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giovedì 12 luglio 2018

Engulf - Gold and Rust

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Suffocation
La Everlasting Spew Records torna con un nuovo EP della one-man-band americana degli Engulf. Hal Microutsicos, il polistrumentista che si cela dietro a tale moniker, rilascia 'Gold and Rust', secondo lavoro per la band del New Jersey, offrendo altri 11 minuti abbondanti di suoni schizoidi che hanno in Gorguts e Morbid Angel, i principali punti di riferimento del mastermind statunitense. Tre pezzi che si aprono con la frastagliatissima e dinamitarda "Maul", il cui attacco frontale richiama inequivocabilmente gli "Angeli Morbosi" (e anche i Suffocation), ma che per un'andatura un po' obliqua e dissonante, scomoda qualche paragone con la techno band canadese. Il risultato è una song dai ritmi serratissimi che accende la miccia nel generare una forte ansia interiore durante il suo ascolto. La veemenza del musicista americano (rafforzata da un growling cavernoso) prosegue anche nei tre minuti di "Misshapen Abomination", in cui il riffing subisce rallentamenti vertiginosi, prima di ripartire più incazzato che mai. Siamo già al terzo brano, e l'urticante "Sovereign to the Seven Underworlds" ha l'ingrato compito di chiudere un cd che vuole essere l'antipasto (il secondo a dire il vero) per un album di durata più appetitosa. In attesa del full length, lasciatevi investire dalla brutalità degli Engulf, capaci di portarvi sull'orlo del dirupo e spingervi con delicatezza verso il vuoto. (Francesco Scarci)

(Everlasting Spew Records - 2018)
Voto: 65

https://everlastingspewrecords.bandcamp.com/album/gold-and-rust

lunedì 9 luglio 2018

Coexistence - Contact with the Entity

#PER CHI AMA: Techno Death, Death, Cynic, Obscura
In periodo di Palio di Siena, ecco arrivare proprio dal famoso capoluogo toscano i Coexistence, un quartetto di musicisti che conta tra le proprie fila tra gli altri, membri di Coram Lethe e Vexovoid. Quest'EP di debutto, intitolato 'Contact with the Entity' è una gran bella sorpresa per tutti gli amanti di sonorità estreme influenzate da una forta vena tecno-progressiva. Lo dimostra la splendida apertura di "Origin" e dei suo giochi di chitarra che si sprigionano nei primi due minuti e mezzo di un brano che evolverà successivamente in un sound corrosivo ma atmosferico quanto basta per scomodare non proprio facili paragoni con 'Individual Thought Patterns' dei Death, soprattutto per ciò che concerne la serrata sezione ritmica (col fretless basso in testa ad emulare le gesta del bravo Steve di Giorgio). Il quadro musicale dei nostri si completa poi con un growling che richiama lo stridore vocale di Chuck Schuldiner, mentre le chitarre s'intrecciano come spade brandite in cielo. Nonostante le molte affinità musicali con la band dell'indimenticato Chuck, non voglio affibbiare l'appellativo di band clone ai bravi Coexistence: in "Ultimatum" ad esempio, le atmosfere si fanno più cupe, con le bordate ipnotiche di basso (assoluto protagonista del disco) e batteria che provano a contrapporsi ai brevi fraseggi di chitarra creati dal duo di asce formato da Mirko Battaglia Pitinello e Leonardo Bellavista, che con i loro chiaroscuri ritmici, chiamano in causa un altro masterpiece, 'Focus' dei Cynic. È fuor di dubbio che per proporre simili sonorità, la band debba vantare poi un'indiscutibile preparazione tecnica e questo lo si percepisce lungo tutti e 23 i minuti di questo EP. La terza traccia è un intermezzo di carattere sci-fi, che prepara all'ascolto della conclusiva "Contact with the Entity II", una song ultra tecnica che vede nuovamente le pulsioni al basso di Christian Luconi dettar legge e duettare con il drumming (talvolta troppo triggerato) di Alessandro Formichi. Verso metà brano poi, irrompe uno splendido assolo (il primo di due in questo pezzone) che per un minuto infiamma gli animi dei pochi rimasti ancora scettici di fronte all'ascolto di un simile lavoro che probabilmente risuona ancora un po' troppo derivativo ma che francamente mostra una marcia in più per tutti gli amanti di tali sonorità techno death. Speriamo a questo punto che 'Contact with the Entity' sia solo un gustoso antipasto a quanto i nostri possano riservare in futuro. Io un po' di acquolina in bocca ce l'avrei già... (Francesco Scarci)

(Earthquake Terror Noise Records - 2018)
Voto: 75

https://coexistence.bandcamp.com/album/contact-with-the-entity

lunedì 11 giugno 2018

Neuraxis - Trilateral Progression

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind, Cryptopsy, Despised Icon, Cephalic Carnage
Non mi sono ancora ripreso dalla batosta dei Berzerker, che già mi trovo costretto a recensire e farmi maciullare le orecchie da un altro combo dedito al death/grind, ossia i canadesi Neuraxis, band di Montreal attiva oramai dal 1994 e con parecchi album sulle spalle (questo è il quarto di sei). Dopo una breve intro, la rabbia distruttiva del quintetto nord americano si scatena in ogni sua forma: il sound proposto dalla band è un death violento, ma iper-tecnico che sfocia spesso in sfuriate grind, contrapposte ad inserti melodici dal vago sapore scandinavo. Rispetto al passato però, nonostante l’eccelsa tecnica della band e probabilmente al caparbio desiderio di strafare per andare oltre al precedente ed eccellente 'Truth Beyond', ho la sensazione che il combo canadese abbia perso un po’ di smalto e di idee. Non intendo affermare che 'Trilateral Progression' sia un brutto album anzi; però, data la sua estrema compattezza e monoliticità, il combo del Quebec ha perso un po’ di verve e originalità che ne contraddistingueva i passati lavori. Il platter è sicuramente interessante con tutte le sue peculiarità: chitarre tritabudella, voci growl contrapposte a demoniache scream vocals, schegge grind, accenni melodici, inserti techno death che richiamano il sound degli ultimi Death. Quello che alla fine mi lascia un po’ perplesso è quella sensazione, troppo spesso vissuta, di “già sentito” che ammanta l’intero disco. Ad ogni modo, 'Trilateral Progression' riuscirà sicuramente a soddisfare i fan della band canadese perchè, oltre a godere di una splendida produzione, comunque racchiude tutte le caratteristiche di una delle più valide e sorprendenti realtà nell’ambito della musica più estrema accanto ad altri mostri sacri quali sono i Cephalic Carnage... Annichilenti!!! (Francesco Scarci)

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

martedì 8 maggio 2018

CodeRed - Dominions of Our Deceitful Beliefs

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Morbid Angel, Nile
Uscito originariamente autoprodotto nel 2013, 'Dominions of Our Deceitful Beliefs' rappresenta l'album di debutto dei CodeRed, combo proveniente dalla Transilvania. Se la label rumena Loud Rage Music lo sta riproponendo rimasterizzato, un perchè ci deve pur essere, e allora lanciamoci all'ascolto di un lavoro che affonda le proprie radici nel death di scuola americana, quella che rincorre un nome su tutti, i Morbid Angel, non tralasciando poi Nile e Suffocation. È proprio da qui che il quartetto di Braşov parte, srotolando nove tracce (rispetto all'originale c'è una bonus track, "I'm the One") all'insegna di tecnica, brutalità ed improvvisazione, dato che già dalla seconda "Symptoms of General Decay" (ma anche successivamente in "Crowd Control") emergono chiari riferimenti al jazzato di Atheist e Pestilence, qui deprivati di quella forte componente melodica che regnava nei migliori album di quelle due mitiche compagini. Il sound proposto dai CodeRed è generalmente più dritto, affidandosi a ritmiche serrate, vocalizzi aspri in stile Vader e al classico sound chitarristico a la Morbid Angel: vi basti ascoltare l'opener "At His Appearance Dark Red" o la terza "Way of Nibiru" per trovare i punti di contatto con la band floridiana e quel sound tanto in voga a metà anni '90, ma quando poi si arriva alla porzione solistica, ecco che anche echi dei primissimi Cynic emergono forti e chiari dal nevrotico caos sonoro generato dai quattro musicisti rumeni. Ora mi è più chiaro il motivo per cui la Loud Rage Music ha voluto riproporre questo cd, perderlo probabilmente sarebbe stato davvero un grosso peccato. (Francesco Scarci)

lunedì 7 maggio 2018

Spectral - Neural Correlates of Hate

#PER CHI AMA: Techno Death, Spawn of Possession, Pestilence
Formatisi nel 2007, i rumeni Spectral arrivato all'agognato debutto sulla lunga distanza addirittura dopo oltre dieci anni, grazie al supporto dell'attivissima Loud Rage Music. Le coordinate stilistiche lungo le quali si muove il trio di Piteşti, formato peraltro da un membro dei CodeRed (che presto leggeremo su queste pagine), sono quelle del techno death, grazie a nove brillanti tracce che iniziano ad incendiare l'aria già con "Artificial Storage, una song che chiama in causa Pestilence e Necrophagist, giusto per fare un paio di nomi. Le linee di chitarra sono vertiginose, la voce di Andrei Calmuc bella abrasiva, e il comparto affidato alla contraerea di Romain Goulon, il batterista, davvero notevole. Non dovete immaginare però un campionario di velocità furibonde o ritmiche super-pestate perché i nostri sciorinano un bel po' di tecnica a completamento del proprio assetto da guerra. Splendida a tal riguardo la porzione acustica di "Ashes to Dust", cosi come la sua parte solistica, una song da paura che merita tutto il vostro ascolto e rispetto in una cavalcata di quasi nove minuti di montagne russe, certo non la più semplice delle passeggiate, considerato il genere. Il disco continua poi offrendo questo campionario di soluzioni artistiche tra stop'n go da lasciare senza fiato, elevatissime dosi di tecnica individuale, incursioni brutal death di scuola Spawn of Possession o annichilenti partiture di ultra techno death che evocano anche gli Obscura. Alla fine, 'Neural Correlates of Hate' è francamente un ottimo album di fresco ed intenso techno death metal che oltre a protendersi verso il brutal (nella title track ad esempio), arriverà anche a sconfinare nel progressive deathcore, offrendo la raffinata proposizione del genere dalle sapienti ed allucinate (ascoltatevi "Hallucinatory Authorization") menti di questi Spectral. (Francesco Scarci)

martedì 1 maggio 2018

Hacride - Amoeba

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash Progressive, Meshuggah
'Deviant Current Signal' è stato il debut album dei transalpini Hacride, esempio eclatante di come fosse ancora possibile suonare death thrash senza essere assolutamente banali. Già con il loro album d'esordio, si erano rivelati band dall’enorme fantasia compositiva e dalle spiccate doti tecniche. 'Amoeba', il loro secondo lavoro del 2007, non fece altro che consolidare le certezze acquisite da quel primo lavoro, e proiettare il quartetto francese nell’olimpo delle band dedite a questo genere di sound, affiancando i maestri di sempre Meshuggah, ed esplorando inoltre territori cibernetici (Fear Factory docet) e, udite udite, grazie alla collaborazione con la band di flamenco, Ojos de Brujo, proporre anche una cover di folle “death flamencato”; esperimento quanto mai riuscito, pur ammettendo una certa diffidenza iniziale. Come sempre il punto di partenza della band è il death/hardcore dalle ritmiche sincopate, ricco di stop’n go, in cui s’insinuano frangenti acustici, sfuriate brutal, ambientazioni industriali e passaggi in cui un sound, carico di groove, ha la meglio sulla nostra psiche, e, impossessandosi dei nostri corpi, ci impedisce di stare fermi. Dieci tracce che ci schiacciano come piccole formiche, dieci tracce che fanno saltare come pazzi furiosi. Il vocalist, Samuel Bourreau, prende spunto dai vocalizzi del suo esimio collega svedese, cercando spesso di travalicare gli schemi, proprio come accade in “Zambra”, la cover a cui accennavo precedentemente, in cui canta addirittura in stile ska. L’intero disco, nonostante la sua monoliticità, viaggia su questi binari, regalandoci perle assai interessanti di un death/thrash futuristico per quegli anni. Da sottolineare l’ottima parte centrale del disco che si conclude con la graffiante “On the Threshold of Death”, brano che ci consegna una band matura e consapevole delle proprie potenzialità. Un’eccellente produzione, presso “L’Autre Studio”, chiude un disco dalle enormi capacità distruttive. Gli Hacride, pionieri del death del futuro? Credo proprio di si. (Francesco Scarci)

domenica 22 aprile 2018

Pestilence - Spheres

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death, Atheist, Cynic
È sicuro che non avete mai sentito una definizione più cretina di "death-jazz". Vi viene voglia di indagare. Frastornanti cambi di ritmo trituraossa, un marcescente piede nel culo a qualunque, anche blanda, ambizione melodica (con la notevole eccezione della nebulare "Personal Energy"), dissonanti architetture tastieristiche intrusive ("The Level of Perception") o batteriologicamente ambientali (gli interludi di "Mind Reflections" ma anche le tre strumentali "Aurian Eyes", "Voices from Within" e "Phileas", rigenerati da strumenti a corda) e un chitarrismo alieno, groove ("Changing Perspectives") o un prog-metal quasi generalizzato. Il tutto sinterizzato nella conclusiva, onnicomprensiva "Demise of Time", senz'altro la canzone più straordinariamente vitale e autolesionista di un'intera carriera. Niente più soffocamenti e purulente lacerazioni: 'Spheres' si presenta come una sorta di concept sulla percezione e la conoscenza (non perdetevi la scemenza new-age di "Personal Energy") emananti dalle misteriose sfere cosmiche raccontate in "Spheres" (la canzone), sorta di tondeggianti monoliti di kubrickiana memoria. L'album fu massacrato dai critici e odiato dai fans. Di conseguenza la band rimase inattiva per quindici anni (e non per sempre, come avrebbe invece dovuto). Se al pari del sottoscritto non sapete nulla e non volete sapere nulla di death metal, ascoltate comunque questo album: non vi sarà difficile individuare comunque la sua intrinseca specificità. E magari apprezzarla. (Alberto Calorosi)

(Roadrunner Records - 1993)
Voto: 75

https://pestilenceofficial.bandcamp.com/album/spheres

sabato 24 marzo 2018

Sundran - S/t

#PER CHI AMA: Post/Techno Death
Il post metal non ha ancora esaurito tutte le sue cartucce. Dalle più svariate parti del mondo continuano infatti ad emergere nuove realtà devote a questo genere e ai soliti maestri Isis e Neurosis. La band di oggi arriva dal Canada, West Coast per l'esattezza. I Sundran sono infatti un trio di Vancouver, formatosi quattro anni fa e con all'attivo un EP, 'Another Place', e questo nuovo omonimo album di debutto. Partiamo subito col dire che, sebbene si citino Mastodon e Gojira tra le loro influenze, francamente poco o nulla di questi riferimenti ho trovato nella musica dei nostri. Si perché, "Diving" e soprattutto la seconda traccia, la title track, palesano nel loro "tiepido" incedere, influenze mai troppo celate provenienti piuttosto dai bostoniani Isis. Una ritmica lenta e fragorosa, stemperata da una musicalità sempre all'insegna di una ricercatezza melodica, urla potenti ed un'ambientazione costantemente cupa e misteriosa, con raffinati giochi di chitarra che potrebbero semmai richiamare i Tool nei loro chiaroscuri, costituiscono gli ingredienti chiave della musica dei Sundran. La voce del frontman si conferma uno dei punti di forza dell'ensemble canadese, cosi come le sezioni introduttive cosi atmosferiche di ciascun brano. "Vexed" è pezzo bello pesante: ritmica compassata, qualche cambio di tempo, soprattutto quello che interrompe con una deflagrazione post-black, l'avanzare angosciante dei tre musicisti. Buona l'idea di tenere incollati tutti i pezzi tra loro come se ci fosse un sottile filo invisibile che li tiene uniti l'uno all'altro. Ecco perché non mi accorgo neppure che nel frattempo sia esplosa nel mio stereo la psicotica "Scavengers", visto questo flusso continuativo del disco. Forse qui emergono alcune citazioni che riportano ai Gojira, con quelle sue chitarre sincopate e una veemenza generalizzata che avvolge l'intero lavoro e alla fine mostra ottimi spunti in un ambito che sembrava aver detto tutto o quasi. Il sound è qui davvero grosso, il classico muro imperforabile che ci introduce alla quinta song, "Impasse", una scarica adrenalinica di tre minuti di chitarre ribassate, un cartavetroso screaming che si alterna con un growling assai possente. Il sound si fa comunque sempre più poderoso e nella strumentale "The Fly", sembra essersi tramutato definitivamente in bordate death metal, a cui aggiungerei anche l'aggettivo techno. A chiudere il disco, ci pensa "Sink", l'ultima mastodontica traccia che si muove tra sonorità sludge, post-metal, black e techno death, che rappresenta la summa di un cd davvero intrigante che ha l'ultima sorpresa in serbo per noi, ossia la riproposizione di tutti i brani in formato strumentale. Come prima opera, direi decisamente ben fatto. Mi tengo però mezzo punto più basso, perché credo fermamente nelle potenzialità ancora inespresse di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 75

sabato 10 febbraio 2018

Fragarak - A Spectral Oblivion

#FOR FANS OF: Techno Death
One of the things I really like from Internet, is the chance of discovering bands from unusual metal scenes. Back in time, it was almost impossible to find them, but nowadays, it’s great to be aware about bands coming from very far countries. Something I also realized is that quality doesn’t know about political or geographic limits, which is great. 

A good example of this fact is given by the Indians Fragarak. The band´s initial inception goes back to 2011, when two young musicians, called Karikeya and Ruben, co-founded Fragarak, deciding to express their musical ideas. The band didn’t become a complete entity until the arrival of Arpit and Supratim. From the very beginning, the aim was to create a very intense sound, technically and melodically complex. Ideas were flowing constantly so in less than one year, the act was capable of releasing a very solid debut entitled 'Crypts of Dissimulation'; it was 2013. Their first effort received very good reviews which strenghtened their ambition to push the sound forward. 

Two thousand and seventeen was the year of Fragarak comeback, with the release of their sophomore album called 'A Spectral Oblivion'. The improvement is clear since the very first moment, even the artwork looks more elaborated and complex. Another aspect which is clear as soon as you listen to the album, is that the guys had tons of ideas to propose, considering that the new Lp contains eleven long songs, lasting more than 80 minutes. I am not a huge fan of such a long albums, but I must admit that Fragarak is capable of maintaining a good level through the whole work, which is something very respectable. Musically speaking, the release is a more refined work, although their early ideas haven´t changed. Their offering is a technical death metal with progressive metal influences, very rich details and with a gloomy and an atmospheric touch. Each song has many changes of time and twists, which made this album a gem, though it requires several listens to be fully enjoyed. “This Chasing Masquerade” is a good example of what I am saying, being one of my favourite tracks: Supratim´s powerful and solid growls are accompanied by excellent and intricate riffs with great melodies. Those melodies change from time to time, from the most brutal and complex sections to the most melodic ones. Apart from that, the ensemble tries to enrich their songs with some good arrangements, like acoustic sections or some choirs with quite somber clean vocals, as in the opener, “In Rumination I-The Void”, or in the epic track “Of Ends Ethereal”, that could represent fine examples of this. I do enjoy those arrangements because they give an atmospheric touch to the album. Due to its length, I imagine as a part of the concept behind the music, the band includes some short interludes which look like moments of calm in the middle of an oceanic storm. Those tracks are mainly acoustic and sometimes include also female vocals (the closer “Ālūcinārī IV-The Fall”) with an interesting ethnic touch. It’s really nice when a band coming from a country with a very different culture tries to include in their music, a slice of their heritage. 

In conclusion, Fragarak´s sophomore album is a step forward in every aspect. Both musically and composition wise, this is a very elaborated and consistent work. Furthermore, the production, which is excellent, only enhances the strongest aspects of the band´s music. My only little complain is related to the album´s length which in my opinion is a little bit excessive, but who can complain if the level is very good from the beginning to end? (Alain González Artola)

(Transcending Obscurity India - 2017)
Score: 85

sabato 13 gennaio 2018

Abhordium - Omega Prayer

#PER CHI AMA: Black/Death, Belphegor, Behemoth
La Finlandia non è solo patria di band dal suono ricercato, folk, prog o power avanguardistico, è anche il luogo d'origine di mostri sacri quali Impaled Nazarene, Horna, Behexen e Azaghal, tutta gente che sa di certo come far male. A quest'ultimo stuolo di band black/death si aggiungono anche gli Abhordium, band che arriva con questo 'Omega Prayer', al traguardo del secondo Lp, proponendo un concentrato sinistro di blackened death metal. Nove i pezzi a disposizione del quintetto di Salo per mostrare i muscoli e la malignità che contorna i pezzi qui inclusi. Si apre con la ritmica frenetica di "The Chronology of Decadence" che sembra individuare nel techno death, la sfera in cui la compagine finnica si muove. In realtà, nell'apocalittico sound perpetrato dai nostri, ci sento un che degli ultimi Immortal unito a un death tiratissimo e brutale che si confermerà anche nelle successive "Channeled be My Hate" e "Asebeia", due brani diretti, killer e brutali, che non lasciano scampo. Si continua a pestare sul pedale e il canovaccio non sembra cambiare nemmeno con "Obsidian Chamber" e "Perpetual Desertification", altri due esempi di come si possa suonare veloci, ferali e assassini, proponendo un death metal che in un qualche modo sembra comunque contaminato dalle melodie glaciali del black svedese, quello dei Setherial e dei Dissection per intenderci, o di gente come Behemoth o Belphegor. Insomma, credo che sia piuttosto semplice da inquadrare la proposta del tutto genuina dei cinque musicisti finlandesi che tuttavia hanno qualche cartuccia in canna da sparare: proprio in quest'ultima citata "Perpetual Desertification", song più compassata delle precedenti, il tiro cambia e va rallentando, colpendo il bersaglio peraltro con dei chorus quasi dal sapore liturgico/esoterico che frizzano il mio giudizio conclusivo sull'album, spingendomi ad una più approfondita analisi del disco, e riponendo per qualche minuto nel cassetto, i miei giudizi su un lavoro che fin qui era risultato troppo monocorde. E di fatti, le sorprese sono dietro l'angolo anche con la marziale "At the Highest Temple" che contribuisce a rendere ancor più interessante il cd, che troppo velocemente e ingiustamente, avevo bollato come semplicemente death metal. Spettacolare infatti la traccia, cosi atmosferica nel suo incedere spettrale e orrorifico. Si torna a mietere vittime con un approccio più death oriented, all'insegna di blast-beat belluini con "Dreary Touch of the Void" e "From the Depths I Slithered", sebbene le vocals si muovano invece in territori più devoti allo screaming del black. Peccato che le sperimentazioni si siano già perse, torneranno però nell'ultima title track che ci informa che gli Abhordium hanno tutte le carte in regola per poter offrire qualcosa di originale e che spesso soffermarsi in superficie è quanto di più sbagliato ci sia al mondo. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 70

venerdì 22 dicembre 2017

Kera - Hysteresis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Meshuggah, Opeth, Death
Album di debutto per i transalpini Kera questo 'Hysteresis', che conferma come la Francia sia diventato un territorio di artisti dotati di una creatività fuori dal comune. No, non sto già incensando questo lavoro, faccio pure e semplici constatazioni in base al numero di uscite discografiche di elevata qualità che ogni giorno escono dal paese dei nostri cugini. Ma non divaghiamo e torniamo ai Kera, quintetto di Parigi, che ha all'attivo un EP omonimo uscito nel 2015. Il genere dei nostri è un death progressive che dopo una breve overture, irrompe con "Harbinger of Doom", una traccia che si muove su ritmi sincopati, che potrebbero strizzare l'occhiolino ai Meshuggah, cosi come pure ai Death, ma che in realtà non lo fanno fino in fondo. Questo perchè dai solchi di questo lavoro, escono sonorità diverse che provano a mischiare la veemenza del death poliritmico forgiato dai gods svedesi con la tecnica sopraffina di altre divinità, i Dream Theater, in un sorprendente sound in grado di fondere rabbia, melodia, tecnicismi e ancora death, hardcore e progressive. La proposta corrotta da varie influenze, si traduce anche nell'utilizzo di vocals sia growl che pulite, qui decisamente meno convincenti. Quello che invece convince e non poco, è l'apparato solistico che delizia le orecchie con assoli deliziosi e fantasiosi, cosi come in aperture acustiche (spettacolari a tal proposito, gli ultimi tre minuti di "Silence") che suggeriscono gli ultimi Opeth quale punto di contatto con i nostri anche se in realtà sono gli anni settanta ad aver sospinto la voglia di stupire di questi musicisti. Con "Sanity Fails" si torna a far male con un approccio votato ancora a Chuck Schuldiner e compagni, con un altro pezzo dritto verso il bersaglio che trova modo di rompere il suo disarmonico incedere, solo attraverso un altro spettacolare assolo. Si arriva cosi alla semi-acustica (nella prima metà) "Epiphany of a Lunatic", in cui sembra aver a che fare con un'altra band, un altro genere, altri musicisti, un altro cantante, prima che si torni a pestare sull'acceleratore, dimenticandosi di quelle soffuse melodie che avevano deliziato in apertura di brano. Poi ci si può solo accomodare in poltrona e lasciarsi stupire dalle scale ritmiche su cui si arrampicano i nostri, in un climax ascendente ricco in emotività e sorprendenti divagazioni che sembrano uscire dalla chitarra del buon Carlos Santana, in una miscela di rock, blues e fusion, tenendo sempre ben presenti le radici estreme della band. Con "Sirens" si torna sui ritmi sincopati "death-meshugghiani" iniziali, in un altro vortice sonoro in cui a mettersi in luce oltre all'onnipresente apparato percussivo, anche un ottimo basso, in una sequenza impressionante di stop'n go e schitarrate elettriche da lasciare a bocca aperta. C'è ancora tempo e modo per lasciarsi impressionare da questo ensemble francese: mancano infatti a rapporto "Delusion", "Compos Mentis" e "Silence (Slight Return)". Se la prima non mi convince più che altro per la performance vocale urlata o meglio strozzata in gola di Ryan Salahou, o per dei cori non proprio azzeccatissimi, non si possono certo sollevare grosse obiezioni alla seconda in fatto di irruenza, melodia e comparto solistico, un po' meno per via della voce, che probabilmente rappresenta a questo punto, l'elemento debole dell'ensemble francese. Non tradiscono infatti gli assoli, sempre ficcanti e travolgenti. Il disco dopo quasi 50 minuti, giunge alla conclusione con un'ultima perla di rock semi-acustico che paga decisamente dazio a Mikael Åkerfeldt e soci con un'altra preziosa performance di death carico di groove. Ben fatto, non c'è che dire. (Francesco Scarci)

giovedì 28 settembre 2017

Nile - Legacy of the Catacombs

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Per chi conoscesse poco dei primi quattro album dei Nile, la Relapse Records rilasciò nel 2007 'Legacy of the Catacombs', raccolta “best of” per la band statunitense che includeva brani provenienti da 'Amongst The Catacombs of Nephren-Ka', 'Black Seeds of Vengeance', 'In Their Darkened Shrines' e 'Annihilation of the Wicked', oltre ad un bonus DVD con tre video ufficiali, “Execration Text”, “Sarcophagus” e “Sacrifice Unto Sebek”. Cosa però dire di una band, che solo pochi oramai non conoscono e che in vent'anni è diventata la numero uno nel panorama metal estremo? La raccolta pesca qua e là nella discografia dei nostri, mostrando la loro evoluzione sonora, ossia il cammino che dalle rive del Nilo li ha portati fino alle porte dell'inferno. Gli esordi dei nostri, e intendo quindi brani come “Barra Edinazzu”, “Howling of the Jinn”, “Masturbating the War God” e “Black Seeds of Vengeance”, sono caratterizzati dal famoso stile egizio, fatto sì di brutalità, ma con quegli intermezzi atmosferici legati alla tradizione egizia, che li ha resi famosi nel music biz. Man mano che progrediamo con le produzioni più recenti della band, il sound si indurisce ulteriormente (come se ce ne fosse stata la necessità), abbandonando quasi del tutto quei tipici fraseggi orientali che caratterizzavano il sound del trio americano, lasciando il posto ad un ultra tecnico brutal death, che nel mondo non credo abbia rivali. I tre video invece? Beh, sono tutti da scoprire... Se siete dei fan della band, immagino che i loro dischi li abbiate tutti; se invece siete dei novelli deathsters, beh qui potreste aver modo di capire di che pasta sono fatta i Nile. Al mondo non esistono rivali. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2007)
Voto: 75

https://www.facebook.com/nilecatacombs

martedì 26 settembre 2017

Erupdead - Abyss of the Unseen

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death
Sono rimasto un po' stupito di fronte a questa uscita della Czar f Bullets, death metal nudo e crudo per una band alquanto datata nella scena svizzera. Si tratta dei basilesi Erupdead, in giro dal 2007 e con all'attivo un EP, uno split con i Total Annihilation, e che con questo 'Abyss of the Unseen', raggiungono i due full length nella loro discografia. Del genere abbiamo già detto, un ferale death metal che si evolve lungo le nove tracce contenute, che partono peraltro all'insegna della melodia accattivante di "Fucked Up", una traccia che poi ci spara in faccia tutta la propria furia tra sgroppate infauste, frustate ritmiche e qualche buona apertura carica di groove in stile Dark Tranquillity. Il tiro si fa ancor più incendiario con la seconda "Guns and Roses" (buffa la scelta di questo titolo per una song cosi incazzata) e forse ancor di più con la frenetica "Temple of Baal", dove le voci si palesano sia in growl che con un arcigno screaming. Il problema di fondo dell'album però è che non trovo abbia granché da dire in un genere che in trent'anni credo che abbia esplorato in lungo e in largo tutto lo scibile musicale e che 'Abyss of the Unseen' alla fine arrivi fondamentalmente fuori tempo massimo. Non posso negare che non ci siano cose discrete: il solismo di "Bolon Yokte 'K' uh" non mi dispiace affatto, cosi come l'approccio doomeggiante di "Me First: The Gentleman" che ritornerà anche nella conclusiva title-track. La ricerca di una maggiore forma di originalità ha prodotto "Private Rearmament", una song in cui accanto al grugnito di Sebbi, compaiono anche delle spoken words su un tappeto ritmico come sempre devastante ma che spiccano anche per una certa ricerca in fatto di melodia. Si continua a pestare con "Unhumanizer", una song che mette in luce il lavoro alla sei corde da parte delle due asce, cosi come il mostruoso e dispendioso armeggiare dietro alle pelli di Atz, che sicuramente premiano a livello tecnico le capacità della band. Il resto? Normale amministrazione all'insegna di un death pirotecnico e brutale che tuttavia necessita di una spinta addizionale per poter emergere dalla massa. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/erupdead/

giovedì 7 settembre 2017

Amentia – Scourge

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Necrophagist, Exhumed
A distanza di sei lunghi anni dal precedente ottimo 'Incurable Disease', la band di Minsk mostra una forma smagliante innalzando ulteriormente il tiro nei confronti della qualità della loro proposta. Dediti da sempre al verbo del technical/brutal death, in questo nuovo 'Scourge', i quattro musicisti giocano al meglio le loro carte calando sullo spartito tutta la loro esperienza di settore. I nostri si presentano questa volta con un prodotto altamente tecnico, violento, d'impatto e assai intenso da ascoltare a tutto volume, con variegati e stimolanti paesaggi sonori, taglienti e sinistri, comandati in maniera egregia, dalla voce gutturale dell'ottimo vocalist Zubov. L'act biellorusso si è poi fatto aiutare da una registrazione che permette tranquillamente di seguire ogni singolo strumento e che mette in evidenza le doti canore quanto le articolate peripezie artistiche del chitarrista Artyom che usa come mitragliatrici, chitarre ossessive e demoniache, uscite tra la follia dei Psyopus e il taglio macabro di Exhumed e Necrophagist, unite a venature di stampo death più classico. Perfetta la sezione ritmica con una batteria supersonica e un basso molto interessante, dal sapore decisamente sofisticato e dalla tecnica raffinata, cosa che offre decisamente parecchia verve all'insieme sonoro. Non sarà l'originalità con cui si distinguerà il combo bielorusso ma sicuramente gli Amentia verranno apprezzati per la bravura, la peculiarità e la personalità con cui costruiscono le loro composizioni, che sempre risultano vive e mutanti ad ogni ascolto. Ottima anche la produzione che opta per un sound reale e umano evitando quel suono finto e ipercompresso che a volte si tende ad utilizzare nel genere. La copertina è ben fatta e decisamente a tema, il disco mostra una durata giusta che si aggira intorno alla mezz'ora e con l'apertura affidata all'iniziale "Kill Me" e alla successiva "I Don't Believe" (brano peraltro stupendo con assolo spettacolare!) che insieme a "Sentence Executioner", rappresentano i tre brani simbolo di un album tutto da scoprire ascolto dopo ascolto, per una band che merita veramente tanta attenzione. In un mare di imitazioni e finti musicisti, gli Amentia risultano come un'isola felice. Entrate in sintonia con il significato del loro moniker e gustatevi la follia nascosta tra le note di questo ottimo 'Scourge'. L'ascolto è quanto meno dovuto! (Bob Stoner)

mercoledì 16 agosto 2017

Anakim - Monuments to Departed Worlds

#PER CHI AMA: Techno Death, Nile, Obscura, Atheist
Ci ha impiegato ben sei anni la band di Weymouth per rilasciare il famigerato album di debutto. Sei lunghissimi anni, in cui mi sembra che il combo inglese si sia dedicato piuttosto agli altri progetti di cui fanno parte i membri della band, Imperium, Guerrilla, Basement Torture Killings, Chainsaw Castration ed Oncology, giusto per fare qualche nome. E dai moniker di queste band si potrebbe anche evincere il sound che gli Anakim vanno a proporre. Ma infiliamo 'Monuments to Departed Worlds' nel lettore e vediamo di che pasta sono fatti questi cinque ragazzoni britannici, dediti ad un brutal techno death dalle tinte progressive. Lanciandoci all'ascolto di "Sands of Oblivion", la song che viene subito dopo l'intro, non si viene infatti assaliti da velocità supersoniche o da grotteschi attacchi di brutal death gorgogliato dalla classica fognatura dei sobborghi di una qualsiasi città disagiata del mondo, gli Anakim ci offrono infatti un death melodico che prende le distanze da un po' tutto quelle sonorità estreme che saturano la scena. I suoni sono ritmati, le voci ovviamente growl e fortunatamente riusciamo ad evitarci il pig squeal vocale che mi infastidisce non poco. Le chitarre tessono trame ricercate soprattutto a livello solistico, peccato solo che il suono rischi di risultare eccessivamente ovattato e non sia cosi semplici isolare, almeno mentalmente, ogni singolo strumento, con un risultato alla fine parecchio impastato. I nostri proseguono nel picchiare che è un piacere anche nella successiva "Xenognosis", che evidenzia la ricercatezza inseguita dai nostri con un misto di tribalità sorretto da mastodontiche bordate ritmiche (spaventoso a tal proposito, il lavoro di Ewan Ross alla batteria, anche se non mi convince al 100% il suono che ne viene fuori - e non per la tecnica - ma per una certa vicinanza a 'St. Anger' dei Metallica) e rasoiate chitarristiche. "Wraith" è un po' più diretta nel suo approccio, mostrando i muscoli del quintetto del Dorset, con un apparato ritmico bello robusto che vede anche nelle linee di basso del bravo Ant Ridout, un valido alleato a costruire un muro sonoro che ammicca agli Obscura come punto di riferimento per i nostri. La song, dopo un delizioso assolo di Joe Ryan, assume connotati più psichedelici con una spettacolare break centrale e un finale da applausi. Bravi, bravi davvero: non è facile proporre pezzi tostissimi e lunghi senza rischiare di sfiancare l'ascoltatore. Il macello sonoro prosegue con la più canonica "Born of the Serpent's Tongue", una song che a parte i repentini cambi di tempo, non ha altro con cui mettersi in luce, e allora meglio skippare a "Diluvian Wrath" e al riffing acuminato con cui apre, che lascia il posto ad un sound stritolatore frantuma ossa, che in questa song ha un che di ossessivo e ansiogeno. Fortuna nostra è la presenza di uno splendido break acustico che taglia quella tensione che stava dilaniando i miei ultimi neuroni superstiti, per lanciarsi ad un finale più rockeggiante, reso più brillante da uno splendido assolo heavy. Un sound che avvicina i nostri ai Melechesh, prende il sopravvento in "Before the Throne of Ereshkigal", una song che richiama palesemente la mitologia sumera e il mito di Ereshkigal, moglie di Nergal e dea degli Inferi, una canzone che si muove tra un arzigogolato techno death in stile Nile e velati riferimenti black. "The Ouroboros Cycle" strizza infine l'occhiolino al techno death di Atheist o dei primissimi Cynic, mantenendo comunque intatta la carica distruttiva degli Anakim, soprattutto nella seconda metà del pezzo. Si arriva con le ossa ormai maciullate alla conclusiva "Child of Chaos" e mi rendo sempre più conto che affrontare quasi un'ora di suoni cosi potenti, è impresa ardua. Ci pensa l'ultima traccia a lanciarsi in un ultimo arrembaggio a cavallo tra black e death, a sancire cosi la fine di un primo divertente (ma impegnativo) lavoro di debutto per questi interessantissimi musicisti inglesi. Ben fatto. (Francesco Scarci)

mercoledì 19 luglio 2017

Sepulchral Whore - Everlasting Morbid Delight

#PER CHI AMA: Death Oldschool, Morbid Angel, Death
A fresh death metal band from Brazil that plays on the thrashier end of the spectrum, Sepulchral Whore indulges in Hell's irreverent depravity in “Everlasting Morbid Delights” as it pays homage to the early progenitors of this most obscene style.

Nowhere is Death so near as in “Horrifying the Weak”, with what sounds like a slower version of the “Born Dead” riff from “Leprosy”, or “In Slumber they Succumb”, where the band beats the unforgiving snare into a mechanical mechanism before setting off some hair-raising and original soloing that gives little nods to the guitar gods of yesteryear. The very Morbid Angel sounding opening in “Malicious Conflagration”, produced just like the bassy and rolling guitars in “Covenant”, becomes a raw and open echo across an imposing hall and begins a vocal delivery that sounds like it's giving a speech to an unholy army about its latest ambition for conquest. In a heavily accented and echoing voice the lyrics do get a little awkward at times while attempting to finish a lyric after the sound has already outrun what was written down, like when vocalist, Necrospinal, says “let's breathe antagonism”. Despite these minor wonky moments, the great chanting of “no mythical devotion, deny the holy whore, spreading damnation, we set hellfire at this torch” is very engaging and uplifts this thrashier aspect of Sepulchral Whore's death metal. The only time that Sepulchral Whore turns down its hellacious hedonism is in the instrumental “Rotten Wings of Creation” where the airy sound of Iron Maiden's “The Clansman” meets a medieval Iberian theme to create a sinister tone within an apocalyptic soundscape. It's easy to hear the Iron Maiden bass flourishes rising to the top of this song as this diversion from the band's norm seems to lay some groundwork for an engrossing evolution in this band's future.

The personality expressed through “Everlasting Morbid Delights”, and its almost giddy reach to profane anything presenting propriety, makes this an invigorating and refreshing first EP from a band with great potential and solid preparation that seems to take its time getting things right before heading into the studio. Having started in 2015 and only just releasing its first album in May of 2017, Sepulchral Whore seems set to secure a solid spot in many a death metal fan's music rotation and to keep the oldschool sound alive and well. (Five_Nails)

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Una death metal band nuova di zecca proveniente dal Brasile che suona tra le più violente nel genere: si tratta dei Sepulchral Whore che si abbandonano all'irriverente depravazione dell'Inferno con il loro 'Everlasting Morbid Delights', debut album che rende omaggio ai progenitori di questo stile estremo.

Da nessuna parte i Death sono mai stati cosi vicini come in "Horrifying the Weak", con quella che suona come una versione più lenta del riff contenuto in "Born Dead" estratto da 'Leprosy'. In "In Slumber They Succumb", la band picchia in modo spietato in un vortice meccanico da far rizzare i capelli, offrendo poi una porzione solistica assai originale che allude ai mostri sacri della chitarra. Un sound in stile Morbid Angel in apertura di "Malicious Conflagration", ammicca alle chitarre ribassate e roboanti di 'Covenant', come se echeggiassero in modo crudo e aperto in un'imponente sala, laddove incominciano delle ferali vocals che sembra stiano facendo un discorso ad un esercito blasfemo circa le loro ambizioni di conquista. Con una voce fortemente enfatizzata, le liriche si mostrano talvolta un po' scoordinate tra testi e musica, come quando il vocalist Necrospinal canta "respiriamo l'antagonismo". Nonostante questi rari momenti in cui i nostri sembrano vacillare, il bombastico canto di "nessuna mitica devozione, nega la santa puttana, diffondi la dannazione, mettiamo il fuoco infernale a questa torcia" si rivela invece assai coinvolgente evidenziando l'aspetto più spietato del death metal dei Sepulchral Whore. L'unica volta che i Sepulchral Whore virano dal loro edonismo infernale è nella strumentale "Rotten Wings of Creation", dove il sound arioso di "The Clansman" degli Iron Maiden incontra una melodia iberica medievale a creare un tono sinistro all'interno di un paesaggio sonoro apocalittico. È facile sentire nei pezzi il basso in stile Iron Maiden che si eleva sul brano, e questa deviazione dallo stile del gruppo sembra porre le fondamenta per un'evidente evoluzione nel futuro della band. 
 
La personalità espressa attraverso 'Everlasting Morbid Delights' abbinata a quell'irriverenza di fondo che caratterizza la band brasiliana, rendono questo primo EP sicuramente dotato di una certe ventata di novità ed energia, che sottolinea la prestazione di una band dotata di un grande potenziale e di una solida preparazione tecnica, una band che sembra peraltro necessiti di prendersi tutto il tempo necessario prima di tornare in studio. Con le registrazioni iniziate nel 2015 e la release del primo album solo nel maggio del 2017, i Sepulchral Whore sembrano destinati ad assicurarsi un solido posto nelle rotazioni musicali di molti fan mantenendo vivo e vegeto il sound della vecchia scuola death metal. (Five_Nails - free translation by Francesco Scarci)

martedì 18 luglio 2017

Khazaddum - Plagues Upon Arda

#FOR FANS OF: Techno Death, Nile, Morbid Angel
“The Halls of Khazad-Dum” echo with war drums and swell with petulant, diminutive creatures whose bellies protrude from overindulgence and whose culture has an unquenchable thirst for beer and spilled blood. Clad in shining regalia and wielding weapons of the iron they mine beneath the Misty Mountains, the dwarves of Middle Earth are a battle-born race whose women look like men and whose men look like pocket-sized viking warriors.

From the opening of 'Plagues Upon Arda' it is already apparent that this album is thick with blasts and takes a sarcophagial Nilotic approach as measures range from growls and raging percussion to shrill vocals and long ringing solos, emanating as though transcribed from ancient calls to hack and slash. Khazaddum is a very energetic death metal band with a focused and straightforward sound, as though organized by the foreman ordering striking pickaxes and the architect designing gigantic monuments to great warriors. Exploring Tolkien's 'Lord of the Rings' lore through the eyes of the mountain-dwelling dwarves, this band has a goofy gimmick with a strong musical backing that seems to only intersect within the lyrics while much of the rest of the sound finds itself not embracing the theme, but basking in the African river's current. The theme and delivery come closest to joining in “Lord of Isengard” and “Legion of the White Hand” where the riffs are nearly identical but the frenzy of Saruman's minions stands apart from the larger, more imperial sound of the sorcerer's own anthem. This somewhat lacking intersection is the main flaw in 'Plagues Upon Arda' where in nine songs there are more samey moments that seem set to fill time rather than keep the listener guessing or the album replayable, especially in comparison to the personality expressed in Khazaddum's debut EP, “In Dwarven Halls”.

There are some fun moments throughout these forty minutes. The sawing opening to “The Fell Rider's Scourge” gets hammered by a litany of cymbals and snare, the galloping churn of a metal steed rides you to soloing nirvana in “Masters of the Plains”, and the operatic crescendo of “The Black hand of Gorthaur” finally hits the epic and powerful mixture of the ancient and new that the band had been unlikely to reach throughout the album. On the whole though, the music does not seem to share the same wavelength as the theme and has trouble weaving the legendary tapestries of its narrative namesake despite the reams of material from which the band may capitalize. This is the main fault in Khazaddum. These musicians are clearly adept at their craft, driven and focused on creating in a very demanding and intense style, but the creativity is lacking in places that could see this group building another step upward rather than standing in the same place as the band that it clearly styles itself after. Nile gives a larger presence to its theme throughout its storied discography, and that thematic presence is rarely reflected throughout Khazaddum's first full-length.

Khazaddum is a competent band but this dwarf-themed death metal sounds too close to its idol to really give this album a unique kick. The gimmick is unfortunately in merely the lyrics as this band plays a mirage of Nile riffs to Glen Benton's gutturals and backs it with a mountain of drumming. Altogether Khazaddum is your average extreme metal group with a few standout moments that is at a common creative confluence in its career, choosing whether to propel itself into greatness or to stagnate and call this album its peak. 'Plagues Upon Arda' is an adequate death metal offering but, like the theme, the presentation only jumps out at its audience on paper while the music remains par for the course. (Five_Nails)

(Self - 2017)
Score: 65

domenica 2 luglio 2017

Dead Season - Prophecies

#PER CHI AMA: Thrash/Progressive, Nevermore, Anacrusis
Francia, tanto per cambiare. Questa volta però non siamo al cospetto di una qualche band di black metal avanguardista, visto che i Dead Season propongono un concentrato sonoro che volge il proprio sguardo ad un thrash sicuramente robusto ma dai tratti progressivi. Questo è certificato dall'iniziale "The New Man", apripista del secondo album 'Prophecies'. L'approccio del quintetto di Lille evidenzia immediatamente quanto i nostri siano potenti musicalmente, innalzando un muro sonoro enorme, allo stesso tempo rivelando di essere dotati di una certa vena prog. Da un punto di vista vocale poi c'è un'alternanza tra cantato growl, scream ed uno pulito di "arcturiana" memoria. A livello ritmico, oltre a quello dei chitarroni, è notevole anche il lavoro del bassista e del fantasioso apporto del drummer. Mi aspettavo qualcosa da un punto di vista solistico, ma qui non è pervenuto. I riffoni di "Blood Links Alienations" ci introducono ad una canzone di per sé oscura, che evidenzia ottime melodie di fondo con un lavoro in background delle chitarre davvero maestoso, che tra cambi di tempo, ceselli vari, stop'n go, il tutto viene poi esaltato dalla performance vocale del carismatico leader, a rendere la proposta di questi cinque musicisti, di assoluto valore. Se devo trovare qualche punto di contatto della band transalpina con altre in giro per il mondo, i primi nomi che mi vengono sono sicuramente i Nevermore e gli Anacrusis. Mi lamentavo di una penuria di assoli, ma l'attacco di "Prohibition of God" non può che rendermi felice: i nostri danno infatti prova di come si possa coniugare thrash metal con sonorità alternative, con echi di Faith No More e Korn che si combinano con un rifferama a tratti devastante, ed un finale affidato al ruggito delle chitarre e ad un poliedrico cantato che nello stesso frangente, utilizza growl, scream e clean vocals. Dirompenti, non c'è che dire, anche in versione più dark, come nella successiva più compassata "Homogenetic", una traccia che sembra evolvere verso lidi math con ritmiche schizofreniche e pattern jazzati inseriti in un contesto death metal. Imprevedibili, ecco un altro aggettivo da aggiungere alla sfilza di complimenti che si potrebbe attribuire al combo transalpino, visto che in un bridge atmosferico di basso, fa capolino anche una voce femminile. Poi i Dead Season ripartono per la tangente con suoni deviatissimi, che innalzano ancora il livello qualitativo di un disco che forse corre il solo rischio di essere un po' troppo lungo e complesso. "Guidestones" è una funambolica traccia che si muove tra speed metal, alienanti rasoiate black/death, progressive e tanto tanto altro. Di carne al fuoco qui ce n'è parecchia, tra l'altro in grado di soddisfare tutti i palati, dai più raffinati e delicati amanti dell'heavy prog, fino ad arrivare ai fan più scatenati di sonorità estreme, il sottoscritto in primis, rimasto letteralmente folgorato dalla proposta dei Dead Season. L'unico problema che vedo è quello di non riuscire forse a completare l'ascolto dei 60 minuti di 'Prophecies' in un'unica botta. La strumentale "The Four Minutes of Hate" intanto corre nel mio lettore e i riferimenti ai Cynic e a tutto il movimento techno metal, si sprecano. Un po' di calma in apertura ad "Endless War", giusto il tempo di acclimatarsi per poi rilanciarsi nei tortuosi giri chitarristici di questi fantastici musicisti, di cui mi preme sottolineare nuovamente la prova dei due funamboli, bassista e batterista. Potrei scrivere ancora a lungo visto che i brani si susseguono a ripetizione e allora mi soffermo solo per segnalarvi un altro paio di brani: la forza arrembante di "Sexual Binging" e la spettrale "Ministry of Truth", assai intrigante nei suoi break acustici di chitarra e basso e nei suoi epici cori. Alla fine 'Prophecies' è un lavoro granitico, complesso, maturo e dinamico, semplicemente eccellente. (Francesco Scarci)