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venerdì 13 settembre 2013

Light Bearer - Silver Tongue

#PER CHI AMA: Sonorità Post-
Difficile scrivere qualcosa che già non sia stato detto o scritto sui Light Bearer, ma d'altro canto con questi ragazzi va da sempre cosi, il rischio di scrivere banalità è dietro l'angolo, pertanto mi limiterò a raccontarvi le sensazioni tratte dall'ascolto di “Silver Tongue” e niente di più. Partiamo col dire a chi malauguratamente non li conoscesse, che i nostri si formano dalle ceneri dei Fall of Efrafa, mitica band inglese di post metal, per volere di Alex Cf, il vocalist, reclutando qua e là ottimi musicisti della scena. Un ottimo primo album, un EP, uno split e ora questo “Silver Tongue” che conferma l'eccellente stato di forma di Alex e soci che, con questo disco, prosegue il discorso iniziato con il precedente “Lapsus”. La solita prolissità in termini di durata si conferma anche qui, con l'apertura affidata ai 17 minuti di “Beautiful is this Burden” di cui un terzo è speso in scenari ambient, mentre il rimanente continua ad offrire la consueta centrifuga corrosiva fatta di suoni post (hardcore/sludge/metal) che da sempre la band concede. Altamente complesso il concept lirico alla base di questo lavoro, nato nel primo cd e che attraverso quest'album ci accompagnerà fino al quarto disco (e poi un nuovo scioglimento? Chissà...): vi basti sapere che le tematiche affrontano (accusandole) religione e politica, citando dalla “Bibbia” al “Paradiso Perduto” di Milton, passando attraverso la “Divina Commedia” di Dante. L'odio riversato verso la religione si propaga anche a livello musicale offrendo pezzi che uniscono suoni al vetriolo con una fluida emotività colma di una lacerante malinconia, che solo l'abilità strumentale dei nostri è in grado di donare. Rozzi, sfrontati, incazzati, i Light Bearer ci sparano in faccia il loro concentrato di cattiveria e desolazione su cui imperversa la voce growl del bravo Alex. L'ondulante muro sonoro che il sestetto britannico innalza ha dell'invalicabile e continua a mettere mattone su mattone anche nella seconda più breve “Amalgam”, in cui cenni di Cult of Luna emergono nelle sue note. Mai ritmi esasperati per carità, i Light Bearer sono maestri nello spingerci lentamente sul bordo del precipizio, farci camminare li dove esiste il flebile confine tra vita e morte. Una voce pulita apre “Matriarch” e qui, non me ne vogliano i nostri, un cenno ai The Ocean è percepibile nel giro di chitarra-basso-batteria-archi, ma niente di grave: la song è notturna, mette una certa rassicurante serenità addosso, grazie soprattutto ad uno eccellente epilogo. “Clarus” è il classico ponte che unisce la prima alla seconda parte del disco. Segue l'avvincente arroganza di “Aggressor and Usurper” e i suoi 16 minuti di martellante ferocia che poco spazio concedono alla melodia, se non nell'unico atmosferico break centrale che mi concede un attimo di respiro. Poi ecco sopraggiungere un'infernale scarica di pura violenza in cui a mettersi in luce, oltre alle caustiche vocals, vi è l'esemplare prova del batterista, Joseph Towns, a dir poco mostruosa. A chiudere il disco ecco la title track, venti minuti scarsi di tiepide aperture post rock venate da tutto quello che oggi i Light Bearer sono: sludge, hardcore, post-qualcosa, alternative e progressive, fondamentalmente dei geni incompresi. Gli insegnamenti dei Neurosis, dei Tool e dei Explosions in the Sky, confluiscono tutti insieme in questa song, raggiungendo la sua summa in un break vocale sorretto da un triste violino. Che altro dire, se non acquistare a scatola chiusa questo gioiellino. Mordaci! (Francesco Scarci)

giovedì 12 settembre 2013

Noumeno - Trapped

#PER CHI AMA: Heavy metal strumentale
Tarda mattinata di una giornata semi-coperta, fresca quanto basta, pronta per ascoltare un po' di metal di qualsiasi tipo. Mi trovo tra le mani il cd dei romani Noumeno, guardo la copertina e penso “mica male questo terzo occhio minaccioso verde brillante”; metto il cd dentro il lettore e premo play. La prima traccia, "24", si apre con un bel riff di chitarra e un rullare di batteria (trovo qualche assonanza con gli Iron Maiden) dal ritmo sempre più serrato e furioso, ideale per i fanatici dell'headbanging, che passano da un semplice assolo ad una prova collettiva di brano strumentale, con risultati veramente buoni, se non eccelsi. "Jason Becker Tribute", come dice il titolo, è un tributo ad uno dei più famosi chitarristi heavy (Cacophony con Marty Friedman, David Lee Roth), bloccato dalla SLA, ma che perpetua nel comporre brani e sfornare cd. In questo brano la chitarra viene portata agli estremi: dal tempo veloce a quello più lento, passando per il mezzo: veramente notevole. "Panda Song" ha un ritmo veloce ma non troppo, trasuda malinconia e potenza, specialmente nell'assolo di batteria, ma per il resto rimane sull'allegro andante, senza essere invadente. In "Visionary Schizophrenia" i nostrani Noumeno si avvalgono della presenza del tastierista Vitalij Kuprij (ex Artension): si arriva a rasentare il ritmo furioso e cardiopalmico, senza esagerare. "Without Fear Without Pain" si apre con note molto dolci, proprio per lasciarci respirare dopo la furia del brano precedente: qui la chitarra diventa malinconica e la batteria le fa eco; dolce e tranquillo non significa però noioso o ripetitivo... difatti la peculiarità di questo album è che le canzoni non si ripetono mai. Comunque brano più sul versante prog rock che metal. "A Sense of Agony" invece parte subito spedito, veloce, cattivo ed energico: sebbene il ritmo cambi in continuazione, il risultato è sorprendente per la capacità di saltare da un accordo all'altro senza apparente fatica. "Mind Labyrinth" invece è più introversa, più cupa, ma fondamentalmente più agitata degli altri brani: si direbbe quasi il picco di massima di questo album. In "Anger in Vain" troviamo l'apporto di un altro grande shredder italiano, Francesco Fareri: il suo assolo risulta più un vortice che ti risucchia, facendoti perdere per un attimo tutto il resto attorno. Una gran bella sorpresa che arricchisce le già eccelse chitarre. Con "Psychotic Syndrome" l'album si chiude con un sound deciso, accattivante e veloce, portato all'estremo fino alla cessazione immediata: con esso finisce anche il cd. Una fine così, però, è incompleta: ci vorrebbe qualche strascico musicale, magari note di chitarra o tastiera, tanto per lasciare un'impronta più profonda anche nella chiusura. Danilo, Fabrizio, Emanuele ed Emiliano sono riusciti a trovare un punto d'incontro, creando brani frizzanti, energici e anche malinconici. Questo album lo vedrei bene come qualche colonna sonora di qualche videogame di corse. Di sicuro è una band da tenere d'occhio: mai prima d'ora mi era capitato di ascoltare un album totalmente strumentale, ma devo ammettere che hanno veramente un grande potenziale e una tecnica spettacolare. Al prossimo lavoro, allora! (Samantha Pigozzo)


(UK Division Records - 2010)
Voto: 75

https://www.facebook.com/NoumenoOfficial

Follow the White Rabbit - Endorphinia

#PER CHI AMA: Math Progressive, Between the Buried and Me, Devin Townsend
Gli ho bramati, cercati in internet, contattati su bandcamp ma niente da fare, ad un certo punto addirittura ricercati nella loro stessa città, S. Pietroburgo; i Follow the White Rabbit erano irraggiungibili. Poi grazie a facebook sono entrato in contatto con qualcuno che è vicino alla band e finalmente questo digipack è giunto tra le mie mani. Perché cosi tanto desiderio per “Endorphinia”? Presto spiegato: questo disco è da urlo. E allora seguite anche voi con me il bianconiglio ed entrate nel mondo delle 'Matrixmeraviglie'. Dieci pezzi che si fanno strada con la delirante opening track, “The Eye Light”: dapprima oscura per poi esplodere in una serie di suoni dal forte potere disturbante. Articolati, geniali, irriverenti, signori questi sono i Follow the White Rabbit. Giusto per darvi qualche coordinata e spiegarmi meglio, potreste prendere la progressione matematica dei The Dillinger Escape Plan, la voce pulita e non dei Between the Buried and Me, l'inventiva di Devin Townsend e soci, e un bel po' di malsano e orrorifico ambient. Vi gusta? A me un sacco e dire che non sono proprio un grande fan delle band qui citate, ma vi garantisco che quando ho per sbaglio dato un ascolto a questo disco su internet, me ne sono perdutamente innamorato. Follemente evocativa la prima parte di “Few Stories of a Deserted Forest”, poi ecco impazzare nuovamente l'anarchia, Mike Patton sarebbe fiero di questo quartetto russo con vocals che viaggiano tra il growl, scream, clean ed epic (tipo ICS Vortex). Completamente ubriaco già dopo l'ascolto delle prime due song, mi metto alla guida della mia auto di notte con “Fakeface” di sottofondo: beh ecco, non fatelo mai, rischiereste di impazzire. Mathcore a tratti, stoppato da atmosfere da brivido, vocalizzi eccelsi che sottolineano l'esagerata prova di Vual Dali dietro al microfono. Visto che ci sono, ne approfitto e cito anche gli altri membri dell'act russo, elogiando la loro performance fuori misura: Cheeseass, un tarantolato alle chitarre; Zebra, elegante al basso; Trulala, monster di sicura formazione jazz, dietro alle pelli. Pura emozione quando inizia “Fakeface: the End”: la paura passa e torna a strizzarmi l'occhio la luna. Certo con i FTWR non si può stare sereni: “All Night and Day” parte piano, preludio della insania che si paleserà presto nelle mie orecchie: un dolce arpeggio solletica i miei sensi, splendide vocals e poi il tutto e niente. Splendido, parola qui di sicuro non abusata. L'attacco ai miei sensi arriva però solo con “Panic Attacks”, song feroce, graffiante, forse la più devastante del lotto, in cui anche la voce, cosi come la musica, non cede molto alla melodia. Ma la furia 'matematica' venata di punk, si manifesta anche in “The Great Worm” con urla disumane, tempi dispari, stop'n go, break acustici e violenza in perfetto annichilente stile Between the Buried and Me che fanno una jam session con i Dillinger Escape Plan. “War Song” è una tiepida traccia mentre “Zzz(Zzz)” non può che essere una dolce ninna nanna prima della conclusiva title track. “Endorphinia” mi fa ritornare dal paese delle Meraviglie o da Matrix (decidete pure voi): l'ultimo stadio della loro pazzia passa da questa catartica traccia. Assordanti! (Francesco Scarci)

mercoledì 11 settembre 2013

Cvinger - Monastery of Fallen

#PER CHI AMA: Black Old School, Marduk, Darkthrone
Un sacco di musica nuova sta giungendo alle mie orecchie in questo ultimo scorcio d'estate. Non ultimi gli sloveni Cvinger, band il cui biglietto da visita è rappresentato da questo malefico EP di debutto “Monastery of Fallen”. Si tratta di un breve 8-tracks dal forte sapore black old school, più orientato al versante svedese del termine. Il trio di Koper si scatena con taglienti riffoni black, screaming vocals spaventose ed un approccio piuttosto satanista, inneggiante la misantropia più pura e altre amenità del genere che pensavo fossero ormai state debellate anche nel circuito underground. Interessante l'approccio corale di “Among the Crucified“, quasi liturgico, che conferisce una certa originalità di fondo. La successiva saettata risponde al nome di “Salvation in the Darkest Wrath“, vorticosa song che abbina all'irriverenza del black metal anche un mid-tempo nel suo break centrale (e che ritornerà anche nel corso della title track). Non aspettatevi grandi cose dal nostro malvagio trio, questo è puro black metal e non c'è alcun spazio per la sperimentazione. Se siete in cerca di un nome nuovo in territori black perché vi siete stancati dell'enormità di band che provengono dalla penisola scandinava, gli Cvinger potrebbero anche fare al caso vostro, peccato solo che talvolta la loro musica sfoci nel caos più totale, rendendone difficoltoso l'ascolto. La feralità del combo sloveno trova punti di contatto con Marduk e Dark Funeral, senza tuttavia dimenticare un certo approccio punk tipico dei Darkthrone. Uno dopo l'altro, i brevi pezzi di questo EP, mi stordiscono e al termine dei 20 minuti, la sensazione che mi rimane è quella di aver ascoltato in realtà un full lenght della doppia durata. Cattivi quasi da far paura. (Francesco Scarci)

martedì 10 settembre 2013

Existe - Et de Longs Passages Douloureux...

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Gli Existe sono una one man band proveniente dal Canada, capitanata da Cyril Tousignant, responsabile di tutti i suoni e liriche di questo EP di quattro pezzi. Il cd si apre con una overture di tre minuti, che fa da preludio alla furia primitiva della title track, sette minuti di black che mischia sonorità old school con nuove influenze post che si concretizzano nel break che la band concede dopo il primo minuto e mezzo, fatto di suoni malvagi, un semplice arpeggio, vocals sussurrate e infine uno squarcio elettrico affidato ad una flebile chitarra, prima di un esplosivo e deflagrante finale. “...Pour une Harmonie Rechergée” ci offre altri otto lunghi minuti di sonorità post-black, belluine screaming vocals e ruvide atmosfere, che sfociano quasi nel noise. Peccato la produzione non sia delle migliori e che quindi molto spesso i suoni si impastino tra loro, facendo capire ben poco del caos sonoro che fuoriesce dai malefici strumenti di Cyr. Ciò che mi colpisce maggiormente è invece il continuo alternarsi di tempi e atmosfere; sembra quasi osservare il cambio delle quattro stagioni in un sol giorno, il che rende il risultato finale assai ricco in fatto di dinamicità. Ottimi gli intermezzi classici affidati a quei tocchi soavi di pianoforte, un pizzico di malinconia derivante dal pianto di un neonato, le voci lontane di un paese sul chiuder del giorno e le onde del mare che si infrangono sugli scogli. La musica degli Existe è interessante, ha il difetto di non esser stata assemblata nel migliore dei modi e di suonare abbondantemente raw, ma poco importa, i margini di miglioramento si mostrano assai ampi. Pertanto, andare avanti sulla propria strada è l'unica cosa che mi sento di dire agli Existe. (Francesco Scarci)

La Notte dei Lunghi Coltelli - Morte a Credito

#PER CHI AMA: Punk Rock Hardcore
Rabbia e corde tese, ecco cosa mi suscitano i La Notte dei lunghi coltelli (LNDLC). Questo per farvi capire che non mi interessa particolarmente cosa c'è dietro un progetto, se nasce dalle costole di un altro (Karim qqru dei Zen Circus in questo caso), è stato prodotto dal Papa in persona (in alcuni casi avrebbe dato risultati migliori, credetemi) o registrato nello studio più figo di Londra dove ha vomitato David Gilmur dopo una serataccia. Da tempi immemori, appassionati musicisti spremono il loro sudore, tempo libero e mille imprevisti in un unico concentrato di arte, sperando che qualcuno colga l'essenza del sacro fuoco che arde in loro fino a divorarli. Comporre e scrivere permette di placare questo prurito perenne e ognuno lo fa a modo suo. I LNDLC violentano le parole, i suoni e l'orecchio di chi ascolta, passando dal harcore spinto de "La Caduta" all'electro ambient eccentrico di "Ivan Iljc". La seconda traccia "J'ai toujours été intact de dieu" spicca per il testo francese probabilmente preso da una poesia di Jacques Prevert, ma premetto che la mia ignoranza potrebbe offendere qualcuno quindi chiedo venia... Personalmente ho apprezzato "D'isco deo", che parte già carica di rabbia che trapela dal monologo iniziale, mentre un tappeto di chitarra e synth creano un'atmosfera pronta a lanciare il brano. Questo non succede e dopo cinque minuti ti rendi conto che sei alla fine e comunque il brano ha il suo perchè. Forse il pezzo più intimo e tribale dei LNDLC. L'ultima traccia, che prende il nome dalla band, chiude questa "Morte a Credito" in una specie di outro elettronica, come voler mettere la calma alla fine della tempesta. Idee buone, messe in pratica a modo loro che possono rapire o lasciare indifferenti chi ascolta. (Michele Montanari)

lunedì 9 settembre 2013

Deconstructing Sequence - Year One

#PER CHI AMA: Extreme Progressive Death, Solefald, Arcturus
Si affacciano sulla piazza volti verso un pubblico dal palato recettivo per sonorità non certo lineari questi Deconstructing Sequence. Risparmiamoci pure eventuali arrovellamenti neuronali alla ricerca di trovare similitudini e fonti di inspirazione varie (sport amatissimo dai recensori... ma che dico, da chiunque ascolti la nostra musica preferita!): infatti basti dare un’occhiata veloce alla loro pagina FB per ritrovarvi nomi noti dell’ambito extreme a trecentosessanta gradi, quali Emperor, Nile, Akercocke, Arcturus e avanti così, ai quali mi permetto di aggiungere qualcosa dei Solefald. EP intenso, composto da tre pezzi di durata importante (tra i 7 e gli 8 minuti abbondanti) e artwork omaggio al film “Another Earth” (veri e propri fotogrammi della pellicola). Che dire, i ragazzi, che si definiscono alfieri di extreme progressive art, ci danno dentro: suoni molto moderni, siderali in diversi passaggi, che trasmettono senza troppa fatica l’idea di un viaggio a bordo di immense navi spaziali, attraversando il cosmo alla ricerca di una nuova realtà. Ritmiche rocciose ben disposte ad accelerazioni mai fuori luogo, intrecciate con chitarre zanzarose, momenti più tecnici affatto ruffiani (anzi, al limite del calustrofobico) inframmezzati da aperture sparate e campionature in alcuni casi al limite del cinematografico (ovviamente fantascientifico), con vocioni digitalizzati a descriverci i misteri di supermassive blackholes e via discorrendo. Insomma, di carne al fuoco ne hanno messa molta questi ragazzi ed il desiderio di chi scrive è che l’EP sia seguito a breve da un full-lenght che non perda nulla di quanto ascoltato fin qui, semmai arricchito da qualcosa in più, concretizzabile mediante un numero maggiore di tracce. Unica nota stonata è rappresentata dal terzo e conclusivo brano del dischetto, che francamente sembra esser sbucato dal nulla, completamente estraneo alla gran prova fin qui sostenuta dai Nostri, quasi come un riempitivo, un tappabuchi dal minutaggio corposo, che lascia l’amaro in bocca dopo le ottime aspettative maturate durante l’ascolto dei primi due pezzi e motivo del voto non brillante, sicuramente penalizzato da questo elemento. Peccato, ragione in più per attendere un eventuale album a venire. (Filippo Zanotti)

Bernays Propaganda – Zabraneta Planeta

#PER CHI AMA: Alternative, Post-Punk, Gang Of Four
Terzo album per i macedoni Bernays Propaganda che, forti di un’intensissima attività live in tutta Europa, continuano sulla strada già tracciata dai precedenti lavori, ovvero un “punk-funk” piuttosto tirato, e fortemente caratterizzato da quelle che sono le tematiche sociali care al gruppo, gravitante in un’orbita “anarco-ambiental-femminista-straight edge”. La loro proposta musicale si basa su una forte impronta new wave/post punk, con ritmiche incalzanti e molto “ballabili”, linee di basso belle spesse, chitarre funkeggianti e (non troppo) dissonanti e una voce femminile a declamare con convinzione i propri testi, spesso e volentieri nella lingua madre. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, dato che i Gang of Four queste cose le fanno da una trentina d’anni, ma l’inizio è molto incoraggiante, con le sferzanti “Progrešno Zname” e “Makedonski Son” che mostrano un bel piglio allo stesso tempo danzereccio e rumoroso al punto giusto. Poi, però, spiace dirlo, c’è qualcosa che sembra incepparsi, e la macchina non gira più del tutto a regime. Suonano sempre con convinzione e precisione, i Bernays Propaganda, ma si trovano presto ad avvolgersi su loro stessi, come se fossero un po’ scarichi e ripetitivi, forse a causa di pezzi non sempre all’altezza. Sono sicuro che la dimensione giusta per apprezzarli sia quella live, dove certamente sono in grado di far emergere una personalità che su supporto invece appare un po’ frenata, raffreddata, e riesce ad emergere solo a tratti (come ad esempio in “Bar Kultura”). La più interessante variazione sul tema arriva con il brano di chiusura, “Leb i Igri”, che nel suo oscillare tra pianoforti dissonanti, ritmiche forsennate e fiati free, sembra indicare una possibile e più intrigante via per il futuro, magari nel solco tracciato dagli immensi The Ex, una delle band di riferimento del genere, nel quale per il momento i Bernays Propaganda stanno ancora un po’ nel mucchio. Un album discreto che, dimezzato nel programma e nel minutaggio, sarebbe potuto essere un ottimo Ep. (Mauro Catena)

Immanent – In Acedia

#PER CHI AMA: Progressive Rock, To Mera, Hammers of Misfortune, Fates Warning
La prima cosa da dire è che questa band francese ha tanta voglia di emergere e si sente dal lavoro compositivo che sta sotto al loro primo lavoro in studio dal titolo "In Acedia". Album uscito nel 2012 autoprodotto, carico di suggestioni progressive, dagli accenti metallici e lievemente decadente. Non si debba pensare al solito impasto gotico/metal progressivo, (noi li vedremo bene paragonati ai To Mera) dove il metal è filtrato da innesti di puro rock progressivo giocati spesso sulle note del piano della brava cantante Anastasiya Malakhova che a tratti porta la musica della band vicina al magico e irraggiungibile mondo progressive dei Catapilla, '70s cult band inglese capitanata dalla stravagante e oscura Anna Meek. L'intero album è in continua evoluzione e si passa facilmente da atmosfere sulfuree a scorribande elettriche con il vizietto del tecnicismo chitarristico, per approdare a momenti cristallini di melodie e arpeggi di chitarra classica davvero d'effetto. Ed è proprio in questi intensi momenti in cui la band mostra maggiore maturità, dove la voce inafferrabile di Anastasiya esce allo scoperto con tutte le sue qualità e dona un velo d'avanguardia astratta all'insieme sonoro. Il classicismo del suo piano macchiato di jazz è la marcia in più, in questo disco che soffre un po' nella registrazione delle parti più pesanti e metal, con suoni un po' spenti soprattutto nelle ritmiche delle chitarre con uno stile troppo retrò e sempre rivolte al prog metal degli anni '80 (vedi Queensryche/Fates Warning), anche se molto più godibili negli assoli. Un ascolto approfondito ci fa notare l'ottimo lavoro svolto da tutti i musicisti e le loro qualità: inseguimenti ed evoluzione degli strumenti a suon di scale e tanta tensione (complice il tono drammatico del cantato) fanno tornare alla mente certe cose degli Hammers of Misfortune (periodo Church of broken glass) anche se ribadiamo che avremmo voluto sentirli con un taglio sonoro più d'avanguardia, futurista e con suoni più attuali ovviamente senza perdere quel soffio di underground che li contraddistingue da mille altre band. Comunque il lavoro suona decisamente bene, ispirato e l'ultimo dei quattro lunghi brani del cd dal titolo "The Demon of Acedia" è forse un ottimo emblema sonoro per capire l'intero lavoro. Adorabili e originali, tecnici e intensi...un disco che cattura lentamente e che merita un ascolto deciso e una buona concentrazione. Un album impegnativo e solo per palati fini. (Bob Stoner)

(Self - 2012)
Voto: 75

http://immanent.bandcamp.com/

giovedì 5 settembre 2013

Sofy Major – Idolize

#PER CHI AMA: Noise, Hardcore, Sludge, Melvins, primi Mastodon, Unsane, Dozer
I transalpini Sofy Major dopo varie vicissitudini mettono in campo questo loro nuovo lavoro contornato da tanta ambizione e sotto l'ala protettrice di Dave Curran (Unsane, Pigs). L'ottima qualità del lavoro si sente al primo ascolto: i nostri si muovono a proprio agio fondendo hardcore, stoner rock e sludge in un magma sonoro ricco di richiami anni '90. Sarà la parentela geografica, ma ricordano molto per un certo modo di vedere, la musica estrema dei Treponem Pal, non a caso si sente distante chilometri che sono francesi. Il trio esaspera bene le sue influenze e tutto suona quadrato e nitido passando dalle sonorità di certo alternative alla Jesus Lizard fino ai succitati Unsane con un tocco noise di scuola retrò, stile Helmet. Tutto questo rende il disco molto dinamico e nervoso, una forma sonora in continua apprensione, tra sfuriate punk di nuova generazione e rumore dalle tinte alternative. L'intero lavoro supera i quaranta minuti e si concede anche una apertura al noise ambient molto bella e inserita nella scaletta nel punto giusto dopo i primi tre brani suonati all'arma bianca. La seconda parte di "UMPPK" suona come un brano scarnificato degli One Dimensional Men di un tempo, sormontato ad un brano degli stoner rockers svedesi Dozer. Non del tutto originale ma ben fatto, cosi come la successiva "Slow and Painful" che sembra nata da un abuso di musica stoner. Si stacca leggermente dagli stereotipi stoner "Coffee Hammam" e il brano sperimentale "Seb". Il brano "Platini" riporta il punk alternativo in casa Sofy Major, ma la formula stoner/hardcore/noise li seguirà fino alla fine (la chiusura del disco è assegnata a "Power of their Voice" cover dei Portobello's Bones) dando conferma e anche una certa stabilità all'intero disco. In totale un buon percorso sonoro, forse un po' carente di personalità in alcune parti e non sempre originale, ma ben orchestrato e ben suonato... Da ascoltare... Un lavoro ben fatto! (Bob Stoner)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 70

Un disco che trasuda volontà e personalità da tutte le parti, a partire dalla sua genesi. Il trio francese, dopo un paio di release minori e un full lenght nel 2010, si era trasferito a New York City per lavorare al nuovo disco presso i Translator Studio di Brooklyn. Peccato che, lo scorso ottobre, l'uragano Sandy abbia raso al suolo l'intero studio di registrazione e tutto il lavoro fatto dai Sofy Major: fortunatamente, grazie all'aiuto di Dave Currane (Unsane, Pigs) e della scena locale, hanno rimesso insieme i pezzi e messo in stampa questo "Idolize". Volontà e personalità, dicevamo: perché non è facile fondere insieme con successo il suono dello sludge con la violenza del post-hardcore, la follia noise dei Melvins con i Mastodon e i Tool, e inondare il tutto di fuzz e di riff memorabili. Non è facile proporre un crossover di influenze ed uscirne comunque a testa alta, con uno stile che resta originale e personale pur nel citazionismo (a volte esagerato: l'inizio di "Comment" assomiglia un po' troppo a "Gardenia" dei Kyuss, per dire). I Sofy Major sanno come muoversi bene in questo territorio pericoloso e poco definito ai confini tra lo sludge, l'hardocore e il noise. Tolta l'atmosferica "UMPKK Pt. 1" e la sperimentale "Seb" che sembra uscita dritta dritta dall'ultimo disco dei Melvins, "Idolize" si muove su ritmi veloci e potenti, dando prova di grande perizia tecnica (le prime note di "Aucune Importance" mi hanno fatto quasi pensare all'ennesimo disco math), di capacità compositive per una volta davvero originali ("Bbbbreak", la disturbante "Platini"), di idee chiare anche quando il riffing si avvicina più alle cadenze doom ("Steven The Slow", la parte centrale di "Coffee Hammam"). Aggiungete una produzione impeccabile nel rendere il calore e la violenza del genere, e avete la ricetta di un disco che girerà parecchio nelle vostre orecchie. (Stefano Torregrossa)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 75

http://sofymajor.bandcamp.com/album/idolize

Wildernessking - The Writing of Gods in the Sand

#PER CHI AMA: Post-Black, Wolves of the Throne Room
Il post-black è definitivamente il fenomeno dell'anno. Se anche dal Sud Africa mi arriva del materiale (peraltro interessante) dedito a queste sonorità, devo per forza decretare la globalizzazione di un genere che è sorto da quei suoni provenienti dal West US, in quella zona detta Cascadia, grazie ai Wolves of the Throne Room. Il resto è storia recente, con eccellenti realtà spuntate come funghi in tutto il mondo (una su tutte, i Deafheaven). E ora eccomi recensire il debut cd dei Wildernessking, band di Città del Capo che, grazie all'Antithetic Records, ha avuto modo di pubblicare questa loro release. Giunto tra le mie mani, il digipack autografato dei nostri, si presenta assai minimalista in termine di colori (bianco e nero), mentre in fatto di suoni, vengo immediatamente investito dal sound acido e corposo di "Rubicon (The Fletting Vessel)", song che mette in mostra subito una buona produzione con i suoni degli strumenti ben bilanciata, in cui emergono delle chitarre piuttosto lineari su cui si stagliano corrosive vocals ad opera del bassista Keenan Oakes. La proposta è appunto un black venato di influenze post-metal e suoni progressivi, con citazioni che spaziano dal desolante sound dei Cult of Luna, al black "made in USA" dei già citati WotTR, per un risultato che ha comunque del sorprendente. "Discovery (Chasing the Gods)" è un bel pezzo che vive dell'alternanza tra suoni mid-tempo e sfuriate black, che mette in mostra nel suo interno un intermezzo acustico che può rievocare gli ultimi Enslaved, mentre la successiva “River (Nectar of Earth)” ha un che di apocalittico nel suo primordiale incedere. “Utopia (Throne of Earth) apre con un bel basso in primo piano, la song non è troppo corrosiva e un po' si discosta da quelle ascoltate fino ad ora, se non per l'abrasivo cantato di Keenan e poi c'è quell'apertura ambient nel suo ventre che ci dona un senso di pace, prima dell'assolo finale. “Surrender (The Ages)” è un altro pezzo più meditativo e intimista, che lascia si spazio alla violenza, ma è anche pervaso da un forte senso di malinconia. Siamo agli sgoccioli e ci rimangono a chiudere la potente traccia strumentale “Reveal (Nightfall)” e la lunga “Infinity (And the Dream Continues...)”, song notturna nella sua prima metà e più irsuta nella seconda parte. Che dire, se non auspicare che i Wildernessking ce la possano fare a mettersi in mostra in questo mondo cosi globalizzato, in cui però le barriere molto spesso sono assai difficili da valicare. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)