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giovedì 13 ottobre 2016

NightMyHeaven - Across the Dark Side


#PER CHI AMA: Black/Death atmosferico, Emperor
Gli Emperor hanno fatto scuola negli anni '90, e i NightMyHeaven, formatisi all'inizio degli anni 2000 in quel di Guimarães in Portogallo, possono essere annoverati nella schiera di adepti della band di Samoth e soci. Il genere? Facile no, black death atmosferico, certificato sin dall'intro del cd che ci introduce a "Nights Dark Side", song che a livello ritmico, segna un riffing tipicamente death metal, mentre a livello di atmosfere, evoca un che dei Cradle of Filth e appunto dei succitati maestri norvegesi, anche se lungo il corso di questa song, il pensiero mi ha spinto più volte verso i Limbonic Art, cosi come pure ai primi Samael, con la performance vocale di Alfredo abbastanza convincente, nel suo screaming molto borderline con un growling stile orco cattivo. I lusitani proseguono con questo registro anche con la successiva "Riders of the Apocalypse", brano parecchio ruvido, che sta più vicino al "metallo della morte" che a quello "nero". E "Kill Your King", scandita dal suono di spade brandite in cielo e di una battaglia che si sta consumando in campo aperto, continua in tal senso, mettendo a ferro e fuoco l'ascoltatore, con ritmiche dritte in cui a eccedere un po' troppo è il cantato del frontman; avrei prediletto infatti che venisse lasciato più spazio alla musica e alla melodia. In "Channel of Doom" invece, sembra che il quintetto portoghese abbia già intuito i miei pensieri e virato pertanto verso uno stile che lascia più spazio a musica e assoli, anche se ancora un po' elementari. E il disco da questo punto in poi, sembra subire un netto miglioramento anche con le successive "Slayer of Deities" e "Amidst the Wolves", dove le atmosfere trovano terreno fertile, pur mantenendo intatto lo spirito battagliero del death metal, con un riffing comunque scorbutico, spezzato da qualche solo che invece punta diritto all'heavy metal classico. "Daughter of Hecate" ha un approccio più orientato al black sinfonico e per questo più accessibile e anche più piacevole, grazie all'uso massivo di tastiere molto stile anni '90, che replica il suo mood anche nelle conclusive "The Flight of the Harpies" and "Hades Hellhound". 'Across the Dark Side' è alla fine un album onesto, anche se ormai suona piuttosto anacronistico nei suoi suoni e nella sua proposta in generale, il che dovrebbe indurre i cinque guerrieri lusitani a svecchiare un po' la propria proposta (anche in fatto di cover cd), visto che ormai siamo sul finire del 2016 e gli Emperor si sono ormai sciolti da tre lustri. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 ottobre 2016

Fyrnask - Fórn

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Emperor, Deathspell Omega, Agalloch
La profondità degli abissi è pronta ad inglobare voi tutti. I Fyrnask sono tornati con quello che è il loro terzo album, quello dell'attesa consacrazione, il primo per la Ván Records, dopo gli esordi per la Temple of Torturous. 'Fórn' è il nuovo mostro a sette teste partorito dalla mente di Fyrnd, colui che si cela dietro al combo di Bonn (ora una band a tutti gli effetti, dopo gli esordi come one-man-band), pronto a tracciare il proprio sentiero, grazie alla peculiare forma di malatissimo e roboante black metal che essi propongono. Escludendo l'intro acustica di "Forbænir", la malvagità dei nostri è certificata dal malefico sound di "Draugr", che nei suoi quasi otto minuti, ha modo di assemblare il black più atmosferico di scuola norvegese con le disarmonie della scuola francese (Deathspell Omega e Blut Aus Nord), non dimenticando citazioni che chiamano in causa anche la furia claustrofobica degli Altar of Plagues e un che del black metal cascadiano d'oltreoceano. Signori, questo cd si candida ad essere uno dei top album nella scena black di questo 2016, che con la violenza di "Niðrdráttr", spinge per affermare la superiorità dei Fyrnask in quest'ambito musicale. "Vi Er Dømt" risuona come un rito sciamanico, atto a regalare al disco anche una certa ritualità di fondo che arricchisce, in termini contenutistici, la proposta dell'ensemble della Renania. Dopo questa pausa rumoristica, si riprende con "Agnis Offer", una song davvero strana, inedita per la band e per questo anche più difficile da inquadrare. I suoni non sono infatti quelli canonici dato che l'approccio della band verge verso una certa solennità di fondo che evoca addirittura gli Urfaust. Ancora un intermezzo ritual e poi il vuoto viene colmato dalla ferocia insana di "Blotàn", pezzo pirotecnico e anche il mio preferito, che alterna epiche sfuriate black a schizofrenici mid-tempos, con la voce di Fyrnd che sbraita invasata per tutti i suoi sei minuti. Un altro rito proferito da una litanica voce, scandita dal suono di una campana, ed eccoci approdare a "Kenoma", un episodio nebuloso per la discografia della band, che ha avuto l'intelligenza di riarrangiare il proprio sound, progredendo verso un'evoluzione sonica che li ha portati in poco più di cinque anni, a divenire una delle più interessanti realtà dell'underground black. Le ultime menzioni di quest'oggi vanno allo splendido digipack e relativa cover, a cura dell'artista irlandese Glyn Smyth e infine per l'edizione in vinile, che include la bonus track "Vitran". Fyrnask, c'è da fidarsi. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 85

https://fyrnask.bandcamp.com/

Hella Comet – Locust Valley

#PER CHI AMA: Indie Rock, Sonic Youth
Uno spesso muro di feedback chitarristici, pastoso, fitto e dissonante, è la prima cosa che ascoltiamo, quasi investendoci, una volta premuto play su “Secret Body Nation”, prima traccia dell’ultimo album di questo quartetto austriaco di Graz, e immediatamente non possiamo non pensare che a due parole: “Sonic” e “Youth”. Il modo di usare le chitarre infatti richiama in modo evidente lo stile di Thurston Moore e Lee Ranaldo, e allo stesso modo, la voce della bassista Lea ricorda una Kim Gordon più sognante e più intonata (e dal timbro che ricorda la Björk degli esordi); solo la batteria è più essenziale e quadrata, ma non per questo, meno efficace. Rispetto alla storica band newyorkese, gli Hella Comet paiono meno interessati alle divagazioni sperimentali e più concentrati su una struttura più propriamente rock, tanto che questo 'Locust Valley' si avvicina nelle atmosfere, agli album più diretti di Moore & Co., come 'Dirty' o l’ultimo 'The Eternal'. Rispetto al passato però, gli austriaci paiono aver parzialmente accantonato una certa tendenza al pop-shoegaze e anche le loro inclinazioni post-rock vengono confinate di fatto, solo nelle fragorose esplosioni di “Idiots and Slavery” e nello strumentale conclusivo “Conk Out”. Quello che emerge maggiormente da questo disco, e che lo rende davvero interessante, è l’altissima qualità di scrittura, unita ad una produzione potente e fragorosa. I dieci brani che compongono l’album (uscito peraltro solo in vinile) sono uno meglio dell’altro, dall’impatto della già citata ”Secret Body Nation”, di “Sid” o “Death Match Figure”, alle splendide cavalcate mid-tempo di “Fortunate Sleepers” e “Midsummer Heat”, fino alle schegge noise di “43goes79goes43” e “The Wicked Art To Fake It Easy”. Disco splendido, perfetto per albe brumose in riva all’Hudson River, sere piovose negli appartamenti di Brooklyn, ma che va benissimo anche per qualsiasi luogo in cui vi troviate ora. (Mauro Catena)

lunedì 10 ottobre 2016

They Seem Like Owls - Strangers

#PER CHI AMA: Progressive/Post/Death Sperimentale, Opeth, Katatonia, Riverside
Dislocati tra Portland, Chicago e Washington DC, i They Seem Like Owls sono un progetto di quattro individui, che ognuno nella comodità di casa propria, hanno concepito questo interessante 'Strangers'. Influenzati da una mistura di prog rock e frangenti di death metal sperimentale, quello che balza all'orecchio durante l'ascolto della opening track, "Chasm", oltre ad una certa perizia tecnica e un notevole gusto per le melodie, è l'influenza esercitata dai Ne Obliviscaris, in fatto di utilizzo di clean vocals e di quella atmosfera che caratterizza la band di Melbourne, che immediatamente mi ha fatto sobbalzare dalla sedia e ascoltare il cd con una dose di attenzione decisamente sopra la media. I cambi umorali dei nostri si riflettono nel flusso musicale che procede dinamicamente nella prima brillantissima song. Speriamo solo non si tratti di un fuoco di paglia e che le conferme arrivino anche dalle successive tracce. Con una curiosità quasi spasmodica, mi avvio quindi all'ascolto di "Vertices", brano numero due, in realtà un interludio di synth che introduce a "Elevator". La song si preannuncia tutta in salita, complice un inizio timido su cui si va a posizionare la voce pulita di Jason Margaritis in un contesto sonico più spostato ora verso sonorità marcatamente progressive rock, e che solo nel finale trovano modo di irrobustirsi grazie al rientro del growling del frontman. Si torna a correre con "Thanksgiving", ma la ritmica qui sembra virare verso il djent, in una commistione sonora che diventa ancor più complicata da inquadrare, per quell'alternanza di voci, ma anche per un continuo lavoro che vedono i nostri cambiare tempi con una certa frequenza, rallentare paurosamente, spezzettare il proprio sound e poi et voilà, ecco l'ingresso inatteso del sax di Michael Schiavoni a incorniciare un brano che suona come una girandola di emozioni per quell'infinita miscela musicale che esso sprigiona. Si va avanti increduli a quanto nel frattempo sta accadendo nell'impianto stereo. Le atmosfere con "Light Field" si fanno più plumbee, il sound sembra quasi post rock, il sax irrompe nel buio della notte, in un'atmosfera che assomiglia molto più a quella di un lounge bar piuttosto che di un club dove si sta suonando heavy metal. Ma i quattro sembra stiano facendo una jam session, improvvisano musica, sperimentano e io non posso far altro che godere davanti all'eclettismo di questi fantastici musicisti e prendere atto che qui nulla è scontato. Grazie a Dio. Un altro intermezzo soft e arriva "Shooter", e i suoi suoni che sin dai primi secondi presagiscono indubbia follia. Non mi sbaglio, la song è sicuramente irrequieta, basti ascoltare il lavoro dietro alle pelli di Billy Cole, mentre l'ottimo Dan Cutright si prende cura di basso, chitarre e synth, con la ritmica che nel frattempo corre veloce, si ferma e riparte neppure fosse una gara di Formula 1, in una traccia che forse strizza l'occhiolino ai polacchi Riverside, ma che comunque possiede nella seconda metà un piglio quasi psichedelico. Diavolo, ho ascoltato sette brani ma in realtà mi sembra di aver passato nel mio lettore 5-6 cd. Straordinari, anche se il loro eccessivo trasformismo rischia quasi di diventare un'arma a doppio taglio, ossia di non piacere a coloro che non hanno una visione del tutto trasversale della musica. Con me vanno assolutamente a nozze, considerato che la traccia successiva sembra evocare in poco tempo Katatonia, gli ultimi Opeth, e per una manciata di secondi anche Tool, Ne Obliviscaris e Porcupine Tree, e sono certo che se vi metteste anche voi le cuffie a tutto volume,sareste in grado di scovare mille altre influenze, in un disco che ha il grande merito di offrire un cosi vasto spettro musicale che non potrà far altro che colpire anche i vostri pretenziosi sensi. Bella scoperta. (Francesco Scarci)

domenica 9 ottobre 2016

Interview with Malevolentia


Follow this link to know much better the content of the new album 'Repvbliqve' by Malevolentia, the French Symph Black band:

http://thepitofthedamned.blogspot.it/p/in-thick-fogs-of-city-of-lion-motley.html

Heretic - Underdogs of the Underworld

#PER CHI AMA: Punk Rock, Motorhead, Misfits
Il comeback discografico degli olandesi Heretic suona come il più classico "back in time", un vero e proprio tuffo nel passato alla ricerca delle radici del punk, per un disco che scomoda facili paragoni con band del calibro di Motorhead o Misfits. Il quartetto tulipano, che ha celebrato lo scorso anno il ventennale dalla propria fondazione, non è quindi quel che si dice una band di primo pelo, di erba i nostri ne hanno mangiata parecchia, creandosi la propria folta schiera di fan. Io, ahimè, non faccio parte di quella cerchia, però non posso far altro che alzare le mani, apprezzarne l'indubbia professionalità (e genuinità) e sottolineare la prova decorosa che i quattro punkers dei Paesi Bassi ci regalano: trentatré minuti di scorribande affidate a chitarra/basso e batteria, suonate in modo scarno e senza la ricerca di tanti orpelli artistici, su cui si stagliano le rozze vocals di Thomas Goat. Dimenticatevi pertanto synth, tastiere, violini o voci di gentili donzelle che popolano le ultime produzioni metal, 'Underdogs of the Underworld' offre il classico rock'n roll sporco e cattivo, suonato comunque con passione da una band che calca i palchi di tutto il mondo dal lontano 1995. E cosi il quinto album della loro lunga carriera, costellata peraltro da una miriade di split album, sciorina dieci tracce brevi (la durata complessiva è di 33 minuti) ed incazzate, di cui sottolineerei "Black Metal Punks" con il suo spirito thrashettone in un qualche modo vicino a 'Kill'em All' dei Metallica. Ed ancora perché non citare la melmosa "Hellbound Doomslut" o le schegge tipicamente punk di "Nuclear Pussy" e "Bitchfuck", vere e proprie arroganti citazioni di gente tipo Ramones o Sex Pistols. Un'ultima menzione va a "This Angel Bleeds Black", altro pugno nello stomaco, dotato di un peculiare groove. Insomma, se siete in vena di rievocare vecchi tempi ormai andati o di rivivere un'epoca che mai avete vissuto, mettete questo platter nel vostro lettore, infilatevi gli anfibi Dr. Martens e il vostro giubbotto di pelle e lanciatevi nel pogo selvaggio degli "Eretici". (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 70

https://hereticvanrecords.bandcamp.com/

sabato 8 ottobre 2016

Fjord - Portrait for a Reflection

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze
Romania, terra di fascino e mistero. Queste qualità si traducono in musica nella delicata essenza dei Fjord, band originaria di Bucarest, dedita ad un elegante post rock strumentale, che merita assolutamente tutta la vostra attenzione. Più volte abbiamo scritto delle difficoltà che si riscontrano nel descrivere un disco post rock e nella facilità di cadere in una ripetitività di fondo nell'uso di parole che possono risuonano banali ai più. Però la fortuna aiuta gli audaci e quindi se proponi tale genere e lo arricchisci con una personalità fuori dal comune, ovvio che si superano tutte le difficoltà del caso e alla fine, anche l'ascoltatore più esigente come il sottoscritto, finisce per lasciarsi guidare dallo spirito mansueto che anima un lavoro cosi fortemente intimista com'è questo 'Portrait for a Reflection'. Un lavoro maturo che si snoda lungo cinque lunghe tracce che fanno breccia nella mia testa già dalle effusioni iniziali di "Stars in an Ocean of Darkess", languido brano dal forte mood malinconico, incorniciato dalle sue minimalistiche chitarre che nel corso della song trovano modo di incupirsi e coprirsi di un manto oscuro, quasi catramoso, travolgendo i miei sensi e riempiendo i miei neuroni, con una iper stimolazione sinaptica. Peccato manchi un cantato, anche solo sussurrato o lamentoso, come accadde invece in "On Icy Shores" nel loro primo album (peraltro ad opera del "nostro Manuel Vicari dei Plateau Sigma), perché a quel punto sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. "There is Life Inside This Sapphire" è la seconda traccia di questo brillante disco, onirica nel suo incedere, una song inserita in una guaina di misticismo ancestrale che evoca suoni lontani, quasi intrisi di magia. "Phoenix" è la terza tappa di questo alchemico viaggio che ci conduce in territori più ruvidi di sonorità che comunque rimangono nell'ambito del post rock, ma che trovano modo anche di percorrere i sentieri astratti dell'ambient e di affini sonorità eteree, quasi shoegaze. E mentre la prima mezz'ora del disco se n'è praticamente andata, arriviamo a "A Breath as a Promise", una song che conferma la tendenza meditabonda del combo rumeno e che comunque regala attimi di quiete e relax, per un finale affidato all'inquietudine di "Island of Commitments", un brano dalla forte vena cinematografica che sancisce la maturità di questi cinque ragazzi di Bucarest che, come scrivevo nelle note introduttive, necessita assolutamente di tutta la vostra attenzione. Sensoriali. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

Colossus Fall - Hidden into Details

#FOR FANS OF: Post Hardcore, When Icarus Falls, Abenakis
The debut full-length from Swiss post-hardcore rockers Colossus Falls offers a rather engaging if flawed variant on the style which is a loud, raucous affair without much else going for it. This is the loud, stuttering style of post-hardcore that offers up bland, chug-heavy patterns offset with plenty of sprawling riff-work that further drags the pace to a halt and it’s mainly when they drop that extended sprawling sections in their tracks that they really generate some fiery and enthusiastic work here. The riffing becomes bouncy and dynamic in these sections and the livelier tempos give this a stylish series of drum-work that brings the tempo back up significantly, but those other pieces here just really make this one quite a bland effort overall. Opener ‘Rise of Adrenaline’ features tight and frantic riff-work with plenty of tough, jangly riffing and scattered, schizophrenic patterns that creates a series of frantic and urgent rhythms leading into the blistering finale for a strong opener. Both ‘The Errorist’ and ‘Visions of Inhumanity’ go for extended swirling sprawling sections and a rather dragging, droning pace that rumbles along with a few rather energetic bits with plenty of vicious rhythms and pounding patterns that are dropped for favoring the droning bits here leaving these quite bland overall. ‘Bullseyes’ packs more of an energetic rhythm into a loud, raucous series of riffing with a stuttering pace and plenty of frantic paces that drop off in favor of rather bland post-rock sprawling before bringing the clanging rock back in favor for the album’s highlight. ‘Disgusting Secrets’ is a series of dinkly acoustic trinkling that carries on the light melodies with the heavier chugging coming into play with the final half as a pretty bland effort overall. ‘Kabuki - 歌舞伎’ offers some rather tight chugging and plenty of swirling rhythms that bring about a rather dynamic charge that works rather well leading into the heavier sprawling for the finish for a fine if quite too short effort. ‘(We were) Gatekeepers’ features plenty of strong swirling riffing and a rather strong swirling series of groove-based chugging that brings along the sprawling swirling here that leads into the stuttering finish for a rather enjoyable effort. ‘Nonversation’ plods along with light chugging and frantic pounding that really works along a series of frantic chugging with plenty of rather chaotic drumming alongside the rumbling riffing that leads into the final half for a solid enough effort. Finally, album-closer ‘F.A.T.’ takes straightforward swirling chugging and atmospheric sprawling into a stuttering series of rhythmic chugging that features the endless patterns churning along throughout into the clanking finale for a lackluster finish. On the whole, it’s not terrible but it does have some troubling factors involved. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 65