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sabato 29 luglio 2017

L’Ira del Baccano - Paradox Hourglass

#PER CHI AMA: Psych-rock/Stoner, Hawkwind, Black Sabbath, The Grateful Dead
Comprate questo disco, ora: è un fottuto capolavoro. I romani L’Ira del Baccano, quasi tre anni dopo l’acclamatissimo 'Terra 42', sfornano questo 'Paradox Hourglass' che è in grado di muoversi agilmente tra il rock oscuro vecchia scuola dei Black Sabbath, lo space rock di Hawkwind e The Samsara Blues Experiment, il prog dei Rush e l’attitudine all’improvvisazione dei The Grateful Dead. Un lavoro solido e poliedrico, ricco di sfaccettature, composto da una lunga suite in due parti (per un totale di 20 minuti) e due brani mai sotto gli 8 minuti. “Paradox Hourglass Part 1 e 2” sono un inno heavy-prog, talmente ricco di riff, stili, cambi di atmosfera e livelli di ascolto da valere l’intero disco. Le chitarre di Santori e Malerba fabbricano sofisticati pattern, perfettamente a loro agio sia nelle sonorità più progressive (Part 1) che in quelle più heavy (Part 2). La sezione ritmica di Salvi e Bacchisio, solo apparentemente in secondo piano, colora con grande gusto ogni riff e passaggio, consapevole nel creare dinamiche e nel seguire i fraseggi delle due chitarre. “Abilene” è un frullato perfetto di attitudine jazz-prog e stoner rock, con una parte centrale (arricchita da tastiere e theremin) che vi proietterà nello spazio più ipnotico, per poi rituffarsi in sonorità heavy. Chiude “The Blind Phoenix Rises”, sensibilmente più lenta e doom delle precedenti — persino epica, in certi passaggi — ma nuovamente incredibile nella varietà e negli incastri di tempi, ritmi e riff. E sia chiaro: non c’è onanismo in questo disco, nessuna esagerata dimostrazione, nessun vezzo tecnico fine a se stesso — ogni singola nota viene suonata nel rispetto del brano e della personalissima visione musicale dei L’Ira del Baccano. Gli oltre 40 minuti di 'Paradox Hourglass' vi riempiranno cuore e cervello, e solo alla fine vi accorgerete che la voce non vi è minimamente mancata. Se credete che gli italiani sappiano fare solo pop, cantautorato noioso o repliche di repliche di indie (se ancora questa parola ha un senso) — beh, ascoltate 'Paradox Hourglass' e pentitevi. (Stefano Torregrossa)

lunedì 24 luglio 2017

Ecnephias - The Sad Wonder Of The Sun

#PER CHI AMA: Gothic Rock
È ufficiale, la trasmutazione degli Ecnephias è ormai completata. 'The Sad Wonder Of The Sun' è il sesto album della band lucana e ci dice che ormai le distanze dalla scena ellenica sono ormai prese. Mancan e soci propongono oggi un gothic rock tinto di atmosfere horror che con il sound estremo degli esordi che strizzava l'occhiolino ai Rotting Christ, condivide solo i pochi vocalizzi growl del frontman. Nove le tracce a disposizione per i nostri per convincerci della bontà della loro nuova proposta musicale, che si apre con "Gitana", una song che immediatamente mi ha rievocato le atmosfere di "Mephisto" dei Moonspell, anche se quello degli Ecnephias è un sound decisamente più morbido di quello contenuto in 'Irreligious', sostenuto poi da una performance vocale completamente in pulito e da un blando flusso sonico che s'irrobustisce solo negli ultimi 30 secondi. Quello stesso flusso prosegue nella sinistra "Povo de Santo", un pezzo un po' meno compassato rispetto all'opener, e che vede dietro al microfono come guest star, Raffaella La Janara Cangero (che comparirà anche in "Quimbanda") ad affiancarsi al growling sempre riconoscibile di Mancan, in una song stracolma di groove, dalla melodia fischiettabile e caratterizzata da un ottimo coro. Suoni dal forte sapore ottantiano contraddistinguono invece la flebile ritmica di "Sad Summer Night", song spettrale nella sua componente tastieristica, che vede il vocalist lucano manifestarsi nella sua doppia veste pulita-growl mentre a livello strumentale, il quintetto potentino regala un preziosissimo break di chitarra ed un assolo che sprigiona eleganza allo stato puro. Un riffone che sembra invece provenire da un qualche disco thrash degli anni '80, apre in modo inatteso "The Lamp", ma le keys ne smorzano immediatamente l'irruenza in una song lineare, melodica, piacevole ma forse un po' troppo scolastica. Sembra invece di trasferirsi in una qualche spiaggia caraibica con "Nouvelle Orleans", complice una inedita musicalità reggae tutta da scoprire, che ci mostra la band nostrana sotto una nuova luce, e con la voce del buon vecchio Mancan che emana un calore simile a quello che l'effetto di un paio di cicchetti di whiskey o meglio ancora di rhum potrebbero avere sulle corde vocali. Bel risultato devo ammetterlo, anche se sia ben chiaro, "scurdámmoce 'o ppassat" degli Ecnephias visto che oggi sono una realtà completamente diversa da quella dei loro esordi black death e in continua evoluzione rispetto anche alle ultime uscite. Le atmosfere horror tornano sovrane in "A Stranger", una traccia squisitamente spettrale nel suo incedere severo. Sembrano richiami a The Cure e Fields of the Nephilim quelli che sento in "Quimbanda", la song più dinamica del disco (soprattutto nel finale movimentato tra elettronica e heavy classico), che ripropone la vocalist dei La Janara al microfono e che finalmente vede Mancan tornare a cantare, in alcuni tratti, anche in italiano (che francamente  prediligo), cosi come nella successiva "Maldiluna", in uno strano connubio tra elettronica, suoni mediterranei, rock, dark e techno music che mi disorienta non poco. A chiudere questo eclettico 'The Sad Wonder Of The Sun' ci pensa "You", ultima dimostrazione di quanti e quali rischi si siano presi gli Ecnephias in quest'ultima loro fatica, proponendo un mix tra Paradise Lost e Type o Negative riletti in chiave pop rock, con il supporto di ottimi arrangiamenti. Che altro dire se non constatare la progressione di una band che non si è mai arresa di fronte alle avversità, che ha costantemente cercato di evolvere il proprio sound anche rischiando non poco di andare contro ai vecchi fan. Solo per questo valgono il mio rispetto, poi a parlare per loro c'è anche la storia. Alla fine però 'The Sad Wonder Of The Sun' lo si può amare o detestare, questo non toglie l'egregio lavoro fatto dai cinque musicisti italici, che quatti quatti potrebbero rischiare addirittura di divenire i leader di un nuovo movimento gotico mondiale. (Francesco Scarci)

domenica 23 luglio 2017

The Prisoner – Life of the Mind

#PER CHI AMA: Black/Doom, Sarke, Emptiness
Secondo album concettuale per l'originale band parigina dei The Prisoner, incentrato sul tema della desolazione, il silenzio e la prigionia del vuoto, un vortice infernale che lacera qualsiasi sentimento che gli si avvicini. Dediti ad un metal dalle tinte fosche e funeree, nella musica dei nostri, ci si imbatte spesso in trame dal drammatico stile doom che lasciano un po' di respiro e ci allontanano da un drumming e un riffing, selvaggio e compulsivo, che cavalca padrone il sound della band francese. Si parte con l'oscura "Awake", con la sua lunga e plumbea intro e già si ha l'impressione di essere davanti ad un buon album, lavorato con cura e ragionato nei particolari. La qualità sonora è alta, tipica delle band votate al doom, l'incedere lento che viene stravolto da una violentissima, veloce e caotica cavalcata nera come la pece, intonata da uno screaming esistenziale, malato e decadente. Segue "Emptied" e il sound diviene ancora più spesso, odorante di zolfo, carico di tono guerriero e umor nero. Il cambio di velocità, i chiaroscuri compositivi diventano una felice realtà che colloca esattamente la band, a metà strada tra il black e il doom metal, un ibrido dai toni epici che funziona e che non mostra lacune, non annoia mai. "Emptied" è un pezzo straordinario e con il suo finale decisamente horror, tocca vertici altissimi che difficilmente si possono ignorare, un incrocio tra Sarke, Pale Chalice, Emptiness e certi aspetti dei Watain. Entusiasmante e geniale è l'accostamento di suoni sci-fi da film horror anni '70 udibili qua e là come nella lunga, demoniaca e complicata "Battling Ego" (a mio parere il brano migliore dell'album), con suoni che donano al pezzo una forma progressiva, sperimentale e sempre in evoluzione, cosa che nelle track successive amplierà il raggio d'azione dei nostri e ne avvalorerà la loro capacità compositiva. Estremi, violenti, sinfonici, malati e filmici quanto basta per ammirarli come una band d'alto rango, in un album coinvolgente, mai scontato e suonato divinamente. Interessante e decisamente appetibile all'ascolto, grazie ad un suono maturo e reale, caldo ed intenso, attraente ed oscuro al punto giusto, un toccasana per i cultori del genere metal più ricercato, più vivo ed estremo. Ascoltate infine "Acte Final", un brano da leggenda, una vera perla. Questo disco uscito nel dicembre 2016 a seguire il precedente 'The Silence and Nothing', licenziato via Melancolia Records nel 2012, è la risposta più bella che la band in autoproduzione, poteva dare, superando di netto il suo predecessore. Splendido, da avere assolutamente! (Bob Stoner)

Opalized - Rising From the Ashes

#PER CHI AMA: Metalcore
Nati a alla fine del 2015, i ragazzi d'oltralpe Opalized, senza perdere tanto tempo in saluti e smancerie si dedicano immediatamente alla stesura, nonché registrazione dell'album 'Rising From the Ashes'. Il disco è interamente autoprodotto e devo dire con un'ottima resa moderna del sound, con bassi potenti e una bilanciatura perfetta delle frequenza. I nostri propongono un metalcore assai commerciale a cui non si può chiedere niente di più di un ascolto disinteressato. Il tutto infatti suona troppo scontato, con parti stoppate e aperture di chitarre melodiche, con qualche bel riff interessante per carità, batteria sempre dritta, growl alternato a parti pulite. Ho cercato qualcosa di più sul conto della band sul web ma sono rimasto abbastanza deluso nel non vedere live al loro attivo se non qualche data nel prossimo autunno. Alla ricerca di un video, mi è spuntato quello del batterista che finge di suonare la parte della registrazione di batteria in uno studio senza nemmeno un microfono, e proprio non ne capisco l'utilità. Comunque il gruppo è molto attivo sui social avendo più di 20.000 followers, forse a loro interesserà maggiormente questo, piuttosto che fare musica nel vero senso della parola. La parte più bella del disco che mi sento di consigliarvi? L'intro (ed è tutto dire) di "Black Flag", un bellissimo pezzo di bossa nova. Assolutamente bocciati, ma non tutto è perduto. (Zekimmortal)

Da Captain Trips - Adventures in the Upside Down

#PER CHI AMA: Space Rock/Jazz/Psichedelia
Non amo particolarmente le band strumentali, si sa. I Da Captain Trips lo sono ahimè interamente e questo è un bel problema per il sottoscritto ma soprattutto per la band che con me ha pensato bene di condividere il proprio album. Tuttavia, il loro stralunato modo di suonare supplisce egregiamente all'assenza di un cantante, fortunelli. 'Adventures in the Upside Down' d'altro canto è un lavoro tutto strano già dalla sua copertina, da quella figura sottosopra allo stesso titolo capovolto, che ancor oggi quasi mi sfugge quale sia realmente il lato giusto per guardare la cover del cd, infine ad un sound tutto particolare contenuto in questa seconda fatica della band italiana. "The Calm And The Storm" apre il disco con la sua musica liquida e lisergica con evidenti richiami agli anni '70, ovviamente riletti in chiave moderna, contaminata da una forte componente space rock liberata nei synth che riempiono la seconda parte del brano. "Manta" è la seconda tappa del viaggio ma anche il pesce protagonista della copertina dell'album dal momento che costituisce un tutt'uno con quell'uomo in procinto di affrontare il suo avventuroso viaggio. La musica strizza in modo più o meno evidente al krautrock e alle suggestioni elettro prog che ne hanno caratterizzato il genere negli anni d'oro. Si prosegue con "Revelation", song più vellutata che riprende visioni cosmiche e suoni ancestrali che sentii per la prima volta nel debut album degli australiani Alchemist, 'Jar of Kingdom', con sonorità che sembrano evocare il canto delle balene, complici i meravigliosi passaggi jazzati affidati al suono del sax di Lee Relfe, guest dei gallesi Sendelica. I suoni proseguono nella loro inebriante delicatezza ed eleganza, con il battito di "Dear Zahdia", song dal mood sicuramente vintage, dinamica e melodica nel suo incedere affidato ad un grande lavoro di sintetizzatori, prima della più lenta e suadente "Trepasses Bay". La traccia non è affatto male, però è sicuramente quella che ha scaldato meno il mio cuore, al contrario della successiva "Peaceful Place", song incollata alla precedente ma assai più piacevole e virtuosa grazie al suo sound riverberato e alle sue splendide atmosfere psichedeliche, con dei tratti che mi hanno ricordato addirittura i The Doors nelle loro visioni più caleidoscopiche. In chiusura ecco il brano più lungo del lotto, "Mother Earth": una chitarra acustica dal vago sapore folk apre il pezzo, seguita da percussioni tribali. La sensazione è quella di essere lontani da casa, magari sulla spiaggia a contemplare le stelle di notte, mentre un fuoco regala il suo bagliore nel buio della notte.

(Phonosphera - 2017)
Voto: 75

https://dacaptaintrips.bandcamp.com/

mercoledì 19 luglio 2017

Sepulchral Whore - Everlasting Morbid Delight

#PER CHI AMA: Death Oldschool, Morbid Angel, Death
A fresh death metal band from Brazil that plays on the thrashier end of the spectrum, Sepulchral Whore indulges in Hell's irreverent depravity in “Everlasting Morbid Delights” as it pays homage to the early progenitors of this most obscene style.

Nowhere is Death so near as in “Horrifying the Weak”, with what sounds like a slower version of the “Born Dead” riff from “Leprosy”, or “In Slumber they Succumb”, where the band beats the unforgiving snare into a mechanical mechanism before setting off some hair-raising and original soloing that gives little nods to the guitar gods of yesteryear. The very Morbid Angel sounding opening in “Malicious Conflagration”, produced just like the bassy and rolling guitars in “Covenant”, becomes a raw and open echo across an imposing hall and begins a vocal delivery that sounds like it's giving a speech to an unholy army about its latest ambition for conquest. In a heavily accented and echoing voice the lyrics do get a little awkward at times while attempting to finish a lyric after the sound has already outrun what was written down, like when vocalist, Necrospinal, says “let's breathe antagonism”. Despite these minor wonky moments, the great chanting of “no mythical devotion, deny the holy whore, spreading damnation, we set hellfire at this torch” is very engaging and uplifts this thrashier aspect of Sepulchral Whore's death metal. The only time that Sepulchral Whore turns down its hellacious hedonism is in the instrumental “Rotten Wings of Creation” where the airy sound of Iron Maiden's “The Clansman” meets a medieval Iberian theme to create a sinister tone within an apocalyptic soundscape. It's easy to hear the Iron Maiden bass flourishes rising to the top of this song as this diversion from the band's norm seems to lay some groundwork for an engrossing evolution in this band's future.

The personality expressed through “Everlasting Morbid Delights”, and its almost giddy reach to profane anything presenting propriety, makes this an invigorating and refreshing first EP from a band with great potential and solid preparation that seems to take its time getting things right before heading into the studio. Having started in 2015 and only just releasing its first album in May of 2017, Sepulchral Whore seems set to secure a solid spot in many a death metal fan's music rotation and to keep the oldschool sound alive and well. (Five_Nails)

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Una death metal band nuova di zecca proveniente dal Brasile che suona tra le più violente nel genere: si tratta dei Sepulchral Whore che si abbandonano all'irriverente depravazione dell'Inferno con il loro 'Everlasting Morbid Delights', debut album che rende omaggio ai progenitori di questo stile estremo.

Da nessuna parte i Death sono mai stati cosi vicini come in "Horrifying the Weak", con quella che suona come una versione più lenta del riff contenuto in "Born Dead" estratto da 'Leprosy'. In "In Slumber They Succumb", la band picchia in modo spietato in un vortice meccanico da far rizzare i capelli, offrendo poi una porzione solistica assai originale che allude ai mostri sacri della chitarra. Un sound in stile Morbid Angel in apertura di "Malicious Conflagration", ammicca alle chitarre ribassate e roboanti di 'Covenant', come se echeggiassero in modo crudo e aperto in un'imponente sala, laddove incominciano delle ferali vocals che sembra stiano facendo un discorso ad un esercito blasfemo circa le loro ambizioni di conquista. Con una voce fortemente enfatizzata, le liriche si mostrano talvolta un po' scoordinate tra testi e musica, come quando il vocalist Necrospinal canta "respiriamo l'antagonismo". Nonostante questi rari momenti in cui i nostri sembrano vacillare, il bombastico canto di "nessuna mitica devozione, nega la santa puttana, diffondi la dannazione, mettiamo il fuoco infernale a questa torcia" si rivela invece assai coinvolgente evidenziando l'aspetto più spietato del death metal dei Sepulchral Whore. L'unica volta che i Sepulchral Whore virano dal loro edonismo infernale è nella strumentale "Rotten Wings of Creation", dove il sound arioso di "The Clansman" degli Iron Maiden incontra una melodia iberica medievale a creare un tono sinistro all'interno di un paesaggio sonoro apocalittico. È facile sentire nei pezzi il basso in stile Iron Maiden che si eleva sul brano, e questa deviazione dallo stile del gruppo sembra porre le fondamenta per un'evidente evoluzione nel futuro della band. 
 
La personalità espressa attraverso 'Everlasting Morbid Delights' abbinata a quell'irriverenza di fondo che caratterizza la band brasiliana, rendono questo primo EP sicuramente dotato di una certe ventata di novità ed energia, che sottolinea la prestazione di una band dotata di un grande potenziale e di una solida preparazione tecnica, una band che sembra peraltro necessiti di prendersi tutto il tempo necessario prima di tornare in studio. Con le registrazioni iniziate nel 2015 e la release del primo album solo nel maggio del 2017, i Sepulchral Whore sembrano destinati ad assicurarsi un solido posto nelle rotazioni musicali di molti fan mantenendo vivo e vegeto il sound della vecchia scuola death metal. (Five_Nails - free translation by Francesco Scarci)

martedì 18 luglio 2017

Khazaddum - Plagues Upon Arda

#FOR FANS OF: Techno Death, Nile, Morbid Angel
“The Halls of Khazad-Dum” echo with war drums and swell with petulant, diminutive creatures whose bellies protrude from overindulgence and whose culture has an unquenchable thirst for beer and spilled blood. Clad in shining regalia and wielding weapons of the iron they mine beneath the Misty Mountains, the dwarves of Middle Earth are a battle-born race whose women look like men and whose men look like pocket-sized viking warriors.

From the opening of 'Plagues Upon Arda' it is already apparent that this album is thick with blasts and takes a sarcophagial Nilotic approach as measures range from growls and raging percussion to shrill vocals and long ringing solos, emanating as though transcribed from ancient calls to hack and slash. Khazaddum is a very energetic death metal band with a focused and straightforward sound, as though organized by the foreman ordering striking pickaxes and the architect designing gigantic monuments to great warriors. Exploring Tolkien's 'Lord of the Rings' lore through the eyes of the mountain-dwelling dwarves, this band has a goofy gimmick with a strong musical backing that seems to only intersect within the lyrics while much of the rest of the sound finds itself not embracing the theme, but basking in the African river's current. The theme and delivery come closest to joining in “Lord of Isengard” and “Legion of the White Hand” where the riffs are nearly identical but the frenzy of Saruman's minions stands apart from the larger, more imperial sound of the sorcerer's own anthem. This somewhat lacking intersection is the main flaw in 'Plagues Upon Arda' where in nine songs there are more samey moments that seem set to fill time rather than keep the listener guessing or the album replayable, especially in comparison to the personality expressed in Khazaddum's debut EP, “In Dwarven Halls”.

There are some fun moments throughout these forty minutes. The sawing opening to “The Fell Rider's Scourge” gets hammered by a litany of cymbals and snare, the galloping churn of a metal steed rides you to soloing nirvana in “Masters of the Plains”, and the operatic crescendo of “The Black hand of Gorthaur” finally hits the epic and powerful mixture of the ancient and new that the band had been unlikely to reach throughout the album. On the whole though, the music does not seem to share the same wavelength as the theme and has trouble weaving the legendary tapestries of its narrative namesake despite the reams of material from which the band may capitalize. This is the main fault in Khazaddum. These musicians are clearly adept at their craft, driven and focused on creating in a very demanding and intense style, but the creativity is lacking in places that could see this group building another step upward rather than standing in the same place as the band that it clearly styles itself after. Nile gives a larger presence to its theme throughout its storied discography, and that thematic presence is rarely reflected throughout Khazaddum's first full-length.

Khazaddum is a competent band but this dwarf-themed death metal sounds too close to its idol to really give this album a unique kick. The gimmick is unfortunately in merely the lyrics as this band plays a mirage of Nile riffs to Glen Benton's gutturals and backs it with a mountain of drumming. Altogether Khazaddum is your average extreme metal group with a few standout moments that is at a common creative confluence in its career, choosing whether to propel itself into greatness or to stagnate and call this album its peak. 'Plagues Upon Arda' is an adequate death metal offering but, like the theme, the presentation only jumps out at its audience on paper while the music remains par for the course. (Five_Nails)

(Self - 2017)
Score: 65

lunedì 17 luglio 2017

124C41+ - Ode

#PER CHI AMA: Ambient/Noise
Riprendo laddove lasciai nel giugno del 2016, quando raccontai della mia esperienza sonica nell'ascoltare 'Mörs/Ërde', secondo EP degli Umbri 124C41+. È uscito un nuovo lavoro, 'Ode', non so neppure sia giusto considerarlo un full length vista l'esigua durata (per un Lp) di 24 minuti, ma con questi ragazzi sarebbe meglio non stupirsi di nulla, nemmeno del contenuto di questa monotraccia che prosegue il minimalismo sonoro intrapreso dall'act di Terni. Per ciò che concerne le suggestioni visive indotte dai nostri, non possono far altro che traslarmi con la mente in una navicella ai margini del nostro sistema planetario, in un profondo siderale in cui è improbabile addirittura vedere la luce del Sole. E li, tutto quello che si sente è il vento cosmico perpetrato nelle note iniziali del disco che vibra sulla struttura metallica della mia astronave. Poi nient'altro che l'abisso di un silenzio, che scava nell'anima, riportandomi la visione e le sensazioni vissute attraverso due film fantascientifici, 'Interstellar' e 'Gravity'. La musica, se tale si può definire, è dilatazione pura spazio-temporale attraverso riverberi, ambientazioni glaciali, stati di inquietudine indotti dal suono asciugato di una nota di sintetizzatore. Frustrazione, scoramento e delirio, per il dilaniante verso del silenzio e poi un'elettricità che divampa attraverso una ritmica lenta e pesante, che sembra mimare l'accensione dei motori della mia astronave, il che mi dà ancora quella flebile speranza di far ritorno a casa e abbandonare quel desolante angolo di universo. La strada sarà assai lunga, ma la consapevolezza di una fine imminente ha ormai lasciato posto alla confidenza di farcela e tornare a rivedere la luce del Sole. Mi sveglio, sono sudato per quella che è stata la mia personale esperienza onirica tracciata dall'ascolto di 'Ode', un'esperienza in realtà totalmente sconnessa da quanto delineato invece nell'essenziale booklet interno del cd che passa attraverso sette passi, che non ho voluto leggere appositamente per non lasciarmi influenza, ma che alla fine non sarei stato nemmeno in grado di spiegarvi. Ho ascoltato 'Ode', ho fatto il mio personale viaggio, perché non provare il vostro? Potrebbe essere un'esperienza sensoriale unica... (Francesco Scarci)

(Dreamingorilla Records/È Un Brutto Posto Dove Vivere/Insonnia Lunare Records/Astio Collettivo - 2017)
Voto: 75

https://onetoforeseeforoneanother.bandcamp.com/album/ode

domenica 16 luglio 2017

Deity - S/t

#FOR FANS OF: Death/Thrash
A Canadian outfit that has patched all its influences onto its sleeve, Deity boils down a broad cast of characteristics into a concentrated reduction of recognizable and reminiscent riffs. This basic death metal album is a display of talent and its take on a by-the-numbers full-length that unfortunately misses the mark. Even with the addition of the well-known Flo Mounier of Cryptopsy fame, this band seems more interested in presenting more of the same rather than setting itself apart from the pack, resulting in a generic and unfulfilling full-length that will keep you thinking, 'I've heard this all before'.

From the Cannibal Corpse opening to “Beginning of Extinction”, which eventually drowns in the sludge of an Acacia Strain breakdown, to the safe sounding Cryptopsy in a cradle “Sacrificium”, Deity's death metal is a patchwork of emulation that, like a paper thin blanket in February, nominally covers its area without much in the way of substance. Where it does cover is itchy with heartless stitching, noisy from the nearly plastic fabric, and mass-produced without a care for leaving any instance of uniqueness. This isn't to say that the musicians themselves are bad, merely their songwriting is. Deity is a band with all the right ingredients but still comes off as contrived, dollar store death metal muzak and just barely escapes the implications of the word 'plagiarism'. If death metal bands came together to celebrate little Chuckie's birthday, bouncy house and all, Deity would be the gaggle of little ones playing house, acting like mommy and daddy do, while the parents swill beer and keep the other kids from falling into the pool.

Try as I might, I can't seem to enjoy this album. There are too many plastic parts, easily interchangeable and obviously shoehorned into an album that plays without passion and instead points out and yells the name of every one of its obvious influences as though telling its audience, “see, we have all of these things, now give us money.” Just because you have the materials it doesn't mean you have the house. Though the band's music is effortlessly talented, it sounds passionlessly phony and predictable, like how “Rituals” manages to be the shortest song on the album and the longest slog imaginable with its inability to go anywhere despite screaming solos through the song. Hampered by too few ideas and even fewer original thoughts, despite this album somehow being 'fifteen years in the making', Deity is an almost totally superfluous addition to the genre. It's hard not to be underwhelmed when this band comes off as so jaded that they know exactly how to make hits and it's everyone else's fault that this tepid series of samples isn't selling. Like the generic mirrored logo, this band is all style with no sense, all show without substance, and shows just how commercialized and formulaic death metal can be without the draw of personality.

There are a couple of redeeming qualities to this experience. The instrumentals “From Which We Came, We Now Return” and “In Time” sound clean and crisp with the former being a memorable and energetic romp that features plenty of interesting soloing and the latter, a mix of acoustic Zeppelin and Metallica moments that create an intriguing folk rock accompaniment to any role-playing game. Flo Mournier's drumming shines on the former, galloping alongside a Maidenesque locomotion of trilling guitars. Finally, there is glory to behold in this album and the nine minutes of “From Which We Came, We Now Return” pass by like a dream. This is what Deity would sound like if it made its own music, and it is actually very good. Hemmed in between such dross, these tracks receive a major disservice from their unusual placement in an album that could easily be mistaken for a parody of death metal.

I was wondering why a new album featuring Flo Mounier's drumming would pass completely unnoticed by the death metal community, but there's a reason for this unhappy happenstance. Deity is drivel for the most part with a slight silver lining, as though a glint of sunlight deflected off a water droplet leaking from an old filthy faucet in a silent kitchen where you have dinner alone on a Tuesday evening. Rather than cook up something unique, Deity has taken the time in this first album to demonstrate its ability to take the heat and produce something barely passable with quality ingredients and a keen knowledge of timing, all the elements of a talented amateur stepping too far out of his element. Like the million different takes on any basic dish, it's interesting to explore the possibilities of where you can remix everyone else's sound, but like the casserole at Thanksgiving dinner, this album will go uneaten for the flavorless mush it is. (Five_Nails)

(Self - 2017)
Score: 55

https://deityca.bandcamp.com/

New Disorder - Deception

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La fuorviante taitoltrac "Disorder" in apertura, vi collocherà mentalmente dalle parti di un certo melodic nu-metal old-school feat. clean vs. scream più orsacchiottosi interludi growl appiccicati con l'uhu, ma mentre ve la svignate a gambe levate, percepirete la piacevole sensazione tipo di essere inseguiti da un pitbull, mentre ascoltate in cuffia un pezzo degli Hardline (uh, anche la conclusiva "A Senseless Tragedy", in un certo senso). Subito dopo, rutilanti riff death-alley-rainbow con tanto di innesti tukutuku-power ("Love Kills Anyway", eh già) e barra o repentini no-funk-gnagnagna (con tanto di "Tarjanata" conclusiva in "Straight to the Pain", già apparsa insieme ad altre sette tracce, nell'album precedente). Nel prosieguo, i suoni rimangono scolasticamente compressi, come si conviene sì, ma sottocutaneamente Frontiers-oriented, classici, rassicuranti, metallosi e trasparenti, come la custodia di un cd dei Talisman. Ci si diverte, l'avreste detto? Ci si diverte sul serio, soprattutto quando si system-of-a-gigioneggia (in "Never Too Late to Die"). Datemi retta: ascoltate questo disco, e poi riascoltatelo ancora. Perché a voi quel metal nu-riverente anniduemila incessantemente trainato dal zigzagante ma perentorio T' (ti-apostrofo) di grancassa, non lo ammettereste mai, ma vi piace un casino. Mi sbaglio forse? (Alberto Calorosi)

(Agoge Records - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/newdisorderband/

Quick & Dirty - Falling Down

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Nel saltellante esordio à-la-Madness 'Falling Down', sospinto da un terribile videoclip fluo-finto-live scimmiottante "Numb" degli U2, sono riassunti, se non i suoni, perlomeno gli intenti fart-glam contenuti nel primo EP della band francese il cui nome allude all'approccio squisitamente parigino al concetto di doccia. Venendo ai suoni, invece, il testavuota-glam finisce per prevalere nella Ki(a)ss-sosa "Would You Like to Dance?" in chiusura, dotata invero di un chitarrismo piùccherobusto. Scorribande extraurbane social-distorte nella gradevole "I Was Born"; in "East West", invece, un riff rock-blues di matrice stoniana introduce ad un cantato collocabile all'incrocio tra Iggy Pop Alley e Jon Spencer Avenue, però opportunamente condito da gradevoli guitar-crudité zeppeliniane. Alchimie consolidate, produzione adeguata e, ovunque, una energia genuina e irriverente, senz'altro ampiamente replicata in quella dimensione live di cui il booklet dell'album intende evidentemente farsi testimonianza. Ascoltatelo a tutto volume durante una doccia clandestina con la vostra baby-sitter. (Alberto Calorosi)

venerdì 14 luglio 2017

Wastes - Into The Void Of Human Vacuity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Il caldo estivo non fa proprio rima con il funeral doom, genere tipicamente novembrino. Tuttavia, i franco-belgi Wastes se ne fregano delle stagioni, rilasciando lo scorso giugno il loro debut album, 'Into The Void Of Human Vacuity', un disco che ci fa piombare da una torrida giornata di calura estiva direttamente nella più brumosa delle giornate autunnali. Non lasciamoci ingannare dal fatto che questo sia un album d'esordio, tra le fila dei Wastes si nascondono membri di Ataraxie, Mourning Dawn, Funeralium e Pantheism, gente insomma che calca la scena già da una quindicina d'anni almeno, in territori più o meno dooooom, di quello con parecchie "o" per capirci. E tutto ciò si traduce in un claustrofobico lavoro, fottutamente funereo e claustrofobico e in questi sette pezzi rilasciati dalla Code666. Solitamente parto dai punti di forza di un album, quest'oggi invece darei una bella tirata di orecchie a quelli che hanno registrato un disco mettendo due secondi di pausa tra un brano e il successivo, rompendo cosi il flusso cataclismatico che s'instaura all'ascolto di ogni song. Detto questo, che penalizzerà la mia valutazione di fondo, e sorvolando sull'intro del cd, mi concentro sulla seconda "Pt. 2" che sottolinea come ritmiche a rallentatore, raggelanti voci cavernose ed atmosfere orrorifiche, caratterizzino il sound della compagine d'oltralpe, seguendo pedissequamente i dettami voluti da un genere costantemente sulla cresta dell'onda. La terza parte prosegue il flusso apocalittico eretto dai nostri che continuano a tessere melodie deviate, condite da ambientazioni glaciali nel classico incedere magmatico e soffocante, di quello in grado di attanagliare la gola e raggelare il sangue nelle vene, inducendo un pericoloso senso di oppressione e paranoia. Echi di Esoteric e Skepticism emergono forti dalle note di un album sicuramente di difficile ascolto, non lo nego, ma che certo avrà modo di entusiasmare i più incalliti fan della scena funeral doom. Vorrei segnalare infine "Pt. 6", song mostruosa per intensità sonora che (ir)rompe con il routinario sound rallentato delle precedenti tracce, mostrando il lato più death oriented della band, con una scarica detonante di batteria e chitarre ronzanti, quasi un mostro a cavallo tra il post black e la ferocia dei primi Entombed. Il tutto è poi affidato a suoni idiosincratici che introducono all'ultima spaventosa marcia funebre che chiude un album capace di intorpidire non poco i sensi. C'è poco altro da evidenziare in un disco che fa della lentezza estrema, della pesantezza del proprio rifferama, e di una certa ridondanza e riverbero nei giri di chitarra, i suoi capisaldi. Mi preme tuttavia sottolineare un'ultima cosa, ossia la capacità, in un po' tutti i brani, di deliziarci con psicotici assoli, peccato siano un po' troppo relegati in secondo piano, se solo avessero avuto un po' più "volume", avrebbero di certo dato un'ulteriore spinta ad un album comunque buono. (Francesco Scarci)

giovedì 13 luglio 2017

Necandi Homines - Da'at

#PER CHI AMA: Esoteric Black Doom
Una lunghissima intro in stile Myrkur ("Memento" dura infatti oltre otto minuti) apre il disco dei Necandi Homines, oscuro quartetto marchigiano, formatosi addirittura nel 2007, dedito ad una forma introspettiva di black doom. 'Da'at' è il disco d'esordio per i quattro ragazzi di Jesi, nelle cui fila si nascondono anche membri dei ben più affermati Infernal Angels. Il disco, dopo il noise cibernetico iniziale che mostra il classico dualismo vocale, etereo e malvagio, non sembra decollare neppure con la seconda "The Faceless Sculpture", traccia ancor più pacata e sinistra della opening track, con pochi arpeggi relegati in sottofondo ad un'atmosfera angosciante che prelude a qualcosa di brutto, pronto da li a poco ad accadere. E finalmente l'elettricità e la rabbia divampano in un sound caliginoso, compassato e decadente, fatto di un lento ed ipnotico riffing, contrappuntato dalle classiche arcigne screaming vocals. Sono ancora disturbanti e lugubri ambientazioni poi a prendersi la scena, in uno scorcio apocalittico che prosegue anche nella successiva "The Fifth Dimension", una sorta di colonna sonora per un film come Blade Runner. È infatti un'altra atmosfera tremendamente cupa e minacciosa a contraddistinguere quella che pare piuttosto essere un interludio strumentale per la quarta "Desolation of the Ocean After the Storm" ed i suoi riverberi iniziali di chitarra, spezzati da un marcescente cantato che dona una fisionomia più tangibile al brano, ed in generale, ad un album che a più riprese sembra essere in grado di generare stati di ansia e delirio. Si arriva all'ultimo infinito baluardo da superare, gli oltre 17 minuti di "Through Deep Waters", una canzone che parte se possibile, ancor più minacciosa e desolante delle precedenti, con l'utilizzo di chitarra e basso che mi hanno ricordato un inimmaginabile ibrido tra i Laetitia in Holocaust e i Massive Attack. La musica esplode finalmente in un'onda black che fino a questo momento è parsa confinata in seno ai quattro demoni italici. Ma le sorprese non sono affatto finite, perché quel black lascerà il campo ad un suono elegiaco, liturgico, tribale, esoterico, fate voi, a seconda di quello che esso sia in grado di trasmettervi, con tanto di voci corali capaci di confondere ulteriormente i sensi. La comparsa di un'inedita voce femminile amplifica poi il mio status umorale alterato, il suo contrapporsi allo screaming ferale di Discissus, ripristina lo status quo, in un agghiacciante finale strumentale che esalta la prima notevole fatica dei Necandi Homines, una straordinaria sorpresa con cui passare una torrida estate di paura. (Francesco Scarci)

(Vacula Productions - 2017)
Voto: 75

https://vaculaproductions.bandcamp.com/album/daat