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martedì 29 dicembre 2020

Nàresh Ran - Re dei Re Minore

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Noise
Il numero uno dell'etichetta discografica Dio Drone, solida label italiana dal respiro internazionale, impossibile da identificare nei generis e contraddistinta da uscite di grande qualità in ambito sperimentale, licenzia la sua nuova fatica sotto il nome di Nàresh Ran ed esce allo scoperto con un disco crepuscolare dall'emblematico titolo 'Re dei Re Minore', un'opera avvolgente, che imprime una forte dose di mistero e una trasversale, perversione oscura, assai intrigante. Mi sembra doveroso ricordare, che Nàresh Ran predilige i suoni, i rumori, gli ambienti sonori on the road, captati, raccolti, registrati per strada, con metodi di registrazione filtrati da mezzi poco consoni o quasi mai convenzionali. Il disco pullula di ronzii, fruscii e rumori d'ambiente, rubati ovunque, per ottenere nell'insieme, tappeti sonori che nessun synth potrebbe ricreare elettronicamente. L'apertura è affidata alla lunga traccia intitolata "Kutna Hora", un brano molto lungo che mostra un legame con il precedente lavoro dell'artista fiorentino, 'Martyris Bukkake'. Una song che galleggia a mezz'aria, tra mistico devozionale e l'ambient drone più radicale, mostrando tra le sue trame, un volto angelico subito contrastato da un monolitico e perpetuo cupo senso di desolazione, un vortice di ipnotica e disturbata malinconia, che nel finale si amplia di rumori e interferenze progressive che caricano ulteriormente il senso di vuoto del brano. Il secondo brano,"Veglia", ha un'attitudine più quieta e all'apparenza più distesa, cosi composto dal senso circolare di un loop spettrale su di un tappeto di tanti rumori e synth per un effetto cosmico, interstellare in stile Martin Nonstatic e in genere Ultimae Records, ma con un suono più caldo, profondo, meno sintetico e con più umanità dietro le quinte. Il terzo brano è "A_R", un groviglio molto intimo di suoni d'ambiente e rumori, interferenze lievi che donano, seppur celata e nascosta tra le righe, una cadenza, un ritmo che fin qui non era mai apparso, e poi cicale, insetti, bassi gravi, si mobilitano per inspessire una trama già complessa, ricercata, con un finale astrale dove compare, brevemente, per la prima volta, anche una voce umana distorta. Forse la traccia migliore dell'album dal punto di vista compositivo. Devo ammettere però, che con la conclusiva ed inaspettata traccia, "Re_Minore", l'impennata artistica si fa più coraggiosa e oltraggiosa. Con l'aggiunta di un vero e proprio recitato/cantato in lingua madre, alla maniera dei Massimo Volume, a cavalcare un loop di piano drammatico, sottomesso alla lettura poetica di un testo doloroso, ci si inoltra in un concetto molto vicino alla Sindrome di Stoccolma, per cui la tortura dell'aguzzino diviene il piacere che porta all'unica via di fuga per la vittima. Una performance intrigante, aggressiva e sconvolgente che conclude il disco con un pugno allo stomaco di chi ascolta. Una traccia dai toni malati e dai tratti realistici, dove il male descritto tocca l'ascoltatore in prima persona. Una canzone estremamente intrigante e molto, molto pericoloso, nella sua drammaticità corrosiva, un buco nero per la psiche dell'ascoltatore. 'Re dei Re Minore' alla fine è un album che indica chiaramente un'evoluzione nell'espressività dell'artista, un balzo in avanti verso una capacità compositiva libera e personale, una ricerca complessa fatta di tanti piccoli tasselli che compongono un mosaico di grande valore. Un film sonoro imperdibile, sofisticato, intricato, nero e con un finale devastante. (Bob Stoner)

(Toten Schwan Records - 2020)
Voto: 80

https://nareshran.bandcamp.com/album/re-dei-re-minore

domenica 22 novembre 2020

Megalith Levitation / Dekonstruktor - Split Album

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Drone
Chelyabinsk negli Urali e Mosca sono le città dalle quali arrivano queste due band, i Megalith Levitation dalla prima e i Dekonstruktor dalla seconda. Con dei moniker del genere, un artwork di copertina votato al bianco e nero ed un look piuttosto truce, mi sarei aspettato di ritrovarmi fra le mani uno split album votato al black più grezzo e ferale, invece, strano ma vero, questo 4-track mi conduce nei meandri di un doom sperimentale e ritualistico. E a proposito di rituali, si parte proprio con "Opium Ceremony", una traccia che sembra offrire un mantra sonico ad opera dei Megalith Levitation e a quella linea di basso in primo piano (accompagnata da distorsioni di chitarra e un coro quasi cerimoniale) che traccia una melodia ipnotica e lisergica che ci accompagnerà per tutti i suoi cinque minuti e più di musica. A seguire il chitarrismo stoner di "Despair" in un brano di oltre 13 minuti, ove questa volta in primo piano si pone un riffone nerissimo di chitarra plettrato a rallentatore, ancora con quel cantato liturgico in sovrapposizione che talvolta sfocia in uno screaming più efferato. Difficile dire altro vista la monoliticità di fondo che ha il sopravvento in un pezzo che purtroppo sembra proprio peccare in staticità per buona parte della sua durata, quando finalmente ad un certo punto i nostri ci sbattono una qualche variazione al tema, stile primi Cathedral. Un po' pochino, posso dirlo? Anche per i Dekonstruktor solo un paio i pezzi a disposizione per convincermi della bontà del loro sound. Anche in questo caso non si comincia proprio nel migliore dei modi, visto che "Beheaded Horizon" parte con un altro loop chitarristico che non fa altro che stordirmi e alienarmi, sebbene poi si sovrapponga un riffing granitico tipicamente stoner accompagnato questa volta da voci finalmente adatte al genere. Anche qui però il minimalismo ritmico ha il sopravvento e fatico ad arrivare al termine del brano e dirmi anche soddisfatto, sebbene nella seconda parte del pezzo, il terzetto moscovita provi a cambiare le carte in tavola con un mix di sonorità tra il doom e il drone, comunque non cosi semplici da digerire. In chiusura "Magma Pulse", un pezzo strumentale che ha il solo compito di darmi il definitivo KO con il suo incedere psych doom che puzza di una obsolescenza che si rifà ad un secolo differente dal nostro. Vetusti. (Francesco Scarci)
 
(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 60

https://megalithlevitation.bandcamp.com/album/megalith-levitation-dekonstruktor

lunedì 26 ottobre 2020

Nagaarum - Covid Diaries

#PER CHI AMA: Experimental Black, Fleurety
Il coronavirus non è stato solo fonte di dolore per la gente, ma anche di ispirazione. L'avevamo apprezzato qualche settimana fa con la triplice release dei Queen Elephantine, lo rivediamo oggi con questa uscita chiamata inequivocabilmente 'Covid Diaries', che arriva sei anni dopo quel 'Rabies Lyssa' che profetizzava l'arrivo di una pandemia nel 2019. A proporlo è un amico del Pozzo dei Dannati, ossia il musicista ungherese Nagaarum, uno che da queste parti ha bazzicato parecchio. Il nuovo disco, uscito per la Aesthetic Death, altra etichetta amica, consta di sei tracce. Si parte con l'inquietante epilogo di "Prelude for 2020", quasi a prepararci psicologicamente a questo funesto anno di morte. L'aria è pesantissima e rappresenta fedelmente, attraverso le sue nebulose atmosfere, questi folli mesi che stiamo vivendo. "The First Ingredients" sembra addirittura peggio, con un ambient noise davvero paranoico, quasi a descrivere quella sensazione di vuoto sperimentata durante il famigerato lockdown. Ecco, ho rivissuto quei terribili momenti di isolamento sociale patiti in primavera, quando la tempesta del malefico Covid si abbatteva sull'Europa. Fortunatamente, "Superstitious Remedy" somiglia maggiormente alla forma di una canzone, certo, di non facile digestione, ma pur sempre dotato di una musicalità ostica che trova comunque spiragli di melodia grazie anche all'apporto vocale di una gentil donzella, Betty V. "Competitors" è un dialogo surreale (ma interessante da seguire attraverso le liriche contenute nel cd) tra robotici vocalizzi di donna (e la voce narrante di un uomo) che in realtà rappresentano le voci dei personaggi Vera, Yersinia e Rosie, ossia la personificazione delle manifestazioni dell'epidemia. Più vicino alle passate produzioni di Nagaarum è invece un pezzo come "I Am Special", sospinto da un mix tra avantgarde, doom e depressive, in quanto di più orecchiabile si possa pretendere di ascoltare su questa release. L'ultimo pezzo è affidato alla lunghissima "Liquid Tomorrow", dove la voce narrante di Roland Szabó (amico del frontman magiaro) sembra chiudere in bellezza con un'ultima dose di positività e quelle nubi ancor più cupe che incombono sulla società. Musicalmente, la proposta del factotum ungherese ricalca qualcosa che apprezzai enormemente venticinque anni orsono, ossia il debut 'Min Tid Skal Komme' dei Fleurety, attraverso un black psichedelico davvero ispirato, ove ancora una volta, la voce di Betty V. dà il suo enorme contributo. Alla fine, 'Covid Diaries' è un album introverso, cupo, non certo un lavoro per tutti, ma lo consiglio di sicuro a chi ama la sperimentazione votata a esplorare i meandri più oscuri della psiche umana. (Francesco Scarci)

venerdì 25 settembre 2020

Queen Elephantine - Tribute to Atrophos Vol I

#PER CHI AMA: Avantgarde/Psych/Jazz
Il Covid-19 è tutt'ora fonte di grande dolore ma è stato anche innesco di diverse opere artistiche (libri, dischi, cortometraggi). I Queen Elephantine sono tra quelli che hanno sfruttato il momento di difficoltà proponendo i rilascio di nuovi EP in formato digitale. Il collettivo di Hong Kong, originario però dell'India e con base oggi a Philadelphia, ha rilasciato ad aprile, nel pieno della prima ondata di coronavirus, il cui presente 'Tribute to Atrophos Vol I', primo (di tre?) EP votati all'improvvisazione totale. Li avevamo lasciati sul finire del 2019 alle prese con 'Gorgon', li ritroviamo oggi più stralunati che mai con quattro nuovi eterei pezzi che miscelano casualmente psych e kraut rock, avanguardistico, jazz, drone e stoner con un'alchimia sciamanica misticheggiante. Questo almeno quanto trasmesso dalla trascendentale opening track, "I Alone Am Right", che per undici minuti entra nel mio cervello e con la sua infima retorica cervellotica, insidia i pochi neuroni residui nella mia materia cerebellare, con un sound lisergico e desertico. Ancor più complicata "I Am Left Alone", proprio perchè sa di jam session a tutti gli effetti, quasi che il collettivo indiano si sia messo li un angolino a strimpellare in attesa di far uscire le idee migliori da registrare. Quindi, non è il caso di aspettarsi nulla di travolgente visto che si tratta di pura improvvisazione dettata dalla noia che sembra per lo meno cresca in intensità perchè si è trovata la giusta chiave per costruire una song. E anche con le seguenti "Surfacing" e "Sunk", il canovaccio della estemporaneità non cambia. La prima delle due song ha un andamento oscuro quasi dronico, bloccato in un ipnotico loop di chitarra astrale. La seconda invece è più noise rock oriented (sebbene qualche accenno in sottofondo alla musica indiana), con chitarra e batteria lasciate come cani sciolti a cazzeggio per quattro minuti di puro divertimento. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 luglio 2020

Unearthly Trance - The Trident

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Sludge, Neurosis
Dopo aver fatto uscire due buoni album con la Rise Above Records di Lee Dorrian, gli Unearthly Trance hanno debuttato su Relapse Records con questo psichedelico 'The Trident'. Il trio statunitense da sempre è portavoce di una personale visione dell’apocalisse attraverso un doom ipnotico che contraddistingue il sound dei tre newyorchesi. Visioni lisergiche, suoni asfittici, atmosfere claustrofobiche e un incedere quasi barcollante, rendono la proposta musicale dell'ensemble statunitense certamente di non facile presa. Gli Unearthly Trance possono rappresentare il collegamento mancante tra Neurosis e Winter: la musica dei nostri viaggia all’interno di torbide e rarefatte atmosfere che rappresentano gli incubi dello sconosciuto subconscio umano. È un viaggio in un abisso pervaso di mistero, fatto di momenti di malsana follia, insana oppressione e caos musicale. Screaming vocals sussurrano il dolore dilaniante che pervade questi tre loschi individui su ritmiche ripetitive e soffocanti, che trascinano l’ascoltatore in un baratro senza fondo. Ascoltare 'The Trident' è come catapultarsi in un pozzo senza fine, in un tunnel senza via d’uscita, in un giorno senza luce. La disperazione che trasuda dalle note di “Scarlet”, l’angoscia che pervade “The Air Exits, The Sea Accepts Me” o la rabbia di “Wake Up and Smell The Corpses”, rendono questo terzo lavoro dell’act nord americano, un inno profondo alla misantropia. Amanti di Neurosis, Sunn0)) e High On Fire hanno di sicuro amato questo lavoro, colonna sonora dei sogni più spaventosi. Brava come sempre la Relapse all'epoca, nello scovare nell’underground realtà interessanti da inserire nel proprio rooster e ancora una volta, la politica oculata della label americana, ha fatto centro. Ipnotici, oscuri, tetri, ragazzi eccoli gli Unearthly Trance. (Francesco Scarci)

martedì 9 giugno 2020

Diablerets - II: Scarborough

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
Non sono proprio un grande fan dei Diablerets e credo l'abbia inteso anche il mio interlocutore che mi ha inviato la loro ultima fatica, dicendomi "dagli un ascolto ma non è proprio necessario che tu lo recensisca". Credo che tema un altro giudizio caustico da parte del sottoscritto dopo aver bistrattato il 7" del 2015 e non aver certo avuto parole al miele per il loro atto I del 2014. Il duo elvetico torna con le stralunate atmosfere di 'II: Scarborough' e le conusuete demoniache presenze si palesano già dall'opener "Scarborough", ossia una località turistica della contea del North Yorkshire sulla costa est inglese che deve aver particolarmente ispirato il duo svizzero (visto che qui hanno anche registrato l'album). La proposta è nuovamente all'insegna del drone più minimalista e durante il suo ascolto solo gli incubi più reconditi potranno affiorare dalle vostre distorte menti. Se non sapessi che il disco è uscito nel 2019, avrei immaginato che fosse stato concepito nel periodo di lockdown e che tutti i pensieri più insani fossero stati partoriti dalle menti alterate di Liönhell e AsC13 durante la loro reclusione forzata. I quasi 13 minuti di "Ravenscar" (altra località inglese) sono quanto di più proibitivo io sia stato in grado di affrontare in vita con il morboso dronico incedere dei nostri che viene invaso da uno spaventoso rituale con tanto di voci raccapriccianti in sottofondo, sebbene ci sia una parvenza di musicalità in background rilasciata da un malefico organo. Poi solo suoni del mare forse registrati proprio sul litorale britannico a chiudere il pezzo. "Devil's Dyke" fortunatamente dura un po' meno sebbene il risultato non cambi poi molto, fatto salvo per l'apocalittica presenza al microfono di R.M. degli Urna. Sono comunque suoni solo per menti stabili, io che stabile non lo sono, ho rischiato di finire pazzo e schiacciato dalla delirante componente sonica di questi artisti strampalati. "Coffinswell" e "Leatherhead" sono gli ultimi due oscuri episodi di questa dannata e mortifera release, il cui target francamente, si mantiene relegato ad un ristrettissimo numero di fan, che ancora una volta, non include il sottoscritto. Malvagi. (Francesco Scarci)

sabato 9 maggio 2020

Baume - Un Calme Entre les Tempêtes

#PER CHI AMA: Drone/Electro/Ambient
Juif Gaetan è il classico polistrumentista con un piede in più scarpe. L'abbiamo apprezzato nelle sue versioni black nei Cepheide e negli Scaphandre, ora abbiamo modo di godere delle sue gesta anche in questi stralunati Baume, senza contare poi che il mastermind parigino presta i suoi servigi anche ai Rance e ai Basilique. 'Un Calme Entre les Tempêtes' è il terzo EP in tre anni per la one-man-band transalpina, dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal debut 'Les Années Décapitées' e dal successivo 'L'Odeur de la Lumière'. Tre i pezzi proposti da Juif, per un lavoro che sembra prendere drasticamente le distanze dal passato post-black dell'artista, proponendo infatti già dall'opener "Rien ne Dure", un ambient oscuro, per una song che si affida esclusivamente ad un beat elettronico che prosegue in un loop per 12 minuti, richiamando in un qualche modo la colonna sonora del film 'Inception'. Solo nel finale, la song sembra acquisire una forma di canzone con l'aggiunta di una flebile linea di chitarra, il tutto rigorosate in forma strumentale. La title track prosegue con questo mood trance electro-beat, con in aggiunta una voce spettrale che ricorda quella dei Decoryah, mentre in sottofondo si srotolano ancestrali melodie. Devo ammettere che non è di certo facile affrontare un mattone del genere se non si è degli amanti di simili sonorità droniche, soprattutto poi se il sottoscritto si aspettava di affrontare un nuovo episodio post-black. Nel frattempo si arriva alla terza song, "Octobre", una traccia che per lo meno sfoggia, almeno in apertura, una chitarra vera e propria, coadiuvata poi da una serie di synth e amenità varie che in poco meno di due minuti ne stritolano la portanza, quasi a farla sparire. Ma la linea di chitarra, come la propagazione di un'onda sonora sinusoidale, si muove attraverso picchi e valli, nascondendosi e palesandosi nell'ennesimo loop ipnotico di questo strampalato lavoro, che mi sento di consigliare a soli pochi eletti, dotati del proverbiale terzo occhio. (Francesco Scarci)

mercoledì 22 aprile 2020

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

giovedì 13 febbraio 2020

Aes Dana – Inks

#PER CHI AMA: Electro/IDM
Cosa dire di più di Aes Dana non saprei, produttore, compositore, dj, co–proprietario della Ultimae Records, sperimentatore elettronico e conoscitore di paesaggi sonori a tema ambient tra i più prolifici del panorama. Con questo suo ottavo album, il musicista francese si cimenta in un mastodontico lavoro che racchiude tutte le sfaccettature del suo stile, optando questa volta per l'uso massiccio di ritmi rubati alla drum' n bass ed alla techno trance/IDM di prima scuola. Ipnosi ed iperspazio sonoro rappresentano le parole d'ordine di 'Inks', che ci fanno entrare in un mondo astratto e visionario, cosmico e rarefatto, costruito su suoni introspettivi, microscopici e pulsazioni quasi industriali, bassi profondi e drone music partorita da sintetizzatori infiniti. Cascate di suono cristalline si riversano in un mare lisergico sospeso nel nulla (a riguardo ascoltatevi lo splendido brano "Peace Corrosion"). Undici brani medio lunghi, tutti tra i 6 e gli 8 minuti circa, dal fascino notturno e crepuscolare, un disco da assaporare obbligatoriamente da soli, al buio osservando un cielo stellato in piena notte, suggestivo, evocativo. Alta qualità del suono e produzione modernissima e spettacolare come di consuetudine in casa Ultimae (con l'edizione digitale su bandcamp a 24 bit che è ormai un appuntamento immancabile), copertina eccelsa come da copione per l'etichetta di Lione, una lunga carrellata di musica avvolgente ("Alep Offset" è una vera gemma sonora), che usa un linguaggio digitale per raccontare storie e intrighi di vita come dichiara Vincent Villuis (aka Aes Dana). Un ottavo disco che si presenta come un ottimo biglietto da visita, un'introduzione alle opere dell'artista, forse non il suo album più intimo ('Pollen' rimane il mio preferito di sempre) ma sicuramente l'opera ideale per approcciarsi alla sua arte più recente. 'Inks' è l'ennesimo tassello di qualità che va a rinforzare la già immensa cattedrale del suono ambient di casa Ultimae Records. Un ascolto obbligato per gli amanti della musica elettronica d'ambiente, quella più più sofisticata e ricercata. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2019)
Voto: 80

https://ultimae.bandcamp.com/album/inks

martedì 14 gennaio 2020

Action & Tension & Space - Explosive Meditations

#PER CHI AMA: Psych Rock
Tre pezzi per quaranta minuti di musica strumentale, quella dei norvegesi Action & Tension & Space. Moniker particolare, ma anche la musica di questo 'Explosive Meditations' non scherza affatto in peculiarità. Lo dimostra subito l'opener "Peruvian Dream", libera ad abbandonarsi nella più pura improvvisazione tra un drumming tribale, tocchi di mellotron e organo, con una fumosa atmosfera da lounge bar, e a sguazzarci in mezzo troviamo delle sorprendenti chitarre rock che fluttuano nell'etere fantasioso di questi quattro musicisti che inglobano tra le proprie fila membri di Soft Ride, The Low Frequency In Stereo, Ape Club, Electric Eye e Lumen Drones. La loro militanza in queste realtà particolari si materializza in questo trittico di song altamente fulminate che ricordano i Pink Floyd più deliranti e sperimentali, ma anche le divagazioni frastornate e lisergiche dei The Doors. La band ci tiene a far sapere che il disco è stato registrato sull'isola di Karmöy durante una due giorni di pioggia pesante e burrasca che in un qualche modo deve aver influenzato gli umori del disco, conferendogli una maggiore dinamicità. E io non posso far altro che apprezzare e godermi i meditabondi impulsi sonici della band che si gioca la carta dell'onirino nella successiva e un po' strampalata "Mørke Skyer Over Sildabyen", fino ad arrivare alla conclusiva "Destroyer of All Worlds", gli ultimi venti minuti scarsi di una release senza alcun dubbio coraggiosa, che ha ancora modo di soggiogarci attraverso il sound cosmico, dronico, ambient, a tratti anche fumantino, di una band che vi invito caldamente ad assaporare in tutte le sue peculiari venature sonore che potrebbero evocare addirittura i Motorpsycho di un ventennio fa. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

martedì 7 gennaio 2020

Vanessa Van Basten – La Stanza Di Swedenborg

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post-metal/Post-rock/Drone/Ambient/Shoegaze
Quando mi chiedono quali gruppi rimpiango di non aver visto dal vivo, il mio pensiero non va a mostri sacri ormai scomparsi da tempo: non che non pagherei cifre folli per un fantascientifico viaggio nel tempo che mi permetta di assistere ad un’esibizione dei Joy Division, ma trovo più frustrante essermi perso band andate recentemente incontro a silenziose uscite di scena dopo una carriera lontano dalle luci della ribalta e che, tuttavia, ritengo altrettanto fondamentali. Ecco perché io risponderei: Breach, Botch e soprattutto Vanessa Van Basten.

Il progetto nato dalla mente del guru Morgan Bellini, poi affiancato dal bassista Stefano Parodi (e, in alcuni episodi e in sede -dei rari- live, dal batterista Roberto Della Rocca), si è esaurito nel 2015 dopo due full length e diverso materiale tra EP, raccolte e collaborazioni; tuttavia permane attorno ai Vanessa Van Basten quell’aura di mistero che li ha caratterizzati fin dal 2006, quando questa creatura dal nome enigmatico (da me inizialmente attribuito ad un’improbabile antenata olandese di Chelsea Wolfe) emerse dal vivace sottobosco musicale di Genova, città troppo spesso portata agli onori della cronaca solamente per ciclici disastri ambientali e sociali.

È proprio il senso di catastrofe in agguato, di inevitabilità, ma anche di una sorta di serenità nell’affrontare l’ignoto a caratterizzare il miscuglio di doom, psych-drone, noise e post-rock che è 'La Stanza di Swedenborg', seconda release dei nostri e loro manifesto artistico, un disco di straordinaria intensità e dalle mille sfumature che, a mio parere, domina la costellazione della musica underground nostrana e non. Uscito nel 2006, l’etichetta genovese Taxi Driver Records, in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione, lo ha rimasterizzato e ristampato in versione vinile: quando l’ho scoperto sono corso ad ordinarlo (malgrado all’epoca non avessi ancora un giradischi!) ed ora eccomi ora qui a consumare la copia n° 266 delle 500 stampate.

“Si lasci andare, ma non completamente,
non completamente, deve restare nello stato intermedio
non vada in direzione della luce, non lasci La Stanza Di Swedenborg!”


Questo sussurra ad una moribonda la medium protagonista della miniserie di Lars Von Trier 'The Kingdom', unica componente vocale intellegibile del disco e prova dell’influenza di alcune pellicole di culto nel concepimento dei lavori della band genovese (ricordiamo le citazioni di Dune e Mulholland Drive nel primo EP). Noi obbediamo, rimaniamo paralizzati in questo luogo allo stesso tempo inquietante e affascinante, immersi nelle atmosfere sepolcrali evocate dai lugubri accordi di chitarra e storditi dagli improvvisi cataclismi sonici che portano la tensione all’estremo.

“È bello stare lì!”


La tilte-track, che con la successiva “Love” costituisce i sei minuti più disturbanti della storia della musica, è la perfetta fotografia dell’opera: un turbolento oceano di suoni, le cui correnti capricciose rappresentano la psiche umana costantemente in balia di angosce profonde e paure irrazionali. Ed ecco che in pezzi come “Dole”, “Floaters” e “Vanja”, l‘ascoltatore si ritrova impegnato in una navigazione impossibile, ora cullato dalle dolci maree di chitarra acustica e tastiere sognanti, ora sconvolto dai maelstrom generati dalle potenti distorsioni e dalla furia delle percussioni; tuttavia, per quanto la burrasca ci trascini alla deriva, le forze benevole che popolano La Stanza di Swedenborg intervengono a riportarci sulla giusta rotta con “Il Faro”, mentre il sole più radioso che sbuca tra le nuvole in “La Giornada De Oro” scaccia i fantasmi dell’inconscio e ci permette, sorretti dalle massicce linee di chitarra e basso, di approdare all’eroico epilogo di “Good Morning Vanessa Van Basten!”

Un po’ pittori romantici impegnati nel rappresentare sulla tela l’intero spettro delle emozioni umane alternando tenui sfumature a pennellate feroci, un po’ autori di colonne sonore per futuristici thriller psicologici, i Vanessa Van Basten non hanno ricevuto la meritata considerazione della critica, vuoi perché non di rado frettolosamente ridotti a mera controparte italiana degli Jesu, vuoi per l’atteggiamento discreto ed un’attività live messa ben presto nel cassetto. Eppure la loro discografia mostra un’incredibile capacità nello spingersi ben oltre il solco tracciato da Justin Broadrick e nel combinare le influenze più disparate: dalle melodie decadenti dei Dead Can Dance alle dissonanze angosciose dei Neurosis, dalla soffusa malinconia dei The Cure (memorabile lo stupendo album di cover di 'Disintegration') a criptiche sperimentazioni badalamentiane.

'La Stanza di Swedenborg' è un’opera multiforme e che fonde elementi contrastanti: tenebre e luce, paura e serenità, morte e resurrezione. Dopo centinaia di ascolti continua ad intrigarmi, come se dietro quelle colossali impalcature sonore, tra gli intermezzi acustici e gli arcani effetti ambient, si celasse una rivelazione che è possibile cogliere solo in parte, spingendoci ogni volta a continuare la ricerca. (Shadowsofthesun)

(EibonRecords/ColdCurrent/Radiotarab/Noisecult - 2006, Taxi Driver Records – 2015)
Voto: 95

https://taxidriverstore.bandcamp.com/album/la-stanza-di-swedenborg

giovedì 21 novembre 2019

Golden Heir Sun - Holy The Abyss

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone, Earth, Popol Vuh, Neurosis
Da piccolo amavo esplorare i boschi nei dintorni di casa mia: in realtà più che di boschi si trattava di strisce di verde risparmiate da campi e cemento, ma per un bambino era come entrare in un altro mondo che la fantasia ingrandiva a dismisura e dove il tempo perdeva significato. Una volta mi resi conto dell’arrivo di un temporale solo quando il cielo sopra le cime degli alberi era ormai diventato del colore del piombo e il vento aveva iniziato a fare scempio di rami e foglie: per qualche minuto rimasi immobile, incantato da quello spettacolo al tempo stesso meraviglioso ed inquietante, come se una presenza invisibile stesse manifestando un brusco cambiamento d’umore.

Oggi di quei boschi rimane ben poco, ma l’ascolto di 'Holy The Abyss', primo disco di Golden Heir Sun, mi riporta alla memoria quelle immagini ed un indefinito bisogno di isolamento e contemplazione. Del resto il nuovo frutto del progetto solista di Matteo Baldi, già protagonista in una delle migliori formazioni post metal in circolazione, i veronesi Wows, si configura proprio come un inno in onore della natura, fonte di vita ma anche in grado di scrollarsi di dosso da un momento all’altro questa fastidiosa infestazione di esseri troppo spesso inconsapevoli del fatto di essere solo l’ennesima specie di passaggio su questo pianeta.

Come il precedente 'The Deepest', 'Holy The Abyss' è costituito da un'unica composizione di ben venti minuti di lunghezza che si snoda tra ampie sezioni dominate da atmosfere sacrali, eterei intrecci di chitarra ed esplosioni di dinamica, il tutto concepito come una sorta di rituale catartico volto a ripristinare l’armonia tra l’essere umano e la sua spiritualità più ancestrale. Non a caso, ad accoglierci troviamo il suono oscillante di una campana tibetana affiancata da un lento e malinconico arpeggio di chitarra, mentre da questo ipnotico tappeto sonoro emergono alcuni accordi più duri che si smorzano all’ingresso della voce di Matteo, quasi assorto in un mantra:



“On my hands, Before the Dawn I kneel, in awe.
On my knees, Before the Sun I kneel, in awe.
On my hands, Before the Clouds, I see, rain down.”

Così come l’universo tende inevitabilmente al caos, alla conclusione della “preghiera” corrisponde l’imporsi della chitarra distorta, lanciata in un furibondo crescendo ove il brano aumenta di intensità, raggiungendo il climax al riprendere del cantato, ormai trasformatosi in uno straziante grido:



“Nature is enough, Nature always wins.”

Improvvisamente l’apocalisse sonora si consuma e si disperde come vento: al suo posto riaffiora il vibrare della campana e alcuni tenui accordi che infondono sia un senso di rinnovata quiete che di precarietà, quasi a voler rappresentare il ciclo perpetuo di ordine e disordine che domina il cosmo, nonché il pericolo sempre in agguato degli istinti distruttivi dell’umanità.

Trasporre in note la propria interiorità, le proprie emozioni e suggestioni rappresenta una vera e propria sfida con se stessi, ma a Matteo (non a caso discepolo di maestri quali Neurosis, Godspeed You! Black Emperor e Tool) piacciono le imprese difficili, tanto da concepire questo lavoro come qualcosa che va oltre l’aspetto meramente musicale e che si fonde con altre forme di espressione, allo scopo di coinvolgere l’ascoltatore in questo viaggio introspettivo: parte integrante dell’opera sono infatti le ammalianti coreografie di Giulia, danzatrice che accompagna le esibizioni di Golden Heir Sun, e gli evocativi visual creati da Elide Blind, due componenti fondamentali del progetto che possiamo apprezzare nel videoclip creato per il brano.

Dunque, quale è il messaggio di 'Holy The Abyss'? Una critica ad una vita quotidiana resa sterile dalla superficialità e dalla dipendenza da troppi beni inutili? Un invito a lasciarci alle spalle tecnologia, consumismo e lavori alienanti? Forse. O forse è solo una riflessione su quanto sia meschina l’esistenza senza una presa di coscienza di quanto ci sia di meraviglioso nell’Universo e su quale sia il nostro reale posto in esso. Non basterà a curare questa società malata, ma forse spingerà me a tornare tra i pochi alberi rimasti della mia infanzia e ad inginocchiarmi sulla terra umida mormorando una preghiera:


“Holy the Abyss, free us all.”


(Karma Conspirancy/Toten Schwan/La Speranza Records - 2019)

domenica 6 ottobre 2019

Rev Rev Rev - Kykeon

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative
I Rev Rev Rev sono una di quelle band difficilmente etichettabili che passano dallo shoegaze all’industrial e alla dark wave, passando per vocalizzi eterei, spigolose dissonanze e molto molto rumore. Una prova convincente questo 'Kykeon', meditativo, denso e completo, all’ascolto godibile e mai scontato, con un’energia trascinante e delle atmosfere personali e accattivanti. “Waiting for Gödel” apre il disco con bordate di rumore guidate da una ritmica marziale e concisa; il rumore poi continua, non ci sono giri distinguibili ma solamente una coltre di suono droneggiante. Sembra di sentire il rumore di una fabbrica immensa dove si producono robot senzienti e assetati di conoscenza e di conquista, un esercito di latta che avanza lentamente ma inesorabilmente e che si insinua in ogni angolo del pianeta. Segue “Clutching the Blade” con i suoi scenari abrasivi e ruvidi, i suoi riff davvero bizzarri, quasi psicopatici, ancora più rumore ancora più lame che tagliano carne, terra e pietra. Degna di nota la parte dove la canzone lascia spazio al rumore, come se fosse in realtà il rumore la canzone e tutto il resto di contorno. Tuttavia nulla urta l’orecchio anzi, le frequenze penetrano insistentemente nel cervello annullando ogni altro pensiero. Anche in “3 Not 3” il pattern è lo stesso, solamente in questo pezzo la voce prende quasi un significato salvifico dal noise macabro ed inarrestabile, l’unica àncora di salvezza in un mare di ignoto ostile che tutto inghiotte. I Rev Rev Rev sono in grado, attraverso gli arrangiamenti finemente pensati e realizzati a regola d’arte, di far stare in piedi i pezzi in modo efficace ed originale; la commistione di dark wave, rumore e voci decadenti non è di certo cosa nuova, ma il modo in cui il quartetto di Modena lo propone è qualcosa di assolutamente personale e unico. A volte mi sembra addirittura di sentire qualche eco lontano dei Black Sabbath, saranno i riff demoniaci, la ripetitività delle parti, non saprei, ma qualcosa mi riporta alla mente anche lo stoner e generi di musica decisamente più estrema, ma come dicevamo, la band non può essere efficacemente relegata in un solo ambito musicale. Ascoltare tutto 'Kykeon' è un’esperienza mistica e totalmente immersiva, il flusso è continuo e denso e non molla mai, inoltre il potenziale pubblico è davvero ampio, mi sento di consigliare infatti questo disco a chiunque abbia voglia di sentire qualcosa di energetico, intenso, rumoroso ma allo stesso tempo leggero, ciclico e orecchiabile, al di là delle etichette di genere, al di là delle etichette in genere. (Matteo Baldi)

giovedì 4 luglio 2019

Arcane Voidsplitter - Voice of the Stars

#PER CHI AMA: Drone
Oltre un'ora di musica in tre brani strumentali, una super scalata da affrontare con i belgi Arcane Voidsplitter e la loro ostica proposta all'insegna di un drone dalle tinte funeral. 'Voice of the Stars' è il titolo del secondo album della one-man-band fiamminga, capitana da Stijn van Cauter, uno che suona, tra gli altri, in Until Death Overtakes Me, The NULL Collective e The Ethereal, tutte band che conosciamo bene qui nel Pozzo dei Dannati. Le danze si aprono con le tastiere cosmiche di "Arcturus", un brano che ci porta inevitabilmente verso l'infinito astrale, immersi in mille pensieri esistenzialisti e a quel concetto di finitezza umana di fronte all'immensità dell'Universo. Le melodie soffuse quasi ipnotiche dell'opener m'inducono a questo, a scollegarmi dal mero materialismo e collegarmi di contro ad una spiritualità superiore in un enigmatico flusso dronico che mi spinge a riflettere anche su un altro quesito della scienza "siamo davvero soli nell'Universo?". No, non lo credo, mi piace pensare che ci sia cosi tanto spazio a disposizione là fuori da contenere cosi tante forme di vita che nemmeno immaginiamo. Pensieri, mille quesiti, poche certezze si dipanano nella mia testa mentre scorrono le melodie droniche ancestrali dell'opening track e della successiva "Betelgeuse" che ci catapulta immediatamente sulla stella supergigante rossa che brilla nella costellazione di Orione. Le pulsazioni sonico ambientali che si scorgono in questo angolo della galassia sono piuttosto simili a quelle ascoltate sino ad ora, ma questi quasi 35 minuti di suoni stellari, che somigliano a quelle gigantesche ma minuscole esplosioni che punteggiano le stelle, servono piuttosto a raccogliere altri pensieri e suggestioni, alla ricerca di una pace interiore che sbricioli inutili paure interiori. È musica zen quella contenuta in 'Voice of the Stars', non certo metal, e nemmeno forse vuole esserlo. "Aldebaran" è l'ultimo atto di questo viaggio interstellare, una stella considerata fortunata, apportatrice di ricchezze e onori, ma che qui ci lascia avvolti in un senso di vuoto assoluto, privo di ritmi e d'intemperanze cosmiche, un senso che induce a sognare mondi paralleli, distanti solamente qualche milione di anni luce. (Francesco Scarci)

sabato 25 maggio 2019

I Feel Like A Bombed Cathedral - Rec.Requiem

#PER CHI AMA: Ambient/Drone
La memoria ritorna al testo di una vecchia canzone dei Massimo Volume che mi aveva sempre fatto riflettere: "...mi sento come il tetto di una chiesa bombardata..." e più o meno il moniker di questo nuovo progetto solista dell'implacabile mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, esprime, a mio avviso, lo stesso concetto di stordimento emotivo di fronte ad un mondo moderno, divenuto oramai inconcepibile per gli uomini che cercano di vivere sotto la stella sacra della ragione e della libertà. L'artista francese si rimette in pista e fa uscire questo nuovo album, 'Rec.Requiem', sotto il moniker I Feel Like A Bombed Cathedral. Si tratta di un lavoro perfettamente in linea con i clichè della label italiana, Dio)))Drone, ossia drone music a caduta ottenuta da sperimentazioni musicali ed effetti chitarristici in gran quantità, con qualche leggera impronta ritmica a servire la cascata sonica ideale. Quattro brani mirati, lanciati a medio/lungo raggio, tra gli 8 e i 15 minuti, centrano in pieno la cattedrale delle emozioni, lacerandola, rovinando il suo essere arte, rendendola storpia e brutta, priva della sua entità storica e divina, azzerandone il suo stato di monumento ancestrale, lasciando un vuoto, una lacuna interiore che si riflette benissimo con il titolo doloroso del disco. I primi due brani volano sul ricordo del noise più catartico, come se ascoltassimo 'Metalmusicmachine', cambiandone le coordinate al nero, virando il magma sonico in una salsa più nera e immersa nel sentore sacro e misterioso tipico delle chiese monumentali, mastodontiche e spettrali. Per il brano "Req.", l'atmosfera cambia e sulle note lente, profonde e scandite di un battito ritmico potente e cadenzato, ci sembra quasi di assistere al momento esatto del bombardamento, con i fraseggi, le sperimentazioni e i giochi di chitarra che giostrano le immagini sonore delle esplosioni. Il lutto è compiuto con la docile chitarra eterea e ipnotica di "Rev.", dove Mr. Cambuzat richiama la sua migliore parte interiore e si riappropria in solitudine delle splendide atmosfere post-rock tipiche del suo repertorio, provando a farci sognare per chiudere un drammatico ricordo, e iniziare una ricostruzione difficile, segnata dal dolore. Musica d'ambiente visionaria, dove lo stile e la classe di Cambuzat emergono per diletto, sensibilità e gusto, una capacità innata di creare un film sonoro di qualità e spessore artistico. Nuovo progetto, consolidata bravura. (Bob Stoner)

domenica 19 maggio 2019

Bruce Lamont - Broken Limbs Excite No Pity

#PER CHI AMA: Drone/Ambient Rock
Languida eppure dronizzata (la ficcante "Excite No Pity", successivamente deliquescente verso un noise eversivo alla Godspeed You Black Emperor) od, oppostamente, etno-liofilzzata ("Neither Spare Nor Dispose"), la litania messianica Michael-Gira/ffazzonata messa in scena nei momenti più avant-garde del secondo disco solista di Bruce Lamont, appare comunque di primo acchito come una sorta di schizo-frantumazione del jazz-core stanziale nelle ineffabili menti disturbate dei chicaghesi Yakuza. Un (white) noise liquido, kelviniano (il gelo cosmico espresso in "8-9-3" ne è un esempio) o termodinamico (il caos ronzante di "The Crystal Effect" potrebbe ricordarvi anche un Minipimer rotto), oppure morfologicamente stratificato (gli infiniti loop di "Maclean", ma anche il divertito hereafter-surf "Goodbye Electric Sunday", volendo) nella direzione, sempre che quello di direzione sia un concetto vagamente significativo all'interno di questo album così scarsamente cartesiano, nella direzione dicevo, di una dissolvenza quintessenziale e definitiva: sostenuta da una riverberante chitarra acustica, la straordinaria "Moonlight and the Sea" in chiusura vi suonerà come una sorta di "Space Oddity" kubrickiana. Da ascoltare in cuffia mentre attraversate un buco nero pentadimensionale a velocità curvatura. (Alberto Calorosi)

lunedì 13 maggio 2019

Ho Gravi Malattie - Lithium (Mental Illness)

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Altro capitolo targato Ho.Gravi.Malattie, progetto che associa noise ed arte nell'intento di mostrare e svelare le sofferenze che stanno dietro alle tante malattie che affliggono l'uomo. Una malattia, un disco, questo è il format, con confezione handmade in CDr a tiratura limitatissima (solo 7 copie) ed in futuro prevista anche la versione in cassetta, oltre al formato digitale. Riporto una parte della presentazione dell'artista, perchè troppo bella: è il misantropo (H)organismo.(G)ravemente.(M)alato, un passato da recensore musicale per due importanti webzine italiane e performer del progetto merda-noise chiamato, appunto, HgM. Costui è anche il mentore e custode di questa coraggiosa, morbosa e fantasiosa label DIY torinese, che sforna idee così stravaganti e scomode, e nonostante lo shock iniziale dovuto ai temi non certo allegri delle opere trattate, una volta capito l'intento artistico ci si inoltra nella musica reale, o meglio nel rumore reale. Ho trovato questo a proposito di sperimentazione medica sui ratti: il litio rimane il trattamento più utilizzato per il disturbo bipolare, tuttavia, i meccanismi molecolari alla base delle sue azioni terapeutiche non sono stati completamente chiariti. A tal proposito presumo che il titolo scelto, seguito dalla dicitura "Mental Illness", si sposi benissimo con l'intento di portare in musica il concetto della malattia mentale e qui troviamo molto su cui riflettere. Un deserto sonoro fatto di lunghissimi rumori ambientali di sottofondo, come se fossimo sotto un cavalcavia di un'autostrada cosmica che porta verso l'ignoto, grida disperate e solitudine, isolamento, la tecnica della stratificazione del suono per ottenere un wall of sound fatto di noise e cicatrici sonore rubate all'ambiente che ci circonda. Due sole tracce molto lunghe di quindici ("Lithium") e venti minuti ("Arsenic Death") rispettivamente, esplorano questo triste declino della mente umana, cercando di esportarne le controverse e disperate emozioni che possono convivere in un paziente affetto da tale patologia. Detto questo, per capire al meglio quest'opera, ci si deve apprestare ad un ascolto assai emotivo ed impegnato, visto che stiamo parlando di un ambient/noise ortodosso e mal disposto ai compromessi. Un'opera dura, minimale ma d'impatto e corposa, una nebbia fitta che rapisce i sensi e rende palpabile questa forma atroce di malattia. Un disco/concetto molto violento, non tanto per la musica in sé ma in quanto alle sensazioni malate, è il caso di dirlo, che esso emana. Ovviamente, musica per ascoltatori forti di stomaco ed amanti del noise d'ambiente più estremo. (Bob Stoner)

venerdì 12 aprile 2019

Astral Silence - Sagittarius A*

#PER CHI AMA: Cosmic Black, Mesarthim, Darkspace
I Darkspace devono rappresentare un grande punto di riferimento nell'ambito cosmic black a tal punto che nel loro stesso paese le band crescono come funghi. L'ultima con cui sono venuto fortuitamente a contatto, è rappresentata dagli Astral Silence, una one-man-band a dire il vero, capitanata dal misterioso Quaoar (qui supportato però da altri sei musicisti) che è stato in passato il bassista live dei conterranei Borgne per sei anni. Insomma, il nostro mastermind di quest'oggi è uno che di gavetta ne deve aver fatta parecchia e lo testimoniano anche lo split album e i tre full length che ha alle spalle con gli Astral Silence, di cui quest'ultimo 'Sagittarius A*'. Questo terzo lavoro, uscito in 333 copie per la Transcendance, arriva a cinque anni di distanza dal precedente 'Open Cold Dark Matter' che avevo avuto modo di apprezzare a quel tempo, al pari del debut 'Astral Journey' (che ho recensito su queste stesse pagine). Partendo da quelle premesse, 'Sagittarius A*' (nome peraltro ultimamente passato alla cronaca per identificare una sorgente di onde radio molto compatta e luminosa, situata nel centro della Via Lattea che ospita quel buco nero supermassiccio di cui abbiamo visto recentissimamente le immagini) propone quattro lunghi pezzi che iniziano con le dilatate sonorità di "achernaR", quasi dieci minuti dove convogliano suoni black che arrivano da un spazio intergalattico freddo e distante, buio come solo il nostro sistema solare potrebbe apparire dall'ultimo pianeta nano, Plutone. E forse per questo che il black collide con una forma sonora che potrebbe essere inizialmente accostabile al funeral doom, con una ritmica asfittica e angosciante, e il growling profondo del polistrumentista elvetico a prendersi la scena al fianco delle spettrali melodie di tastiera. In "canopuS" (dimenticavo che i quattro brani hanno il nome di quattro stelle alfa delle loro rispettive costellazioni, Eridano, Canopo, Canis Major e Pavone) la componente atmosferica va acuendosi, riuscendo a trasmettere tutto quel senso di desolazione e vuoto che solo lo spazio infinito sembra offrire. Il cosmic black dei nostri si prende definitivamente la scena e non solo a livello grafico (vedasi l'artwork di copertina) o a livello lirico, con le classiche tematiche spaziali-astronomiche. I riff si presentano glaciali, con la drum machine di supporto e i synth a creare quel tappeto di sottofondo che rappresenta ormai la peculiarità del genere. A completamento del tutto, intermezzi ambient e rumori che sembrano provenire da un'astronave alla deriva nello spazio profondo. Più etereo l'inizio di "siriuS", una sorta di risveglio con la luce lontana di una stella ad innondare il nostro viso che la contempla dal piccolo oblò della cabina della nostra navicella spaziale. Poi è un suono marziale che prende il sopravvento, corredato da altri suoni elettronici e voci raggelanti di sottofondo, e da una melodia che permea il lento incedere di una traccia dai tratti marcatamente doomish che prosegue anche nell'ultima "alphA pavoniS", gli ultimi dieci desolanti minuti di questo inquietante lavoro, che potrebbe segnare un importante passo nella carriera degli Astral Silence per acquisire una maggior visibilità. Per ora, tutti gli amanti di simili sonorità si facciano avanti, in 'Sagittarius A*' troverete certamente un sound sufficientemente lento e freddo con il quale cibarvi negli angoli più reconditi della galassia. (Francesco Scarci)

(Transcendance - 2019)

giovedì 4 aprile 2019

Monarch - Sabbat Noir

#PER CHI AMA: Sludge/Drone
Se qualcuno (come il sottoscritto) si era perso 'Sabbat Noir', quinto album del 2010 dei francesi Monarch, andato sold-out, niente paura, ci ha pensato la Zanjeer Zani Productions (in collaborazione con la Necrocosm) a restituirgli vita e dignità. I Monarch (per cui non è raro vedere il loro moniker scritto anche un ! alla fine) sono una band sludge doom drone francese che francamente non conoscevo, nata dalle parti di Bayonne e responsabile del rilascio di ben otto album e ben nove, tra split, compilation ed EP. Non male come biglietto da visita. E per chi vuole sapere cosa realmente si sia perso da questo 'Sabbat Noir', mi verrebbe da citare le parole del sommo poeta e dirvi "lasciate ogni speranza o voi che entrate". Il disco è un'unica traccia di 29 minuti (ma suddivisa in due parti) di dronico sludge che rievoca proprio la discesa agli Inferi del buon Dante in compagnia del fido compagno Virgilio. Perchè questa similitudine? Presto detto: a parte il riffing ultra mega ribassato e in slow-motion del folle quintetto transalpino (che nelle sue fila vede peraltro un membro dei Year of No Light), anche una serie di voci, sussurri e addirittura ululati, che sembrano proprio rievocare le grida dei dannati nei vari gironi danteschi. Bene, tutto chiaro no? La prima raccomandazione è di starvene alla larga se non siete proprio dei fan del genere, rischiereste di venire asfaltati o peggio risucchiati dalla provocante ed alterata proposta della band. Se poi siete dei curiosoni e poco timorati di Dio, prego fatevi avanti e lasciatevi condurre nelle viscere della Terra per farvi disturbare il cervello con simili sonorità (io, dopo la recensione non mi sono ancora ripreso). Se invece amate il genere o siete dei temerari, beh lor signoria si faccia avanti, si goda il sound asfittico e a rallentatore dei Monarch!, soprattutto nella seconda parte, dove i nostri esibiscono il meglio della propria torbida proposta dove accanto al pestilenziale buio della notte e alle grida lancinanti che ne rompono il silenzio catacombale, riesce addirittura a fare capolino una parvenza di apocalittiche melodie corrotte da Satana in persona. Paura ed orrore nelle vie dell'Inferno. (Francesco Scarci)

(Zanjeer Zani Productions/Necrocosm - 2019)
Voto: 72

https://necrocosm.bandcamp.com/album/sabbat-noir

sabato 23 marzo 2019

Liles/Maniac - Darkening Ligne Claire

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone/IDM
Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo super duo ma, riconoscendo che la musica di questo lavoro è solo una parte di un progetto d'arte visiva ben più esteso, incentrato sulle opere del signore del logo metal, Christophe Szpajde, posso assaporarlo e giudicarlo solo a metà, ascoltandone esclusivamente la musica. Andrew Liles (artista e produttore, con Nurse With Wound e collaboratore dei Current 93) e Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac (ex cantante dei Mayhem) ci offrono in questo 'Darkening Ligne Claire' sette brani dal taglio duramente sperimentale, dove la voce di Maniac viene smembrata e frantumata in mille parti da una serie infinita di effetti fino a farla flirtare con una sorta di ambient minimale ed astratto. Difficile parlare di forma canzone o soundtrack, le composizioni risentono della mancanza visiva (sono state prodotte solo sette copie fisiche speciali di questo album!) e si percepisce che avrebbero un senso completamente diverso ascoltate di fronte ad un'immagine e non così, nude e crude. La musica s'interseca tra suoni isterici rubati ai seminali The Residents e l'elettronica più moderna, con spunti e intuizioni veramente vintage e datati. A volte troviamo anche retaggi sonori provenienti dal mitico 'Scream With a View' dei Tuxedomoon (in versione destrutturata e sgretolata per bene) e stupisce poi l'uso dell'harmonizer, quanto l'assenza totale del ritmo scandito solo da accenni ricavati dal parlato di Maniac. Un lavoro ostico e difficile da inquadrare, sicuramente singolare conoscendo il background dei due artisti, misteriosa l'idea di battezzare tutti i brani con un nome di una band black metal o comunque appartenente al circuito metal estremo di cui Szpajde ne ha disegnato il logo, un singolare tributo a queste band oppure un'originale fonte d'ispirazione? "Enthroned" è un finto brano di elettronica drum'n bass scarnificato e disossato di tutto, lasciando con solo piccole frazioni di suono a dettar legge, "Slauther Messiah" con "Wolves in the Throne Room" sono i due brani che mi hanno colpito maggiormente, il primo per la sua veste così drammatica e il secondo per la sua apertura cosmica verso un ignoto buio astrale. Come già accennato, il disco si presenta con un suono di confine non accessibile a tutti e fatto apposta per intenditori voraci di musica ultra sperimentale, anime mai sazie di nuovi orizzonti, come il sottoscritto. 'Darkening Ligne Claire' alla fine è un album tutto da interpretare e di difficile approccio, solo per appassionati del genere. (Bob Stoner)