Cerca nel blog

venerdì 20 gennaio 2017

Pater Nembrot – Nusun

#PER CHI AMA: Heavy Psych Stoner
Terzo album, dopo 'Mandria' (2008) e 'Sequoia Seeds' (2011), per la band cesenate che acquista sempre più peso e personalità e sforna con questo 'Nusun', un disco di grandissimo spessore, il migliore finora, e comunque destinato ad avere un ruolo e un peso molto “ingombrante” nella discografia dei Pater Nembrot. Perchè 'Nusun' è uno di quei lavori che lasciano facilmente a bocca aperta, un piccolo capolavoro di stoner psichedelico da salutare con gioia, rispetto e un pochino di incredulità, una volta appurato che si tratta di una produzione tutta italiana. I Pater Nembrot rinforzano la line-up con l’aggiunta di una seconda chitarra e ispessiscono il loro suono fino a renderlo scuro, pastoso e pesante, come il risultato di un ibrido tra Black Mountain, Comets on Fire, gli ultimi Motorpsycho e ovviamente Black Sabbath. Incastonati tra la ballata pianistica “Lostman” e gli echi westcoast della conclusiva e acustica “Dead Polygon”, ci sono 46 minuti tra i più pregni e infuocati che mi siano capitati per le mani in quest’ultimo anno, fatti di riff mastodontici che farebbero la felicità dei Black Mountain di 'In the Future' (“Stitch”) e che, di quando in quando, si fanno cavernosi e quasi doom (“The Rich Kids of Teheran”), oppure incorniciano prestazioni vocali degne dei migliori Soundgarden (“Overwhelming”). Trovano poi spazio dilatazioni riflessive che evocano i più ispirati Motorpsycho (“Architeuthis”) e brani che esprimono appieno una maturità anche compositiva davvero invidiabile, come “El Duende”, costruita su un riff che sembra la versione rallentata di quello di “Airbag” dei Radiohead. Un disco pressochè perfetto in tutti i suoi aspetti, a partire dalla splendida grafica di copertina. Se siete un minimo avvezzi alle sonorità heavy psych, non fatevelo scappare per nessun motivo.(Mauro Catena)

(GoDown Records - 2016)
Voto:80

https://pater-nembrot.bandcamp.com/album/nusun

martedì 17 gennaio 2017

GC Project - Face the Odds

#PER CHI AMA: Prog Rock
GC Project è il lavoro solista di Giacomo Calabria, eclettico batterista che calca la scena musicale italiana e non, da parecchi anni e che vanta collaborazioni con un gran numero di musicisti. Il suo amore per il prog metal lo ha portato a scrivere 'Face the Odds', full length che contiene undici brani autoprodotti con il supporto di innumerevoli artisti che si avvicendano ad aiutare il loro amico. "The Spring and the Storm pt. I" è la seconda traccia del cd e nei suoi cinque minuti racchiude il fulcro della musica di Giacomo. Un brano che trasuda prog misto a rock anni novanta, caratterizzato dalla sua sezione ritmica impeccabilmente pulita e trascinante. Le chitarre fanno il loro sporco lavoro, con riff potenti e con distorsioni adatte al genere. I brevi fraseggi di tastiera e l'assolo completano gli arrangiamenti ben fatti, insieme ad un cantato che si destreggia molto bene nei vari passaggi. "Southern Confort" ci catapulta in Asia grazie al suono del sitar e alla ritmica incentrata sui fusti della batteria che richiama lontani battiti tribali. La melodia ci culla per prepararci alla perentoria chitarra elettrica e ai suoi riff distesi. Nel frattempo i tocchi di hammond addolciscono il tutto e sostengono la vocalist (questa volta c'è una lei dietro al microfono) che ben si muove tra cantato e parlato. La pronuncia a volte risulta un po' troppo marcata, in compenso sale di tonalità con decisione, mentre basso e batteria si divertono ad intrecciarsi, il tutto poi a a finire in fade out. Il prog vecchio stile torna in "Water in the Desert", dove la sezione ritmica la fa da padrone, correndo e rallentando a piacere, permettendo a tutti gli strumenti di allungarsi in fraseggi sempre all'altezza. Molto azzeccato l'assolo di tastiere che sfuma naturalmente e lascia spazio a quello di chitarra, mentre nei vari break fuoriescono suoni elettronici di tutti i tipi. Un pezzo classico se vogliamo essere sinceri, ma eseguito ad opera d'arte. Tutto il meglio della PFM, Goblin ed affini è stato digerito e studiato con cura da musicisti con del gran pelo sullo stomaco. Chiudiamo con "18 Circles of Life", un vero inno alla vita, dove le atmosfere, a volte oscure dei precedenti brani, sono state messe completamente da parte per lasciare spazio a pura positività che trasuda dai riff e dagli arrangiamenti. Anche qui Giacomo mette in campo tutta la sua bravura con ritmiche complesse e mai scontate, veloci e che conducono alla fine del brano ancora quando stiamo canticchiando il ritornello. In 'Face the Odds' è stato fatto un buon mixaggio e soprattutto il mastering è minimo, pochissima la compressione che dà un gran senso di ariosità ai suoni che si liberano nelle frequenze permettendo di raccogliere tutte le sfumature. Di contro, alcuni punti sembrano su viaggiare su piani staccati; alla fine però ne è valsa la pena perché ci troviamo tra le mani un piccolo gioiellino che trascende il genere e dovrebbe comparire nelle collezioni di molti musicisti che aspirano a raggiungere livelli eccelsi. (Michele Montanari)

Kalmankantaja - Kuolonsäkeet

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Sono infine giunto, al buio, circondato da antiche rovine Quechuas, con l'unica compagnia di un freddo gelido, a Pueblo Fantasma, Bolivia, 4690 metri sul livello del mare. Eolo sul mio volto sferza il suo fiato ove scanna runiche rughe intrise nel mio sangue con i suoi invisibili aghi, rune che brillano e pulsano nell’oscurità. Mi chiamo Kalmankantaja e sono un druido votato al male. Non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato fin qui. Dev'essere l'effetto delle troppe foglie di coca che ho masticato per resistere al freddo, alla fame e per riuscire a trascinarlo. Una cosa, però, me la ricordo bene: il motivo per cui sono lì. Scelgo la chiesa, ove accendo, con uno dei miei incantesimi occulti, un arcano fuoco. Lo pronuncio: “Sieluton Syvyys” e le fiamme divampano poco lontano da me. È stata per l’appunto “Sieluton Syvyys”, entry-track strumentale di 'Kuolonsäkeet', dei finnici Kalmankantaja ad evocare questa mia storia: la sua tastiera occulta, geopardata da rare ed arcane parole, ci inizia all’arte con note che da profonde, sulla scia dell’organo, si trasformano, s’innalzano e mi portano con loro nell’alto dei cieli. Accedo all’Empireo tenendo per mano Beatrice ma dimenticandomi di Dante. Ecco che odo i primi lamenti, i primi strazi, della mia vittima. Ebbene, non sono solo, l’ho portato con me. Finora aveva taciuto, sotto l’ipnotico effetto del mate de coca. Ora si sta risvegliando, tossisce. Quindi urla. Non oso immaginare quali oscure creature si annidino lì, nel posto in cui mi trovo, quali lugubri presenze stia per evocare, ma non ho paura. Io non ho paura di niente. Io non temo nessuno. Nessuno al di fuori di me. Sì, al di fuori di me, perché di me ho paura. Di me ho davvero paura: so come sono. Dentro. Tanto gentile e tanto onesto appaio ma chi mi calpesta… muore. No. Non subito: attendo buono per anni, con paziente disciplina. Faccio maturare per anni il mio silente odio proprio come si fa con il buon vino o come fa il più bastardo dei virus e solo quando tutto sembra tranquillo, quando sono certo che tutti abbiano dimenticato, solo allora colpisco. E vado fino in fondo, senza paura di insozzarmi. Calo la mia falce. Scanno, squarto. Ma non lascio mai tracce. Le sue urla. Sono le sue urla a dare inizio a “Yhdessä Kuoleman Säkeet Kohtaavat” lo strazio di uno che viene torturato e che mi chiede disperatamente di non venire ammazzato. Io semplicemente lo ignoro, anzi, dentro di me godo nel prolungarne le sofferenze. Lui per primo mi ha fatto del male. Senza motivo. La batteria scandisce un ritmo semplice, cadenzato, un quattro quarti lento, con brevi incursioni in ottavi, tipico del genere. Convince il gioco di velocità aumentata solo a tratti, dà corpus e magnificenza a questo brano. Le urla di strazio aumentano ed in quest’armonia s’incarnano alla perfezione in uno screaming potente. Bel lavoro ragazzi, ben fatto davvero. Chitarre distorte all’ennesima potenza punzecchiano ed infastidiscono con pure note di sana ultraviolenza la mia vittima che mai smette di lamentarsi, di contorcersi, come se a ripetizione fosse punta da migliaia di vespe mandarinia japonica. Urla. Urla nell'oscurità. Ma no, no, la mia falce non ha ancora mietuto la sua vittima, c’è ancora così tanto tempo e così poche cose da fare. La sua lama brilla perché ancora non ha assaggiato e non percola, lungo il suo filo, lacrime di sangue. Del suo sangue. Punto il mio bastone, mi concentro, rivolgo lo sguardo al cielo, levito ed al mio comando “Ruoskittu Ja Revitty”, lingue di fuoco all’improvviso si animano, s’innalzano e quindi tracciano un complesso e rotondo sigillo sul terreno con al centro la vittima che ancora urla. I suoi pochi stracci vengono divorati dalle fiamme che assaggiano fameliche anche qualche brandello delle sue carni ma niente di più: non vi sono infatti nuovi ingredienti rispetto la precedente track, non percepisco alcun gusto nuovo. Anzi lo schema si ripete. Belli i dieci minuti di "Yhdessä..." ma forse i successivi dieci di "Ruoskittu..." non vanno ad aggiungere molto. Non sono poi così tanto diversi, forse qui l’agonia viene prolungata un po' troppo. Sulle note di “Memento Mori”, la vittima inizia non solo a prendere atto che deve morire ma che la morte è ormai vicina. Mai giocare con i sentimenti di qualcuno. A meno che non si voglia finire… così. Le sapienti pennellate in solo di tastiera di “Oman Käden Teuras” ed i suoi crescendi, sanno risvegliarmi dal torpore, dandomi qualcosa di nuovo da assaporare. Di mio gusto le interruzioni di batteria. La vittima adesso viene tatuata agli occhi con aghi incandescenti. È questo il mio modo per dire: buona la prova di voce. Nuove sonorità e vocalizzi mi colgono impreparato in “Minun Hautani”: bella questa sorta di dialogo tra vittima e carnefice ovvero il gioco di voci pulita e screaming. Di fronte a “Synkkä Ikuisuus Avautuu” non mi resta che lanciare una moneta per decidere le sorti di questo 'Kuolonsäkeet': testa promosso, croce si muore… …ma la mia è una moneta speciale, dedicata a Giano… e Giano si sa… ha due facce. Invece con la mia vittima non sarò così buono: pollice verso. Morte! Morte! Morte! Mai giocare con… (Rudi Remelli)

lunedì 16 gennaio 2017

Sybernetyks - Dream Machine

#PER CHI AMA: Industrial Rock
I Sybernetyks sono degli industrial rocker francesi attivi dal 2013 che ci regalano quello che potremmo chiamare il primo vero LP della band, 'Dream Machine'. Si tratta di un disco poliedrico, con parecchi pezzi e una certa varietà compositiva, con suoni elettronici utilizzati come dilatatori di ambiente in abbinata con delle chitarre dalla distorsione presente ma controllata, che creano un’atmosfera confortante a tratti e a tratti lucida ma mai inesorabile. Mi vengono in mente i Porcupine Tree per le atmosfere dense di effetti e per molte risoluzioni repentine su fangosi riff sludge piuttosto che su tappeti di delay e tastiere celestiali. Per avere una chiara idea di chi o cosa siano i Sybernetiks, ascoltare "Downstream" è obbligatorio. Probabilmente si tratta del pezzo più riuscito del disco, dotato di un tappeto elettronico iniziale che introduce una sezione pesantemente rock con notevoli arrangiamenti vocali. Un altro must è rappresentato dalla title track che chiude il disco e che racchiude le migliori peculiarità della band, dagli eterei ambienti dove la voce si adagia piano sulla musica fino al potente assalto delle chitarre che la porta invece alla sua massima espressione, con una coda nebbiosa vagamente drone. Per molti versi 'Dream Machine' è un buon ascolto, anche se una visione d’insieme dell’opera avrebbe giovato di più al progetto che seppur qualitativamente molto alto, a volte risulta ridondante. Un gruppo sicuramente da tenere sott’occhio per le capacità dimostrate ma soprattutto quelle potenziali; per di più sul loro bandcamp campeggia la confortante scritta “we take care of your future”, una bellissima idea che tutte le band dovrebbero fare propria! (Matteo Baldi)

Cosmic Jester - Millennium Mushroom

#PER CHI AMA: Blues Rock/Jazz/Psichedelia
I Cosmic Jester sono una band nata nel 2015 e questo è il loro debutto discografico, nonostante sembrino in tutto e per tutto usciti dalla California acida degli anni '60. Di stanza a Berlino, i nostri sono in effetti un duo composto da Lucifer Sam, chitarrista e polistrumentista originario delle coste del Mar Baltico, e Roboo, batterista statunitense di impostazione jazz. La musica racchiusa in quest’elegante confezione cartonata fatta a mano, declina per poco più di settanta minuti un concentrato di rock blues rilassato e jazzy, che sembra trarre ispirazione tanto dalla San Francisco dei Jefferson Airplane, quanto dal kraut rock più acido e meno rigoroso degli Ash Ra Tempel. Il disco ha la capacità di calare immediatamente l’ascoltatore in una dimensione pacificata e positiva, con quell’ibrido tra Crazy Horse e Quicksilver Messenger Service che è “Muddy Waters”, acida ed elettrica opening track, al contempo pacata e riflessiva. Lo stesso mood, un po’ più jazzato, viene mantenuto in “Skin” e nella strumentale “Noise From Beyond the Sea”, mentre l’album assume forme sempre più dilatata ed elettroacustiche, che non disdegnano alcune incursioni nel folk indiano (“Millennial Mushroom” e “The Psyfolk Experience Jam”) o nella psichedelia weird inglese tra Syd Barrett e Robyn Hitchcock (“Joker in the Paper Cup”), passando per il quasi prog di “Polarity”, fino ad un nuovo irrobustimento delle trame nella parte finale, con la lunga “The Wake”. Il caleidoscopio sonora allestito dai Cosmic Jester impressiona per varietà e sicurezza con la quale i due si muovono tra stili e una strumentazione ricca e variegata, e promette molte ore di ascolto piacevole e fruttuoso, soprattutto se si è avvezzi alle coordinate di riferimento. Unico neo, a mio avviso, una certa frustrazione provata per via di un missaggio non sempre perfetto, che rende alcune parti di chitarra quasi inudibili. (Mauro Catena)

domenica 15 gennaio 2017

Lilium Sova – Lost Between Mounts and Dales / Set Adrift in the Flood of People

#PER CHI AMA: Mathcore/Noise, Zu
Quando parlai di 'Epic Morning', eccellente esordio dei ginervini Lilium Sova datato ormai 2012, mi ero interrogato sul futuro della band, allorché all’indomani dell’uscita del disco, la formazione che l’aveva registrato, già non esisteva più. Ad abbandonare la nave era stato un elemento fondamentale quale Michael Brocard (sax e tastiere), lasciando la granitica sezione ritmica composta da Cyril Chal (basso) e Timothée Cervi (batteria) a dover reinventare da zero un suono che faceva gran conto sulle furiose incursioni free del sax dei Brocard. La nuova line-up è ora completata da Loïc Blazek che si cimenta al violoncello e alla chitarra. Quattro anni dopo vede finalmente la luce questo nuovo lavoro, che di quel cambiamento è figlio. Diviso idealmente in due facciate distinte, ognuna col proprio titolo, una propria tematica e una propria identità musicale, sottolineata dall’uso esclusivo del violoncello per la prima parte, identificata come 'Valley' e da quello della sei corde per la seconda, denominata 'City'. Dopo un’intro atmosferica, “Pakeneminem” mette subito le cose in chiaro col suo martellante incedere post-hardcore/noise. Basso e batteria sono una macchina inarrestabile su cui si innesta il violoncello, usato in modo molto poco rassicurante. In generale, tutta la prima parte del lavoro si distingue per una certa drammaticità e per atmosfere maestose e inquietanti, non prive di un certo respiro largo come nella lunga “Ofkaeling”. La seconda parte è invece caratterizzata da toni decisamente più nervosi e taglienti. La batteria non lascia scampo e l’affilatissima chitarra hardcore toglie il respiro come lo smog metropolitano, arrivando a ricordare certe cose degli Unsane in 'Forlorn Roaming' e flirtando pericolosamente con un post metal di impronta sludge davvero tosto. I Lilium Sova hanno cambiato pelle, si sono lasciati alle spalle certe influenze free-jazz e hanno addirittura beneficiato del cambiamento, risultando forse meno imprevedibili ma più quadrati e potenti. (Mauro Catena)

sabato 14 gennaio 2017

Bròn - Ànrach

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
La Kunsthauch è da sempre sinonimo di sonorità black ambient. Non sono immuni nemmeno i Bròn, one man band scozzese (guidata da tal Krigeist) che con 'Ànrach', arriva all'agognato debut album. Come spesso accade, le band scozzesi, gallesi o irlandesi ricorrono alla lingua celtica per trasmettere il legame profondo con le loro radici antiche e cosi il titolo del cd è una parola gaelica che sta ad indicare l'abbandono. Un abbandono ha sempre una connotazione malinconica che in questo caso si traduce nel mood nostalgico di un disco che include tre lunghissime tracce caratterizzate da un flusso sonico mid-tempo interrotto da brevi sfuriate black, con le chitarre venate di quell'aurea epica in stile Windir. A differenza della mitica band norvegese però, qui ci sono molte più tastiere, con una certa predominanza quindi di lunghi interludi atmosferici che evocano inevitabilmente il conte Grishnackh (alias Burzum). Ecco in soldoni la opening track che dà anche il titolo al disco. Con "Lutalica" (parola di provenienza serbo croata) non ritroviamo troppe variazioni al tema, se non una seconda parte del brano che si avvicina sempre di più all'ambient e che forse farà storcere il naso agli amanti del black più puro, ma tranquilli perché lentamente la song cresce in intensità e pure in velocità, con un finale furibondo. Tuttavia il disco stenta a rapirmi, forse perché troppo statico o dotato di suoni di synth troppo noiosi e scontati. Stancamente si arriva all'ultima "Tipiwhenua" (parola stavolta maori), il cui inizio tastieristico di certo non mi aiuta nella valutazione complessiva di un disco lungo, troppo lungo, ridondante e che non apporta nessuna novità in un genere di nicchia come quello dell'ambient black, in una song comunque avara di sussulti. 'Ànrach' non è un disco da bocciare, in quanto il mastermind di Edimburgo sa il fatto suo, però non è neppure un album che mi sento di consigliare a cuor leggero. Dategli un ascolto approfondito prima dell'acquisto, rischiereste di utilizzarlo per fermare un tavolo traballante. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch - 2016)
Voto: 60

venerdì 13 gennaio 2017

Dysylumn - Chaos Primordial

#PER CHI AMA: Post Black/Death
Che diavoli questi francesi! La scena transalpina cresce che è un piacere e questi Dysylumn si vanno ad aggiungere alla già nutrita scena che ogni settimana sembra far affiorare nuove interessantissime leve da oltralpe. Il duo di oggi arriva da Lione e ci propone il secondo EP della propria discografia che conta anche un full length uscito nel 2015, 'Conceptarium'. 'Chaos Primordial' è un lavoro malato che riparte laddove l'album di debutto aveva chiuso. Il dischetto consta di tre pezzi più intro ed outro, che propinano palesemente anguste sonorità angoscianti. La title track apre i battenti, con i suoi suoni cupi e cadenzati, in cui death e black coesistono lungo i binari di una malsana dissonanza musicale semplicemente da brividi. Il suono dei nostri si muove poi sinuoso attraverso striscianti aperture progressive e vocals maligne, in un coacervo di stili che ingloba anche ambigue forme di doom e sludge. "Œuf Cosmique" irrompe con la classica ritmica martellante del post black, ma poi trova pace nella sua andatura mid-tempo tra urla lontane, improvvise accelerazioni e aperture astrali, mantenendo comunque intatta la vena melodica dei nostri. La lunga "Régénération" continua nel suo approccio sincopato tra distonici pattern ritmici, atmosfere occulte e urla che si tramutano in chorus epici, in una musicalità che trova anche modo di fuggire in psichedeliche fughe strumentali e riesplodere in efferati slanci di brutalità. Il disco si chiude con l'ambient onirico dell'"Outro". Che altro aggiungere se non invogliarvi a scoprire molto di più a proposito di questi due enigmatici musicisti francesi (Francesco Scarci)

(Egregor Records - 2016)
Voto: 75

https://dysylumn.bandcamp.com/