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martedì 1 maggio 2012

Deadly Carnage - Sentiero II: Ceneri

#PER CHI AMA: Black Depressive, Shining
La malvagità intrinseca di questo lavoro, mi ha tenuto decisamente incollato nell’ascolto della seconda release degli italiani Deadly Carnage, un concentrato di black metal malato, selvaggio e feroce, che si rifà, senza ombra di dubbio, alla tradizione nordica, ma comunque con un estro riconducibile alla scuola italica. Già la opening track, “Guilt of Discipline”, conferma le mie parole, offrendo un corrosivo e corroborante esempio di musica nera, che trova espressioni di somma eleganza, nei suoi assoli e nelle parti più depressive, che permette all’act romagnolo di trovare una propria strada nell’intricato panorama estremo; le ritmiche serrate del brano infatti, mi avevano fatto temere il peggio, ma poi appunto quell’estro, di cui sopra, permette al quintetto italico, di esprimere la propria personalità. Anche la seconda “Parallels” offre spunti interessanti, per il desiderio dei nostri di spingersi verso lidi più atmosferici nei meandri estremi del black doom, accompagnati da una sofferente quanto mai diabolica voce, che alcuni di voi, vorranno equiparare a quella del leader degli Shining. Il paragone con la band svedese ci potrebbe anche stare, soprattutto quando la band si lancia in aperture più melodiche o drammatiche, mentre non ho trovato cosi piacevoli le parti in cui i nostri abbandonano il black, per far posto a scorribande che puzzano di death metal. L’abilità dei Deadly Carnage risiede comunque nell’alternare parossistiche sfuriate di suoni infernali con piacevoli parti arpeggiate (e il finale di “Parallels” ne è un palese e riuscitissimo esempio), cosi come pure da sottolineare l’eccezionale prova del vocalist nel mutare il proprio registro vocale: growl, blackish, lamentoso, sofferente, sussurrato o pulito (dell’ultima traccia). “Epitaph Part I” devo ammettere non mi è piaciuta granché, per quel suo incedere un po’ piatto e inconcludente; nella sua evoluzione e successiva “Epitaph Part II”, i nostri faticano nel ritrovare la verve che ha contraddistinto le prime due roboanti song. Il finale della seconda parte, fortunatamente, dà modo al combo riminese di ritornare a mostrare fiero il proprio valore. Glaciali alfieri del black oscuro made in Italy, in compagnia dei Frostmoon Eclipse, i Deadly Carnage regalano un altro interessantissimo pezzo, “Growth and New Gods”, esempio di furia evocativa che esplica tutta la propria genialità nel malinconico intermezzo acustico frammisto ad uno straziante solo, che innalza ancora una volta (e di molto), il livello qualitativo di un disco che, forse ha il solo difetto di non mostrare una certa costanza di fondo a livello musicale, perdendosi talvolta più nel desiderio di devastare l’ascoltatore con la sua irruenza, piuttosto che guadagnarne l’attenzione con una proposta davvero originale. A chiudere l’album ci pensa la paranoica “Ceneri”, song cantata in italiano, che sembra trarre ispirazione dai Canaan. “Sentiero II: Ceneri” avrebbe anche meritato di più, se avesse dato meno spazio ad una violenza (death o black che sia) talvolta solo fine a se stessa. Li vorrei pertanto risentire con il terzo e solitamente decisivo lavoro, speranzoso che le asperità di questa release, vengano del tutto limate. Dal sicuro avvenire, se prenderanno le distanze da suoni triti e ritriti. (Francesco Scarci)

(De Tenebrarum Principio)
Voto: 70

Oskoreien - Oskoreien

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum, Agalloch
Una band Americana, che suona viking metal e che viene prodotta da una label cinese? Ecco uno degli esempi più azzeccati della globalizzazione e di quanto anche in ambito musicale, anche la Cina stia emergendo prepotentemente. Gli Oskoreien sono una one man band californiana, guidata da tal Jay Valena, che sembrerebbe essere un grande patito della mitologia nordica, a tal punto da chiamare la propria band come l’orda di anime morte che vagano tra il regno dei vivi e quello dei morti, una sorta di limbo della religione cristiana cattolica. E a fronte di un nome cosi epico, ecco che il nostro tuttofare statunitense, ha rilasciato il proprio debut omonimo che ci guida, un po’ come Virgilio con Dante ne “La Divina Commedia”, in un dimenticato mondo senza tempo. Tra le mani mi trovo un classico esempio di cascadian black metal, quella forma di black naturistico, primitivo, epico e sognante che sta prendendo forma e sostanza nella Western coast grazie, in primis ad act quali Agalloch e Wolves in the Throne Room. E proprio da queste grandi band, gli Oskoreien traggono spunto, arricchendo la propria proposta con sfuriate in stile Burzum, con aperture atmosferiche da capogiro, incursioni acustiche, melodie astrali e ataviche che riempiono con somma gioia il mio cuore pulsante. Cinque splendide tracce, che unendo la furia tipica del black con le chitarre tirate, suonate con l’immancabile tecnica del tremolo, agganciate ad un efferata batteria stracolma di blast beat sin dall’assalto frontale dell’opening track “Illusion Perish” che mette in evidenza immediatamente l’attitudine “wild” dei nostri, complice anche le demoniache screaming vocals del mastermind. Quello che poi solleva l’elementarità della proposta, sono quelle invasioni barbariche, epiche che conferiscono una certa solennità ed un’aura di mistero a questo enigmatico lavoro, dalla copertina alquanto inusuale per un lavoro black. Lampi post rock, accenni di psichedelia e frangenti ambient, completano il quadro di un album che ha il pregio di avere molte cose da dire. Da ricercare accuratamente sul sito della Pest Production, un’etichetta, che certamente ce ne farà sentire delle belle in futuro. Intanto godiamoci appieno questi Oskoreien, godibilissimi! (Francesco Scarci)

(Pest productions)
Voto: 80
 

Mondstille - Seelenwund

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Post Black
Non amo assolutamente il tedesco come lingua, per quella sua mancanza di musicalità, e non me ne vogliano i Mondstille per questo; alla luce però di quanto prodotto dall’act viennese, sinceramente me ne frego e ci passo sopra, in quanto la band austriaca ha rilasciato un signor album, che impreziosisce di molto il panorama black avantgarde, con una gemma da incastonare nell’ormai poco inflazionato mondo del black melodico. Detto fra noi, non conoscevo il quartetto di Vienna e di sicuro andrò a pescare il loro album d’esordio “Am Ende…”, per capire se erano già dei fenomeni all’esordio (datato 2008) o se c’è stata chissà quale evoluzione nel corso di questi anni che li ha fatti diventare cosi evocativi ma soprattutto bravi. Fatto sta, come avrete capito, che “Seelenfreund” è un album che a me piace moltissimo: un lavoro sicuramente estremo da un punto di vista musicale, impreziosito tuttavia da sublimi melodie di violino (grandissimo Ludwig), che si stagliano e susseguono su un tappeto ritmico estremamente serrato, con delle harsh vocals mefistofeliche. “Mein Inner Sturm”, “Im Trauerhain” e “Zeitenwandrer”, una dopo l’altra si esaltano per la furia propulsiva emanata, ma anche per le loro splendide atmosfere, che sembrano trarre ispirazione da una versione estrema dei primi ispiratissimi Skyclad. Sia chiaro però che non siamo al cospetto di una band folk; qui c’è tanta cattiveria, ferocia e brutalità, ma semplicemente è convogliata nel mondo più intelligente possibile, alla ricerca di una magica spiritualità, che si esplica nel corso dell’ascolto del cd. Qualcuno potrà affiancare il nome dei nostri a quello degli Eluveitie, niente di più sbagliato. I Mondstille sono i Mondstille, difficile trovare altre band che possano accostarsi al misticismo della proposta del combo, che tra l’altro in line-up non vede la presenza del batterista bensì l’uso di un drumming sintetico, peccato. Selvaggia anche “Die Seele Frei”, la quinta song, cosi come pure tutte le successive, sebbene in taluni casi, abbiano degli incipit assai romantici che sfociano comunque nella furia nera del black; ci pensa l’incantato suono del violino che si mischia a quello poetico del violoncello a mitigare il sound abrasivo delle chitarre, portandoci ad un’estasi spirituale. “Ich der Pan” ha un inizio da band post rock/folk, prima di abbandonarsi al corrosivo fragore delle chitarre. Il feeling che l’ensemble emana è quello tipico delle band post black e mi vengono in mente, a tal proposito, Deafheaven, Altar of Plagues, Lunar Aurora o la new sensation australiana dei Ne Obliviscaris; a differenza di questi altrettanto validi act, i Mondstille, al pari dei Ne Obliviscaris, hanno una marcia in più, che li vede posizionarsi immediatamente in cima alle mie preferenze in questo genere, con un lavoro del tutto inaspettato e che mi auguro, possa suscitare un certo clamore nella scena estrema. Eccezionali, vanno premiati con la vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90
 

domenica 29 aprile 2012

The Black Dahlia Murder - Miasma

#PER CHI AMA: Deathcore/Swedish Death, As I Lay Dying, At the Gates
Torna la Metal Blade, ormai identificabile negli ultimi anni, con album di death-metalcore. Ancora una volta lo swedish death metal si fonde con l’hardcore americano e “Miasma” fu l’ennesima dimostrazione di questo trend imperante. La band statunitense formatasi nel 2001 dopo “Unhallowed” registra ai Planet Red Studio di Richmond, “Miasma”, il cui stile riprende quello del suo predecessore: il songwriting è infatti influenzato dalle solite band scandinave, At The Gates e Carnal Forge su tutte, e dalle altre band statunitensi che suonano questo genere. Ormai lo ripeto da mesi/anni, mi trovo spesso in imbarazzo a recensire questo genere di gruppi perchè oramai, i miei commenti finiscono un po’ tutti per assomigliarsi. Quindi anche per i TBDM non è che posso scrivere chissà che: l’approccio è molto familiare ad altri gruppi recensiti in passato, The Red Chord ed As I Lay Dying ad esempio, in altre parole, un sound ben bilanciato fra l’incazzatura del metalcore americano e la melodia del death metal svedese, canzoni brevi e dirette, riffoni di chitarra, una doppia voce schizofrenica, blast beat devastanti e melodici solos. C’è da aggiungere che, nella band proveniente da Detroit, è riscontrabile anche una leggera componente blackish con le vocals di Trevor Strnad più demoniache e caustiche rispetto ai suoi colleghi. Comunque, per concludere, si tratta sempre di deathcore a stelle e strisce, quindi se il genere è di vostro gradimento, direi di non farvi scappare questo ennesimo prodotto. Se poi anche voi siete saturi come me di questo tipo di musica, beh il panorama metallico ha da offrivi un mucchio di alternative... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

sabato 28 aprile 2012

The Sect - Initiation

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Solefald
Il gruppo francese ci propone questo ambizioso lavoro carico di pathos gothico e oscurità. Figlio del sound nero di Emperor e primi Solefald, si snoda sinfonicamente in un percorso complicato. L'uso delle voci è molto ricercato e le tastiere sono maestose e rendono il suono magico, malinconico e pieno. Le parti più melodiche, con l'uso del piano in uno stile drammatico e classico, aumentano la componente nostalgica della musica, in contraltare troviamo una sezione ritmica volutamente tenuta in sordina per meglio rendere il sound più accessibile, meno impastato e più cristallino, pur mantenendo una buona forza d'urto. Il cd è molto ben fatto e non risulta avere momenti di caduta, infatti sin dall'inizio, si ha l'idea di un lavoro ben studiato e di una band chiaramente al di sopra della media. Tutti i brani permettono all'ascoltatore di entrare in una sorta di “inner circle”, un calderone magico e ancestrale con cori molto evocativi e d'effetto. L'intro, “Invitation”, dura poco più di 1 minuto ma mostra subito il lato romantico e oscuro dell’ensemble, aprendo la strada alla seconda e bellissima traccia, “Altar of the Golden Depravation” e la terza (la mia preferita) “Mitre and Crosier”, evocativa e tesissima, con quei cori pazzeschi che ricordano nientemeno che i “Carmina Burana”! La quarta traccia, “Acceptation” (altro brano da collocare tra i miei preferiti), è estremamente carica d'atmosfera, ha un'aria di pianoforte spaventosamente classica in stile “Satie”, con quel sottofondo di fiati, che ricordano vagamente i lavori di Malher! Questo classicismo crea un perfetto contrasto con la successiva prorompente song dal titolo “Noctum Phantasmatha”, che alterna stati di luce e ombra, con il suo incedere alternato lento/veloce, sottolineato da un cantato pulito e i soliti splendidi cori ispirati, (ricordano tanto i Falkenbach) uniti ad uno screaming veramente diabolico e degno di nota. “Requien of the Unborn” parte con chitarre velenose e tirate, un bridge finale rallentato e molto gothic metal e chiude le danze con l'epicità giusta per rendere il tutto indimenticabile. Alla fine non ci resta che decretare un'unanime sentenza favorevole ai The Sect visto che il loro album “Initiation” risulta ancora oggi dopo quattro anni (il cd è del 2008) portatore di nuove vesti e idee sane per un genere che a volte rischia di cadere nel baratro del ripetitivo o del clone. La nuova canzone “Cosmic Keys to my Creation and Time” del 2009, sul loro myspace, ci fa ben sperare per un loro imminente ritorno in grande stile. Grande album! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80
 

domenica 22 aprile 2012

Sunpocrisy - Samaroid Dioramas

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, The Ocean, Isis
Grazie. Grazie per il meraviglioso album che i Sunpocrisy hanno saputo concepire, che va ben oltre le più rosee aspettative che mi ero creato con il precedente Ep. Un grazie a questa band perché, con “Samaroid Dioramas”, ha dimostrato che in Italia abbiamo delle realtà che possono tranquillamente competere con le band americane, svedesi o tedesche che siano. E infine un grazie perché ero stato buon profeta nella recensione del primo Ep, dicendo che la band era da tenere sotto stretto controllo e l’eco che questa uscita ha avuto nel web, è un’ulteriore riprova di quanto scrivevo e della ottima qualità del cui presente lavoro. Ma, andiamo pure con ordine. Avevo lasciato i nostri nel 2010 con “Atman”, un EP di quattro pezzi che mischiava riff death metal ad ambientazioni di “toolliana” memoria, il tutto cosparso di una diffusa psichedelica malinconia. Il nuovo album, oltre ad aprirsi con un atmosfera che sa molto di suoni tribali degli aborigeni australiani, esplode ben presto la propria furia con “Apophenia”, che mette subito in chiaro la direzione musicale intrapresa dal sestetto bresciano. Mi spiace ma ora davvero non ce n’è più per nessuno: non guardo più verso Berlino con invidia per i The Ocean, verso la Western coast degli US per i Tool o la Eastern per gli Isis, o ancora verso nord a Umea, pensando che là ci sono band del calibro di Meshuggah o Cult of Luna; a casa nostra ora abbiamo i Sunpocrisy, che partendo, senza ombra di dubbio dagli insegnamenti dei gods appena citati, sfoderano una prova a dir poco magistrale. I Sunpocrisy hanno fatto il botto e lo dimostrano le mazzate inferte già in “Apophenia”, che miscela suoni rabbiosi, tribali, psichedelici, infarciti da meravigliose, suadenti melodie, che mi mettono subito a mio agio, mi fanno rilassare, anche se il growling poderoso di Jonathan, sbraita come un ossesso e le chitarre “grattano” minacciose con sommo piacere. Ci pensano poi quelle ipnotiche melodie di synth ad insinuarsi nei miei neuroni, scorrere lungo gli assoni fino al terminale nervoso responsabile del rilascio di quei neurotrasmettitori, che mi inducono al piacere sublime. Non so cosa sia successo ai nostri, se siano stati folgorati sulla via di Damasco o cosa, so solo che nelle sette tracce (più intro) qui contenute, se ne sentono di tutti i colori. Tempi dispari di scuola “meshugghiana”, che dimostrano l’ineccepibile qualità tecnica del combo lombardo (arricchitosi tra l’altro di un terzo chitarrista e di un uomo dietro ai sintetizzatori), atmosfere ariose che surclassano di molto la performance del nuovo Ep dei The Ocean; una prova eccezionale del vocalist, abile a passare da un growling efferato a splendide clean vocals. “Φ – Phi” è un ulteriore esempio di quanto il combo sia maturato enormemente nel corso di questi ultimi due anni, dell’abilità in chiave esecutiva raggiunta (da saggiare a breve anche in sede live) e di quanto i nostri si sentano comunque a proprio agio nella gestione di pezzi di lunga durata, con quattro tracce della durata media di 10 minuti e quanto siano eccellenti anche in quelle song che fungono da collante nel cd (“Vertex” o “Trismegistus”). I Sunpocrisy sembrano una band di veterani, che calca la scena da qualche lustro. La maturità della band si saggia anche con lo strepitoso trittico finale di brani, che partendo dalla corrosiva e schizoide “Samaroid”, si spinge verso lidi di raffinatezza esagerata, con la successiva “Samaroid/Dioramas”, in cui l’eco dei Tool è sicuramente forte, ma lo è pure la personalità dei nostri, che emerge prepotente nel corso della traccia, che fa dell’espediente emozionale iniziale, l’elemento catalizzatore, con le vocals sofferte di Jonathan, accompagnate da una ritmica dapprima malinconica, poi furente, ma sempre nostalgica. A chiudere questo capolavoro, che mette in sella i nostri nell’essere indicati come vera e propria sorpresa dell’anno (e a mio avviso anche disco del 2012), ci pensa “Dioramas” che decreta il livello eccelso raggiunto dall’ensemble nostrano, incredibili musicisti in grado di spaziare tra il post metal, un residuo quasi impercettibile di death, la psichedelia onirica dei Pink Floyd, il djent dei Meshuggah, con quelle sue chitarre polifoniche e la componente depressive stile primi Katatonia, che avevo già sottolineato nella prima recensione. Che altro dire, se non che questo “Samaroid Dioramas” è forse l’album perfetto (anche in chiave grafica con un booklet avveneristico) che attendevo da tempo immemore… Guai a voi ora se non vi avvicinerete ai Sunpocrisy. Uomo avvisato… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 95
 

Dumper - Rise of the Mammoth

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Motorhead, Megadeth
Ommadonnasanta... Nel 2012 è ancora possibile trovare in Italia un gruppo che suona in stile Motorhead, probabilmente vive e porta avanti il mito delle belle donne sedute in braccio mentre bevi una birra ghiacciata e racconti l'ultima tua fuga dagli sbirri a bordo della fedele Harley? Fino a ieri avrei detto di no, ma quando ho messo su questo "Rise of the Mammoth", giuro pensavo di essere tornato indietro nel tempo! I tre ragazzotti dal lungo passato musicale che si legge nella punta consunta dei loro stivali, si riversa totalmente nel sound e ha il suo bell' impatto. Le chitarre lente e grosse, la voce di uno che ha qualche sigaretta e whisky alle spalle, insieme ad una ritmica basso-batteria che lavorano come fratelli, faranno godere le vostre fredde orecchie. "The Melting Eye" parte con un bel riff di basso, chitarra e percussioni che lascia spazio alla psichedelia ancestrale, poi il verso di una belva dà il segnale di inizio alle danze. Grande influenza Megadeth per i nostri Dumber, comunque con una discreta dose di personalità. Anche "Drag Me to Hell" inizia con il basso e poi l'entrata dei riff di chitarra vi fanno venir voglia di aprire il gas a manetta e correre per le desertiche highways americane. E' vero che il cliché di un gruppo come i Dumper sarebbe quello di vederli ad un moto raduno di quelli mastodontici, ma l'elevata tecnica strumentale e compositiva li potrebbe scaraventare su qualsiasi palco, magari buttando giù i soliti sovrani dell' ovvio. Degna di nota la cover di “Ticket to Ride” che trasuda stile in ogni corda e forse prende un po’ per il naso i benemeriti scarafaggi. Grandi. Bravi. Vi voglio su un palco mentre la birra scorre giù e toglie la polvere in fondo alla gola, dopo ore passate in sella a bruciare chilometri. (Michele Montanari)

(Buil2kill Records)
Voto: 80
 

Mephisto Waltz - Insidious

#PER CHI AMA: Gothic, Death Rock, Christian Death
Era uno dei lavori più attesi del 2004 in ambito gothic, senza ombra di dubbio. E ammettiamolo, nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo sulla rinascita del deathrock. In una realtà discografica che negli ultimi anni ha cercato di seguire le inclinazioni di un pubblico oscuro, sempre più infatuato da contaminazioni elettroniche, nessuno si sarebbe mai aspettato un ritorno di fiamma per le polverose sonorità portate in auge da Christian Death & Co. Eppure anche le realtà musicali di nicchia sono soggette ai soliti corsi e ricorsi storici, con tanto di riesumazioni e reunion sospette che diventano immancabilmente l'argomento preferito dei fan, i quali amano farsi trascinare nelle inevitabili diatribe circa la credibilità o meno di certi veterani del "sacro verbo gotico". Nel caso dei Mephisto Walz le chiacchiere sono messe a tacere dalla qualità della musica e “Insidious” non può far altro che rassicurare anche i più scettici sull'onestà e la sincerità con le quali il gruppo ha saputo rimettersi in gioco negli ultimi trascorsi della propria carriera. “Insidious”, che segue di un paio d'anni l'uscita dell'ep “Nightingale” e di ben sei il full-length “Immersion”, non è affatto una bieca operazione di riciclaggio e nemmeno l'affannoso tentativo di rimanere a galla in mezzo a tante uscite discografiche. Al contrario, è un lavoro ben suonato e molto ben prodotto. È la dimostrazione che i Mephisto Walz hanno ancora qualcosa da dire nonostante la loro veneranda età. “A Magic Bag” è un preludio da brividi, lento e ossessivo. Tra una chitarra in tensione continua e un basso dai rintocchi funebri, la voce di Christianna si insinua sonnolenta e spettrale, accarezzando come un soffio gelido l'epidermide. Più movimentata è invece “Our Flesh”, con i suoi feedback contorti di chitarra, mentre “Watching from the Darkest Places” e “Before these Crimes” decelerano su ritmiche di nuovo plumbee e distese, palesando il volto più etereo del gruppo. Così anche “One Less Day”, adagiata su di un manto sonoro dalle increspature tenui, cede il passo alle spigolose reminiscenze deathrock di “I Want” e l'album cambia ancora una volta registro, per confluire nella danza vorticosa e dissennata di “Witches Gold”. Forse un po' anonime le ultime “Memories Kill” e “Nightingale”, ma il finale serba comunque una sorpresa con “Ombra Mai Fu”, rivisitazione cantata della celebre aria di Georg Friedrich Händel, interpretata dalla cantante Diana Briscoe. Chiudo segnalandovi la confezione digipack della versione americana dell'album, impreziosita da una realizzazione grafica molto più elaborata ed elegante dell'edizione europea. Se ne avete la possibilità, fatela vostra. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 85
 

Ov Hollowness - Drawn to Descend

#PER CHI AMA: Black/Epic, primi Katatonia, Windir
Ultimamente, sto constatando che la terra canadese rappresenta un altro territorio con un costante brulicare di band assai interessanti. Oggi ci avviciniamo ad un’altra di queste, messa ovviamente sotto contratto dalla sempre più presente (nei nostri archivi, intendo), Hypnotic Dirge Records e noi non possiamo che esserne felici. Altra one man band quella degli Ov Hollowness, quasi fosse una costante per l’etichetta nord americana; e sempre di suoni assai strazianti si parla. Il factotum di turno, ossia l’enigmatico Mark R., ci presenta sei lunghe tracce, contraddistinte da un riffing malinconico, poco pulito, ma sicuramente di forte impatto emotivo. Fin dalla opening track, “Old and Colder”, ci lasciamo condurre nel grigio e desolato ambiente creato da Mark, dove, palesemente influenzato dagli albori sonori di Katatonia, da lunghe cavalcate “burzumiane” e dall’epicità dei Windir, ha il solo rischio di peccare in termini di ripetitività. La song è infatti piacevole nei primi minuti, poi il ripetere dello stesso riff (per 9 minuti!) espone il tutto ad una certa noia di fondo, anche se tuttavia l’inserimento di alcune parti atmosferiche e di epiche partiture chitarristiche, che si sovrappongono alla ritmica di base, vivacizzano la proposta. Pensavo con la seconda traccia, la title track, di trovarmi di fronte ad un altro brano dal tocco ambient e nostalgico, invece ecco esplodere un sano black a corrodere il tutto con la sua furia, tuttavia sempre pregna di una certo flavour di cupa disperazione. “Desolate” ritorna a indurre desideri autolesionisti a chi si appresta ad ascoltarlo, con quell’alone del “Conte”, costantemente ad aleggiare sulla testa, grazie alle classiche chitarre ronzanti di accompagnamento, un efferato, quanto valido screaming e qualche sporadica comparsa di clean vocals, per un risultato finale a tratti assai valido, e che trova il suo apice nella successiva “Winds of Forlorn”, un mid tempo che, mostrando anche qualche reminiscenza di scuola Amon Amarth, riesce a dare un maggior spazio, all’evocativa prova pulita del vocalist. Lentamente ci avviamo verso la conclusione dell’album: all’appello mancano ancora “Drone”, claustrofobica song come il suo titolo può lasciar presupporre e dalla dinamica quasi suicidal. A chiudere ci pensa “The Darkness”, canzone ruvida, in linea con alcun produzioni black thrash old school e che decisamente si distacca da tutte le altre song del lotto; strana ma efficace, soprattutto alla luce di un assolo decisamente rock’n roll che si staglia su una ritmica che sembra presa in prestito da “Kill’em All” dei Metallica. In conclusione, “Drawn to Descend” è un disco valido, ma che evidenzia ancora qualche lacuna da un punto di vista compositivo. Da tenere comunque sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70
 

Taste of Tears - Once Human

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Nevermore
Sarà un caso o cosa, ma da quando lavoro in Svizzera, la mia scrivania ha visto aumentare progressivamente il numero di cd proveniente dalla Confederazione Elvetica. Questo per dire che i Taste of Tears arrivano dal paese di orologi e cioccolato e che dopo poco più di dieci anni dalla loro fondazione, giungono finalmente al tanto sospirato debutto: un death metal portentoso, arrembante, violento e carico di groove, che vede in chitarra e basso, i propri pezzi forti. Si parte minacciosi con “Ames Room” che denota immediatamente la potenza di fuoco prodotta dal quartetto di Chur. Granitici. È il primo vero pensiero che ho fatto; tuttavia una discreta dose di melodia (mai straripante a dir la verità), contribuisce a rendere il platter più digeribile, altrimenti la lunga durata dei brani, avrebbe messo a dura prova il mio ascolto. Con “Phlegraen Fields”, i nostri mostrano di non essere solo tecnici, ma di aver in serbo una serie di “sorprese” che potrà ampliare il “raggio d’azione” di coloro che si avvicineranno per la prima volta a “Once Human”: la song infatti mostra alcune similitudini con i Nevermore, anche in termini di performance vocale, dove l’ottimo growling di Ivan si alterna a clean vocals, che non mi è dato di sapere a chi appartengano, se a Ivan stesso o al secondo vocalist della band, il batterista Marcus. Deliziosa anche la componente solistica, dove trovano largo spazio aperture melodiche assai accattivanti. La title track ci mostra il lato più tecnico e cerebrale della band, con un attacco degno dei migliori act dediti a questo genere di sonorità, e con lo spettacolare basso di Gion, in palese evidenza. La song segue poi la proposta sciorinata sin qui dall’ensemble, del Cantone dei Grigioni; e questo vale anche per le successive tracce. Facciamo però una pausa su “Profound Rain” che pur muovendosi sui territori solcati fino a qui dai Taste of Tears, non può non essere menzionata per quell’inattesa intromissione da parte di una folle tromba (qualcuno si ricorda l’esordio dei Pan.Thy.Monium?), che si inserisce improvvisamente all’interno del selvaggio tappeto death. Ho dovuto riportare indietro il cd per avere la certezza di non essermela sognata, mentre la ritmica macinava km di riff tentacolari e mastodontici di scuola Pestilence. Bella anche “A Great Paradox”, una song che pur proponendo una debordante base ritmica di derivazione scandinava (Meshuggah), ha il pregio di risultare comunque un po’ più soft nel suo marziale incedere. Vorrei infine segnalare la presenza del grande Tommy Vetterli (ex Coroner e Kreator) dietro al mixer a rendere più poderosa la proposta del combo svizzero. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Saol)
Voto: 75
 

giovedì 19 aprile 2012

Odradek Room - Бардо. Относительная реальность

#PER CHI AMA: Death, Avantgarde, Doom
Per un cd come questo, scritto e cantato interamente in cirillico, permettemi di non riportare i titoli delle canzoni; mi limiterò semplicemente a citare le song come la prima, la seconda e via dicendo. Odradek Room è una strana entità proveniente dall’Ucraina, il cui nome trae ispirazione da una storia di Kafka, "Die Sorge des Hausvaters", dove lo scrittore parla di una piccola ed enigmatica creatura, chiamata appunto Odradek. Ed enigmatici ed intriganti anche questi ragazzi, di cui è difficile trovare qualcosa in rete che non sia scritto, tanto per cambiare, in cirillico. Quindi, spazio alla musica e alla genialità del combo ucraino. Mi accomodo nella poltrona del mio teatro virtuale e mi godo la musica inquietante e farneticante dei nostri, capaci sin dalla traccia che apre il disco, di coniugare sapientemente death e black (poco a dire il vero) con contaminate sonorità post metal, per un risultato probabilmente di difficile digeribilità iniziale, ma che, dopo molteplici passaggi, vi saprà conquistare per quella sua fantomatica aura. È cosa ormai assodata che le band dell’Est Europa abbiano un qualcosa in più, una carica, una cultura, delle tradizioni, che inevitabilmente riescono a convogliare nei suoni espressi. La prima song è aggressiva si, con sonorità talvolta in collisione tra loro in modo disarmonico, con cambi di ritmo disarmanti, che rappresentano il vero punto di forza del quartetto. Death, black, passaggi acustici, avantgarde e post rock collidono tutti in un punto, una sorta di buco nero che attrae tutto quanto verso di sé; cosi pure la mia attenzione viene catalizzata dalla molteplicità di colori che emergono dalle note di questi baldi giovani e vengo rapito dall’emozionalità espressa dalla musica dell’act. Quanto parte la seconda traccia, rimango estasiato dalle atmosfere “post”, da casa infestata che aprono il brano, con la voce del vocalist qui in versione pulita (peccato che il russo non sia una lingua cosi piacevole da sentire) su un tappeto vellutato di chitarre malinconiche. Un parlato in lingua madre apre la terza song, che per feeling assomiglia a quanto fatto nell’ultimo lavoro degli Ulver. Poi parte un riffing doom che per ideologia va a ricalcare le gesta dei soliti maestri My Dying Bride, senza tuttavia trovare un vero e proprio punto di contatto con i gods inglesi. Gli Odradek Room hanno una propria e ben definita personalità che emerge forte nel corso di queste lunghe e ben architettate canzoni, che evidenziano già una grande maturità da parte dell’ensemble ucraino. Convincenti, molto. E accattivanti, in quanto non è del tutto semplice suonare questo genere, senza risultare troppo ripetitivi o copiare quanto fatto da altri. Tuttavia la band, ha saputo sfornare una propria ben definita proposta che lascia ben sperare per sviluppi futuri; giusto il tempo che qualche etichetta discografica (la Solitude Productions ad esempio) si accorga di loro e sentiremo ancora tanto parlare degli Odradek Room, anche se il consiglio che mi sento di dare, è esclusivamente quello di cambiare lingua per cantare, questo per poter dar modo alla loro musica, assai poetica, di poter raggiungere masse più grandi di fan. Mezzo punto in meno per il cantato in lingua madre, tuttavia si tratta sicuramente di un ottimo lavoro, a cui vi invito di avvicinarvi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Eric Castiglia - The End Of Our Days

#PER CHI AMA: Death/Progressive/Heavy/Black
Eric è un tranquillo ragazzo romagnolo, che ha una grande passione (forse due, ma sorvolerò sulla seconda), la musica. Non solo è infatti chitarrista nei seminali Sedna, nei White Noise e chissà quant’altri progetti, ma ha pensato bene di convergere la sua voglia di suonare anche nel suo progetto solista, questo “The End of Our Days” e devo dire che il risultato è a dir poco entusiasmante. Prendendo una drastica distanza da quanto suonato nella sua band “madre”, i Sedna, Eric pesca a piene mani dal panorama mondiale, reinterpretando il tutto un po’ a modo suo e il risultato che ne viene fuori ha a dir poco del sorprendente. Se nella opening track, “God Won’t Save You” emergono delle sonorità death gothic, man mano che ci si addentra in questo lavoro emergono forti i gusti del buon Eric: Scar Symmetry, Meshuggah, Devin Townsend, Raunchy, musica djent e progressive, black ed elettronica, passando dal pop di anni ’80 e dall’heavy classico. Un pour porri di generi che hanno ben poco da condividere tra loro, ma che nella release di Eric, trovano il modo di incastrarsi alla perfezione. Esterrefatto si, questa è la parola giusta ascoltando e riascoltando il cd, che da settimane è in cima ai miei ascolti. Bravo Eric, mi hai davvero impressionato e se con “Broken Hourglass”, mi sembra di ascoltare un bel pezzo hard rock anni ’90 con delle belle vocals corrosive, con la successiva “Vaccumba” ci spostiamo in territori cyber death con il growling del mio nuovo eroe che si alterna a delle clean vocals in Scar Symmetry style. Ruffiano? Può anche essere, ma a me sinceramente non me frega nulla, anche quando il mastermind si cimenta con la bellissima e riuscitissima cover dei Talk Talk, “Such a Shame”. Vai alla grande Eric, continua cosi. Eh si perché il factotum cesenate, ci delizia con “The Seventh Gate”, song dal forte sapore nord Americano, quello del folletto canadese Devin Townsend però. E quindi potrete capire la genialità della proposta e anche la grande capacità che ha di conquistare le mie orecchie, ormai abituate a devastazioni varie in ambito black. Breve pausa strumentale di ampio respiro prima della violenza controllata di “Coward Circus” dove a fare la comparsa c’è uno screaming acido, tastieroni dal sapore black sinfonico e passaggi di velata e oscura malinconia, nonché di follia dirompente nella parte conclusiva del brano. Sono frastornato dalla capacità di picchiare ed essere al contempo eterogenei e originali. “No One Like You… Because You’re Nothing” ci conferma l’amore di Mr. Castiglia per le sonorità claustrofobiche e devastanti di Meshuggah e compagni, mentre la successiva “The Pulse of Time” sembra estratta da “Killers” degli Iron Maiden, prima di abbandonarsi in una splendida epica cavalcata strumentale, in cui lo splendido lavoro alle chitarre di Eric, si esplica in una serie di riff che si rincorrono alla velocità della luce in un orgasmo caleidoscopico. Ancora stordito dalla montagna di riff calati dal guitar hero italiano, ecco lanciarmi negli ultimi due pezzi, dove ad assurgere il ruolo di co-protagonista accanto alle chitarre ci sono anche le tastiere, ben presto relegate in secondo piano per dar modo alla furia di esplodere potentemente. A chiudere questo eccellente album ci pensa la title track, che conferma nuovamente le ottime idee di questo ragazzo che deve comparire al più presto all’interno delle vostre liste di cd da acquistare. Obbligatoriamente da far vostro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85