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sabato 5 marzo 2011

Monstrosity - Spiritual Apocalypse


A volte ritornano... stranamente ancora death ferale in casa Metal Blade, che ultimamente ha pensato bene di non assoldare alcuna band metalcore bensì sfornarci grandi gruppi del passato. Gradito ritorno quindi sulle scene, di un altro storico combo death metal americano dei primi anni ’90. Quinto cd per la band di Fort Lauderdale (Florida), che ricordo ancora, aver esordito nel 1992, con il terremotante “Imperial Doom” (con alla voce il mitico George "Corpsegrinder" Fisher), un fulmine a ciel sereno nel panorama death dell’epoca. Dopo 15 anni ci troviamo ancora l’act statunitense in forma strepitosa, capace di produrre musica estremamente brutale, ma al tempo stesso caratterizzata da riff accattivanti, assoli perfetti e una furia inaudita, che già li contraddistinse agli esordi. Registrato presso i mitici Morrisound Studios, “Spiritual Apocalypse” ci consegna un quartetto che, dopo innumerevoli cambi di line-up e problemi vari, ha ancora voglia di suonare, divertirsi e farci divertire, con la loro musica. Il nuovo disco è l’ennesimo assalto sonoro in tipico Monstrosity style: ritmiche devastanti contraddistinte da hyper blast beat, vocals terrificanti del buon Mike Hrubovcak e ineccepibili assoli, opera dell’ascia Mark English; fortunatamente, sporadici mid-tempos ci danno l’opportunità di rifiatare un attimo, giusto per prepararci all’incalzate distruzione. È emozionante notare, come il livello tecnico dei Monstrosity vada sempre migliorando disco dopo disco, e che il vino diventi più buono invecchiando. Da segnalare infine la presenza in veste di guest star di Kelly Shaefer (Atheist), Matt LaPorte (Jon Oliva's Pain, Circle II Circle), John Zahner (Savatage, Crimson Glory), Jason Suecof (Capharnaum), e James Malone (Arsis). Monstrosity, adrenalina allo stato puro, portatori dell’Apocalisse! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 75

Asura - Only Death for my Warriors


In questa mattina grigia, uggiosa e malinconica di fine febbraio, mi appresto ad ascoltare e commentare un mini-cd (ahimè di soli 3 pezzi) autoprodotto, di una band formatasi in quel di Olbia/Sassari nel non troppo lontano 2005. Si tratta degli Asura, act sardo, il cui sound viene definito come “melanchonic black&death metal”. Si può quindi già intuire fin dalla prima traccia “Requiem for My Warriors”, che cosa passa il mio lettore cd: song dall'incedere nostalgico cantata in growling, con ritmi che si alternano tra sferzate veloci (in pieno stile black sinfonico) e frangenti meditativi, grazie all'inserto di struggenti parti orchestrali. Il drumming è veloce e preciso, cosi come il riffing chitarristico (anche se un po' sottotono), quasi a voler equilibrare la calma e pacatezza delle tastiere, vero e proprio elemente predominante di questo lavoro. Giunta alla conclusione di questo brano, sono tornata a riascoltarne l’intro: il “coro” (ma non saprei bene come definirlo) mi ha rievocato i tipici canti popolari sardi, quasi a metter in luce una vena folk dell'ensemble isolano. La seconda traccia “Escape from Death” si apre con un delicato arpeggio, accompagnato da un basso il tutto suonato come se fosse uscito da un album dei vecchi Metallica: semplici lenti accordi che lasciano qualche secondo di silenzio tra una nota e l’altra; il cantato è sempre in growl, mentre le tastiere continuano a caratterizzare con personalità il sound dei nostri, palesando una vena più melodica (e, oserei dire, anche un po’ progressive) di questa giovane band. La conclusiva “Only Hate” si divide in tre parti: la prima è caratterizzata da un ritmo furioso e veloce, la seconda diventa più melodica (vedi brano precedente), mentre la terza riprende il ritmo furioso dell’inizio. E con questa traccia si chiude il demo cd del sestetto sardo: song molto sperimentale ma con una potenzialità nascosta che potrebbe portarli molto lontano, soprattutto se i nostri riescono a dare maggior equilibrio al dualismo chitarra/tastiere (per ora maggiormente spostato verso un utilizzo massiccio ma notevole delle keys di Psycho). Non ci resta che attendere un nuovo lavoro, sperando che sia un po’ più lungo e magari meglio prodotto, in modo da poter dare un giudizio più approfondito. Siamo comunque sulla strada giusta. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

This Weary Hour - No Hand to Comfort You


Debut album per questa band irlandese, in puro stile doom metal che ci riporta ai fasti dei “vecchi” Paradise Lost ("Gothic" e "Draconian Times", tanto per capirci), ricchi di quel pizzico di cattiveria e angoscia che aiuta a rilassare i sensi. L’album si apre con “Algor Mortis”, un brano strumentale che farebbe la sua bella figura come sottofondo per i telefilm in stile “crime” o “medical drama” (ma anche sul fermo immagine di Laura Palmer avvolta nel nylon o sul lettino dell'obitorio). Il brano infatti è composto praticamente da batteria e basso seguenti un ritmo lento e inesorabile, nonché inquietante: in una parola, algido. Lo stesso ritmo si prolunga fino alla seconda traccia, “Frozen”: in cui il cantato è si presenta come un growling comprensibile, roco e disperato; il ritmo continua ad esser lento e greve, il che accompagna perfettamente le tematiche cupe conferendoci quel senso di pesantezza interiore. Sebbene il ritmo permanga indolente, la voce si alterna tra situazioni di pura rabbia a quelle (più pulite) di tristezza: un connubio che rende il tutto ancora più emozionante e cattivo. Con “Harvest” la miscela tristezza/malinconia si fa più accentuata, grazie anche alle tematiche di distruzione di tutto ciò che si ha creato: quasi un inno all'abbandono di ogni speranza. Questo è uno dei brani più duri di tutto l'album (ed il più lungo in assoluto, ben 8.36 minuti di cattiveria!), una sorta di valvola di sfogo per il combo irlandese (ed è anche uno dei miei preferiti, soprattutto in giornate all'insegna del nervosismo). "The Lure of Prominence" è il secondo brano strumentale, incentrato particolarmente sul gioco di chitarra e basso, concentrando poi il proprio sound verso un ambito “dark” (parola di cui ormai si sta abusando, ma che calza a pennello in questo caso), che ci prepara all'ultimo brano dell'album: "The Wordsmith". La lunga traccia conclusiva si snoda in tre parti: la prima (nominata “Master of the Craft”) tratta l'illusione di ricevere dei frutti da ciò che si intende creare, vedendo coi propri occhi che qualcosa c'è; la seconda parte, “Threads Begin to Fray”) è più che altro strumentale, e l'illusione diviene reale e lo sconforto inizia ad impadronirsi di noi. La terza e ultima parte, “The Veil Descends” è il post rovina, dove tutte le buone speranze sono state spazzate via e rimane solo la disperazione, con la tarda consapevolezza che è tardi per qualsiasi altra cosa da poter fare. Cosi come le parole, la musica segue perfettamente i sentimenti, le emozioni e frustrazioni, diventando furiosa nel suo epilogo, accompagnata da un eccellente Eamonn O' Neill che dà sfoggio delle sue eccellenti doti canore. Si conclude così "No Hand to Confort You", senza alcuno strascico o nota dolce, come se tutte le forze ci avessero abbandonato. In conclusione oso dire che, nonostante l'album si componga di sole 5 tracce, ha una potenziale esplosivo dirompente. Da notare che la band, subito dopo l'uscita dell'album, ha cambiato nome in People of the Monolith, quindi se voleste cercare l'album (e vi suggerisco di farlo), è molto più probabile che lo troviate sotto questo nome, piuttosto che This Weary Hour. Tenebrosi! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

A Cold Dead Body - Harvest Years


Della serie "Italians do it better", oggi vi parlo di un gruppo rivelazione 100% italiano. A Cold Dead Body sono quattro ragazzi di Udine e Pordenone che consolidano la formazione e quindi il loro sound nel 2007, trasformando il noise iniziale in una perfetta fusione di doom metal, folk, wave psichedelico che non può lasciare indifferenti. In effetti navigando superficialmente in internet o dando un' occhiata al cd, lo stiling è molto post rock ma per fortuna c'è un' anima profonda che guida questa band e che mi ha colpito particolarmente. "Harvest Years" è l' opera prima dei A Cold Dead Body e c'è proprio tutto, dalla tecnica alla ricerca di suoni per dare un' espressione artistica completa. L' album apre con l' intro "Semen", pezzo breve e abbastanza impersonale che finisce con uno scream breve ma d' impatto. Giocando con l' assenza di pause tra le tracce, subito veniamo catapultati in "The Womb": qui l' ottima voce maschile di Stefano accompagna una costruzione che cresce insieme alle chitarre e al violino che da un tocco folk al tutto. Il terzo brano è "Madre Pt.1", introspettivo e crepuscolare e che conferma la vena ambient e psichedelica dell'act friulano, che per veder prodotto il proprio album ha dovuto volgere lo sguardo a Est, alla russa SlowBurn Records. Il pezzo risulta essere l' intro del successivo "Our Best Years", aggressività pura data dal basso distorto e dolcezza incontaminata data dalla chitarra e dal violino che giocano con la voce, una breve comparsa in questi sei minuti. Da menzionare poi "Madre Pt.2", breve intro dal taglio lirico (incredibile a dirsi) guidata da una voce femminile suadente, il tutto per condurci fino a "Collapse", dove inizialmente la voce del frontman è ingabbiata da un effetto"gregoriano" che si trasforma in puro scream pochi secondi dopo. Devo dire che alla fine delle due tracce, il rischio di rimanere senza fiato è altissimo. "Harvest Years"si chiude con la nona traccia, "Divinity", otto minuti in cui i nostri mostrano tutta la loro maturità artistica, il loro infinito talento e l'altissimo potenziale, raccontando una storia che non lascia per nulla indifferenti. Solo pregi dunque, pochi difetti e tanta sostanza. E se non l'avete capito decisamente consigliatissimi e secondo me ancora meglio in sede live, quindi da non perdere! (Michele Montanari)

(SlowBurn Records)
Voto: 80

sabato 26 febbraio 2011

Arcane Grail - Arya Marga


Avevamo lasciato i due fratelli Grail (Demether e Natalie) nel 2008 con il cd “Cemetary Of the Lost Souls” dove avevano stupito a dir poco. Nel 2009 ritornano con un altro cd, “Arya Marga”, ennesima finestra sul mondo degli Arcane Grail. Il cd è composto da 8 track più una versione in lingua madre (russo) di "Arcane Grail", la canzone che apre il cd. Ma andiamo a guardare più da vicino il mondo incantato dei nostri: la release si apre con la traccia omonima, apripista e guida per scoprire la proposta musica del combo russo e già capiamo la qualità buona della proposta musicale, assolutamente mai banale. Il sound è molto potente, ma allo stesso tempo si accavallano elementi sinfonici (in quasi tutte le canzoni), melodie dal sapore medioevale (“Sorrow Forgotten Pride”), ritmi quasi marziali e sempre potenti (“Imprisoned in the Greatest War”). Vorrei spendere una parola in più, per la voce di Natalie, veramente degna di nota, brava, mai esagerata e nella canzone “Die Sonnenhymne”, dà sfoggio della sua bravura e della potenza e dolcezza della sua voce, davvero complimenti. Il cd si chiude con il brano “Inquitous Yoke” che risalta per la veemenza con la quale l'ascoltatore percepisce sin da subito il brano. "Arya Marga" è un album che in tutte le sue parti risulta ben studiato, soprattutto la parte strumentale, con un riffing sempre ben supportato dalle parti di batteria, con le parti sinfoniche sempre caratterizzanti, talvolta rilassanti, che decretano un ottimo lavoro per questo gruppo che viene dalla fredda Federazione Russa. La tracklist ha diversi punti vincenti da offrire e alla fine l’ascoltatore arriverà su quella finestra dalla quale finalmente potrà scrutare il mondo degli Arcane Grail. Vale la pena immergersi nelle note di questo lavoro, che vi spingerà in un oscuro pellegrinaggio in un mondo magico, sinfonico e violento, partorito dalle brillanti menti di questo sestetto. Nel nostro piccolo possiamo dire “se è questo il freddo che vien dalla Russia, è sicuramente ben accetto”. Gli Arcane Grail hanno trovato la loro strada e la stanno percorrendo alla grande e questo lavoro ne è la conferma. Sono certo che i nostri potranno fare cose sempre migliori nel corso del tempo, perché le potenzialità ci sono, eccome! (PanDaemonAeon)

(Musica Prod.)
Voto:75

Ruthless Order - Awakened Witnesses of Nascence


Ammetto di averci messo un po' prima di capire il nome della band: il logo è talmente fatto bene che subito pensavo fosse un disegno astratto nella magnifica copertina della compagine russa. Stiamo parlando ddei Ruthless Order, autori di un melodic/death metal, contraddistinto da fastidiosi inserti di voce acuta (quasi power talvolta): sembra quasi di sentire Axel Rose in versione metal. Questa è la prima volta che mi capita di ascoltare un album e recensirlo senza prestare troppa attenzione ai singoli brani: tutti sono accomunati dai suoni che emergono da una batteria suonata con tutta la furia possibile, chitarre distorte e tastiere utilizzate al limite umano di sopportazione. Ci pensa poi la voce, che passa dal growling (accettabile) all'acuto (insopportabile), a creare un enorme mal di testa all'ascoltatore. Non so esattamente cosa mi stia spingendo ad ascoltare tutto l'album (forse la vana speranza di trovare qualche brano veramente valido oppure di non stroncare brutalmente l’ennesima band mediocre), ma una cosa buona, in mezzo a tutto questo caos, c'è: l'intensità con cui tutta l’act sovietico suona, probabilmente dovuto alla necessità di farsi notare e magari sfondare nel mercato europeo (quel che è sicuro è che sfonderanno il vetro della finestra quando lancerò il cd). L'unico brano che si distacca dagli altri (almeno all'inizio) è la quarta traccia “Lonely Ness to See”: più melodica e un po' meno urlata, si avvale della chitarra ritmica nei primi due minuti, dove finalmente il cantato è “normale”; questo sentiero viene però abbandonato subito dopo, per tornare a manifestarsi con i soliti lamenti emicranici. Il penultimo brano “Silent Night” è perfettamente l'opposto degli altri brani: più progressive rock, con un assolo pulito di chitarra, il cantato melodico, quasi la pace per le mie orecchie, almeno per i primi ¾ del brano (visto che poi si torna al filone musicale di tutto l'album, con la stessa voce urlata stridula). L'unico brano che salva l'album da ottenere un 2 in pagella, è proprio questo. Tutti gli altri sono la fotocopia del primo, diventando così difficili da ascoltare (e da sopportare). Ancora adesso non so cosa mi abbia stimolato a recensire questa ciofeca (lasciatemelo dire), ma mi auguro che i prossimi lavori di questa band (se ce ne saranno) possano essere decisamente migliori. (Samantha Pigozzo)

(Grailight Productions)
Voto: 40

Maze of Torment - Hidden Cruelty


Un inizio in pieno stile Slayer apre le danze di questo “Hidden Cruelty” degli svedesi Maze of Torment e, davvero imbarazzante, è notare come “Breach the Wall” assomigli terribilmente a “War Ensemble” di “Seasons in the Abyss”. Fortunatamente con le successive songs, la band scandinava sposta leggermente il tiro e inizia a macinare riffs e musica un po’ più personale, mantenendo comunque come punto di riferimento la band di Tom Araya e soci, ma anche Sadus e gli altri gruppi thrash/death americani. Se non sapessi che la band fosse originaria della Svezia, avrei fortemente puntato sull’origine statunitense dei nostri. A distanza di un paio d’anni dall’ultimo “Hammers of Mayhem” torna a far male la band svedese, come sempre ottimamente supportati dalla Black Lodge, che si conferma molto attenta, nell’offrire una produzione all’altezza. Il sound dei nostri si mantiene coerente con i precedenti lavori, offrendo scorrevoli brani, all’insegna del death/thrash più intransigente: cavalcate prese in prestito da “Reign in Blood”, con assoli taglienti come lame di rasoi, ci accompagnano lungo l’intera durata (soli 36 minuti), inducendomi all’headbanging più sfrenato per seguire il ritmo frenetico del disco. A volte si assiste a cambi di tempo repentini, che rallentano il ritmo, per poi scatenarsi in altre straripanti incursioni metalliche. Sebbene di originalità non ce ne sia neppure l’ombra, un ascolto è consigliato, soprattutto a chi nutre una profonda nostalgia per i favolosi anni ’80, quelli del thrash metal made in USA. (Francesco Scarci)

(Black Lodge)
Voto: 65

Naildown - Dreamcrusher


Che diavolo è successo ai Naildown? Li avevo lasciati qualche tempo fa che suonavano come i “Figli di Bodom” e ora me li trovo completamente stravolti, proponendo un sound a metà strada tra lo swedish death (filone Darkane), il groove a la Godhead e i suoni alternativi dei Pyogenesis. Bel progresso direi, in cosi poco tempo poi: forse avranno dato retta ai miei suggerimenti passati e, discostandosi definitivamente dal sound dei Children of Bodom, hanno finalmente intrapreso una strada intelligente e, vi assicuro, non semplice da percorrere. La band finlandese mantiene l’energica verve degli esordi, con quel suo rifferama bello potente, carico di groove, assai melodico e accattivante, amplificando però le influenze provenienti da ambiti esterni al death. La voce di Daniel è ora completamente pulita, eclettica, urla, esprime delle emozioni, mentre la musica del quintetto finnico, spulciando un po’ qua e un po’ là, dalle discografie di In Flames, Gardenian, Darkane e dalle ultime divagazioni death’n roll, concepisce un disco travolgente, dinamico e assai piacevole da ascoltare. Sì ragazzi, non lo nego, questa volta la band ha colto nel segno. Non mancano neppure gli inserimenti elettronici, come nella strumentale “Deep Under the Stones” o “P.I.B.”, brano potente, con un assolo fenomenale, stop’n go simil Pantera, voci effettate, decisamente il mio pezzo preferito. Ottima la performance dei cinque musicisti come pure la produzione, che esalta alla grande, il sound robusto dei nostri. Non so bene cosa sia successo in seno alla band, ma sono felice della piega che il combo scandinavo ha preso. Forse avranno un po' perso in cattiveria, inutile negarlo, però ne hanno guadagnato decisamente in originalità. Finalmente qualcuno si è deciso a cambiar strada; è forse l’inizio di una nuova era? Non so dirvi, per ora ascoltatevi assolutamente “Dreamcrusher”! (Francesco Scarci)

(Spinefarm)
Voto: 80