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lunedì 9 luglio 2018

Coexistence - Contact with the Entity

#PER CHI AMA: Techno Death, Death, Cynic, Obscura
In periodo di Palio di Siena, ecco arrivare proprio dal famoso capoluogo toscano i Coexistence, un quartetto di musicisti che conta tra le proprie fila tra gli altri, membri di Coram Lethe e Vexovoid. Quest'EP di debutto, intitolato 'Contact with the Entity' è una gran bella sorpresa per tutti gli amanti di sonorità estreme influenzate da una forta vena tecno-progressiva. Lo dimostra la splendida apertura di "Origin" e dei suo giochi di chitarra che si sprigionano nei primi due minuti e mezzo di un brano che evolverà successivamente in un sound corrosivo ma atmosferico quanto basta per scomodare non proprio facili paragoni con 'Individual Thought Patterns' dei Death, soprattutto per ciò che concerne la serrata sezione ritmica (col fretless basso in testa ad emulare le gesta del bravo Steve di Giorgio). Il quadro musicale dei nostri si completa poi con un growling che richiama lo stridore vocale di Chuck Schuldiner, mentre le chitarre s'intrecciano come spade brandite in cielo. Nonostante le molte affinità musicali con la band dell'indimenticato Chuck, non voglio affibbiare l'appellativo di band clone ai bravi Coexistence: in "Ultimatum" ad esempio, le atmosfere si fanno più cupe, con le bordate ipnotiche di basso (assoluto protagonista del disco) e batteria che provano a contrapporsi ai brevi fraseggi di chitarra creati dal duo di asce formato da Mirko Battaglia Pitinello e Leonardo Bellavista, che con i loro chiaroscuri ritmici, chiamano in causa un altro masterpiece, 'Focus' dei Cynic. È fuor di dubbio che per proporre simili sonorità, la band debba vantare poi un'indiscutibile preparazione tecnica e questo lo si percepisce lungo tutti e 23 i minuti di questo EP. La terza traccia è un intermezzo di carattere sci-fi, che prepara all'ascolto della conclusiva "Contact with the Entity II", una song ultra tecnica che vede nuovamente le pulsioni al basso di Christian Luconi dettar legge e duettare con il drumming (talvolta troppo triggerato) di Alessandro Formichi. Verso metà brano poi, irrompe uno splendido assolo (il primo di due in questo pezzone) che per un minuto infiamma gli animi dei pochi rimasti ancora scettici di fronte all'ascolto di un simile lavoro che probabilmente risuona ancora un po' troppo derivativo ma che francamente mostra una marcia in più per tutti gli amanti di tali sonorità techno death. Speriamo a questo punto che 'Contact with the Entity' sia solo un gustoso antipasto a quanto i nostri possano riservare in futuro. Io un po' di acquolina in bocca ce l'avrei già... (Francesco Scarci)

(Earthquake Terror Noise Records - 2018)
Voto: 75

https://coexistence.bandcamp.com/album/contact-with-the-entity

venerdì 6 luglio 2018

Moonreich - Fugue

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Tornano gli amici francesi della Les Acteurs de L’Ombre Productions con il comeback discografico di una delle band più interessanti della scena black transalpina. Sto parlando degli efferati Moonreich che arrivano al traguardo del quarto album con questo notevole album intitolato 'Fugue'. Il disco, rilasciato in uno splendido digipack, mostra una certa cura nei dettagli anche a livello sonoro, con una produzione cristallina da far impallidire le migliori uscite mainstream. Bombastici fino al midollo, i quattro malvagi individui, in apertura con "Fugue Pt.I - Every Time She Passes Away", si lanciano in un'autentica cavalcata black, in linea con le precedenti apparizioni della band, qui forti però di un nuovo brillante vocalist, e con una linea melodica più marcata ed atmosferica che esalta notevolmente l'esito finale. Non ero un grande fan della band prima ma credo che dopo l'ascolto dell'opener dovrò ricredermi non poco, soprattutto per la dinamicità, i cambi di tempo, i suoni, e ribadisco, una matrice melodica che talvolta sembra sfociare in un rock carico di groove. Non me ne voglia nessuno, sembrerò blasfemo, ma l'efferatezza dell'act parigino sembra (e sottolineo questo sembra) aver lasciato il posto ad un sound più accessibile anche per chi non mastica suoni estremi all'ennesima potenza. "Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away" ha un'apertura decisamente compassata prima di spostare il proprio focus verso un suono irrequieto, funambolico, avvincente, disturbato, angosciante, al punto tale da farmi sobbalzare dalla sedia. Signori, l'evoluzione fatta dai Moonreich rispetto al precedente 'Pillars Of Detestè', la trovo davvero notevole, a tratti destabilizzante. Migliorato di gran lunga il songwriting e l'approccio sonoro, qui più votato alla ricerca di una componente atmosferica, spezzata comunque da sferzanti, quanto mai malvagie rasoiate ritmiche (spaventosi i blast beat qui contenuti). Troviamo poi una forte componente malinconica, complici le immancabili chitarre in tremolo picking. Chi già mostra le prime convulsioni rispetto a questa apparente attenuazione della feralità del quartetto francese, dorma pure sonni tranquilli, visto che con "With Open Throat for Way Too Long" si torna a ritmi infuocati, inframmezzati da qualche più raro e bieco rallentamento. Poi è solo la furia indemoniata dei quattro cavalieri dell'apocalisse a governare, in compagnia delle taglienti chitarre del duo formato da Weddir e Sinaï e dallo splendido screaming del frontman. L'inizio di “Heart Symbolism”è rockeggiante, piacevole, ma è sola pura apparenza perchè da li a pochi secondi, la song esploderà in una tempesta degna dei migliori Impaled Nazarene, visto un piglio punk black da paura. La potenza continua a scorrere incessante anche in "Rarefaction", un pezzo dal break centrale inquietante quanto assai discordante. È però con “Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore” che la band tocca vette mai raggiunte prima d'ora: si tratta di un pezzo infatti che mescola con grande classe, black, avantgarde, thrash e suggestive divagazioni progressive. A chiudere, ecco gli oltre dieci minuti di “The Things Behind the Moon”, in cui la band spariglia ancora le carte in tavola con una traccia inizialmente pacata, ma provvista di una potenza di fuoco inaudita, talora schizofrenica e incontrollata, all'insegna di una ricerca tecnica che mi ha evocato gli Ephel Duath più ispirati, riletti però in chiave black. Non mancano tuttavia anche in questa song i soliti obliqui rallentamenti, le progressive e pericolose accelerazioni, nonchè una invidiabile preparazione tecnica ed una imprevedibilità di fondo che vede già 'Fugue', in cima alle mie preferenze black di questo 2018, in attesa ovviamente del nuovo album degli Anaal Nathrakh. Intanto i miei complimenti! (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2018)
Voto: 85

https://moonreich.bandcamp.com/album/fugue

giovedì 5 luglio 2018

Dark Fortress - Séance

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Satyricon, Mayhem
Quando ascoltai la prima volta questo disco pensai fosse la nuova band di Attila Csihar? Mi sorse questo dubbio perchè il vocalist della band tedesca, assoldata dalla Century Media, aveva la voce che somigliava a quella del frontman dei Mayhem. E mentre fino al precedente lavoro, proprio a questi ultimi si avvicinava il sound del combo tedesco, con 'Séance' la band teutonica propone un black di difficile catalogazione: dieci lunghe songs che viaggiano su mid-tempo, atmosferiche, dalle tinte malinconico-depressive a tratti, graffianti e gelide come il black old school in altri momenti. Le tastiere sono abili nel creare un’aura oscura attorno a tutto l’album; violini sinistri dominano la scena in “While They Sleep”, mentre le chitarre e la voce di Azathoth contribuiscono a donare desolanti e tenebrose ambientazioni che rendono 'Séance' un lavoro molto interessante pur essendo questo disco del 2006. Il gruppo tedesco fu abile nel coniugare alcuni elementi sinfonici dei primi Dimmu Borgir, con altri presi in prestito dai più recenti Mayhem e Satyricon: il risultato che ne viene fuori è un sound pesante e decisamente cupo. Interessanti sono gli interludi acustici che servono a spezzare le sfuriate black, così come inaspettati sono alcuni ottimi assoli che completano le songs. Bellissima “Shardfigures”, nona traccia dalle fosche tinte invernali, con quel suo riff di chitarra che richiama i primi lavori di Burzum ed uno spettacolare assolo di chitarra acustica, da pelle d’oca, davvero il miglior episodio dell’intero album. Anche a distanza di oltre 10 anni, 'Séance' non si rivela come un album di facile presa, ma ripetuti ascolti vi permetteranno di apprezzare al meglio questo lavoro. Spalanchiamo le porte al gelo dell’Oscura Fortezza. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2006)
Voto: 75

https://www.facebook.com/officialdarkfortress

7marzo - Vorrei Rinascere in un Lama

#PER CHI AMA: Pop Punk Rock
Soft-punkettismo ballonzolante terzomillennario, gradevolmente contaminato con un opportuno dosaggio ska ("Vorrei Rinascere in un Lama"), calypso ("Ridi Quanto Vuoi"), picchioduro (il riffone Nirvan-ico da cui scaturisce "Eva Correva"), ipodermicamente tre-allegramente-pazzerello-morto nelle linee vocali (dappertutto, a partire dalla title track) e nelle tematiche (cfr. il post-giovanilismo retrospettivo di "Ciao"), con sentori negramaramente nazional-pop ("L'Immagine del Cambiamento", cosi diabolicamente orecchiabile). Un approccio spericolatamente cantautoriale alle liriche, anche se di primo acchito apprezzerete i momenti più liricamente acuminati: forse derivativo l'interludio di "Michele" (da confrontare col monologo conclusivo di "Cara ti Amo", Elio e le Storie Tese), senz'altro condivisibile la tesi soggiacente a "Grandissimi Film Americani ("La scienziata si innamora dei nemici / e quello nero muore"), semplicemente ineffabile il singolo "Dai Passa Questo Pezzo". Ascoltate questo disco al posto di radio Deejay. (Alberto Calorosi)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.7marzo.com/

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)

mercoledì 4 luglio 2018

Palmer Generator - Natura

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock Strumentale
È già da un po' di tempo che vado affermando che la scena italica brulica nel sottobosco di band assai interessanti. Quest'oggi mi soffermerò sulla terza release firmata Palmer Generator, power trio a conduzione famigliare (trattasi infatti di padre, suo fratello e suo figlio) proveniente da Jesi che mi ha ammaliato non poco con quelle sue melodie ipnotiche, suadenti e talvolta esotiche, questo almeno nell'opening track. Quattro i movimenti inclusi in 'Natura' per 38 minuti di musica che riescono a combinare un psych rock di natura strumentale, liquido e dilatato che ci prende per mano e con i suoi suoni ridondanti, quasi dronici, ci trascina in un vortice sonico da cui sarà difficile uscirne integri mentalmente. Penso agli oltre 12 minuti della lisergica opener "Natura 1", una song che scombussola l'animo per la sua cupezza ma anche per quel suo loop che rischia di condurre alla follia, in un vuoto spinto che introduce ai suoni siderali di "Natura 2". Il sound di questo brano poteva tranquillamente fare da colonna sonora a film come 'Gravity' o 'Interstellar', grazie ad un suono guidato dall'assenza di gravità che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso galassie lontane attraverso cunicoli spazio-temporali, quei cosiddetti wormhole che a fine brano accelereranno i C, ossia la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica. Pur essendo un album di grande fascino, 'Natura' non si presenta come un disco di facile assimilazione. Lo testimonia il terzo passaggio, "Natura 3" che ci proietta nuovamente nel vuoto cosmico a interagire con creature extraterrestri (in questo caso i suoni propagati sembrano quelli del film 'Contact') laddove la temperatura si avvicina allo 0 assoluto, ma che verso metà brano, vedono i nostri provare ad invertire rotta e non certo per l'effetto di una fionda gravitazionale, semplicemente perchè i tre musicisti hanno finalmente deciso di accendere i motori roboanti della loro astronave nel tentativo di far ritorno verso la Terra ("Natura 4"). Tutto si rivelerà ahimé vano. La song è l'ultima deriva post rock ambientale che ci condurrà con i suoi rumori e sensazioni inevitabilmente fino ai confini dell'Universo. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco Records - 2018)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/

Sequoyah Tiger - Parabolabandit

#PER CHI AMA: Electro Dream Pop
Lo pseudonimo dell'autrice unirebbe la silenziosa determinazione della tigre alla innovativa intelligenza di Sequoyah, il cherokee che nei primi '800 alfabetizzò la sua tribù, con l'ambizioso intento di codificare un nuovo dream-pop, etereo, old-age, qualcosa tra una Enya che ingerisce due plegine ("Another World Around Me") e delle Warpaint che buttano giù un giro di mezcal per colazione ("Where Sm I?", ma soprattutto Cassius, senz'altro l'episodio più pop dell'album), bucolico, sì, ma a tratti anche (sub)urbano (cfr. la "Tune Yards" con le mani sporche di asfalto di "Lemur Catta" e "A Place Where People Disappear"). Di tanto in tanto i suoni appaiono invecchiati ad arte (il singolo "Punta Otok" propone un evidente carpet-tastieronismo anni '80 alla Orchestral Manoeuvres in the Dark, se qualcuno se li ricorda, però filante, come una sorta di motorik beneducato, ecco). Tra gli episodi più riusciti, la elettro-beatlesiana "Sissi" e il doo-wop stupefatto e, diciamo così, asintoticamente bipolare nella riverberante conclusione. (Alberto Calorosi)

martedì 3 luglio 2018

Runespell - Order of Vengeance

#FOR FANS OF: Pagan Black, Primordial, Agalloch
Climbing Celtic riffs clamor for control of an ebbing and flowing meter, as though a man with a small spade attempts to tame a river and is repudiated by the tragic incompatibility of his intentions with reality. Yet there is eventually a turn of the tide, forced by an immense will, a slight intervention of deus ex machina, and an ever flowing artistic license that yearns to realize results from recalcitrant ritual. Honoring its name, “Destiny over Discord” overcomes the powerlessness of the poor soul struggling against the tide, breaking its first movement's confinement with a hard pounding and finding space to deviate and move, as though cutting a secondary estuary to alleviate the flow. In small doses, Runespell abandons the Agalloch appeals above its Bathory base in favor of a Primordial persuasion that, in achieving frustrating expectation, illogically disappoints in a feeble attempt to display artistic agency.

When Runespell made its debut with 'Unhallowed Blood Oath', Nightwolf had no shortage of samey riffs and basic black metal to ascribe to his dingy dominion. With a slight handle on harnessing a hollow atmosphere, humidified by raining guitar notes and barely audible blasting moments into his swampy mix, the Australian newcomer's first attempt made for an unimpressive display of down under diligence. Nevertheless, Nightwolf plunges on with his 2018 attempt in 'Order of Vengeance', an equally milquetoast album with an equally vague title that somehow extinguishes the small and distant flicker of hope that once emanated from this bland bedroom. Where 'Unhallowed Blood Oath' had the potential to presage a pivot after an initial display of prowess, 'Order of Vengeance' plods down the same safe path, fearful of the creatures that creep in the bush and unwilling to undertake the struggle to discover a truer aspect within.

“Retribution in Iron” encapsulates everything you need to hear, to understand, and what to expect from this album. The barely audible swinging rear riffs, hallowed harmonies hailing calls to trigger blast beat charges, and a consistent melancholy lending the generic surface meaning to ferocious music leaves the listener conflicted, wondering whether to weep or shriek at this enraging cage. At the forefront are proclamations from a calm but stern vocal, unintelligible at most times but raspy enough to leave a microphone sopping with unbrushed flavor after an hour. Yet there is a second layer of conflict underpinning 'Order of Vengeance', a conflict that leaves this listener wondering whether he even wants to listen to another bland bedroom black metal band such as this after so many years of consistent, cannibalistic, and incestuous music with so little variation and exploration in this well-hidden sub-culture.

Rather than branch out, Runespell's latest attempt is a far more cloistered display of Nightwolf's vision, consistent to a fault, and leaves a listener yearning for the Agalloch worship and flagging idealism of yesteryear. With a dull and dulcet demo sounding mix that betrays the energy of this album by propelling puttering patters rather than a powerful and passionate punch, the effort and black metal zeal is apparent in some places, but is in a quiet place of studious creation rather than the overt, unsettling, vengeful, and brash individual enterprise typical of the style. Turning his sights from the most obvious groups to simulate and instead scratching somewhat beneath the surface of one of the most placid black metal coves, 'Order of Vengeance' maintains an unwavering Primordial focus that eschews epic ambiances in favor of a gait as uninterrupted by diversity, fresh ideas, and originality as a festival featuring an abandoned fifer who knows only one song. While this creates a sound that must make the album grow on the listener in order to be approached with appreciation, with some great riffing in the background of “Claws of Fate” and tremolos abound, the disheartening lack of originality throughout these forty-six minutes serves as a reminder of the talent that serves so many facets of underground metal and the ease with which a passing posing band wagoner may be spotted. 'Order of Vengeance' is replete with two-riff inanities that wash the ears in so many by-the-numbers, beaten down, and uninspiring reels that it shows Nightwolf as a formulaic well-versed musician phoning in his art and attempting to turn trash into cash.

That being said, Runespell has a sound that is steadily growing on me. In spite of its lacking originality, the pinches of nuance and improvement in formula and pacing have shown that Nighwolf has been studying and adapting his songwriting ever so slightly. In spite of the fact that every song on 'Order of Vengeance' sounds either the same as the last or generically repeats just about every old trope in the black book, underpinning many modern mechanics with a modest low-fi aesthetic, the general gist of the album plays things safe and even enough not to offend, let alone imbue itself into memory. This is best shown in the ambient and acoustic “Night's Gate”, where a most familiar string tinkle joins with the sound of distant cars hitting a freeway bump, almost beat for beat an Agalloch piece, but that would be too easy a comparison to draw. This song strips down some of the Balkan fire of Bethroned, quiets the sound of “Autumn I” by Gallowbraid, and leaves this writer scratching his head, ready to embark on a ten hour search for that single exact example of emulation. It's frustrating when a sound so typical and overdone pings so loud that it conjures a dozen responses on the radar, but this is the eternal plight of the bedroom black metal band. In spite of Occam's razor prevailing in finding the near mirror likeness of “Night's Gate” in another woefully average Australian band, Vaiya's endlessly monotonous “:W i n t e r m o o n:”, there is a larger bottleneck of ideas that needs to be addressed.

Struggling with the issues that plague so many, working in the same styled space as countless others, and attempting to force the individuality inspired by black metal out of such a counterintuitively collective culture stagnates musicians and leaves swaths of scorched earth as common and indistinct from each other as a bass guitar is in a lo-fi mix. Runespell is a product of a much larger endemic issue in the black metal underground. A misguided and misdirected hope to stand out with the crowd leaves so many broken and beaten bands by the wayside for the sole reason that they simply are not interesting or unique enough to deserve more than a cursory glance. In a style so stark in its search for solitude, so willing to praise itself for its population of lone wolves, bedroom black metal musicians seem unable to grasp the reality that they are the dime a dozen worldwide distribution of self-parodying sadness spawned from a once proud, cloistered, under-publicized, and passionate sub-culture. The internet has become the new Sunset Strip. Soundcloud, bandcamp, and Facebook are the new nightclubs filled with musicians caked in make-up hoping for a record deal, and there isn't a chick in sight. Runespell is just another here today and gone tomorrow member of a lost generation with nothing to say, further cheapening the idea of bedroom black metal in spite of some examples of fantastic musicians that Nightwolf may well consider his peers.

Eight years ago Runespell would have been one of many in the long list of listenable but impactless bedroom black metal bands, unable to hold a candle to the few stars seen as transcendent in the realm but considered capable enough to deserve its marginal success and a modest following. Eight years ago this DNA flowed through the veins of musicians in Norway, Sweden, and Germany, Croatia and Slovenia, the United States and Canada, Bahrain and Iran, Russia and Ukraine, and most of them are still around today, saturating a musical landscape with an immense elaboration on the particulars of the style. What makes anything by any of the latest in this Australian branch within this last year any different?

As much as this album starts to grow on me, digging in meek tendrils of roots that lose their grip to even a drizzle, Runespell may as well be holding up the background of a mindless low-tier video game with its music rather than strive for the lofty par set by the likes of Final Fantasy's Nobo Uematsu or Command and Conquer's Frank Klepacki. If Koei decided to create an endless series of viking hack and slash games, Runespell could easily provide the soundtrack with a reverential eruption like “Wolf.Axis” and wouldn't offend in the least after a generation of players hears these endless riffs recycling just under the sound of terribly-voiced awfully translated dialogue. Simply put, Runespell is incredibly boring, inert and soulless in its rage, and it seems this has become a common thread with some of these more atmospherically inclined Australian bedroom bands. The lack of ambiance shows how hollow and lacking in ideas these musicians are while the endless repetition shows how one-dimensional, copy and paste, their outlooks can be. Something needs to change. (Five_Nails)

Dobbeltgjenger - Limbohead

#PER CHI AMA: Indie Rock/Alternative, Queens of the Stone Age, Incubus
A Bergen, in Norvegia, non si vive di solo metal o black, esistono band che toccano altri confini con risultati interessanti, coprendosi di fantasia e mostrando qualità eccelse. La Karisma Records, etichetta splendida per uscite metal complicate e oscure, lo ha capito ed ha assoldato tra le fila della sua scuderia band geniali e bizzarre che esplorano mondi diversi, aumentando ulteriormente il valore e la quotazione delle sue release. Questo è il caso del progetto Dobbeltgjenger che accosta composizioni bizzarre ad esecuzioni musicali al di sopra della media, fatte da musicisti che amano sperimentare e mischiare generi diversi per confonderli (e confonderci) e farli rinascere in modo stravagante. Così si parte con "Tin Foil Hat", indie rock incalzante dalla vena molto sbarazzina, tra esplosioni chitarristiche noise e blues e con un cantato che ricorda splendidamente i Chambawamba più ballabili e il Beck dei tempi d'oro. "Calling Tokio" è un brano rubato dalle session di una improbabile cover dei Queens of the Stone Age, di un brano del miglior David Byrne, dal gusto esotico e psichedelico, mentre "Like Monroe" continua il richiamo alla band di Josh Homme con venature rock più suadenti e sfumature canore vicine agli Incubus più romantici. Per non annoiarsi mai ecco "Loking My Doors" dove il registro cambia ancora, il pop si fa adulto e ci si imbatte in una inaspettata soul ballad che richiama la magia di Otis Redding in "Sitting on the Dock of the Bay" e il canto alla Extreme di "More Than Words". Nel velocissimo brano "Swing", la compagine di Bergen, immedesimandosi in territori polverosi e desertici, cerca di spiegare le origini del suono dei QOTSA, proveniente dalla leggenda sonora quali sono i Fatso Jetson, mentre "In Limbo" sembra un brano dei più recenti Red Hot Chili Peppers passato però in acido, dove le forme più lisergiche ed astrali della band, venate di magma 70's, vengono fuori in massa mettendo in risalto una performance strumentale e soprattutto vocale, magistrali. "Keep'em Coming" gioca con il funky del leggendario folletto di Minneapolis, cori alla Franz Ferdinand e taglio dance da hit disco alla Parliament. Eccletismo sonoro è la parola d'ordine per questo 'Limbohead', cosi accattivante e affascinante, tutto da scoprire, musica dalle mille sfumature e tante sfaccettature, suonato benissimo e prodotto divinamente, con gusto e fantasia, come quelle racchiuse negli ultimi due brani, "Radio", che rilascia fresco rock alternativo alla maniera degli ultimi Incubus e allucinazioni in stile Beatles/John Lennon e "Mangrove", dove ritornano le strutture care alle ballate soul di classe e al funk rock dei RHCP. Un album che bisogna assolutamente ascoltare liberi da pregiudizi, valutarlo per la fantasia degli accostamenti musicali provenienti da generi diversi, la qualità d'esecuzione e per una voce a dir poco splendida. Autentica sorpresa! (Bob Stoner)

(Karisma Records - 2018)
Voto: 85

https://dobbeltgjenger.bandcamp.com/

venerdì 29 giugno 2018

Ulvegr - Vargkult

#FOR FANS OF: Pagan Black Metal, Drudkh
Curt cutting riffs viciously recycle across a range of jagged rocks and sharp turns. Gnarled and angular arboreal veins lie exposed in mimicry of Hate Forest while a flourishing and vibrant canopy slightly alludes to Drudkh's lively influence. Odalv and Helg of Ulvegr elaborate on the ever-imposing and shrilly slashing Ukrainian black metal style with the quintessential string shriek, yet prefer to minimize their impact on the forest by producing a raw and organic sound that attempts not to interfere with the chaos of nature.

Rather than harmoniously flow through each transition in 'Vargkult', Ulvegr directly injects each new guitar into its mix with tight changes that leave no room for error as each twist of the treble forms rugged pointed angles. Opening the album with an avalanche of words carefully selected from a black metal thesaurus, “Rune Ice Frozen Hatred” compliments its syllabic spew with the delirium of viciously recycling reeling stabbing strings deeply into the ear as gnarled and barked vocals attempt to claw through the center. The title of this opening track is the sort of syllabic spurge expected to proliferate in only two places: Japanese comic books and underground black metal, and I don't see any pointy hair on these two black clad brooders. Corpse-painted even into the depths of his protruding beard, one member of Ulvegr looks like a tired alcoholic parody of Gaahl regally posing with his dejected companion as they wonder if they'll be able to afford another can of paint from the local hardware store with the proceeds from this latest album or if they'll need to go Geisha Facial and break out the bird poop bucket again. Common in the raw black metal style, the background of this literal and sonic cascade is maintained by an ever energetic and uncompromising cavalcade of percussive snaps that atonally clang through the song in total disregard to the glorious harmonic charge sweeping overhead. Ulvegr is a band that gives little ground to its audience, instead preferring to arm itself against the mob with an unbreakable sonic assault.

Though bass may be starkly absent in the recording of “Rune Ice Frozen Hatred”, it is an immediate and apparent addition throughout the rest of 'Vargkult' as the rhythm guitar endures a stark change of tone and the fidelity somewhat improves. Simple, brutal, and unrelenting, Ulvegr imparts the grim intensity of tree worshiping, goat sacrificing, tourist luring forest folk that, unlike their banjo playing counterparts across the Ocean, honor an ancient and untamed land awash with generations of blood. While the squealing opening track sears itself into the ear, a more dulcet and clouded sound settles over the land in “Cold Graves Breathing Beast”, filling the atmosphere with snow while sapping the Sun of its heat as the drumming calmly chisels away with the cymbal above a cascade that finds faster footing the further into the ground it penetrates. Searching for pockets of heat in this uninhabitable hellscape, the putridity unearthed in this excavation is impossible to ignore but the shovels must continue their trench work nonetheless. Awesome blast beating in “Death is Our Law” rallies a flagging riff into a second wind that charges forth to litter the field with corpses as another aptly titled song, “Cutting off Your Throat”, elaborates on the midpoint cycling of these frantic, horrified, and simply savory riffs, even going so far as to attempt to harmonize across artillery hellfire with a barely audible additional guitar near the end of the song.

As another major change of recording quality announces the closing track, “We Remember the Blood”, the relentless simplicity grinds mental grist as much as Ulvegr unleashes its furious, hardheaded, and straightforward krieg with such zeal that its potency is not lost to the formulaic reality that “All the Sheep to the Slaughter” may as well be “Rune Ice Frozen Hatred” or “Cutting Off Your Throat” again. Furiously flaying the listener in preparation for an unceremonious execution, Ulvegr elucidates on the irreverence and stripped-down indignity of the mass grave covering 'Vargkult' in the brutal way that shows that the spray of a machine gun makes the same sound no matter who stands in front of it. (Five_Nails)

(Ashen Dominion - 2018)
Score: 75

https://ulvegr.bandcamp.com/album/vargkult

Quiet Riot - Road Rage

#PER CHI AMA: Glam/Hard Rock
Il banchetto che spaccia glammaccio sfuso (l'unoduetre introduttivo è micidiale: uno, il singolo "Can't Get Enough"; due, una "Getaway" comicamente introdotta da una specie di... sì, dev'essere un sitar; tre, "Roll This Joint" "Hold each end uh loosely / lick it up and give it a twist", nel caso vi foste scordati come si fa) è collocato esattamente di fianco a quello del ciabattino che vende scarpe da ginnasitica Mike © e Adibas ©. Osservateli entrambi. Osservate il faccino implume del nuovo frontboy James Durbin e ascoltate la sua vociottina mentre se ne sta lì a recitare la parte del cattivone rock sventrapapere. La sensazione sarà la medesima, quella che vi faceva sghignazzare ogni volta che vi capitava sotto gli occhi la bambolottosa copertina di 'Bad' di Michael Jackson. Coretti, liriche evanescenti come Ceres pisciata nel vicolo, elementari riffettoni ggg-osi degnamente accompagnati dai sempre più banali pattern di batteria di Frankie. Emergono al di sopra del pelo del ridicolo liquido la simil-zeppeliniana "Still Wild" e il quasi-power di "Freak Flag", dove non faticherete a individuare (più che) qualcosa di "The Man Who Sold the World". Ma sicuramente non ci riesce la copertina del disco. A emergere dal ridicolo, intendo. (Alberto Calorosi)

(Frontiers Records - 2017)
Voto: 50

https://www.quietriot.band/

giovedì 28 giugno 2018

Orchestral Manouvres In The Dark - The Punishment of Luxury

#PER CHI AMA: Electro Industrial
La crescente liofilizzazione degli archetipi culturali del terzo millennio raccontata nell'interessante singolo d'apertura "Isotype", introduce le svariate forme di spersonalizzazione raccontate nel prosieguo: l'uomo col cuore nel buco della imbarazzante "Robot Man", il consueto fatalismo sentimental-ambiental-apocalittico tratteggiato in "What Have We Done" (viva Trump), il decadentismo tecnologico di "Precision & Decay", volendo anche la convoluzione uomo-macchina inscenata in "La Mitrailleuse" (sarebbe un quadro futurista di C. R. W. Nevinson del 1915). I suoni dapprima chemical-fraternizzano (la pessima "The punishment of Luxury" in apertura) apertamente con certo tecnopop old school più (i Pet Shop Boys che pagano le spese di condominio di "What Have We Done") o meno (la Laurie Anderson in coda dal bottegaio di "Precision & Decay") ordinario (sentite però anche la sfrontata "Art Eats Art") per convergere verso un più rassicurante e ballatoso new romantic: gli Spandau Ballet alla fermata del tram di "One More Time", per esempio, ma anche e soprattutto le conclusive, speranzose, "Ghost Start" e "The View From Here", sprizzanti sentimenti come lampade di sentimenti e intrise di tramonti marini, new age in saldo e grida di gabbiani. (Alberto Calorosi)

(White Noise - 2017)
Voto: 60

https://officialomd.bandcamp.com/releases