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lunedì 4 settembre 2023

Baphomet’s Cunt - 2023 - 616 Pleasures

#PER CHI AMA: Gothic Black
Con una bella e sobria copertina (a cui aggiungerei anche dei titoli del cazzo), andiamo ad ascoltare il nuovo parto degli inglesi Baphomet’s Cunt, presagendo che quello che sentirò probabilmente non mi piacerà. Invece attenzione, perchè il detto “l’abito non fa il Monaco” potrebbe valere per la release di quest’oggi. Infatti la proposta del folle The Baphomet General (che abbiamo già incontrato in Ebonillumini e The Meads of Asphodel) è un black metal fresco e genuin che potrebbe conquistare gli amanti di sonorità vampiresche alla Cradle of Filth. Certo un pezzo intitolato “Lord of Flatulence” perde di credibilità già in partenza, eppure le sue melodie, coniugate con una certa ricerca nei cambi di tempo, di atmosfere, e combinando il tutto con l’heavy o addirittura la musica classica, beh trova, in tutta sincerità, il mio più grande appoggio. Mai avrei pensato che le cose potessero andare in questa direzione dopo aver guardato la cover dell’album eppure il primo pezzo (con peto finale annesso) mi ha conquistato. E le atmosfere iniziale di “You Have to Be Cruel to Be Crueller” (titolo alquanto spassoso) proseguono nell'opera di addescamento da parte della one-man band britannica nei confronti del sottoscritto. Con sonorità che ammiccano all’EBM, all’industrial, al black e al gothic, e voci che si muovono tra il growl e il pulito (scuola Fields of the Nephilim), mi ritrovo completamente affascinato dalla proposta del polistrumentista inglese. In “Carry on up the Baphomet” è più evidente l’influenza di Dany Filth e soci almeno a livello ritmico, in realtà poi ci sono molti altri elementi che allontanano la proposta tra le due band, in primis l’ironia dei Baphomet’s Cunt, visto che i riferimenti sessuali nelle liriche potrebbero essere anzi un elemento di comunione. Comunque la band inglese mi piace, anche nella cover dei Soft Cell (synth pop band britannica degli anni ’80) “Sex Dwarf” che regala l’ultima emozione di questo inatteso ‘2023 - 616 Pleasures’ che la band vende peraltro in cd sulla propria pagina bandcamp a 2.99 sterle. E allora, che fate ancora qui, affrettatevi. (Francesco Scarci)

Embodied Torment - Archaic Bloodshed

#PER CHI AMA: Brutal Death
Voglia di un frullato di budelle? Non temete, ve lo servono gli Embodied Torment, quartetto di Sacramento che in questa strana estate, non aveva di meglio da fare che preparare un estratto di violenza e brutalità. Si, perchè ‘Archaic Bloodshed’ sarà in grado di triturarvi le ossa e trapanarvi il cervello con quel suo concentrato di brutal death marcescente che sarà inoculato nelle vostre orecchie. Slam brutal death deflagrato nei vostri culi, con una voglia malsana di farci del male fisico oltrechè mentale, anche laddove in “Deconsecration of the Monolith”, i quattro gringos abbandonano le ritmiche al fulmicotone per aprirsi ad un arpeggio inconsueto per una band dedita a queste sonorità. E qui scatta il mezzo punto in più perchè dopo che i quattro californiani mi hanno stritolato le palle nella loro morsa mortale, si confermano anche bravi nell'infilarmi la carotina (sempre là dove non batte il sole) per mettermi più tranquillo. E “Grasping Salvation” continua la sua opera di annichilimento totale tra suoni cacofonici, versi animaleschi, riffoni death, schegge grind, putrescenti atmosfere, splendidi e ubriacanti solo, iperbolici blast-beat ed una tecnica mirabolante che non può che lasciarvi a bocca aperta e pure senza fiato. La devastazione trova il suo compimento finale in “Tongue of Iron”, in una distesa ritmica senza freni che stupisce solo per un’improvvisa frenata di mezzo secondo, per poi ripartire di nuovo di slancio in una vorticosa sarabanda di chitarre che rallenterà a metà brano, quando ormai è troppo tardi ed ogni singolo neurone del nostro cervello, è ormai completamente disintegrato. (Francesco Scarci)

giovedì 31 agosto 2023

Innumerable Forms - The Fall Down

#PER CHI AMA: Death/Doom
Da Boston – Massachusetts fanno ritorno, dopo nemmeno un anno dall’ultimo ‘Philosophical Collapse’, i death doomsters Innumerable Forms, con tre brani dalle tinte assai fosche. Il quintetto statunitense rilascia questo ‘The Fall Down’, un dischetto denso di contenuti, che si muovono dal classico rifferama stile primi My Dying Bride a bordate death metal di scuola americana (Autopsy per intenderci). Questo almeno quanto ci racconta la prima traccia dell’EP, “Impenetrable”, una song che non aggiunge grandi novità a quanto già detto in passato dal quintetto. Anche la title track si muove su coordinate simili, sebbene la band dia qui meno spazio al lato più aggressivo della propria proposta, preferendo piuttosto addentrarsi nei meandri di un suono più funeral, ove a primeggiare saranno le vocals cavernose del frontman Justin DeTore e il riffing possente del duo d’asce formato da Jensen Ward e Chris Ulsh. Come detto, ampio spazio è concesso ai suoni claustrofobici, ma nel finale, i nostri ci deliziano con furenti cinghiate sulla schiena, ammorbidite solo da una melodica linea solistica che rende il tutto decisamente più palatabile. L’ultimo brano è “Satori Part 3” (non ho però trovato le precedenti due parti nella discografia della band), una breve e assai ritmata song strumentale di doom, scuola Candlemass che funge da outro a questo piccolo regalino che consiglierei ai soli fan degli Innumerable Forms. (Francesco Scarci)

Altarage - Cataract

#PER CHI AMA: Death/Doom
È tempo di tempeste nere come la pece, è tempo di ire funeste e giorni oscuri. Per questo ci piove sulla testa il nuovo EP (un vinile 12”) dei baschi Altarage, ‘Cataract’, apripista del full length ‘Worst Case Scenario’ in uscita a settembre. Il sound della band di Bilbao la conoscono un po’ tutti, ossia un muro di riff dissonanti e caotici in grado di inglobarci in una sorta di gorgo infernale, spezzato da ipnotici rallentamenti claustrofobici (“Cataract”), da cui ripartire più violenti e incazzati che mai con “Sacrificial Annihilation”. La pesantezza e l’obliquità delle ritmiche, unite alle solite laceranti vocals, rendono la proposta dei nostri musicisti disturbanti sempre assai ostica da digerire. Ma se siete fan dei Morbid Angel o di altri pazzi scalmanati come Portal o Aevangelist, non avrete certo grossi problemi ad affrontare il delirio sonoro imperante in questo entropico dischetto che vede in chiusura, la presenza di quella che sarà la title track del prossimo disco, “Worst Case Scenario” appunto, un brano di ben sette minuti di inopportuni suoni (un riff e una flebile batteria) ripetuti in un loop infinito. Speriamo bene. (Francesco Scarci)

(Doomentia Records – 2023)
Voto: S.V.

https://altarage.bandcamp.com/album/cataract-ep

mercoledì 30 agosto 2023

In the Ponds - Fever Canyon

#PER CHI AMA: Heavy Blues
Rilassiamoci un attimo con il sound dei californiani In the Ponds che, in questo ‘Fever Canyon’, sembrano voler divertirsi con una jam session all’insegna dell’heavy blues, sporcato da partiture ambient e venature western. Questo almeno quanto ci racconta la chitarra che apre “The Lost City” e sembra catapultarci in un mezzogiorno di fuoco di un qualunque film western anni ’70. La chitarra ulula che è un piacere, un po’ come se fosse il lupo di una qualche tribù indiana che guardando la Luna, volge il muso verso il cielo rilasciando il suo inconfondibile verso. Non troverete altri strumenti qui, se non l’intrigante ricamo di David Perez alla sei corde, supportato dai tocchi di basso di Jennifer Gigantino. “Windmill Blades” e “Making Time” si muovono sulla medesima falsariga, offrendo quindi lo stage alla chitarra e ai suoi giochi in chiaroscuro, una sorta di strimpellare al bagliore di un fuoco acceso in mezzo alla foresta, ammirando il pallore della Luna e assaporando l’aria fresca dei boschi del mid-west. (Francesco Scarci)

venerdì 25 agosto 2023

Toehider - Quit Forever​?

#PER CHI AMA: Prog Rock
La Bird’s Robe Records è scatenata: una serie di uscite stanno infatti contraddistinguendo sin qui questa stravagante estate 2023. Tornano sulle scene i Toehider, la creatura di Michael Mills, dopo averli recensiti lo scorso anno con ‘I Have Little To No Memory of These Memories’. Digerito appieno quell’ambizioso lavoro, mi appresto ad affrontare il nuov EP del polistrumentista australiano intitolato ‘Quit Foreverer’, che dovrebbe far parte di una serie di ben 12 EP, un esperimento già compiuto a cavallo del 2009/2010. Il mastermind di Melbourne ci spara subito in faccia “Uncle Aqua”, che si toglie di dosso tutte le scorie orchestrali dello scorso anno e ci investe invece con un bel thrash/speed metal anni ’80, dotato di sonorità di “king diamondiana” memoria, un bel riffing (incluso un tagliente assolo) che ben si combina con i vocalizzi dell’artista. Dopo la prima mazzata in faccia, arriva “Every Day I Wake Up in the Morning and I FAIL! FAIL! FAIL” che sembra trasportarci nei paraggi di un garage pop rock, che viene brutalmente (e fortunatamente) spezzato da folli intermezzi di musica estrema che mi tengono incollato nell’ascolto della psicotica proposta dei Toehider. Se non sapessi con chi ho a che fare, credo che avrei skippato il brano dopo i primi sei secondi, e invece l’imprevedibilità è una delle specialità di casa Mills, non stupisca quindi di passare in una frazione di secondo, da musica pop a sonorità apocalittiche nere come la pece. Esaurito l’effetto sorpresa, ci muoviamo verso “Nobody Even Really Liked it in There But Me”, dove la sensazione è di essere catapultati indietro nel tempo di oltre 50 anni, alle origini del prog rock, per un brano che non ha nulla da spartire con quanto ascoltato sin qui. La canzone conclusiva, la title track chiude in modo malinconico il primo EP della serie, sulle note malinconiche di un pianoforte e sull’ispirata voce del frontman che lascia intendere che nei prossimi mesi ne sentiremo davvero delle belle. (Francesco Scarci)

venerdì 11 agosto 2023

Sleepwalker – Skopofoboexoskelett

#PER CHI AMA: Black/Avantgarde
Osaka, Tver e New York: in queste tre città vivono rintanati gli Sleepwalker, elaborando suoni sordidi, sperimentali e malati, attraverso una miscela esplosiva di musica black, post rock, avantgarde e noise, che avevo amato follemente ai tempi di ‘Noč Na Krayu Sveta’. La band torna con quattro nuovi pezzi che in questo ‘Skopofoboexoskelett’ si concentrano sulla nozione di autoriflessione, intuizione e le manifestazioni esteriori e interiori della fobia, mentre si relazionano all'interno di quel loro mondo singolare. In un contesto lirico cosi complesso, c’è da attendersi anche che la band si lanci in folli escursioni in bilico tra black, avantgarde e jazz (complice l’utilizzo del sax), già udibile nella caotica traccia in apertura, “Mirrors Turned Inward”. Con i nostri non si può rimanere mai sereni, c’è da aspettarsi che accada di tutto nell’evolversi impetuoso dei loro suoni, quindi non stupitevi se si passa dal grind/black al free jazz/noise, laddove il confine talvolta può essere estremamente labile. Psicotici non c’è che dire, li adoro per questo, nonostante la loro musica sia qualcosa di davvero complicatissimo da digerire. “Silesian Fur Coat” sembra virare verso suoni più ritualistici, ma si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio e quindi ecco che dopo 90 secondi, la band imbocca strade deviate, dove a mettersi in luce saranno un basso mirabolante, synth estatici, una chitarra prog e un’atmosfera etnica che avvolge tutto il tessuto musicale della band, mentre il vocalist prosegue con il suo screaming evocativo. “The Eagle Flies” è una scheggia impazzita di due minuti e mezzo aperta dal suono di un didgeridoo che evolverà velocemente verso sonorità tribali e ci prepara mentalmente all’ultimo delirio sonico della band, “The Bad Luck That Saved You From Worse Luck”. Un pezzo che si apre con atmosfere di pink floydiana memoria e attraverso un avanguardistico black mid-tempo (interrotto da una breve grandinata grind) sarà in grado di accompagnarci fino alla conclusione di questo splendido lavoro che farà la gioia di chi come me, ama le band in grado di prendersi più di qualche rischio e se ne strafotte altamente di mode o trend musicali. Bravi, non aggiungo altro. (Francesco Scarci)

(Sentient Ruin Laboratories – 2023)
Voto: 80

https://sentientruin.bandcamp.com/album/skopofoboexoskelett

giovedì 10 agosto 2023

Tangled Thoughts of Leaving - Oscillating Forest

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Ecco, l’hanno rifatto. Sto parlando degli australiani Tangled Thoughts of Leaving che hanno rilasciato un altro album di folle, imprevedibile post metal strumentale, venato di sonorità jazz. Chi pensa che questo genere inizi a stancare, beh si sbaglia di grosso perchè ancora una volta, la band di Perth supera se stessa e ci delizia con un doppio lavoro dal titolo suggestivo, ‘Oscillating Forest’, e da contenuti di altissimo livello che spazziano tranquillamente anche nel versante post rock, nell’ambient, nel prog, nella pura improvvisazione e addirittura nel noise. “Sudden Peril” apre le danze del lavoro e in poco meno di quattro minuti ci mostra il livello di ispirazione odierno della band, ma è con la più claustrofobica e decisamente più lunga (8:28 min) “Ghost Albatross”, che il quartetto australiano inizia col mettersi a nudo tra atmosfere post rock, spaventosi chiaroscuri orrorifici, cambi di tempo improvvisi e (in)frazioni rumoristiche destabilizzanti, che ci fanno capire il genio di questa band davvero multisfaccettata che sa esattamente come scrivere musica di un certo livello, dotata peraltro di un certo impatto emotivo. La cosa si mantiente anche nei quasi 10 minuti della terza “Twin Snakes in the Curvature”, un pezzo che si presenta con un impianto cinematico-sperimentale davvero inquietante a cavallo fra ambient e noise, in grado di annebbiare il cervello come la peggiore delle sostanze psicotrope. Superato questo trip da funghi allucinogeni, la band pensa bene di infarcire il tutto con il pianoforte e a destabilizzarci ancor di più con partiture jazzistiche davvero funamboliche. Non sarà semplice venir fuori interi da questa jam session, un po' come se ci fossimo fatti un tuffo in un frullatore gigante e avessimo lottato contro kiwi, fragole e banane giganti. Abbandonata questa parentesi vegana, vengo risucchiato dai due minuti rumoristici di “Seep Into” che ci accompagna a “Lake Orb Altar” e alle sue derive soniche desolanti, quasi uno scatto del deserto che è emerso dal prosciugamento del lago d’Aral, una visione apocalittica figlia del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo che brucia da un lato mentre l'altro viene innondato da acque tumultuose. E questa song brucia, genera emozioni contrastanti, turbamenti interiori, un malessere da cui sarà difficile sfuggire, sebbene la melodia nella sua seconda metà, provi a stemperare l’apocalisse incombente. Ma poi, la ritmica avanza veloce, il basso pulsa come quando il cuore mi esplode nel petto dopo una scalata di una montagna, i giochi di synth diventano ipnotici e le chitarre frastornanti. Ci pensa “Trinket Forest” a ripristinare l’equilibrio con suoni da tempio buddista (o forse giardino zen). Il rumorismo torna sovrano in “Lamprey Strings” e si va mescolare con un’improvvisazione sperimentale davvero da capogiro in grado di rovesciare pensieri, parole ed emozioni. Se avessi scalato l’Everest sarebbe stato decisamente più semplice e invece farsi inghiottire dalle chitarre caustiche di “Bush Wallaby”, con quei suoi giochi di piano e batteria, diventa quasi una delle cose più complicate da affrontare, visto che davanti ci sono altri tre brani per oltre 20 minuti di musica: dal pianoforte impazzito della spettrale “Folded Into”, suonato da un fantasma in un castello maledetto, alle atmosfere da incubo di “The Mantle”, per terminare con la lunghissima (oltre 11 minuti) title track, in grado di darci il definitivo colpo del ko, tra suoni morbosi, deviati e schizofrenici che non pensavate potessero esistere su questa Terra. Semplicemente pericolosi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk! Records – 2023)
Voto: 77

https://ttol.bandcamp.com/album/oscillating-forest

mercoledì 9 agosto 2023

The Lumbar Endeavor - You Destroyed All That I Was

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore
L’acidissima band di Portland torna con un nuovo EP (il quarto in questo 2023, a cui aggiungere anche due full length) di quattro pezzi, per raccontarci la loro personalissima lotta interiore. Lo fanno attraverso ‘You Destroyed All That I Was’, un dischetto che sottolinea ancora una volta come i The Lumbar Endeavor siano profondi debitori di un doloroso sludge, stoner, doom multisfaccettato. Il risultato non è affatto male e in pochi minuti si passa dalle sinistre, tetre e angoscianti atmosfere di “An Ancient, Dark Ghost”, corredata dalle caustiche voci del factotum Aaron DC, alle più movimentate atmosfere di “The Stars. The Stripes. The War Drums.”, un brano decisamente nervoso nel suo incedere. Con “I’m Your Lighthouse”, le ritmiche si fanno ancora più tese grazie ad un retaggio punk/hardcore che emerge bello chiaro e potente. Ovviamente, non sto raccontando nulla di nuovo, la creatura del buon Aaron, l’uomo delle quasi 50 band, la conosciamo e apprezziamo da 10 anni. E continuiamo a farlo anche con la più ritmata “Battle-Axe”, il pezzo più compassato del lotto, ma anche quello che preferisco (sarà perché si tratta di una cover dei Deftones), perchè forse più ricercato, soprattutto a livello delle melodie di chitarra che sembrano stamparsi più facilmente nella testa. Ribadisco, nulla di innovativo o originale, come era lecito aspettarsi, ma musica comunque suonata con una genuinità palpabile. (Francesco Scarci)

Deadspace - Within Haunted Chambers

#PER CHI AMA: Depressive Black
Mi era dispiaciuto molto quando i Deadspace avevano annunciato lo scioglimento qualche anno fa. Era il 2020, ma nel 2021 si erano già riformati con la medesima formazione (fatto salvo per il tastierista). La band di Perth torna comunque in sella con il loro depressive black e la riproposizione di tre vecchi pezzi (due estratti da ‘Dirge’ e uno da ‘The Promise Of Oblivion’), inclusi in questo ‘Within Haunted Chambers’, che fanno da apripista ad un nuovo full length, ‘Unveiling the Palest Truth’, in uscita a settembre. Un vero peccato non poter saggiare lo stato di forma dei nostri oggi (dovremo pazientare un altro mese e mezzo per ascoltare musica nuova, anche se la song su bandcamp non sembra affatto male), la verità è che questi brani sono stati registrati perchè parte della loro setlist dal vivo e per questo, hanno deciso di renderli più vicini ad una performance live. E la verve degli anni migliori non è andata di certo persa dalla formazione australiana e lo dimostrano le atmosfere disperate di “The Malevolence I've Born unto Others” e quel flusso che viaggia costantemente a cavallo tra depressive e post black. Le grim vocals del frontman completano poi il quadro di un brano spettrale e deprimente al massimo che trova il suo acme nella successiva ”Rapture”, cosi feroce ed efficace nel suo incedere tumultuoso, molto in linea con alcuni pezzi degli Shining (quelli svedesi, mi raccomando), laddove anche una componente sinfonica sembra emergere dalle tenebre generate dal quintetto australe. Devo ammettere di avere tutti i loro dischi ed apprezzarne i contenuti sonori, quindi mi sento un po’ di parte a dire che i Deadspace sono tornati e stanno magnificamente bene, anche quando “I’ll Buy the Rope” irrompe nel mio lettore con le sue magniloquenti melodie sorrette da un’ottima linea di tastiera e chitarra, e dalla voce di Chris Gebauer che si conferma un ottimo vocalist. Antipastino quindi consegnato, ora attendo la portata principale. Appuntamento al 22 Settembre. (Francesco Scarci)

martedì 8 agosto 2023

Thumos - Musica Universalis

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal
Recensiti da poco con l’infinita raccolta di loro demo, ecco riaffacciarsi i Thumos e il loro angosciante post-metal strumentale, nonostante in questo 2023, abbiano già visto la luce un full length e un altro EP. ‘Musica Universalis’ è il loro ultimo parto, un lavoro breve che potrebbe fare da preludio ad una nuova, ennesima, più lunga e strutturata release che sicuramente, la prolifica band americana starà architettanto. Nel frattempo, ascoltiamoci “Mysterium Cosmographicum”, un pezzo che riflette tutti i sacri crismi del post metal, grazie a chitarroni super distorti, atmosfere accattivanti, melodie non scontate, ma anche accelerazioni furiose che strizzano l’occhiolino al black metal, come già abbiamo più volte sottolineato in occasione di precedenti recensioni. In questo caso, il sound è piuttosto vario, di più facile ascolto e, sebbene continui a trovare l’assenza della voce penalizzante, non posso che godere della proposta dei quattro anche nella successiva “Astronomia Nova”, un pezzo che nella sua brevità, sembra raccontare in musica, le recenti scoperte fatte dal telescopio James Webb. “Harmonices Mundi” continua su binari similari al primo brano, mostrandosi ancor più varia, sofisticata e in taluni frangenti, davvero aggressiva. Insomma, un buon antipastino in vista di qualche nuovo piatto ricco, che sono certo la band statunitense, stia preparando. (Francesco Scarci)

(Snow Wolf Records – 2023)
Voto: 70

https://thumos.bandcamp.com/album/musica-universalis

Spider God - The Spiders - Blast Masters Volume One

#PER CHI AMA: Epic Black
Che gli inglesi Spider God non fossero un gruppo come gli altri, l’ho sempre sostenuto. Ora con questa nuova release che include quattro cover dei Beatles, mi tolgo definitivamente ogni dubbio. Si parte con la splendida “Eleanor Rigby”, song estratta dall’album ‘Revolver’ dei Fab Four, qui ovviamente riletta in chiave black, tra vocals arcigne e furiose ritmiche, ma le melodie del classico dei Beatles del 1966 rimangono intatte nella sua veloce cavalcata. Adoravo l’originale, adoro questa versione super caustica. Per non parlare poi del singolo un po’ più vecchio (1963), “She Loves You”, incluso in ‘The Beatles' Second Album’, che rappresenta peraltro il maggior successo di vendite dei quattro ragazzi di Liverpool in Inghilterra. Qui diventa una cavalcata tra black ed heavy classico, tra vocals corrosive e melodie super catchy. Si passa poi a “Norwegian Wood” del 1965 (‘Rubber Soul’) e qui la song potrebbe essere assimilabile a un pezzo di True Norwegian black miscelato ad un qualcosa di epico stile Windir. Fantastici. Il gran finale? Non poteva essere che “Yesterday”, il classico per eccellenza della band britannica, che ci catapulta nel 1965 e al lavoro ‘Help!’. Rimane inconfondibile la melodia di fondo, cosi come pure quel senso di malinconia che l’ammanta e ne fa forse il brano più conosciuto in tutto il mondo. Insomma, un’uscita divertente che mi fa ulteriormente apprezzare la vulcanica proposta black degli Spider God. (Francesco Scarci)

Kodiak Empire - The Great Acceleration

#PER CHI AMA: Math Rock/Prog
Gli australiani Kodiak Empire tornano sul luogo del delitto con un nuovo e breve (mezz’ora tonda tonda) quarto album, sotto la super visione della Bird’s Robe Records. ‘The Great Acceleration’, un concept album che affronta i temi della crisi climatica e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, si presenta come un mix di rock progressive, post-rock, ambient, math e sperimentalismi vari. Il disco si caratterizzata sin dall’iniziale “The Difference”, da melodie evocative e influenze che chiamano sicuramente in causa i conterranei The Mars Volta e gli ultimissimi Tesseract, con un fare a tratti un po’ troppo pop per i miei gusti. A far da contraltare a queste sonorità un po’ ruffiane, ci pensano però giri di chitarra ipnotici, che sembrano trarre linfa vitale dal math rock ma qualcosina anche dal djent, cosi come pure quei lunghi e poderosi assoli dall’elevato tasso tecnico, tengono la band di Brisbane ancorata a un rock decisamente robusto. E “Within the Comfort” non fa altro che ribadirlo, con quel suo inizio tumultuoso e super distorto, anche se non appena entra la morbida voce del vocalist, il suono diventa decisamente più mellifluo. Non temete comunque, visto che nel corso del brano ci sarà un’alternanza di tempi, sorretti da ritmiche sostenute, sghembe ed imprevedibili che indirizzano i nostri nuovamente verso lidi math. E questa fondamentalmente sembra essere la forza dei Kodiak Empire, ossia accostare l’irruenza del rock progressivo (che tende talvolta a sfociare nel metal) con il pop. Certo, qualcuno storcerà il naso alla parola pop (me compreso), ma questa è la peculiarità del quintetto australiano. Un pezzo come “Animist” mette in luce un’anima più alternativa, ma la cosa che più mi ha colpito qui è in realtà un drumming estremamente fantasioso coniugato ad un intrigante gioco di atmosfere guidate da un synth dai tratti malinconici. “Maralinga”, complice la sua breve durata, la leggo più come un ponte tra “Animist” e la conclusiva “Marcel”, anche se nei suoi 141 secondi, condensa il lato più sperimentale della band, tra sinuose partiture atmosferiche, turbamenti noise e schitarrate metalliche. In chiusura, la già citata “Marcel” si srotola lungo i suoi quasi nove minuti, attraverso atmosfere suffuse, ammiccamenti pop (complice anche qui il cantato eccessivamente ruffiano del frontman), cambi di tempo bizzarri e gagliarde accelerazioni, peraltro in combinazione con un inatteso growling, che alla fine spariglia completamente le carte in tavola e ti spingono a volerne di più. Invece, il disco si ferma qui, come se voglia ingolosire gli ascoltatori in vista di un nuovo travolgente lavoro dei Kodiak Empire. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 73

Gnot – Свет

#PER CHI AMA: Blackgaze
Dopo tre anni di silenzio, tornano i russi Gnot con il loro blackgaze. Solo un EP di due pezzi a disposizione del quintetto di San Pietroburgo, che aveva la curiosità di avere quattro dei cinque membri che si chiamano Sergey (ora ridotti a due). A parte la scarsa originalità nei nomi, la band sciorina in realtà un sound ricco di atmosfere e impennate post black che già dall’iniziale “Лёд”, ci deliziano con parti acustiche, furiose accelerate, screaming acidissimi, rallentamenti con cambi di tempo incorporati, ma anche una buona dose di melodia avvolta da quell’aura malinconica che da sempre contraddistingue le band di questo genere. Pur non proponendo nulla di innovativo e cantando per di più in russo, a me la band francamente piace, soprattutto per quella loro capacità nell’introdurre elementi non propriamente black, che conferiscono una certa ariosità al flusso musicale. E cosi anche “Свет” apre con un bell’arpeggio per poi liberarsi in un agguerrito riffing black, con tanto di dualismo nelle vocals, caustica la prima e pulita (ma più deboluccia) la seconda. Il sound è comunque solido e convincente, anche nelle parti più sognanti, il che non fa altro che alimentare il mio personale interesse verso il prossimo lavoro dei cinque musicisti russi. (Francesco Scarci)

(Self – 2023)
Voto: 70

https://gnotband.bandcamp.com/album/-

Big Red Fire Truck - Trouble in Paradise

#PER CHI AMA: Hard Rock
Un bel tastierone in stile “Jump” di Van Halen, apre ‘Trouble in Paradise’ degli australiani Big Red Fire Truck, un quartetto che si presenta come la più classica delle band glam rock anni ’80 (basti solo vedere la cover dell’album), con tanto di membri (un paio almeno) dai capelli cotonati e dai riccioli d’oro. La title track ci consegna un gruppo di musicisti che strizza l’occhiolino a Bon Jovi e già mi sento male. Che diavolo succede, la Bird’s Robe Records che da sempre mi ha abituato ad uscite di un certo calibro in ambiti stilisti decisamente differenti dal qui presente, ora mi propone hard rock che puzza di stantio? Rimango esterrefatto di fronte a questo lavoro, non tanto per i contenuti peraltro triti e ritriti nel corso degli ultimi 50 anni da migliaia di altre band e che quindi per il sottoscritto non hanno più niente da dire, ma per la scelta fatta proprio da parte dell’etichetta di Sydney, lontana anni luce dai propri elevatissimi standard. C’è poi chi afferma che questo genere di sonorità ora vadano per la maggiore, per quanto mi riguarda mi domando in quale galassia questo accada, io questa robaccia non la vorrei sentire nemmeno mentre sto percorrendo la mitica US Route 66, viaggiando a 70 miglia orarie, finestrini abbassati e picchiando con le mani, al ritmo della rockeggiante “Love Bite”, la fiancata della mia super muscle car. Mi spiace, i quattro musicisti di Sydney potranno essere anche bravi a suonare, saranno divertenti dal vivo, magari avranno testi impegnati (ma dubito visti titoli quali “Miami Skies” e “Hot Summer Nights”) ma un genere che ammicca a Def Leppard, Bon Jovi, Poison, Aerosmith e Motley Crue, credo rappresenti esclusivamente la colonna sonora dei miei peggiori incubi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 50

https://bigredfiretruck.bandcamp.com/album/trouble-in-paradise

domenica 6 agosto 2023

The End of Six Thousand Years – S/t

#PER CHI AMA: Sludge/Post-Metal/Crust
Ci hanno messo un po’ per rimettersi in sella i The End of Six Thousand Years. Dopo un silenzio durato 11 anni, fatto salvo per un singolo uscito nel 2020, il quintetto italico formato da membri ed ex di Postvorta, Hierophant e Viscera///, ci spara addosso un EP autointitolato di quattro pezzi. Quattro caustici brani che si muovono nei paraggi melmosi delle loro band originarie. Questo almeno quanto si evince quando a decollare nel mio lettore trovo “Collider”, che parte sludgy al punto giusto, per poi dare un paio di scarburate pesanti, tra accelerazioni alla Ulcerate, rallentamenti di scuola post metal, ripartenze feroci, il tutto condito dalla selvaggia voce dell’ex Postvorta Nicola Donà. La proposta della band è corrosiva quanto basta anche e soprattutto, nei momenti più atmosferici o dissonanti del disco. Si continua a picchiare durissimo con le chitarre funambolicamente “svedesi” di “Endbearer”, un pezzo che vede una certa apertura melodica che finisce per collidere con certo retaggio crust/hardcore dell’ensemble nostrano. Tra continui cambi di tempo, melodie sghembe e vorticose raffiche di chitarra si arriva a “Voidwalker”, un pezzo che è un’altra mazzata nello stomaco, come se i Deathspell Omega suonassero sotto l’influsso malsano del crust, in una poderosa e dirompente avanzata di chitarre imbufalite. In chiusura la cover dei Today is the Day, ossia “The Man Who Loves to Hurt Himself”, in una rilettura del brano della band statunitense, distorta quasi quanto l’originale, a decretare quanto i The End of Six Thosand Years siano oggi incazzati, in forma e tosti più che mai. (Francesco Scarci)

Dark Fount – The Rebel

#PER CHI AMA: Raw Black
Dalla Cina con furore grazie al progetto solista di Li Tao (qui in realtà supportato da altri musicisti) che risponde al nome di Dark Fount. La one-man band di Tai’an ci propone, in questo EP intitolato ‘The Rebel’, un black metal mid-tempo, fatto di melodie angoscianti, stritolanti e paranoiche, completamente in linea con le tematiche depressivo-misantropiche del polistrumentista originario della provincia di Shandong. Non stupisce quindi se “Frozen Mist” si presenti come un pezzo dall’indolente passo, corredato da lancinanti latrati vocali ed improvvise e laceranti esplosioni chitarristiche. Nulla di particolarmente fresco e originale, ma comunque dotato di un certo alone apocalittico che non viene tuttavia replicato nella successiva title track, traccia più dritta e lineare, con un rifferama serrato e glaciale che ricorda i Blut Aus Nord più raw-black e che qui va a braccetto con uno screaming infernale. Niente di emozionante però, sia chiaro a tutti. La proposta del mastermind dagli occhi a mandorla, finisce per non esaltarmi, nemmeno nell’ultima “Death is Eternity”, per quanto provi a mettere in luce una ritmica marziale e un sound un filo più strutturato, che alla fine non sembra portare grosse novità. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2023)
Voto: 60

https://pestproductions.bandcamp.com/album/the-rebel

sabato 5 agosto 2023

Nattehimmel - The Night Sky Beckons

#PER CHI AMA: Epic/Pagan Black
Non potevo fare finta di niente, gli In the Woods... sono stati una parte importante nella mia crescita di metallaro essendo state una delle band che più ho amato a metà anni ’90 e vedere che oggi si sono formati sono altre spoglie, rispondendo al nome di Nattehimmel, non può che rendermi felice. I fratelli Botteri (menti anche dei Green Carnation) sono tornati e questo ‘The Night Sky Beckons’ è il loro demo del 2022 che ha anticipato l’uscita di quest’anno, ‘Mourningstar’. Lo stile dei norvegesi si avvicina molto a quello di ‘Light of Day, Day of Darkness’ dei Green Carnation con l'aggiunta alla voce di J. Fogarty, un altro che non ha bisogno di troppe presentazioni, vista la sua militanza negli Old Forest, Ewigkeit, ex voce degli In the Woods... e The Meads of Asphodel. Un gruppo ben assortito di musicisti che lungo queste tre tracce, ci delizieranno con il loro prog pagan doom che in alcune parti, sembra trovare sfiati black metal, come nel black cosmico dell'iniziale "Astrologer" o nel riffing marcescente a metà di “Mountain of the Northern Kings”, laddove la voce di Mr. Fogarty assume sembianze screameggianti anzichè palesarsi in un formato epicamente pulito. La musica del quintetto anglo-norvegese si conferma di assoluto valore, con sterzate stilistiche tra parti doomish e stilettate black (in stile In the Woods…) come avviene nell’ultima e anche title track, che non fa altro che confermarci come i fratelli Botteri siano ritornati alle loro origini, e a quella speciale forma di black misticheggiante che mi aveva totalmente rapito ai tempi di ‘Heart of the Ages’ nel lontano 1995. Ora non mi resta altro che ascoltare il nuovo album. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Records – 2022)
Voto: 74

https://hammerheart.bandcamp.com/album/the-nigh-sky-beckons 

giovedì 3 agosto 2023

Aeffect – Theory of Mind

#PER CHI AMA: Techno Death
Dopo una demo di soli due pezzi rilasciata nel 2022, tornano i britannici Aeffect con il loro album d’esordio che ingloba anche gli stessi due brani che li aveva visti debuttare. La proposta del duo inglese (che vede peraltro come precedenti band i Sarpanitum e gli Xerath) è un qualcosa che va vicino alle proposte delle vecchie band, ossia un death metal super ritmato che vede un utilizzo di super tonanti chitarra fin dall’iniziale “Patronage”, song che lascia intravedere anche i Meshuggah come principale fonte di ispirazione per i due musicisti, Mark Broster (basso, chitarra e voce) e Mike Pitman (il possente batterista ex Xerath appunto). Il sound è davvero pesante e distorto, mai veloce e costantemente supportato da un growling profondo. Impressionante sicuramente il lavoro dietro le pelli (Mike è mostruoso, ma questo già lo sapevo), e notevole è anche il lavoro un po’ sbalestrato delle linee di chitarra. Mi piacciono, hanno le palle, per quanto siano un po’ ostici da digerire, almeno al primo ascolto. Ci provano infatti a gestire la difficoltà di assimilazione, infarcendo il tutto con continui cambi di tempo e qualche melodia, ma in generale la musica inclusa in questo ‘Theory of Mind’ è davvero spigolosa. Forse ancor di più man mano che l’ascolto procede attraverso pezzi claustrofobici, a livello ritmico, come possono essere “Retraction”, spaventosa in quel suo ridondante ma ipnotico muro ritmico. Cosi come pure la successiva “Emergent Behaviour” che mostra una certa asperità nella sue sghemba intelaiatura metallica, in un sound in cui a mettersi in luce sono le sinistre parti atmosferiche che provano ad attenuare quel vigore metallico di cui è comunque intessuto il brano. Quello che emerge dopo aver ascoltato i primi tre pezzi, è sicuramente una notevole compattezza ritmica unita ad tecnica musicale sopraffina che si dipana attraverso una ridda di riffoni matematici come accade in “Leading to Decay”, un altro esempio di metallo ribollente che ha probabilmente il difetto di peccare in un’eccessiva ricerca di ritmiche scardinanti, quasi cervellotiche, sfumate qui da un semplice arpeggio che allenta quella tensione che fino a qui ha annichilito brutalmente i nostri sensi. La title track prosegue in quest’opera di stritolamento ritmico, guidato da un caustico moto sonoro, in cui emerge forte l’energico lavoro di basso, batteria e chitarra a creare un’architettura sonora, il cui effetto conclusivo sarà di privarci del tutto del respiro, quasi come se qualcuno ci avesse tirato un pugno sullo sterno che si riflettesse in una totale mancanza di fiato. “Manifest” è il pezzo forse più facile a cui accostarsi, complice una maggiore dose di melodia e una più ricercata costruzione delle atmosfere, anche se qui non mancano delle accelerazioni più furibonde che da altre parti, e la band non rinuncia a quel rifferama marcatamente obliquo e ai vocalizzi gutturali del frontman. Uno stridulo riffing iniziale apre invece “Acceptance”, un altro pezzo sghembo nel suo incedere ma soprattutto violento nelle raffiche di mitragliatrice sferragliate dalla batteria, che quasi va ad offuscare il cantato di Mark. Poi un bel po’ di atmosfera e via per l’ultimo giro affidato a “Dematerialise” e ad un incedere slow-motion orrorifico che non ha più niente da chiedere e niente da dare. Quella degli Aeffect è alla fine una buona prova, da masticare e digerire in più riprese, ma che lascia intravedere grandi potenzialità per il futuro, se la band sarà in grado di vedere al di là dei propri schemi precostituiti. (Francesco Scarci)

Hlidskjalf - Vinteren Kommer

#PER CHI AMA: Dungeon Synth/Black
One-man band russe, ne sentivamo davvero il bisogno? Ai posteri l’ardua sentenza, nel frattempo ci ascoltiamo il progetto di Svarthulr in questi impronunciabili Hlidskjalf da non confondere con gli omonimi francesi e tedeschi. La band di quest’oggi si muove musicalmente nei paraggi di un black synth dungeon cosmico-minimalista, mentre le voci sembrano lontani versi di forme aliene provenienti da un altro mondo. Tre soli pezzi compongono alla fine questo ‘Vinteren Kommer’, un disco che potrebbe evocare nelle sue note, un che del Burzum più sperimentale. “Vinteren Kommer I” è la song più lunga con i suoi oltre otto minuti di sonorità glaciali, ma al contempo sognanti, complici un riffing scarno che più scarno non si può, e dei giochi di synth che rendono il tutto più digeribile, per quanto poi il pezzo possa essere estremamente ridondante nel suo incedere atmosferico. I rimanenti due brani del disco sono puro ambient, quasi quella sorta di rumore bianco che uno si piazza nelle orecchie per dormire la notte. Un lavoro un filo indigesto che suggerirei ai soli appassionati del genere. E per rispondere alla domanda iniziale, forse non ne abbiamo davvero più bisogno di altre one-man band. (Francesco Scarci)