtedly an excellent closing to the album and a composition I personally like to listen to over and over again.

In conclusion, Path has released an excellent third work where it seems to be very comfortable within the atmospheric black metal genre. Its mastermind Michael has composed excellent tracks, where guitars play a prominent role with very good melodies and a wide range of variety. The keys and other tweaks enrich the compositions and make the album even better. Very recommendable. (Alain González Artola)

Quiete - Eos

#PER CHI AMA: Death/Black, Novembre
Il progetto Quiete vede nelle menti di Nicola Trentin (che abbiamo già recensito nei Crafter of Gods) e Matteo Penzo (Descent from the Damned e Famen) i principali fautori. L'esordio 'Eos' riporta immediatamente alla mitologia greca e alla dea figlia dei Titani Iperione e Tia, condannata da Afrodite, per la sua mala condotta, ad innamorarsi di continuo di comuni mortali; da uno di questi ebbe un figlio che fu ucciso da Achille, nella Guerra di Troia. Le lacrime di Eos per quella perdita, generano la rugiada ogni mattina. Fatta questa dovuta introduzione, addentriamoci nella musica del duo di Treviso per capire la potenziale connessione tra la musica dei nostri e la mitologia greca. L'EP contiene tre pezzi, che esordiscono con "Samsara" (chiaro riferimento alla dottrina orientale inerente al ciclo della morte). La song apre in modo suggestivo risvegliando in me le immagini del film omonimo. È una sorta di intro a cui fa seguito il devastante ma estremamente melodico approccio della band, che ricama successivamente melodie dal sapore orientale su cui s'insinua il sussurato in italiano del vocalist. Il tribalismo etnico della proposta viene spezzata però da una feroce ritmica e da un growling possente, che va ripetendosi nel corso del brano, su cui aleggia un mood malinconico che sembra connettersi virtualmente alla tristezza della divinità greca menzionata poc'anzi. Con "Aurora", al di là di un pesante tappeto ritmico, è interessante sottolineare la presenza di tocchi di pianoforte che insieme ad una splendida melodia di chitarra, guidano il brano che ammicca, almeno nelle parti più atmosferiche e di cantato pulito, ai Novembre, mentre nelle porzioni ritmiche più selvagge, i riferimenti nel death melodico potrebbero essere molteplici. Alla fine però il risultato finale si rivela assai gradevole e non posso che concedere un plauso alla proposta dei due musicisti veneti, non fosse altro poi per la scelta di mettere i tre pezzi di 'Eos' in un elegante digipack. Nel frattempo arriviamo alla conclusiva "Ephemeral", una song che vuole probabilmente parlare con toni filosofici, della natura effimera dell'uomo o chissà, affidando il tutto alla voce femminile di Federica Bottega che fa da contraltare al growling malefico di Nicola in un esperimento quasi riuscito, dico quasi perchè il dualismo female e growling vocals ovviamente non è affatto nuovo, e poi perchè la tonalità vocale della brava Federica, a mio avviso, poco ha a che fare con la proposta dei nostri che si confermano più efficaci nelle porzioni più devastanti dell'album. Insomma, le premesse per fare bene in futuro sono davvero buone, c'è ancora da lavorare per integrare al meglio nuove collaborazioni con voci femminili o per calibrare al meglio la proposta dell'act trevigiano. Nel frattempo godiamoci la musica contenuta in 'Eos'. (Francesco Scarci)

The Universe By Ear - II

#PER CHI AMA: Psych/Alternative, Motorpsycho
Muoversi tra la psichedelia degli It’s Not Night, It’s Space e la scatola musicale dei Motorpsycho, passando per stoner e allucinazioni solari della vecchia scuola degli On Trial, deve essere un compito arduo ed estremamente complicato se al suo interno ci si vuol mescolare anche un'attitudine punk old style americana alla X ed un certo prog alla Pain of Salvation (periodo 'Road Salt'). Coretti e lyrics ben studiati (con evidenti richiami alla scuola alternative rock), equilibrio musicale e una orecchiabilità da tener conto, sono l'arma migliore degli svizzeri The Universe By Ear, giunti al loro secondo lavoro, 'II'. Il progredire dell'album è fluido e sempre fantasioso, già nel secondo brano la natura freak e lisergica di questa creatura sonora si mostra con aperture psych molto interessanti, anche se quello che colpisce rimane sempre la gioiosa cantabilità dei brani, che potremmo paragonare, valutandone l'alta qualità, ad una forma underground dei R.E.M. liberati dal mainstream ed immersi in acido. I nostri musicisti elvetici, si muovono con facilità ed esperienza in contesti psichedelici vari, con l'ausilio di una produzione molto intelligente che li avvicina a certe sonorità care ai Tame Impala e agli Oasis (quelli di 'Dig Out Your Soul' per intenderci) lasciando sempre una porta aperta verso lo stoner rock più allucinato della prima ora (vedi "Core"). È straordinario intuire quanto sia maturo un brano come "Follow the Echo" nel suo pulsare con reminescenze hard blues e 60's, la ballata alla Frusciante di "Fall", l'occhiolino strizzato verso il mood radiofonico tra Hendrix, EODM e primi Heels in "Bad Boy Boogie", oppure il mantra dilatato di "Sand...". Di sicuro si sente che non cercano di emulare altre band, prendono spunti e si coprono di originalità nel loro mescolare generi inerenti al rock desertico, psichedelico e solare. Sono svizzeri dicevamo e si sente, nel loro stile così certosino, nella ricerca della qualità, ma a Basilea, il sole non splende alla stessa maniera della California e questo li rende più interessanti e originali allo stesso modo dei norvegesi Motorpsycho, un'anomalia geografica che giova al suono del gruppo in maniera più che ottimale. 'II' nasconde a suo modo anche un'impostazione neo progressive non convenzionale, con l'album che si srotola lungo dodici brani suonati ad hoc andando via via ad evolvere e migliorare, ma anche stravolgendosi in una veste più garage, psych e vintage, concetti e sperimentazioni musicali presenti e ben espresse anche nel primo album. Ma 'II' è ancor più ricco di sfumature, e tutto da scoprire! (Bob Stoner)

Eremit - Carrier of Weight

#FOR FANS OF: Sludge/Doom
True to doom form, a massive lumbering lead guitar inhales the smoke of dying civilizations as growling and hacking vocals heave their ways across the desolation of “Dry Land”. Eremit becomes its own beast of burden in 'Carrier of Weight' and stumbles through the sludge of its reverb in search of relief from this treacherous strand. A very John Tardy feel comes with the vocals as the gravely unhinged scream of Florida's sickest sound finds its mirror in Moritz Fabian's voice, making the guitar billow clouds of grain to choke away such anguish. The pacing throughout over twenty-three minutes of “Dry Land” is reminiscent of the Altar of Betelgeuze's 2017 album, 'Among the Ruins', without the final step into the rays of an expanding sun to melt you away. Instead, you slowly starve to death as this agonizing song saps you of your nutrients and leaves you to finally be washed away by the incoming tide.

“Froth is Beckoning” brings that deluge with a massage of strings, fingers that become the legs of spiders, curling around you like the tireless onslaught of a lunar tide. This grimy and enchanting sound follows you for a few minutes before tumbling deeper into a chasm of inescapable darkness.

Epic longitude through three tracks is difficult to pull off. Flowing in a thought provoking manner from movement to movement without compromising the integrity of a song to keep a listener's focus makes it difficult to negotiate the distances a song will trek and what baggage it is willing to carry with it along the journey. Where “Dry Land” lost its luster, the energy of “Froth is Beckoning” absolutely brought that power back and, in the tips of its second riff, left me wondering where the soar of Pelican may come swooping by or, in its lowest register, when the intensity of a blast would squeeze its way in. Instead, none of that expected release would loosen Eremit's grip on a my neck, choking the throat and refusing to let go with the release for which I was so hoping. Like the torture of hanging by a hook waiting for your captor to return, the walls start to close in with a slight kick that speeds up the riff and drumming to make for a sloshing flow.

Then comes the monstrous final portion of the album, dragged out into a half-hour epic. Where “Dry Land” flowed like the dirty water of a receding flood into “Froth is Beckoning”, “Cocoon of Soul” takes a cleaner approach in its first minutes with an echoing atmosphere humming across the register. It is a satisfying payoff after nearly thirty-five minutes of very samey droning to hear a song that moves and varies while it drowns in the despair of doom. Like the chrysalis to which its title refers, this song wraps you tightly in its ever more claustral walls of guitar, slowly evolving and savoring every mutating muting of a previously plodding pace before crystallizing in the scream of a soul to escape its confines and be reigned in again over long progressions that last minutes at a time.

Though the imposing entirety of this package aims to daunt the listener with its ever-thundering power, there are few drum fills and deviations from form to bend the structure. Instead, these three tracks come more like a soundtrack to one's interment in a prison, an engrossing experience transfixing the listener with its subtleties throughout such minimal variation. 'Carrier of Weight' sews itself into your sinews, like a cancer that cannot be removed without splitting the brain and sacrificing who you are. The cage becomes the Stockholm syndrome love that you cannot live without, until the tiniest crack in the seams is spied. For a moment there is a way out. All of your self-denial, the indoctrination and convincing and the lies that lighten the load dissipate as you plunge towards the crack, blasting and screaming, wailing and tearing in time to the instruments in the hope that such raucous fury can quake these confines. The heart leaps, fingernails bend and break in the thrashing at the wall, and finally the force of this eruption, the deluge so long desired, breaks the thickness of these walls to set you free. Eremit has finally found catharsis. (Five_Nails)

giovedì 28 febbraio 2019

Legion of the Damned - Sons of the Jackal

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death
Sentivo la mancanza dell’ennesima mazzata nei denti. Questa volta dovrò presentare il conto del mio dentista ai Legion of the Damned (LOTD), andando a ripescare il loro secondo lavoro del 2006. La band ci spara tra capo e collo un death violento e incazzato, oscuro e morboso. Potenti riff erigono un muro sonoro devastante, capace di assalirci alle spalle e lasciarci inermi e annichiliti. Cupe growling vocals si stagliano su una ritmica pesante con una batteria che ricorre spesso ai blast-beat. Per chi non lo sapesse i LOTD non sono altro che la reincarnazione degli ormai defunti Occult, band olandese di discreto valore negli anni ’90, che per ragioni contrattuali decisero di sciogliersi e riformarsi sotto altro nome e ripartire là da dove avevano lasciato, appunto con un death thrash dinamitardo che si rifà ai nomi sacri del genere. Niente di nuovo quindi sotto il sole: tanta rabbia e colate laviche di riff che ci percuotono e ripercuotono, lasciandoci tramortiti per terra. 'Sons of the Jackal' è un mortale attacco ai sensi, che alla fine dell’ascolto ci lascia totalmente privi di fiato. Sebbene non ci troviamo al cospetto di nulla di nuovo, devo rilevare l’assoluta perizia tecnica di una band che ormai da oltre 25 anni calca la scena metal con grande dignità. Ultima nota: il cd contiene anche un bonus DVD con più di due ore di materiale inedito estrapolato da backstage di vari festival estivi del 2006, due video e tre gallerie di immagini. Per soli amanti di album tritaossa. (Francesco Scarci)

(Massacre Records/Napalm Records - 2006/2015)
Voto: 65

martedì 26 febbraio 2019

The Pit Tips

Francesco Scarci

Mahr - Antelux
Delice - Sillage
Gorgon - Elegy

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Five_Nails

Spirit Division - Forgotten Planet
Intimidating Mage - Plainsman
Tristania - World of Glass

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Shadowsofthesun

Behemoth - I Loved You At Your Darkest
Massimo Volume - Il Nuotatore
Emma Ruth Rundle - On Dark Horses

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Alain González Artola

Rhapsody of Fire - The Eight Mountain
Konfront - Heks
Ringarë - Under Pale Moon

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Michele Montanari

Soen - Lotus
Varego - I Prophetic
Spaceslug - 4 Way Split

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Dominik

Cantique Lépreux - Paysages Polaires
Lunatic Affliction - Secreta Obscura Mysterium
Der Rote Milan - Moritat

Vanir - Allfather

#FOR FANS OF: Viking, Amon Amarth
Vanir is a band that, on paper, should be buttering my bread. A thick layer of bass clouds the mix while shafts of light break through in choral cries. Chest-pounding rhythms stomp through meaty melodic guitar riffs and images of grizzled ancients thrown about by massive waves complete the atmosphere of “Ironside” as landfall comes with a tide of chaos. The murky melancholy of glorious battle is brought by thunderous drumming, raging rhythms, and soloing six strings aching to accentuate the intensity of peril amidst the clashing of shield walls.

There is a palpable zeal in this dense almost atonal delivery, one as colorless as a collage of weathered stones and fading runes. The massive marching momentum of 'Allfather' cracks you across the face with a flying riff on occasion or a solo that spurs sails forward, but end up crashing into staggering waves of plodding verses and forgettable choruses that salt the wounds opened by such heartfelt moments. Attempts to outdo Bathory in atmosphere fall painfully flat as this flawlessly clean delivery roots itself in a groundwork of stiff blackened death aesthetic and the surrounding yawns of choir and synth make bleak what should be the clenching of a triumphant gauntleted fist. There is little to characterize this band in its own space, merely a series of tropes thrown at a template so basic and phoned in that it's clear why this band is entirely forgotten in the overflowing sea of folk, extreme, and viking themed metal bands populating Scandinavia and swarming scenes the world over with a reach that would make their ancestors weep.

The opening song, “Væringjar” is very much a testament to what you'll hear throughout the rest of the album. Melodic riffs with death metal aesthetic, a very Amon Amarth similarity as this folk metal overruns its power metal presentation with the harsh vocals and bass-heavy thunder of this modern more brash brood. Hulking melodies majestically flow like the grizzled beard of a great warrior, his outstretched arm gripping a rope as waves toss his boat to and fro, a blizzard fueling the large square sail as “Ironside” tumbles to tears of riffs and sprays of double bass. However, beyond the theme of songs like “Ulfhednar” about wolf-skin wearing berserkers of old, the energetic “Shieldwall” opening with a sample from the television show “Vikings” before crashing into its murky production, or “Einherjer”, named for the fallen who are brought to Valhalla, the album revels in an epically stagnant blandness that swamps over the wide gaps between its richest moments.

The Amon Amarth style flows too obviously when melody comes up. A guitar moment in “Einherjer” is taken right out of Judas Priest's “You've got Another Thing Coming” and is easily found in Amon Amarth's “The Beheading of a King”, “An Ancient Sign of Coming Storm”, and “Under the Northern Star”, but altogether is best shown in Amon Amarth's take on Judas Priest in “Burning Anvil of Steel”. This is totally derivative and its rise is the sort of blackened quip that Primordial employs to great release throughout 'Redemption at the Puritan's Hand' among many other black metal offerings that plunge into the ethereal sea in submarines of blast beats for a weekend of “Murmaider”. The reality is though, this moment is a meaty rip off of the opening riff to “She Sells Sanctuary” by The Cult, yet another derivative metal moment that I cannot unhear. Funny how the biggest standout in this release is also its most cliched moment, making an album that's supposed to be brash, grandiose, and powerful fall directly onto its face.

As Amon Amarth enters a new era of creative bankruptcy so epic that the government of Sweden will need to bail the band out in order to prop up its Dethklokian economy, this depression spreads to its Danish cousins as Vanir defaults on its loans from the viking cliché while making music as absent of life as the graves it robs for an identity. The reality is that this album isn't blatantly awful and doesn't feature any flubs. There's no single moment of cringe, save for the clean singing in the German vocalized “Fejd”, and the album becomes a flat plane of plain music. 'Allfather' is astonishingly average and makes Amon Amarth sound fresh and still vibrant in comparison, which is all sorts of sad when considering just how out of steam Vanir's Swedish cousins are. For an album that attempts to sound so monumental in aesthetic, its execution is so bland and blatant a rip off that it makes for a forgettable and disappointing listen when opening an ear a bit more beyond the band's fantastic presentation. (Five_Nails)

(Mighty Music - 2019)
Score: 65