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domenica 3 marzo 2013

Hellige – Demo

#PER CHI AMA: Black Doom, Altar of Plagues, Dark Castle, Blut Aus Nord
Gli Hellige arrivano dall'Argentina e ci mandano un demo promozionale datato 2012 di grandissima qualità sonora e compositiva. Il duo argentino è al terzo album e l' unica nota negativa per questo lavoro è il titolo che in realtà non c'è e dopo due album intitolati rispettivamente "Hellige" e "God" a nostro parere ci stava un titolo importante almeno quanto la musica proposta. Ci arriva in una busta cartonata completamente nera, dall'artwork curato ma che a malapena fa notare una figura macabra sullo sfondo e sovra impresso in caratteri grigio scurissimo i titoli e i contatti, una forma grafica che sottolinea un'avversità alla luce proclamata a gran voce e che a dire il vero non invoglia troppo all'ascolto visto che a fatica si riesce a distinguere il nome della band. Sicuramente una politica voluta e ricercata e che solo dopo aver ascoltato il cd si riesce ad intuire. Parlare di semplice doom/black metal è molto riduttivo per questo lavoro. Qui la musica si tinge di tinte oscure e l'incedere lento e costante rendono l'insieme un mantra pericoloso per la psiche e le lande più tenebrose dell'anima di chi ascolta. Il suono è luciferino, tagliente, nervosissimo e a tratti sfiora sonorità vicine ad Altar of Plagues, Dark Castle o Blut Aus Nord a rallentatore e con meno voglia di sperimentare ma molta omogeneità, fantasia e un'integrità sonora sicuramente da apprezzare. L'umore dei quattro brani è insistentemente buio e prevale una visone doom su tutto l'intero lavoro, lo screaming e il growl usato per la parte vocale, sfoderano potere narrativo sostenuto da musiche tesissime e sinistre, suoni stratificati, rallentamenti devastanti alternati ad esplosioni rabbiose al vitriolo sempre e comunque mantenendo quella vena astratta e d'avanguardia che potrebbe rimandare ai primi Solefald. Possiamo dire inoltre che soprattutto nel quarto brano, "Obnubilum", il più lungo dei quattro, gli Hellige riescono a fondere il black metal con lo stile compositivo mantrico/psichedelico di un certo post rock di classe da cui ne esce una litania infinita e disperatissima, depressiva e con un velo di eterno smarrimento quasi geniale. Quattro brani, tutti con una lunghezza che varia dai 6 ai 14 minuti di una continua destabilizzazione emotiva. Un viaggio, l'ennesimo stupendo viaggio alla ricerca dei risvolti più neri dell'anima. Da provare, solo per anime libere e profonde! (Bob Stoner)

Behold! The Monolith – Defender Redeemist

#PER CHI AMA: Sludge/Stoner, High on Fire, Carcass, Iron Monkey, Cathedral
Secondo full lenght per questa band californiana (Los Angeles) nata nel 2007 che sfidando tutte le improbabili ripercussioni sonore, osa mescolare thrash metal e doom/sludge/stoner con una naturalezza impressionante, dando vita ad un ibrido dal fascino straordinario. L'artwork della copertina è molto bello e curato e ritrae personaggi fuoriusciti da un mondo lovecraftiano proiettato in una trama divisa tra fantasy e paesaggi cosmici. Proprio la copertina di questo album ci porta a capire immediatamente di quale musica si sta parlando, ossia un intruglio di Cathedral, Trailer Hitch, Voivod, High on Fire, Carcass, Cult of Luna e Iron Monkey che destabilizza l'ascoltatore ad ogni istante, proiettandolo continuamente in differenti mondi sonori a volte ultra doom e psichedelici, a volte molto heavy ai confini col death metal old school, a volte thrash con inserti di southern rock. L'intero lavoro scorre benissimo mantenendo la sua possente mole rumorosa e in tutte le sue tracce non abbassa mai la guardia e onora il moniker della band con un sound veramente monolitico diviso tra tempi a rallentatore, cavalcate e assoli a go go, riff potenti e godibilissimi. "Redeemist" è un brano da incoronare con il suo incedere lento e cupo ed anche "We are the Uform" con il suo cantato malatissimo sopra un tappeto di feedback e chitarre che ricordano i primi lavori psichedelici dei Monster Magnet ma molto più potenti e grossi. I brani sono tutti coinvolgenti e di ottima fattura e racchiudono veramente il meglio dei generi sopracitati (a tratti sembrano perfino ricordare i primi Iron Maiden in salsa Pentagram!), mantenendo una forma originale e melodica con un'identità propria comunque molto definita e distinta. Sporchi, cattivi e cupi ma anche intelligenti, ragionati e con stile. Questo sono i Behold! The Monolith! Possiamo anche impazzire solo per il nome! Una band straordinaria che prende forma da tutti gli orizzonti del metal in circolazione con un suono vintage ma perfettamente collocata in epoca moderna, studiato nei particolari, senza compromessi e atmosfere polverose, nervose e intense. In assoluto un ibrido musicale tra i più interessanti degli ultimi anni e meritano tantissima visibilità. Album da avere assolutamente!!! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Bob Stoner

Roul Bjorkenheim, Bill Laswell, Morgan Agren - Blixt
Nico - The End
Deathspell Omega - Paracletus
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Francesco “Franz” Scarci

Cult of Luna - Vertikal
Kontinuum - Earth Blood Magic
Encircling Sea - A Forgotten Land
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Alberto Merlotti

New Order - Lost Sirens
Children of God - We Set Fire to the Sky
Hollywood Undead - Notes From the Underground.
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Samantha Pigozzo

Ruoska - Rabies
Korn - Issues
The Darkness - the platinum collection
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Michele “Mik” Montanari

Atoms For Peace - Amok
Baroness - Yellow & Green
Shelly Webster Trio - Chrysantemum
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Roberto Alba

Cultes Des Ghoules - Henbane
Vorum - Poisoned Void
The 69 Eyes - Hollywood Kills - Live at the Wiskey a Go Go
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Stefano Torregrossa

Meshuggah – Pitch Black
Fu Manchu – The Action Is Go
Shining – Blackjazz
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Mauro Catena

Syd Arthur – On and On
Shiko Shiko – Best New Bestiole
Pere Ubu – Datapanik in the Year Zero
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Kent

Hierophant - Hierophant
The Secret - Agnus Dei
The Circle Ends Here - The Division Ahead

mercoledì 27 febbraio 2013

Vyrion - Vyrion

#PER CHI AMA: Black Death Progressive, Enslaved, Ne Obliviscaris
A volte mi domando come mai in Italia nessuno prenda in considerazione le ottime ma sconosciutissime band che popolano gli anfratti più oscuri del pianeta. Tanto per cambiare, la segnalazione di oggi, ci dirige verso la mia amata Australia, Brisbane per l’esattezza, la bella e intrigante città (dove ho fatto mambassa nell’acquisto di cd) da cui arriva questo quartetto dedito ad un infervorato e intelligente death black progressive. Partendo da un punto di vista estetico, come sapete, ho un debole per i digipack, quindi già visivamente, il debut del combo australiano, solletica il mio palato. Infilato poi il cd nel lettore e dopo la consueta canonica intro, fa la sua comparsa il timido sound di “Ever-Rising Platform”; guai però a farvi ipnotizzare e ingannare dal suo delicato incedere, perché ben presto là, dietro l’angolo, farà la comparsa un arrembante sound che propone la personale visione del mondo estremo, di questo giovane stravagante ensemble. E quale visione… Questa mia affermazione vuole giustificare infatti la direzione stilistica dei nostri, ossia ripercorrere, a modo proprio, le gesta dei mostruosi Enslaved, con tutte le dovute differenze del caso e quant’altro, per carità. Ma per favore, non soffermiamoci oltre e andiamo ad ascoltarli questi pezzi, che con “Mortal Frame” mette in luce un’inusuale mix tra ritmiche brutali e brillanti aperture dal flavour puramente rockeggiante, grazie all’ottimo lavoro alle sei corde del duo formato da Mark Boyce e Dale Williams. Il buon Dale coadiuvato da Chris Cox, pone in evidenza un certo ecclettismo dietro ai microfoni, ben udibile in “The Decider” o nella splendida e stralunata “Disengage”, in cui la gamma vocale della band passa dal gracchiare di Chris, (da migliorare notevolmente), alle ottime clean vocals di Dale, che invece mi hanno ricordato più da vicino, quelle dei connazionali Ne Obliviscaris. Le potenzialità ci sono e anche di una certa rilevanza, senza ombra di dubbio. Di sicuro ci sono ancora certe sbavature da limare, magari una ritmica talvolta fin troppo confusa (“The Silence” ne è un esempio) o che tende addirittura a sovrapporsi a quelle linee di chitarra che esulano completamente dalla musica estrema. La produzione poi non agevola la pulizia dei suoni e talvolta si fatica a percepire quali genialate i nostri vorrebbero trasmettere. Altri difetti che colpiscono questo album omonimo sono certi passaggi a vuoto, in cui il death brutale si incontra e scontra col black epico o atmosferico, lottando ferocemente per il dominio sulla specie ma togliendo i punti di riferimento a chi ascolta la musica dei nostri. Insomma per concludere, pur non avendo capito se siamo al cospetto di una band black o death, posso dire senza esitazione che i Vyrion siano un gruppo davvero di belle speranze, che sotto una guida esperta, potranno davvero dire la loro nel panorama metal mondiale. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

http://www.vyrion.com/

Dies Ater - Hunger for Life

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Rotting Christ
Ad un primo superficiale ascolto ,ho pensato che i teutonici Dies Ater avessero virato il loro selvaggio black metal, verso lidi più avanguardistici, per dire più vicini alla produzione dei primi Arcturus. L’ascolto di “Blutpfad” infatti, è stato abbastanza fuorviante in tal senso, con una ritmica furente spezzata da splendide aperture sinfoniche e da delle vocals, molto vicine a quelle pulite del buon vecchio Garm. Con le successive funamboliche tracks, riemerge ahimè forte l’influenza del passato, con pezzi che già dalla traccia omonima, tornano a coniugare il black melodico, figlio del trend scandinavo capitanato da Emperor e dai primordiali Dimmu Borgir, con oscure sonorità mediterranee, anzi di Grecia per l’esattezza, un po’ come già era accaduto in occasione del precedente “Odium’s Spring”, dove forte era l’eco dei Rotting Christ. Il risultato alla fine risulta genuino un po’ come accaduto in passato, con i nostri a proporre la loro consueta ricetta berlinese, fatta di riffoni belli tirati, uniti a sinfoniche, ma mai troppo ruffiane, aperture di tastiere, parti più rallentate (si ascolti “Banisher in Times of Light” per esempio o l’enigmatica “Edge to Oblivion”), il tutto condito dalle classiche harsh vocals di Nuntius Tristis. Se poi i cinque diavoli di Berlino si mostrassero con un maggiore tocco di personalità, questo non guasterebbe di certo; avrei infatti provato a seguire la traccia segnata da “Blutpfad” anche per il resto delle song qui contenute, magari sarei qui a parlare in altri termini di un lavoro che ha la sola pecca nel fatto che verrà certamente dimenticato alla velocità della luce. Insomma della serie belle le sonorità, ma dopo un po’, il senso di già sentito rischia di diventare stucchevole. Coraggio ragazzi, avete fatto la storia nell’underground tedesco, cerchiamo di non cadere nell’apatia di un passato che fu… (Francesco Scarci)

(Obscure Abhorrence Productions)
Voto: 65

https://www.facebook.com/diesater

Tardive Dyskinesia - Static Apathy in Fast Forward

#PER CHI AMA: Math/Djent, Meshuggah, Textures, Tesseract
Quando penso alla musica greca, mi vengono in mente piatti rotti, cembali e balli grotteschi. La sorpresa nell'ascoltare questo quintetto ellenico al loro terzo album, quindi, è stata grandissima: un mix perfetto tra la poliritmia della scuola dei Meshuggah e le atmosfere più elaborate dei Textures o dei Tesseract, con l'aggiunta di un tocco personale che ho trovato davvero interessante. C'è energia, c'è molta tecnica, c'è groove, c'è velocità, ci sono ampie parti strumentali e la produzione è di ottimo livello. Rispetto ai Meshuggah, tuttavia, ci sono delle armi in più: la maggiore varietà nelle scelte di bpm dei brani, i colori della voce dell'ottimo Manthos (che non disdegna alcuni interventi melodici e in certi cori ricorda alcuni interventi orchestrali degli Strapping Young Lad) e i suoni delle chitarre, senz'altro più caldi e meno digitali del quintetto svedese. Il disco si apre con "Empty Frames", una delle mie preferite dell'album: l'intro è un capolavoro di poliritmica, una vera dichiarazione d'intenti riguardo lo stile dell'intero disco. "The Chase Home", dopo tre minuti di pattern variopinto, chiude con un riff violentissimo. "Smells Like Fraud" lascia spazio ad un cantato più melodico, che ritroviamo anche nei ritornelli di "Time Turns Planets", sorretta però da un riffing intelligente e perfettamente costruito. "Prehistoric Man" è costruita su riff a singhiozzo che pulsano come una ferita aperta, fino all'esplosione dello splendido assolo centrale e all'evocativa parte melodica finale. C'è tempo per prendere fiato con "Indicator", dove un sax si arrampica per scale impossibili su accordi distorti di chitarra. "Circling Around the Unknown" e "We, the Cancer" giocano entrambe sul contrasto tra ritmiche veloci e progressioni melodiche. La canzone più breve del disco, "Failed Document" è un intenso esercizio ritmico costruito sulle terzine che preannuncia il gran finale con "Limiting the Universe": quasi sette minuti in cui i Tardive Dyskinesia raccontano al meglio tutto ciò che sanno fare, spaziando da parti dissonanti a riffing veloci, senza tralasciare ritornelli melodici corali e un finale ambient in stile Tesseract. Un disco ben fatto, che dimostra pienamente la lucidità e le idee chiare dei Tardive Dyskinesia, che hanno saputo prendere il meglio del math metal e colorarlo con un'ampia varietà di interventi personali. (Stefano Torregrossa)

martedì 26 febbraio 2013

Distorted - Memorial

#PER CHI AMA: Death/Progressive, The Project Hate, Dark Tranquillity
Premesso che di questa band non so praticamente nulla e in internet non sono riuscito a reperire molte informazioni, vi posso dare in breve quelle che sono state le mie sensazioni all’ascolto di questo disco. Appurato che si tratta di un combo israeliano che ha registrato l’intero lavoro in Svezia (mah...), di primo acchito mi è venuto da accostare la band agli svedesi The Project Hate, per quel loro approccio progressive fatto di musiche iper-tecniche, voci femminile contrapposte ai tipici grugniti maschili. Analizzando più in profondità l’album, si possono scorgere poi altre interessanti influenze, derivanti dallo stupendo “Mabool” dei loro conterranei Orphaned Land, con quei giri di chitarra che richiamano melodie mediorientali, le quali rendono, come dire, più esotica, la proposta dei nostri. Ma questi giovani israeliani devono amare profondamente anche lo swedish death, in particolare “The Gallery” dei Dark Tranquillity, che deve aver influenzato non poco la stesura di questo discreto “Memorial” (certo che potevano scegliere anche un altro titolo meno inflazionato), così come pure sono udibili influenze derivanti dagli Opeth. La vocalist invece deve aver preso lezioni di canto dalla nostra Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, per la similare impostazione vocale, in complesso più che discreta. Comunque sia, i Distorted nelle nove tracce ivi incluse, ci propongono un death di discreta fattura, fatto di ammiccanti aperture melodiche, eteree vocals femminili e infernali growls. Piacevole uscita, anche se la sua emivita sarà assai breve, come sempre meglio gli originali... (Francesco Scarci)

(Frontiers Records)
Voto: 70

http://www.myspace.com/distortedband

Doomed - In My Own Abyss

#PER CHI AMA: Death Doom, Hooded Menace, Evoken
Seconda release ma esordio sotto Solitude Production per questa one man band tedesca che si affaccia sul troppo affollato e piatto mare del doom metal più estremo, con un nome poi che non è certamente d'ausilio. Al primo sguardo, l'artwork sulfureo emana un'aurea sciamanica e tribale che a contrasto con il font in stile cirillico, quasi illeggibile, rende agitato lo sguardo di quest'opera. Venendo al sound dei nostri, le tracce si salvano dalla normalità compositiva, o per meglio dire, sono normali perché sono scritte decentemente. Nonostante la musica cerchi di rispecchiare una qualsiasi tradizione old school, con tanto di vocals profonde e melodiche, l'album si regge grazie all'imponente muro sonoro innalzato dalla sezione ritmica, e qui si nota una vena personale non indifferente, grazie alle parti in pulito ed all'inserimento di una carica groove che accompagna l'ascolto abbastanza piacevolmente, anche se, per quanto mi riguarda, non ho troppo apprezzato perché ritenuto un escamotage per sorvolare certe ovvietà delle strutture compositive. Un disco che fa tuttavia trasparire qualche raggio di luce in fatto di originalità, la base c'è, bisogna solo rischiare, soffrire e immergersi un po' di più nel buio. (Kent)