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giovedì 21 novembre 2019

Slow – VI: Dantalion

#FOR FANS OF: Funeral/Doom
Dehà, the mastermind behind the moniker Slow, is known for his vast expanses of noisy Funeral Doom. To me, this record was highly anticipated, because I loved the path from number 'IV: Mythologie' to 'V: Oceans'. It’s also special because it was the first Funeral Doom record I ever purchased. I was relatively new to the genre, but hooked instantly. From the start of this new album, I can tell right away that he chose to stay on path, without compromising any of the brutal aspects of sound.

I love how the slow riffs drags the melody onwards, with the haggard screams perfectly echoing the depressive and gloomy atmosphere. Like a descending vortex of destruction, complete with drums which pummels you to the ground whenever you reach upwards. Dehàs vocals are a mixture of screams and whispers, and has always been a hallmark of this project. It always fits well with the rest of the instrumentation. The synth strings are playing a big role in supporting the constant barrage of noise, and there is little room to breathe among these dense melodies of fading hope throughout the album. Whenever I catch a break, it’s only to harden myself for a brief while before the next attack ensues. There are some small parts of guitar only, but the eerie tone does little to ease the tension in this album. It plays like a single symphony of dilapitation and disarray, filled to the brink with noise. The overall mix if bottom heavy, and it feels steadily rooted at the base. The bass lines keeps everything level, and the guitars are never too loud. It’s like the backdrop of a howling wind, which blows only for you to hear it whenever there is a quiet moment away from the ongoing slaughter.

Towards the end of the record, the strings are more prominent. The album gets more intense, quickens the pace, and the guitar screams more. The drums are more like a march, driving the listener through an ominous terrain riddled with overture notes. As the guitar echoes in solitude, it seems like a fog horn has entered, and along with it even heavier drums and Dehás bone chilling howls of torment. The throbbing pulse is slow and steady. In keeping with the other great acts of the genre. As we journey onwards, it becomes more saturated, and almost drowned in a sea of noise. A clean set of vocals are following an alternate chorus line, and it seems to be working well, despite the initial oddness. Like a starting fire, the song rages on, increasing in intensity, until it finally dies, and only the "Elégie" remain. It’s a beautiful simple melody which starts with two strings being strummed, creating a sense of desolation and sadness. As with life, they fade away into a gentle synth and strings hybrid, which cements the feeling of despair and loneliness otherwise embraced on the album. A fitting funeral anthem to be played at the great departures of great men. (Ole Grung)


(Code666 Records - 2019)
Score: 85

martedì 19 novembre 2019

Tome of the Unreplenished/Starless Domain - Epistolary of the Fall

#PER CHI AMA: Experimental Ambient Black
Se degli Starless Domain abbiamo parlato da poco del loro primo lavoro, 'EOS', dovete sapere che i Tome of the Unreplenished sono una band anglo-cipriota formata da membri tra gli altri di Voz de Nenhum e Spectral Lore, tutte band già conosciute qui all'interno del Pozzo. Ma porgiamo l'orecchio attento a questo interessante 'Epistolary of the Fall', split album rilasciato dalla Aesthetic Death. Due soli pezzi per quasi un'ora di musica a farvi capire che ci sarà parecchio da faticare per digerirne l'ascolto. Sono i ciprioti ad avere l'onore di aprire le danze con "Proskynesis", una song (se cosi vogliamo definirla) di quasi 19 minuti che si apre con un rumore in sottofondo, quasi si tratti dell'accensione dei razzi di un'astronave. Non ho idea se dobbiamo attenderci un qualche viaggio intergalattico, ma per non saper nè leggere nè scrivere, io mi allaccio le cinture, pronto ad un balzo temporale a velocità oltre a quelle della luce. La preparazione è di sicuro assai lunga, visto che almeno fino all'ottavo minuto sembra non accadere nulla se non essere circondati da un disturbante rumore. Potrebbe anche essere che questa sia la stravagante proposta della compagine cipriota che affianca al noise, flebili voci in sottofondo ed ipnotiche distorsioni sintetiche che ci accompagneranno da qui alla fine di questo primo capitolo, girovagando per mondi extraterrestri. Esauriti i primi venti minuti del cd, mi viene da pensare che le prospettive siano di un ascolto tutto in discesa, visto che verosimilmente la parte più complicata la dovremmo aver già superata. Questo perchè "CERES", il pezzo degli Starless Domain, ha tutta la forma di una canzone con capo e coda, cosa che mancava nel precedente brano. Chiaro che anche in questo caso, non abbiamo nelle orecchie una musicalità del tutto convenzionale, poichè la band statunitense è portatrice di un oscuro cosmic black metal che prosegue la linea musicale intrapresa con i precedenti 'EOS' e 'ALMA'. La song, come preventivato, è una lunga fuga di quasi 40 minuti tra ritmiche serrate, synth surreali quanto mai freddi e desolanti e demoniache vocals in sottofondo. A supporto di una simile situazione subentrano saltuariamente ampi momenti atmosferici che contribuisco a rendere il tutto ancor più onirico e visionario (soffermatevi al ventesimo minuto per capire di cosa stia parlando). Alla fine, 'Epistolary of the Fall' è un viaggio nel tempo e nello spazio, un'avventura spaziale per sole anime forti che abbiano la mente abbastanza aperta per nuovi interessanti incontri con forme aliene. (Francesco Scarci)

Mur - Brutalism

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Post-Black
Periodo prolifico per la Les Acteurs de l’Ombre Productions, che in poco più di due mesi, ha rilasciato un considerevole numero di release (e il meglio sembra che debba ancora venire). Questi Mur, da poco nelle mie mani, sono in realtà un side-project di act francesi quali Today is the Day, Glorior Belli, Mass Hysteria, Comity e Four Question Marks. 'Brutalism' è il loro debut sulla lunga distanza, sebbene i primi vagiti dei nostri risalgano al 2014 con un EP autoprodotto. Il risultato mi sembra piuttosto buono visto che non sembra il classico lavoro del roster LADLO Prod. La band infatti ci aggredisce con il sound intenso e fresco di "Sound of a Dead Skin" che pare coniugare il post-hardcore con una più sotterranea vena black, espressa probabilmente solo a livello di screaming vocals e di una robusta cavalcata conclusiva al limite del post-black. Ma questa è solo una delle sfaccettature espresse dal sestetto francese in questo lavoro, viste le disturbanti contaminazioni elettroniche disseminate un po' ovunque e un sound comunque più radicato negli estremismi hardcore che black. Ovviamente, bisogna mettere in conto che l'ascolto del disco non sia la classica passeggiata domenicale, viste le influenze rivolte al versante punk/hardcore. È bene quindi prepararsi mentalmente alla "rozzaggine" sonora di "I Am the Forest" o al più imprevedibile approccio catalizzante di "Nenuphar", dove rock, doom, hardcore, black, grind, post ed electro-noise si fondono all'unisono in una miscela polverizzante di suoni. La quarta song dal titolo lunghissimo, che vi risparmio per cortesia, è in realtà il classico raccordo tra la terza e la quinta traccia intitolata "Third", singolo apripista di 'Brutalism'. Scelta più che mai azzeccata viste le stranezze iniziali, le devastanti aberrazioni musicali, le dirompenti vocals, le stranianti ritmiche che probabilmente identificano "Third" come brano più violento e riuscito del disco. Ma le sorprese non finiscono certo qui, c'era da aspettarselo, visto lo stralunato e folle incedere di "My Ionic Self", una proposta non proprio alla portata di tutti, anzi direi da proibire assolutamente ai più deboli di cuore. Mi sa che dovremmo farcene una ragione perchè l'impressione è che man mano si vada verso la conclusione del disco, le sperimentazioni si facciano ben più presenti: "Red Blessings Sea", pur essendo più controllata nella sua furia, ha un impianto ritmico un po' malato. L'incipit elettronico "I See Through Stones" sembra quasi evocare la sigla di 'Stranger Things', prima di evolvere in dirompenti schiamazzi noise industrial black. La cosa che più mi sorprende è che il caos profuso dai Mur alla fine suona sempre piacevole e dinamico e questo è un grosso punto a favore della compagine francese. Un altro pezzo assai interessante (e forse il mio preferito) è rappresentato da "You Make I Real", una traccia emotivamente instabile, dotata di ottimi arrangiamenti e atmosfere apocalittiche che ci introdurranno all'epilogo di "BWV721", l'ultimo atto ambient/noise di questo inatteso 'Brutalism', graditissima sorpresa di fine anno. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 76

https://ladlo.bandcamp.com/album/brutalism

lunedì 18 novembre 2019

Scintillescent - Dread

#PER CHI AMA: Symph Black, Mesarthim
Di questi Scintillescent non sono riuscito a recuperare praticamente nulla dal web se non la loro origine, la Nuova Zelanda, poi altre informazioni sono totalmente irreperibili. Non so nemmeno se 'Dread' sia il loro debut EP o cos'altro, quindi portate pazienza se sono qui a scrivere un mare di cazzate. Fatto sta che l'ensemble neo zelandese mi ha colpito per quel suo sound fresco capace di miscelare l'elettronica con il black, in una versione più fruibile dei Mesarthim. Qui infatti non ci troviamo di fronte song dalle durate oceaniche, ma quattro brani diretti, efficaci e melodici, che si aprono con la title track e le sue ariose melodie su cui si staglia lo screaming non cosi efferato del frontman. "Breakneck" continua positivamente su questa linea, con un brano breve (quasi quattro minuti), essenziale, che va al nocciolo della questione senza stancare. Le melodie si confermano piacevoli, e il lavoro alle tastiere si conferma di grande valore, dando maggior rilevanza alle atmosfere piuttosto che alle chitarre. Qualcuno storcerà il naso per questa mia affermazione, eppure francamente trovo 'Dread' un validissimo EP, anche laddove la band decide di riproporre le due song in versione strumentale e (ancor più) sinfonica, qualora ce ne fosse stato bisogno. Avrei evitato quest'esperimento un po' banalotto e riempipista per proporre un paio di song in più. Comunque attendiamo fiduciosi le prossime evoluzioni di questi misteriosi Scintillescent. (Francesco Scarci)

martedì 12 novembre 2019

N█O - Isolates

#PER CHI AMA: Black/Death
I N█O mi avevano piacevolmente colpito quando esordirono nel 2017 con il loro 'Adrestia'. Tornano a distanza di un paio d'anni con un EP, giusto per dire ai fan che la band ucraina è viva e vegeta e che sta lavorando a qualcosa di nuovo. La proposta del terzetto di Kiev prosegue sulla scia del debut con un post-black condito da contaminazioni post-metal. Se l'inizio di "Void" parte in sordina con un approccio mid-tempo, a metà brano la band scalda i motori, ingrana la quarta e inizia a pigiare sull'acceleratore con una bella scorribanda di oscuro post-black. I nostri sono imprevedibili, e forse per questo li avevo apprezzati, cosi a fronte dell'accelerata, assistiamo anche ad una bella frenata con tanto di testa a coda incluso, ossia un break acustico a cui fanno seguito le classiche melodie glaciali dell'ensemble, su cui vanno a piazzarsi le grim vocals del buon Andrey Tkachenko. Poi è solo una cavalcata verso l'infinito a chiudere questo primo pezzo. "The Room" è un angosciante intermezzo semi-acustico che ci conduce a "Dreamcatcher", una song che parte ritmata e prosegue con il medesimo piglio almeno fino ad un minuto dalla fine, quando gli strumentisti ucraini si scatenano per l'ultima furiosa scarica metallica. 'Isolates' alla fine non è altro che un discreto antipasto per tenere a freno gli appetiti voraci dei fan della band ucraina. (Francesco Scarci)
 
(BloodRed Distribution - 2019)
Voto: 65


https://bloodreddistribution.bandcamp.com/album/isolates

domenica 10 novembre 2019

FrostSeele - Kalte Leere

#PER CHI AMA: Melo Death/Post Rock, Insomnium
La one-man-band di quest'oggi l'avevo recensita in occasione del debut del 2012, 'PrækΩsmium'. Da allora il mastermind teutonico ha rilasciato uno split e un paio di EP, di cui l'ultimo è questo 'Kalte Leere'. Mi sono domandato come sia cambiata la musica del factotum di Baden-Württemberg dal 2012 ad oggi, e quindi eccomi a raccontarvelo. Il nuovo lavoro si apre con le tenui melodie di "Kalt", una sorta di lungo incipit acustico (almeno per i primi tre minuti) su cui poggiano le spoken words del carismatico leader, prima che negli ultimi 90 secondi si sprigionino le forze oscure della compagine tedesca. L'apertura di "In Traumhaft" mostra un beat simil-elettronico, che lascia presto il posto ad atmosfere più ragionate, soffuse e malinconiche, con la voce pulita di Mr. FrostSeele ad alternarsi con il gracchiare di Danny, l'ospite del disco. La linea melodica della song ha sicuramente una certa presa per il sottoscritto che per certi versi mi ha ricondotto all'arioso sound finnico di Throes of Dawn o Insomnium. "Der Dunkle Zenit" ha un incipit più alternativo, anche se poi il sound dei nostri si muove sempre verso coordinate che ormai si sono svuotate della loro componente black per assumerne una più votata ad un ipotetico ibrido tra post-rock e la freschezza del death melodico di matrice finlandese. Francamente, il risultato è più che soddisfacente, pur non facendo certo gridare al miracolo. "[ ]" è l'ultimo enigmatico pezzo, visto anche un titolo di questo genere: l'inizio sembra suggerire quasi un trip hop di scuola britannica, per poi muoversi su suoni tipicamente post-rock, forse la nuova direzione artistica intrapresa dal polistrumentista tedesco, per una nuova interessante tappa della discografia dei FrostSeele. (Francesco Scarci)

sabato 9 novembre 2019

Reido - Anātman

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Era novembre di otto anni fa, quando su queste stesse pagine, parlavo del secondo lavoro dei biellorussi Reido, un disco che vedeva il terzetto di Minsk virare da un industrial funeral doom, ad un più arioso (se cosi si può dire) post-metal/sludge. I nostri si sono presi un'altra breve pausa, di circa otto anni, hanno cambiato etichetta, approdando alla Aesthetic Death e finalmente, hanno rilasciato un nuovo album, 'Anātman'. Ebbene, l'inizio non è dei più promettenti visto che con "Deathwave", il combo sembra di nuovo essersi perso negli anfratti di un angusto funeral sound. In realtà, l'opener funge più da lunga intro prima di lasciare posto alla plumbea cortina fumogena innalzata da "The Serpent's Mission", una song di oltre undici minuti, lenta e affannosa, portatrice di una discreta dose di angoscia a causa di quel suo indolente incedere che conferma il ritorno alle origini da parte dell'ensemble biellorusso, sebbene ora sia deprivato della componente industriale. Già sfiancato dalla prima vera traccia, mi avvio all'ascolto di "Dirt Fills My Mouth", un pezzo che inizia più in sordina, con una voce sussurrante accompagnata da una tiepida chitarra che a poco a poco, cresce d'intensità, ma non troppo in coinvolgimento, almeno fino a quando il suono della sei corde si tramuta in deprimente assolo, che dona finalmente un certo mordente ad una song fin qui troppo anonima; da questo punto in poi, grazie ad un migliore utilizzo della componente atmosferica, il brano assume una sua personalità e con esso la band stessa. E per fortuna, visto che c'è un baluardo imponente da assaltare, chiamato "Liminal": quasi 17 minuti di sonorità non troppo affabili, per non dire decadenti, sempre sorrette dalle growling vocals di Alexander Kachar e da un riffing in sottofondo che evoca un che dei My Dying Bride. C'è da dire che da metà brano poi, la band si concede un lunga pausa ambientale che spezza un po' quella lugubre e sfibrante andatura del pezzo. La title track è un pezzo strumentale fatto di campionamenti a sfondo sci-fi, che ci introducono all'ultimo scoglio del disco da superare, ossia i 14 minuti di "Vast Emptiness, No Holiness", un'altra non proprio banale passeggiata da affrontare in scioltezza. Ritmiche logoranti, voci ringhiate e tutti i consueti elementi che contraddistinguono il funeral, per chiudere in bellezza un lavoro di certo di non facile assimilazione, almeno per chi non è un fan sfegatato del genere. Speravo francamente in qualcosa di più, il disco non è male, ma mi aspettavo una qualche progressione a livello di songwriting che ahimè è venuta a mancare, complice un'astinenza dalle scene davvero lunga. Un peccato. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2019)
Voto: 67

https://reido0.bandcamp.com/releases

Nouccello - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
Al giorno d'oggi è sempre più complicato scrivere le recensioni. Questo lavoro mi è arrivato infatti privo di qualsiasi informazioni, giusto un cd inserito in una foderina trasparente con una scritta sopra, Nouccello. "E chi diavolo sono questi" è stata la mia prima domanda? I Nouccello ("che razza di moniker è questo" è stata la mia seconda) è una band formatasi da un paio d'anni da ex membri di Straight Opposition e Death Mantra For Lazarus ("ma dove diavolo vivo che non conosco nessuna di queste band", il terzo quesito di oggi). La proposta musicale del terzetto pescarese è un hardcore cantato in italiano che si presenta con le note nevrotiche dell'opener "Piano B", una song oscura pervasa da un profondo senso di irrequietezza, che mi conquista immediatamente, sebbene quello proposto non sia proprio il mio genere preferito. "Vertigine" è più litanica a livello vocale; qui ciò che apprezzo maggiormente è il drumming, cosi tentacolare e presente, soprattutto nella sua marziale conclusione. Devo dire che a colpirmi è anche la facilità con cui il trio italico riesce a cambiare umore all'interno di brani cosi brevi (tra i tre e i quattro minuti di durata media) ma intensi. "Aternum, Pt. 1" è un pezzo strumentale che funge verosimilmente come sosta di ristoro prima di imbarcarsi all'ascolto delle successive e dinamitarde song. Arriva infatti "Lo Spettro" e vengo investito dalla violenza punk di voce e ritmica, in quello che è un pugno diretto e incazzato in pieno stomaco. "Episodio 5: Trappola in Mezzo al Mare" si srotola in modo narrativo con un melodia di fondo malinconica, pur mantenendo inalterato lo spirito ribelle della band. "Specchio Riflesso" si apre curiosamente con la voce di un ragazzino a dare istruzioni su come suonare "Tanti Auguri a Te" con l'armonica, poi è solo un'esplosione di pura violenza. Ancora stranezze nell'incipit di "Colpisci il Mostro", prima che la song si muova su direttive musicali più ritmate e bilanciate (ancora ottima la performance del batterista), ove sono ancora i cambi di tempo a colpirmi positivamente, perchè la sensazione finale è quella di aver ascoltato quindici brani anzichè otto. A chiudere, le note post-rock di "Aternum, Pt. 2", il secondo capitolo strumentale di questo lavoro omonimo, che mi ha fatto conoscere ed apprezzare una band, fino ad oggi a me totalmente sconosciuta. (Francesco Scarci)

(Vina Records/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 74

https://www.facebook.com/nouccello/

venerdì 8 novembre 2019

Inner Blast - Figment of the Imagination

#PER CHI AMA: Death/Thrash/Gothic
La Ethereal Sound Works si fa promotrice della seconda release ufficiale dei portoghesi (ma non serviva nemmeno specificarlo) Inner Blast. 'Figment of the Imagination' esce a tre anni di distanza dal precedente 'Prophecy', che si era messo in luce grazie alla Nordavind Records, per i suoi gradevoli (ma non eccelsi) contenuti gothic metal. Parlando di questo nuovo lavoro, devo ammettere che le nove tracce qui incluse non apportano grosse novità al genere se proprio di gothic metal stiamo parlando. Partiamo infatti dal solito dualismo vocale tra la classica gentil donzella e la voce della stessa, in formato growl. Questo quanto si evince dall'ascolto di "Mankind", l'opener track del disco. Da un ascolto attento però si possono scovare le prime magagne che mi fanno storcere il naso di fronte a questa uscita. Oltre alla scontatezza della proposta, non ho apprezzato certe soluzioni ritmiche che privano il sound di una certa fluidità di fondo e soprattutto, continuo a faticare nel trovare le vere peculiarità del genere. Lo stesso si scorge in "No Strings", dove ho come la percezione che per non risultare troppo morbidi, i nostri pigino appositamente sul pedale dell'acceleratore, risultando però fuori luogo visto che alla fine finiscono con l'imbastire una forma di metal che ammicca al death. Serve coerenza a mio avviso e forse è meglio suonare un po' più morbidi che mixare forzatamente (come accade in "There's no Pride in this War") un death/thrash con una spruzzatina di gothic (o forse sarebbe meglio parlare di symph metal), laddove compare la voce cristallina di Liliana. Rimango titubante di fronte alla scelta della band, visto che alla fine ho l'impressione che la proposta degli Inner Blast non sia nè carne nè pesce. Per me il gothic è tutt'altra cosa: ci devono essere sonorità oscure e malinconiche, e qui francamente non ne vedo nemmeno l'ombra, mancano poi le atmosfere in grado di creare quelle atmosfere spettrali o decadenti tipiche del genere. Per questo forse c'è un malinteso di fondo e quello che l'etichetta stessa propone come gothic metal non è altro che un disco di thrash/death con vocals femminili. Visto sotto questa nuova luce, posso dire che qualche brano discreto si trova anche: "Throne of Lilith" è infatti uno di questi, una song che nel suo estremismo sonoro, evidenzia qualche tratto vampiresco. Interessante l'esperimento di "O Teu Veneno" cosi come pure "Can I Believe", in una sorta di riproposizione dei Lacuna Coil in forma più estrema. Alla fine dei conti, 'Figment of the Imagination' non è un brutto album, ma occhio ad etichettare la musica, il rischio di incappare nel recensore pignolo e fare brutte figure, è sempre dietro l'angolo. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 62

https://www.facebook.com/innerblast

Noorvik - Omission

#PER CHI AMA: Post-Rock strumentale
Con un moniker del genere avrei pensato a qualcosa di norvegese ed invece i Noorvik (il cui nome si rifà ad una città dell'Alaska) vengono "banalmente" da Colonia, con questo 'Omission' a rappresentare il loro secondo album. La proposta dei quattro teutonici è un post-rock strumentale che sembra poco abbia da aggiungere a quanto ormai inflazioni la scena da un po' di tempo. Eppure c'è un che di magnetico nella proposta dei nostri: sebbene il disco si apra in modo assai tiepido con "Floating", trovo un che di magico nelle sue note iniziali. Non credo sia quel basso che danza minaccioso nella traccia d'apertura, mentre i tocchi di tastiera generano quel pathos necessario a sostenere la struttura del brano. C'è qualcos'altro che sembra vada a crescere, e questa mia sensazione, una sorta di prurito al naso, molto spesso non sbaglia. Poco oltre la metà del brano infatti, ecco intensificarsi l'emozionalità dei suoni, ma anche la ferocia, con un finale che prende in prestito, almeno per una manciata di secondi, l'efferatezza del post-black, con una scarica ritmica davvero impressionante. E il quartetto non si ferma qui: "Above" miscela abilmente post-rock con suoni progressive e, maledizione che non ci sia una voce in stile Steven Wilson a guidare la musica, avrebbe reso ancor più alla grande i passaggi contenuti in questo notevole pezzo, che si muove in una girandola di chiaroscuri davvero gradevoli. "Hidden" è un bell'esempio di come si possano creare suoni pacati che lascino presagire ad un improvviso cambiamento, nella classica quiete prima della tempesta. La prima sottolineatura va all'eccellente prova del batterista, davvero fantasioso nella sua performance dietro le pelli. Nel frattempo, il lavoro alle chitarre va irrobustendosi con un riffing più roccioso in stile Russian Circle. Ma i cambi ritmici sono dietro l'angolo, con un ipnotico break ambient che sembra sospendere lo scandire del tempo. E come previsto, ecco che la tempesta, all'orizzonte fino a pochi secondi fa, nel frattempo si è avvicinata. Le chitarre nel loro malinconico avanzare, si sono fatte più minacciose e il frustare sulle pelli irrompe nuovamente come se si trattasse di un brano dei Deafheaven. L'ultima song, "Dark", è quella della conferma finale che tra le mani ci troviamo un nuovo campionario di suoni estremamente interessante in un genere quanto mai saturo come il post-rock. Le sembianze sono quelle di una malinconica colonna sonora, almeno per i primi sei minuti del brano, poi la violenza torna a mostrarsi con un finale aggressivo quanto basta per slegare del tutto i Noorvik dalla sola etichetta post-rock. In 'Omission' c'è ben altro, a voi l'elegante compito di decriptare al meglio l'eccitante sound dei Noorvik. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 75

https://noorvik.bandcamp.com/album/omission

mercoledì 6 novembre 2019

Starless Domain - EOS

#PER CHI AMA: Cosmic Black, Mahr
Gli Starless Domain sono una band statunitense formatasi nel 2018 da membri di Stellar Descent e Twilight Falls, che ha pensato bene di rilasciare due lavori in questo 2019, 'EOS' e 'ALMA'. È il primo però che andiamo ad fronteggiare quest'oggi, un disco di quattro pezzi che sfiora l'ora di durata. Questo perchè abbiamo di fronte brani dalle lunghezze imponenti: si apre infatti con "EOS I", quasi 17 minuti di sonorità insane, glaciali e terrificanti. È puro black cosmico quello proposto del trio dell'Oregon che si avviluppa attorno a lunghe fughe strumentali contrappuntate da un utilizzo sagace dei synth, da vocals aliene in sottofondo, ma soprattutto dall'instaurarsi di un senso di vuoto e desolazione che caratterizza uscite di questo tipo. L'effetto è straordinariamente efficace, andando a provocare però (e per questo fate estremamente attenzione) pericolose alterazioni sensoriali. Il brano prosegue linearmente in un tutt'uno con il secondo capitolo ("EOS II") e pure con i successivi, proseguendo in quell'opera di annichilimento cerebrale, e accrescendo in tal modo un disagio interiore instillando nell'anima altre strane paure, a seconda che in sottofondo ci sia una chitarra dai suoni siderali o delle lunghe fughe ambient di derivazione extraterrestre ("EOS III"). Il risultato lo ribadisco è stupefacente, disturbante, orrorifico e, sebbene il rischio di scadere nella noia, vista la lunga durata del disco, sia piuttosto elevato, vi garantisco d'altro canto, che il turbinio sonoro in cui si sprofonda, è tale che se ne vorrebbe sempre di più. La proposta insana di questi Starless Domain alla fine mi ha estasiato nella loro singolare follia, ricordandomi peraltro uno stranito ibrido tra Aevangelist (band nella quale guarda caso il vocalist, nonchè bassista dei nostri, ha suonato) e Mahr, soprattutto nel capitolo finale di questo notevole lavoro di black metal astrale. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2019)
Voto: 80

https://starlessdomain.bandcamp.com/album/eos

Deadly Shakes - Left Behind

#PER CHI AMA: Hard Rock
In arrivo dalla Francia un bel carico di hard rock suonato con i controcoglioni. Loro sono i Deadly Shakes e 'Left Behind' è il loro EP di debutto, dopo aver rilasciato un altro EP, questa volta col monicker The Stone Cox, nel 2015. Quattro pezzi quindi per saggiare la tonicità di questo terzetto di Mulhouse. Si parte da "Living by the River", caratterizzata da un bel giro di chitarra iniziale, vocals potenti e da un groove che mi ha evocato per certi versi quello contenuto in 'Electric' dei The Cult. Lo spunto finale poi, a livello di solismi con tanto di coda stoner-darkeggiante, impreziosisce un brano di per sè convincente. Si passa a stretto giro all'arrembante, ma soprattutto punkeggiante, "Reap What You Sow", un pezzo che ammicca a certa produzione targata Billy Idol, una scheggia divertente di rock che dura poco più di una manciata di minuti. Pronti poi per ricominciare dalla title track, una semi-ballad dall'anima blues-rock, com'erano anni che non ne sentivo, con un bel crescendo finale con tanto di assolo scaldacuori in stile Guns N' Roses. Le danze si chiudono con un altro pezzo che scomoda Axl Rose e compagni: si tratta di "Never Return", che ci mostra nuovamente il lato più tenero di questa band alsaziana, ma al contempo la capacità di muoversi all'interno di contesti non propriamente hard rock, bensì più controllati ed introspettivi, sebbene nel finale i nostri si lancino in uno splendido e accecante esempio di hard rock di scuola Led Zeppelin. Peccato solo che il lavori non superi i 17 minuti, sarebbe stato interessante capire maggiormente come la band si muova in territori, dove spingere il piede più sull'acceleratore, è più che indicato. (Francesco Scarci)

(Love Apache Records - 2019)
Voto: 69

https://deadlyshakes.bandcamp.com/releases

domenica 3 novembre 2019

Lambs - Malice

#PER CHI AMA: Crust/Post-Hardcore
Che fine hanno fatto i Lambs che ho recensito ormai tre anni fa su queste stesse pagine, in occasione dell'uscita del loro EP 'Betrayed From Birth'? Quella era una band di corrosivo post-hardcore/post-black, mentre i Lambs di oggi, sembrano piuttosto una realtà apparentemente più riflessiva, immersa in un contesto più vicino al post-metal. Questo è almeno quanto si evince dalla song posta in apertura di 'Malice', dall'eloquente titolo "Debug" (song che vanta peraltro la partecipazione di Paolo Ranieri degli Ottone Pesante e il musicista genovese Fabio Cuomo). Che si tratti quindi di una correzione del tiro da parte della compagine cesenate o che altro? Lungi da me trarre conclusioni cosi frettolosamente, visto che il finale della stessa si lancia verso un primigenio caos sonoro che richiama quello stesso corrosivo suono crust che avevo evidenziato in occasione del precedente dischetto, proseguendo addirittura con un sound ancor più aspro nella successiva "Arpia". La traccia si apre con ritmiche sghembe che strizzano nuovamente l'occhiolino alle band black della scena transalpina, per poi infilarsi in mefitici e fangosi meandri sludge (dove i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio) e lanciarsi infine, come un treno fuori controllo, in un'ultima cavalcata dalle tinte oscure, non propriamente nere. È quindi il turno di "Ruins" e qui il ritmo va più a rilento, almeno fino al minuto 4 e 37, quando una grandinata improvvisa si abbatte sulle nostre teste. In "Perfidia", una song lenta e magnetica, i nostri si affidano all'italiano per il cantato e il risultato, devo ammettere, si rivela ben più efficace di quello in inglese. Certo, la song è assai particolare, muovendosi tra crust punk, math, uno sfiancante sludge e schizofrenia pura, risultando alla fine la mia song preferita. C'è ancora tempo per l'ultima sassaiola, quella affidata a "Misfortune", un brano che tuttavia parte piano con un timido esempio di post-rock in stile *Shels, con la tromba di Paolo Ranieri in sottofondo. Come anticipato però, di sassaiola si tratta e non c'è niente da fare, non la si può scampare quando esplode nella sua furia distruttiva. I Lambs cercano di attutirne i colpi, rallentando pericolosamente l'incedere intimidatorio del pezzo. Il giochino riesce alla grande ma alla fine provoca un giramento di testa non da poco, che mi sa tanto che mi accompagnerà per parecchio tempo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2019)
Voto: 72

https://lambsit.bandcamp.com/album/malice

Rosetta - Terra Sola

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Dopo un lungo tour mondiale durato due anni a supporto del meraviglioso 'Utopioid', tornano i Rosetta con un secondo EP datato 2019. Dopo 'Sower of Wind' infatti, rilasciato ad inizio anno, ecco arrivare, per il momento solo in digitale (ma la Pelagic Records rilascerà a breve anche il formato fisico, non temete), 'Terra Sola', l'ennesima dimostrazione che la band statunitense in questo momento sia, insieme ai Cult of Luna, leader indiscussa del panorama post-metal mondiale. La classe non mente, e i Rosetta ne hanno parecchia, l'hanno sempre avuta, ma forse passava in secondo piano per la presenza ingombrante degli Isis e dei Neurosis, quando erano in una forma decisamente più ispirata. Ora che i primi si sono sciolti e i secondi sembrano l'ombra di se stessi, ecco che Michael Armine e compagni sono diventati i nuovi maestri nel post metal, incorporando nel proprio sound elementi ambient/drone, come quelli ascoltati nel precedente EP, e tutta la cinematica maestria nel proporre la loro personale visione del post-metal. E 'Terra Sola' non mente, non lo fanno per lo meno gli undici minuti della title track posta in apertura, oltre 660 secondi di suoni malinconici, disperati, rabbiosi, spettrali e al contempo drammatici, tenui, celestiale, grazie soprattutto alla lunga coda strumentale di oltre tre minuti. Spettacolo per le mie orecchie e purificazione per la mia anima. Con "57844", i Rosetta calcano addirittura la mano sull'aspetto emozionale, offrendo un brano dolce e sognante, liberandosi di ogni tipo di legame con il genere musicale a cui appartengono e lasciando fluire le proprie emozioni attraverso un pezzo che di per sè non è nulla di eccezionale, ma che inserito in questo contesto, ha un effetto liberatorio. E con la strumentale "Where Is Hope?", ci immergiamo infine nelle soffuse melodie di una chitarra acustica che ci accompagna soavemente per gli ultimi cinque minuti di questa affascinante release targata Rosetta. (Francesco Scarci)

Woundvac - The Road Ahead

#PER CHI AMA: Grind/Hardcore
Dopo tanto black e post-metal ascoltato in questo periodo, avrei bisogno di qualcosa che sradichi tutti quei suoni e faccia un po' di pulizia nella mia testa. Gli americani Woundvac, con il nuovo 'The Road Ahead', potrebbero fare al caso mio. Accendo lo stereo abbastanza ignaro di quanto mi aspetti, sebbene quella copertina piuttosto splatter lasci presagire il peggio. E infatti quando "The Last Nail" fa seguito all'intro del disco, ecco che vengo investito dalla furia nichilista del quartetto di Phoenix che mi assale con un grind/hardcore senza compromessi, in grado di polverizzare in un battibaleno qualunque forma di contaminazione musicale alberghi ancora nelle mie orecchie. Un due tre, la band sciorina uno dopo l'altro dei pezzi assassini che citano Napalm Death o Terrorizer tra le loro influenze, sebbene le harsh vocals del frontman statunitense non siano cosi profonde come il growling dei colleghi inglesi e il suono risulti più secco rispetto alle due band citate. Poi di fronte alla carneficina compiuta dei nostri non posso altro che alzare le mani e lasciarmi investire dalla tempesta sonica elargita dal malefico terzetto costituito da "Tightening Chain", "Never an Option" e la lunghissima (quasi quattro minuti), ma anche più ritmata, "Institutional Bloodshed". Feroci, furibondi, malefici, violenti, incazzati, trovate anche voi altri aggettivi che definiscano l'essenza ferale di questi terroristi del metal estremo. L'erasing alla mia testa è completato, il risultato raggiunto. (Francesco Scarci)

sabato 2 novembre 2019

Lunatii - Eternal Return

#PER CHI AMA: Symph Black
Mi domando come mai le one-man band siano sempre cosi ispirate, a tal punto da riuscire a rilasciare anche un paio di release l'anno? Non è immune nemmeno il musicista russo Ilya Kuftyrev (nome di battaglia Blakie White) che con questi Lunatii, in poco meno di cinque anni, ha fatto uscire quattro Lp, altrettanti EP, un paio di split album e tre demo. Insomma idee ne deve aver da vendere questo musicista e allora anzichè tenersele in testa, meglio metterle immediatamente in musica. Ecco da dove nasce quindi 'Eternal Return', un EP di due pezzi, dediti ad un black atmosferico che a quanto pare funge da apripista ad una nuova release sulla lunga distanza. L'opener del dischetto è un discreto esempio di black sinfonico che si muove tra chitarre ronzanti, screaming caotici ed una buona dose di tastiere che fungono da driver per l'intera impalcatura del brano. La song vanta anche una certa variabilità musicale che sembra tuttavia nuocere all'economia del brano visto che genera non poca confusione. La seconda song, "The Great Sea of Quiet", sembra inizialmente una ninnananna, cantata dalla dolce (si fa per dire) cantante rumena dei Psychalgia, Black Illness. Il pezzo, nonostante l'apporto della giovane cantante, si muove alla stregua del primo brano con chitarre in tremolo picking e comunque un bel quantitativo di melodie disegnate dalle keys del buon Blakie White, uno che si diverte anche con un altro paio di band, gli Aghory e i Salvation, per il sottoscritto realtà totalmente sconosciute. 'Eternal Return' rimane un discreto antipasto, che mi mette sicuramente addosso una certa curiosità per quel che concerne il rilascio dell'imminente 'Diskonformism: Anhedonia in Utopia', di cui presto dovremmo avere notizie. (Francesco Scarci)

Evalir - The Awakening

#PER CHI AMA: Instrumental Epic Black, Summoning
È la prima volta che mi trovo a recensire una band proveniente dalla Repubblica Dominicana. Oltre a farmi specie l'origine esotica di questa solo project guidato da Enrique Ortiz, trovo ancor più peculiare la proposta musicale del nostro eroe di quest'oggi che in 'The Awakening' esprime tutto il proprio amore per il black metal epico. Dopo una lunga intro, "The Awakening I - Cold", all'insegna di un dungeon sound, il mastermind di Santo Domingo si lancia alla conquista del mondo col black ispirato di "The Awakening II - Aborning", una traccia che pesca a piene mani dalla tradizione fantasy di J.R.R Tolkien e la unisce sapientemente al proprio amore per le epiche avventure di Dungeons and Dragons. Tutto questo si traduce nel sound strumentale di "The Awakening II - Aborning" e della successiva "The Awakening III - Journey", due pezzi che offrono senza ombra di dubbio ottime melodie ma che al contempo palesano anche le debolezze legate alla forma embrionale di questo progetto. Questa musica non può essere lasciata infatti senza un cantato, le gesta epiche vanno narrate e non abbandonate alla, per quanto brillante possa essere, pura forma strumentale. Ottimo strumentista, Enrique mette in mostra già una certa maturità a livello compositivo, ora manca la stesura delle liriche, provando a divenire anche il menestrello di se stesso alla voce. Forza e coraggio Enrique, siamo con te. (Francesco Scarci)

venerdì 1 novembre 2019

Anifernyen - Augur

#PER CHI AMA: Death/Black, Dæmonarch
In Portogallo c'è ancora chi prova a percorrere i passi dei primissimi Moonspell, ahimè non con gli stessi eccellenti risultati. È il caso degli Anifernyen (il cui significato starebbe per "un freddo inferno"), band formatasi nel 2003, che dopo aver rilasciato un EP nel 2008, si è presa una lunga pausa, prima di uscire con il debut sulla lunga distanza. A dare fiducia al quintetto di Porto, che in formazione vede anche membri dei Buried Alive, Painted Black e Antivoid, è la Ethereal Sound Works che, un po' come i colleghi francesi de la Les Acteurs de l'Ombre Productions, tende a dare maggior spazio alle band della propria nazione. E allora bando alle ciance e via all'ascolto di questo 'Augur', un disco di undici tracce di oscuro black metal che dopo la classica intro strumentale si apre con "Tyrant", un pezzo che per certi versi mi ha evocato il progetto Dæmonarch del buon Fernando Ribeiro, leader appunto dei Moonspell. Black/death quindi per i nostri che con questa song offrono poco o nulla di fuori dal comune, a parte l'usurato utilizzo di chitarre taglienti e un duplice uso (growl/scream) della voce. “Eldritch Moon” parte più convinta, pulita e lineare nel suo comparto melodico ma ancora avulsa da una ricerca di originalità che possa elevare il lavoro degli Anifernyen: non posso negare che l'abbinamento violenza e melodia non passino inosservati, ma è ancora troppo poco. Ci prova "Emissary", un mid-tempo più ispirato che fa respirare la proposta del combo lusitano, ma sia chiaro, siamo ben lungi dal gridare al miracolo, e chissà mai se ce la faremo. La band prosegue infatti sulla scia del mid-tempo anche con "Graveborn", song più fluttuante nel suo incedere, ma un po' troppo monocorde. "Voleur D'Âmes" apre con un riffone quasi in Pantera style per poi dispiegarsi in una traccia un po' piattina, che evidenzia una maturazione a livello di songwriting ancora non del tutto completata. “Christendoom” (cosi come la conclusiva "Deadite") ammicca alla scena di Gotheborg per quanto riguarda la linea melodica, ma trovo che ci sia ancora parecchio da lavorare per scrollarsi di dosso quella ruggine accumulata da parecchi anni di assenza dalle scene. Peccato solo che una splendida cover cd non abbia goduto di un altrettanto valido supporto musicale, lo avrebbe meritato. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 60

https://anifernyen.bandcamp.com/album/augur

The Dues - Ghosts Of The Past

#PER CHI AMA: Psych/Blues Rock, Led Zeppelin, Radio Moscow
Per gli amanti di sonorità vintage/retrò che ci conducano indietro nel tempo di almeno 40 anni, eccovi serviti i The Dues, terzetto proveniente da Winterthur, in Svizzera. 'Ghosts of the Past' - mai titolo fu cosi azzeccato - è il terzo lavoro dei nostri, che include nove song che inglobano nel loro magico fluire, rock'n'roll, funk, psichedelia e blues rock, citando indistintamente nelle loro note, Cream, Led Zeppelin, Black Sabbath, Jimmy Hendrix e molti altri, insomma quei fantasmi del passato menzionati proprio nel titolo di questa terza fatica. E allora vai che si parte con la title track e quel giro di chitarra su cui si va a piazzare la voce di Pablo Jucker, in una song dai risvolti quasi doomish che cita sin da subito, Ozzy Osbourne e soci. "Something for my Mind" è una breve e nervosa scheggia rock che vi farà oscillare il capo e non poco. "Sails of Misery", con quel suo rullare imponente di batteria in apertura, si lancia in un impetuoso rock'n'roll, in cui a farla da padrone sono i giri di chitarra di Pablo (favoloso peraltro nella sezione solista), accompagnato puntualmente dall'ottimo basso di Stefan Huber e dal preciso drumming di Dominik Jucker. L'intro di "Under the Sea" è più pacato e oscuro, il che ci rivela anche una versione più riflessiva dei The Dues, in una song che appare però svuotata e pertanto meno efficace delle precedenti. Con "Love" mi sembra di entrare in uno di quei club dove musicisti con ampi pantaloni a zampa di elefante, si dilettano improvvisando pezzi blues rock, che mancano però di una magica spinta propulsiva. Questo per dire che l'energia emersa nelle prime tre song, sembra via via scemare: anche in "Elements of Doubt" assisto alla stessa cosa, ossia un pezzo blues rock che suona un po' troppo forzato per i miei gusti. Preferisco quell'attitudine genuina e spontanea che avevo apprezzato nel filotto iniziale e che fortunatamente sembra riapparire almeno in "La Realidad", in cui Pablo, oltre a cantare in spagnolo, adotta uno stile vocale differente. Rimane poi la conclusiva "Ley Lines", il brano più lungo e articolato (vista la forte vena psych rock che la pervade e quel suo fantastico assolo conclusivo che chiama in causa molteplici interpreti di quel periodo d'oro) di questo 'Ghosts Of The Past', e che vede i The Dues essere assai più convincenti in quei brani più ricercati e dinamici, che di certo avrebbero spopolato nei meravigliosi anni '70. (Francesco Scarci)

(Sixteentimes Music/Czar of Crickets Prod. - 2019)
Voto: 69

https://thedues.bandcamp.com/album/ghosts-of-the-past 

Eigenstate Zero - Sensory Deception

#PER CHI AMA: Death sperimentale, Edge of Sanity, The Project Hate
Stoccolma, da sempre centro strategico da cui brulicano band di ogni tipo, dal death metal degli Entombed al pop degli ABBA. Gli Eigenstate Zero sono gli ultimi arrivati e rappresentano il solo-project di Christian Ludvigsson, uno che deve essere cresciuto a pane, Entombed ed Edge of Sanity, il che vi dà immediatamente la dimensione in cui andremo ad immergerci oggi con questo fantastico 'Sensory Deception', debut della band. E qui tutti i nostalgici delle band che ho citato poco sopra (a parte gli ABBA) andranno sicuramente a nozze, visto che già dall'opener "Fringe", verremo investiti da un treno impazzito recante un bel carico di death metal svedese di vecchia scuola stoccolmese. Non pensiate però che il buon Christian abbia preso il copione degli act storici e ce l'abbia riproposto tale e quale; fortunatamente, il mastermind di oggi ha buon gusto, buone idee e per questo, già dalla successiva "1984.2" va ad abbinare il death old school con una forma interessante di cyber metal, cosi come una forte componente sci-fi emerge dalla lunghissima "The Nihilist", una traccia di oltre 11 minuti che se non sviluppata decentemente, rischierebbe di annichilire anche il più preparato dei fan death metal. Pertanto, ecco che un sound in stile At the Gates viene "sporcato" da deliranti influenze elettroniche che rendono la proposta estremamente varia ed interessante, nonchè vincente. Rimane sicuramente il marchio di fabbrica svedese, ma poi si va ben oltre (e per fortuna), sciorinando vertiginosi riff e assoli in un contesto oscuro e malato che sembra evocare anche, in ordine sparso, Between the Buried and Me, Devin Townsend, gli australiani Alchemist, Dillinger Escape Plan, Fear Factory, Dream Theater, Dismember, Nile, Carnival Coal, Gorguts, Lost Ubikyst In Apeiron, Opeth, in un tumultuoso tourbillon sonoro davvero notevole, come quello che accade nella più breve ma altrettanto efficace "Eigenstates". Comunque quando c'e da fare male, il polistrumentista scandinavo prosegue nella sua opera distruttiva: è il turno della deflagrante "Zentropic", devastante ma ricca di molteplici sfumature e pregna di groove. Christian alla fine mette in fila una serie di saette affilate che da "Communion" arrivano alla conclusiva "Fringe", passando da episodi più o meno rilevanti e parecchio lunghi e complicati: "Godeater" sembra un tributo ai Morbid Angel, la lunga (oltre 10 minuti) "Strangelets" nei suoi sperimentalismi mostra accanto al death metal molteplici e stralunati risvolti di carattere jazz, space e prog rock. È decisamente nei pezzi più lunghi che Christian dà il meglio di sè visto che manca ancora "Transhuman", altri dieci minuti in cui l'artista svedese ne combina ancora di tutti i colori, scatenando l'incredibile dose di melodia a servizio di una brutalità di fondo quasi perennemente presente, il che avvicina maggiormente il nostro eroe di quest'oggi ai connazionali The Project Hate. Insomma, che altro devo dirvi per invogliarvi all'ascolto di questo "inganno sensoriale"? Fatelo vostro e basta! (Francesco Scarci)

Numen - Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko

#PER CHI AMA: Black/Folk
Scavallati i confini nazionali, la Les Acteurs de l'Ombre Productions ha iniziato a prenderci gusto, e cosi dopo l'uscita dei cileni Decem Maleficium, ecco tornare la label transalpina con i baschi Numen. Un nome che porterà alcuni di voi a pensare ad un paio di gioiellini usciti a inizio anni 2000, e cito 'Galdutako Itxaropenaren Eresia' e 'Basoaren Semeak', i primi due positivissimi e originali lavori dell'act di Mondragón. Dopo un terzo album omonimo nel 2007, il silenzio, perdurato fino ad oggi, spezzato dall'uscita di questo 'Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko'. Si tratta di una forma di pagan metal dalle tinte folkloriche ma comunque assai estreme nella loro componente black, l'essenza principale del sestetto basco. E cosi appare evidente già dall'opener "Iluntasuna Soilik" e dalla successiva "Lautada Izoztuetan", come i nostri miscelino raw black con un folkish sound. La melodia comunque trasuda dalle linee di chitarra in tremolo picking di questi due pezzi e ovviamente anche dai seguenti. La voce è il classico grugnito black che si dipana tra tiratissime accelerazioni e qualche momento più rallentato, come quello che chiude la seconda traccia. Tutto apparentemente interessante, ma un po' scontato e già sentito, che in taluni momenti rimane addirittura invischiato nell'anonimato di serratissime parti (la batteria proprio l'ho mal digerita qui) che forse funzionavano negli anni '90. E cosi, se "Pairamena" sembra esordire in modo oscuro, quando la ritmica si fa più infuocata, sembra emergano i limiti dei nostri di oggi, ossia meri propositori di un suono secco e tagliente, che sembra rievocare i fantasmi passati di Mayhem o anche Dissection, ma che francamente, dopo oltre vent'anni, percepisco ormai come obsoleto. Sono forse invecchiato io che ho vissuto la nascita, maturazione e declino di un sound che oggi necessita di soluzioni innovative per poter assistere ad una nuova rinascita. Alla fine 'Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko' è un lavoro che si farà notare per qualche raro intermezzo acustico, forse per la particolarità di essere cantato in lingua basca ed essere ispirato dalle antiche credenze di quel popolo; è un lavoro suonato da buoni mestieranti, ma di cui riesco a trovare poco altro tra le note di questo lavoro, che nella sua crudezza e glacialità, ha fallito l'obiettivo di scaldarmi l'anima. Se posso citare una song che più ho apprezzato, direi "Nire Arnasean Biziko da Gaua", un mid-tempo decisamente più ispirato delle altre, che dovrebbe far riflettere la band per la ricerca di migliori soluzioni future. (Francesco Scarci)

martedì 29 ottobre 2019

Resuscitator - A Warrior's Death

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death, Immortal
Un periodo piuttosto oscuro il 2005 per la Displeased Records, che dopo il flop con gli Utuk Xul, ci ha riprovato con questi Resuscitator, band di “occult” black death metal. E 'A Warrior's Death' è il terzo ed ultimo lavoro per il combo proveniente dalla California (qui al canto del cigno), dopo i due album usciti nel lontano 1994 e nel 2001. Siamo di fronte ad un primitivo black thrash metal (black per le vocals, thrash per le ritmiche), che fa un uso, un po’ bizzarro della batteria, con l’intento di dare un suono quasi sperimentale, alla proposta musicale. Un plauso merita quindi il batterista, sicuramente l’elemento più interessante di questi Resuscitator, con il suo ritmo fantasioso e allo stesso tempo marziale, in grado di conferire un sound apocalittico all’intero lavoro. La proposta del trio statunitense è influenzata dagli Immortal (periodo 'Blizzard Beasts') e dagli Enthroned. La voce però, nel suo fastidioso gracchiare, ambisce a somigliare a quella di Attila Csihar, con risultati ahimé scadenti. Rispetto alle produzioni passate, le tastiere sono state messe da parte per intensificare la potenza del sound. Le chitarre ritmiche presentano il classico riff death “made in USA”, con quell’effetto “scricchiolio” quanto mai insopportabile. La struttura dei pezzi si presenta inalterata e alla fine un po’ tutti i brani tendono ad assomigliarsi: identica la sezione ritmica e piatto il lamentoso modo di cantare di Summoner cosicché il risultato finale rischia di suonare piuttosto imbarazzante. Questo lavoro targato Resuscitator, alla fine non mi convince per nulla, nonostante la produzione sia abbastanza buona e pulita: otto pezzi per un totale di 32 minuti non valgono l’acquisto dell’ennesimo cd fiasco, prodotto dalla casa olandese; un cd anonimo e noioso senza guizzi capaci di risvegliarci dal torpore residuo del caldo estivo. (Francesco Scarci)

(Displeased Records - 2005)
Voto: 50

https://myspace.com/resuscitator

Deranged - The Redlight Murder Case

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Old School
Li avevo già recensiti in occasione di 'Obscenities in B-flat', pensate che sia cambiato qualcosa da allora? C'è poco da fare con questi svedesoni, che fanno della coerenza la loro bandiera la loro arma micidiale e così, anche con questo disco (ma sarà cosi anche con tutti i successivi), vi dico chiaramente che nulla è cambiato rispetto al passato. L'act scandinavo continua a sbatterci in faccia le proprie devastanti songs, contraddistinte dagli ingredienti di sempre: riff selvaggi sparati alla velocità della luce, drumming assassino condito da iper blast beat, vocals che emergono direttamente dalle tenebre, qualche break capace di darci respiro per una frazione di secondo e il gioco è fatto. I Deranged sono maestri nel confezionare da sempre dischi di ferale death metal old-school, che fanno la gioia dei fan più intransigenti, non la mia. (Francesco Scarci)

(Regain Records - 2008)
Voto: 60

https://www.facebook.com/derangedband

Michael Feuerstack - Natural Weather

#PER CHI AMA: Folk/Indie
Il nuovo album di Michael Feuerstack è pervaso da una quieta atmosfera, vagamente malinconica, dal tono sfuggente ed intimo. Il giovane cantautore canadese evita la tristezza profonda per regalarci sofisticati quadri di vita quotidiana, racconti pieni di riflessioni e sentimenti nascosti, piccoli rumori messi da un lato e ricomparsi da un altro angolo del brano senza far rumore, in punta di piedi. Un lavoro musicale assai certosino, una perizia meticolosa sui suoni usati, degna del miglior Nick Drake, che arricchisce le canzoni di mille sfaccettature, un po' come gli ultimi album degli Arcade Fire, dove tutto deve essere ascoltato più volte per essere realmente percepito. In comune con la famosa band canadese, il nostro cantautore ha anche una collaborazione in questo disco con Sarah Neufeld, violinista proprio del collettivo di Montrèal oltre che della Bell Orchestra. L'incedere lento e sognante diventa progressivamente una costante dell'album, i suoni di questo 'Natural Weather' fanno la differenza in questo disco e sembra che scarnificare la musica, aiuti il giovane artista ad entrare nel vero personaggio del cantastorie, solitario e fluttuante, sul filo di una leggera psichedelia evanescente. Ecco che al quinto brano ci attraversa le orecchie il sound di "Heavenly Bells", un'infinita ballata dal cuore tenero ed etereo, sospesa in aria come alcune creazioni del fuoriclasse David J ("Bauhaus", "Love and Rockets"). Il folk, l'alt country ed il pop si fondono cosi in un sofisticato tributo ai colori più variegati, dalle tonalità di grigio ad un arcobaleno appena pronunciato e la coda di "Birds of Prey" la dice lunga in merito. L'artwork di copertina è centrato, con le sue nuvole grigie e le scritte glam di un luna park surreale. "Don't Make Me Say It" richiama il menestrello Dylan e lo mette a fare i conti con i moderni suoni vintage di "Everything Now" di Win Butler & C., mentre lo slide delle chitarre della lunare "Outskirts" (il rimando al capolavoro di Neil Young, "Harvest Moon" è evidente) suona polveroso e solitario, come se a dirigerla ci fosse il miglior David Lynch. Così, alternando momenti di soffice psichedelia, rallentando il passo del paisley underground ed esaltando la composizione folk, ci si avvia verso il finale di un disco maturo e ricercato, leggermente derivativo ma dotato di buona personalità, tanto buon gusto nella produzione e nella costruzione. Un album piacevole, ben fatto e di alto profilo che porta avanti un giovane musicista con le idee già chiare sulla direzione artistica da intraprendere per le sue opere future. Un disco tutto da scoprire. (Bob Stoner)

lunedì 28 ottobre 2019

Lock The Basement - Die While You Stand In Line

#PER CHI AMA: Industrial/Elettronica, Rammstein, Nine Inch Nails
“Be safe
life has a better taste
when you don't take any risk”


C’è un libro che adoro, ma che fatico a rileggere: è 'Brave New World' di Aldous Huxley. Non racconta di creature insettiformi che sbucano dalle fottute pareti o dal petto dei malcapitati visitatori di planetoidi sconosciuti, né di devastanti cataclismi pronti a sterminare l’umanità: è la fredda rappresentazione di una società rigidamente controllata, i cui membri vengono condizionati fin dalla nascita ad accettare un posto predeterminato nella comunità e a non provare alcun desiderio di miglioramento personale o di attaccamento affettivo. Gli istinti, le passioni, i sentimenti sono stati estirpati in nome del conformismo e del quieto vivere, di conseguenza tutti conducono un’esistenza priva di rischi, ma al tempo stesso insignificante e nevrotica. Persino un maniaco del controllo refrattario ai cambiamenti come me riconosce che sarebbe l’inferno: la vita è crescita individuale, errori da commettere, cambiamenti da affrontare e perdite da superare, che ci piaccia oppure no.

'Die While You Stand In Line', terza release di Lock The Basement, progetto solista di Andrea “Boma” Boccarusso, non ci presenta fantascientifici futuri distopici, ma ci sbatte in faccia ciò che stiamo diventando nella realtà: piccoli individui chiusi a riccio nel nostro universo personale fatto di effimere certezze ed illusioni, dove ogni deviazione dal tracciato di una presunta normalità è censurabile e i rapporti umani si riducono a mere interazioni superficiali dominate dall’ipocrisia. L’isolamento e lo squallore della vita quotidiana sono il fulcro dell’album, rappresentate anche nell’artwork che vede il musicista solitario di spalle in un corridoio fiocamente illuminato.

Parliamo di un EP composto da tre tracce inedite a cavallo tra pura elettronica ed echi industrial rock alla Nine Inch Nails a cui si aggiunge una cover dei Rammstein, ma limitarsi a considerare la lunghezza dell’opera sarebbe riduttivo: questo perché per Andrea, musicista poliedrico noto per il fortunato canale Youtube, dove armato di chitarra esegue i migliori riff del metal e non solo, Lock The Basement sembra essere qualcosa di più di un semplice progetto musicale, vale a dire l’espressione di tormenti e sensazioni interiori. Non deve dunque stupire se in questo capitolo estremamente intimo, i ruggiti della chitarra metal abbiano lasciato spazio a crepuscolari composizioni elettroniche, senza per questo perdere il calore di un sound più convenzionale.

La prima traccia “Risk”, singolo da cui è stato tratto un videoclip e che si scaglia senza mezzi termini contro il perseguimento del benessere materiale a scapito della serenità interiore, si sviluppa su un ossessivo giro di synth accompagnato esclusivamente dalla marziale drum machine e dal cantato pulito di Boma, per poi crescere di dinamica ed esplodere in un caleidoscopio rumoristico che sembra simboleggiare l’insostenibilità degli stili di vita odierni. Segue “Slaves”, dove maestosi tappeti di tastiera si levano come un’alba che illumini le nostre tristi esistenze prigioniere di paure nascoste, un brano profondo in cui la voce calda del musicista biasima coloro che per orgoglio rifiutano di aprirsi e lasciarsi aiutare. “That Little Piece of Space” è caratterizzata da atmosfere inizialmente fredde e notturne, per poi accendersi all’aumentare di intensità del malinconico cantato: è un pezzo diverso dai precedenti, in quanto la critica pungente lascia spazio ad una sorta di amara melodia funebre per tutti coloro che scelgono di morire stando in fila, ossiadi piegarsi completamente ad un’esistenza grigia e priva di stimoli. Chiude la cover di "Sonne", parzialmente rielaborata per dare maggior peso agli strumenti elettronici e dove a sorpresa, ritroviamo un turbinoso assolo di chitarra.

Se stilisticamente l’influenza del guru Trent Reznor e le sue creature è evidente, 'Die While You Stand In Line' si contraddistingue per la resa in musica di concetti estremamente personali e la forza delle immagini che riesce a trasmettere andando a toccare chirurgicamente alcuni nervi scoperti comuni a tutti noi. E così, come Bruce Wayne indossa il costume per poter compiere ciò che sente essere il suo dovere, Boma assume i panni di Lock The Basement per metterci in guardia dai pericoli di una vita schiava delle nevrosi, del materialismo e dell’incomunicabilità. (Shadowsofthesun)

“The abyss doesn't give a fuck if you can eat on your toilet seat.” 

(Self - 2019)
Voto: 78

Made Of Hate - Bullet In Your Head

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death, Children of Bodom, Kalmah
Anche la Polonia ha la sua band che fa il verso ai Children of Bodom, una moda che impazzava parecchio a metà anni 2000. Diamo un ascolto quindi a questo 'Bullet in Your Head', album di death melodico che mostra una band ancora un po' acerba, ma con tutte le carte in regola per fare bene e guadagnarsi un piccolo spazio nell'underground metallico. Il riferimento ai “Figli di Bodom” è già palese nella traccia d'apertura, la title track, con i classici giri di chitarra dei finlandesi, le tipiche ariose tastiere, le cavalcate heavy metal, gli (ottimi) assoli del duo composto da Michal/Radek e le vocals che fortunatamente si mantengono distanti da quelle del buon vecchio Alexi Lahio. Non c'è che dire, il disco si lascia ascoltare tranquillamente, magari potete ingannare le attese dei comeback discografici degli originali, dando un ascolto a questi Made of Hate (che brutto nome però). La tecnica c'è, qualche buona idea, leggermente dotata di personalità pure, il gusto per la melodia non manca, quindi perchè non dare un'opportunità a questa sensation polacca? (Francesco Scarci)

(AFM Records - 2008)
Voto: 66

https://www.facebook.com/MadeOfHate/

The Pit Tips

Francesco Scarci

Vukari - Aevum
Borknagar - True North
Sur Austru - Meteahna Timpurilor


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Shadowsofthesun

Sunnata - Outlands
Manes - How The World Came To An End
Oneohtrix Point Never - Replica

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Alain González Artola

Belenos - Argoat
Wyrd - Hex
Blut Aus Nord - Hallucinogen

Ophiolatry - Transmutation

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Con tutte le band valide che ci sono in giro, proprio in Brasile, la Regain Records, doveva andare a pescare questo terzetto? Non che abbia qualcosa contro i sud americani, ma ritengo che in giro per l'Europa ci siano cosi tante band con qualcosa di interessante da dire e, ahimé a spasso senza contratto, che mi sembra una bestemmia aver messo nel proprio rooster questo trio carioca a dir poco noioso (e ormai già sciolto dopo il rilascio di questo obbrobrio). Se poi vi vengo a dire che qui c'è ben poco da salvare, capirete bene la mia amarezza. Il sound proposto dalgli Ophiolatry prende evidentemente spunto dal brutal death di scuola americana: 16 brevissime tracce (con una media di 2 minuti l'una) di death satanico, fatto di riffoni violenti, scariche elettriche improvvise (gli assoli di Fabio) e growling vocals da panico (ad opera di Antonio). L'unica cosa interessante da sottolineare sono certe rare oscure atmosfere che i nostri riescono a ricreare, ma niente di trascendentale da poter salvare un disco che da dire, ha ben poco. (Francesco Scarci)

(Regain Records - 2008)
Voto: 45

https://en.wikipedia.org/wiki/Ophiolatry_(band)