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domenica 28 agosto 2011

Degradead - Out of Body Experience

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Mercenary, Soilwork, In Flames, At the Gates
Mosh, mosh, mosh… sto ancora scuotendo la testa al ritmo dei soliti riffs svedesoni, con questi Degradead che sbarcano nel super affollato mercato discografico, rilasciando un killer album che li possa proiettare verso il successo. La band scandinava rilascia “Out of Body Experience”, secondo album in studio il cui risultato si conferma buono già dalle prime battute. Tutto è già scritto, d’altro canto: supportati alla grande dalla loro etichetta, il quintetto di Stoccolma farà sicuramente sfracelli con questo cd, che per quanto di poco innovativo abbia da dire, sfodera di per sé un’ottima produzione ai famigerati Abyss/Black Lounge Studio, sotto l’egida di Jonas Kjellgren (Scar Symmetry, Sonic Syndicate, Carnal Forge). Il sound dei nostri nelle (troppe) 14 tracks, segue un filo conduttore ben definito: assimilati al meglio gli insegnamenti swedish death dei maestri At the Gates, il combo scandinavo fonde la propria musica con gli stilemi moderni della nuova ondata di band provenienti dalla Svezia (Scar Symmetry per intenderci) e dal filone intrapreso dagli In Flames negli ultimi lavori (a volte si sfiora un po’ il plagio). Insomma senza girarci troppo intorno, i nostri suonano un validissimo death thrash, reso melodico dalle distintive chitarre di chiara matrice svedese, da qualche passaggio acustico ben riuscito e dalle clean vocals che si intrecciano al cantato growl che richiama fortemente quello di Bjorn Strid Speed (cantante dei Soilwork). Come per il precedente lavoro, “Til Death Do Us Apart”, la band diciamo che si limita a fare bene il proprio compitino, raggiungendo abbondantemente la sufficienza, ma niente di spettacolare: i pezzi si susseguono uno dietro l’altro, alternando parti dalle ritmiche serrate ad altre molto più melodiche e orecchiabili per quei suoi inserti assai catchy. Non c’è niente da fare, la Svezia continua a dettare leggere e ad essere sinonimo di qualità, anche se di nuovo lassù non si inventa più nulla… (Francesco Scarci)

(Dockyard 1 Records)
Voto: 70
 

3,14 - неизбежность

#PER CHI AMA: Doom, primi Anathema
Avete presente quando Indiana Jones trova una misteriosa tavoletta in una sperduta catacomba e anche se non sa la lingua con cui è scritta ne conosce comunque il significato intrinseco? Bene… l’album di cui vi sto per parlare corrisponde proprio a questa tavoletta, misterioso nella forma e nella realizzazione. Si presenta come un doppio cd, nero e verde, sui quali capeggia un enigmatico pi greco (π). È appunto il pi greco, nella sua forma di 3,14, l’unica cosa che può arrivare a comprendere un occidentale leggendo le parole del book interno. Devo ammettere che la scelta di questa band di attenersi completamente alle tradizioni del loro paese d’origine (l'Azerbaijan) è alquanto affascinante. Se vogliamo limitarci alle liriche, le cose non cambiano nemmeno nell’ascolto. Non esiste una sola parola di inglese. Parlando delle melodie invece… Beh, siamo di fronte a qualcosa di ancestrale bellezza. Personalmente considero questa musica come un branca innovativa e molto particolare del più vasto insieme doom. Dagli archetipi di indispensabile paragone affiorano immediatamente stralci vividi degli Anathema degli esordi. Voci pulite esalano gli ultimi respiri in una terra venefica sull’orlo del disastro; musica post apocalittica, senza ombra di dubbio, che celebra in ogni sua nota una fine neanche tanto lontana. In questa nenia disperata spiccano basse frequenze di un growl pestifero e accorto, con pieno diritto di cittadinanza in uno scenario nichilistico. La copertina dell’album riporta un’abitazione abbandonata da tempo, catturata in sgranate variazioni di nero e giallo-verdognolo. L’immaginazione si è lasciata colpire dalla vacuità stereotipata di un occidentale datato e mi ha fatto pensare subito al disastro di Chernobyl. Anche se non è (totalmente) così, i 3,14, con questo loro "неизбежность" adombrano comunque nelle loro ritmiche un andamento da esodo di massa, accarezzando il tema di un umanità al di là del baratro. Materiale e spirituale. Questo è potente doom di nuova generazione. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 90
 

Kurouma - 3

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Negli ultimi anni i territori del nord Europa (Finlandia nello specifico) sono divenuti luoghi d’elezione per nuove sonorità ed evoluzioni di generi. Nella maggior parte dei casi queste innovazioni si sono applicate fortunatamente all’ambito metal, e hanno contribuito a generare band impegnate in stili musicali di matrice raffinata, ricercata, complessa nel suo divenire, restia ad assumere una forma ben definita. In questo magnifico panorama sorgono senza timore i Kurouma, gruppo di indiscutibile qualità tecnica, caratterizzato da un sound potente ma assolutamente non invasivo (a livello d’ascolto). I Kurouma reinterpretano le lezioni di band come i primi Meshuggah (?) e Neurosis con uno sguardo d’affetto ai Katatonia e agli Anathema di “The Silent Enigma”. Sentirete tutto questo dentro le 5 tracce che compongono l’album, tracce organiche, momenti di distopia che continuano anche al termine delle singole melodie. Vi accorgerete del passaggio tra una canzone e l’altra solo quando il vostro lettore lo segnerà, tanto è marcata la volontà di creare un’opera unica. Un ceppo davvero molto interessante di un’evoluzione del metal che non ha riscontri in altre simili band blasonate. Anche la voce, che ci si aspetterebbe in growl, colpisce per la sua novità: pulita e unita ad un urlato possente, non in screaming, che esalta ogni emozione con una violenza malinconica di riverente fattura, e trascina i nostri sensi lungo il percorso incerto della vita. Caratteri del post-rock s’innervano sottopelle per conferire a psicotiche visioni un’ipnosi da overdose di ascolto. Sono melodie che non cambiano: evolvono! Tastiere delicate accompagnano passaggi di batteria uniformi alla distorsione delle chitarre. Perfino il basso è perfettamente udibile. Che dire… Se siete dei tipi maledettamente malinconici ma non eccessivamente depressi, questo album sarà il sottofondo perfetto per ogni momento della vostra giornata.Ed ecco la domanda più importante: esiste un gruppo, alla portata di tutti, che incarni i sentimenti di dolore umano in una musica potente, senza tuttavia celare elementi ‘bui’? Una sola parola, miei consimili: Kurouma. (Damiano Benato)
 
(Self)
Voto: 90
 

domenica 21 agosto 2011

Drom - I

PER CHI AMA: Post-hardcore/Sludge, Neurosis, Isis, The Ocean
Che meraviglia l’underground, sembra quasi di fare un giro nella savana, alla ricerca degli animali più difficili da scovare e non avete idea di quale soddisfazione si possa percepire nel vedere in mezzo ai cespugli dei ghepardi o dei leoni che riposano, cosa che si potrebbe fare semplicemente stando nella propria città e andando allo zoo. Però volete mettere il fascino di essere voi stessi ad andarli a scovare, con i propri mezzi e il proprio intuito? Quando mi metto alla ricerca nel web delle band, faccio la medesima cosa, cerco delle tracce che mi possano portare a trovare qualcosa di sconosciuto o misterioso. Oggi la mia ricerca mi ha portato a scoprire questa interessante realtà, i Drom, provenienti dalla Repubblica Ceca. La band di Liberec propone quello che negli ultimi mesi si sta rivelando il mio genere preferito, il post-qualcosa e cosi, penserete voi, è più facile conquistarmi… sbagliato, anzi, se mi trovo tra le mani qualcosa di mal suonato, lo stronco con ancor più motivata cattiveria e competenza. Ma non è certo il caso di questi indecifrabili ragazzi, che nelle loro quattro tracce e più di mezz’ora di musica, mi sparano in faccia un connubio tra post-hardcore, straziato da vocals prettamente screaming black. La bellissima song posta in apertura, “Nicole”, ci indirizza immediatamente verso le sonorità dei nostri, con le ritmiche pesanti ma malinconiche che vengono spezzate dal guaito lancinante di Charlie. Seguono le cupe melodie di “I am Spartacus”, song che sottolinea l’emblematica influenza dei soliti Neurosis, nell’economia della band ceca, a livello di ritmiche, sempre molto pesanti, cadenzate, apocalittiche e talvolta ripetitive, per un risultato finale davvero convincente, peccato solo per quelle stridenti vocals che faccio ancora fatica a digerire. Peccato anche non poter parlare dei testi, completamente scritti in lingua ceca. Però la musica del quartetto, nel suo evolversi continua a piacermi sempre più, conquistandomi alla grande, ringraziando anche il fatto che il buon Charlie (a cui suggerisco di modulare meglio i suoi vagiti e cercare anche di conferire maggior spazio a qualche lamentoso passaggio o qualche incursione pulita, come accadrà nella terza song) non canta poi molto. “Private Snowball” è un pezzo dall’incedere dapprima cauto, oscuro e minaccioso, con un ottimo lavoro alle chitarre e dietro le pelli, dove un formidabile Vrablodron picchia come un dannato e la musica si attorciglia pian piano lungo le nostre gambe iniziando a salire e poi, come un boa costrictor, arriva fino alla nostra gola, premendo, con accelerazioni imprevedibili, soffocanti, impedendoci di poter gridare aiuto. Quanto mi esaltano questi suoni, quanto mi riempiono il cervello, portandolo alla saturazione e all’esplosione finale, che caratterizza l’ultimo minuto e mezzo della traccia. I conclusivi dieci minuti abbondanti di “Jack Torrance” ci danno il colpo di grazia, portandoci con le proprie paranoie e turbamenti interiori, verso il fondo dell’abisso. Che dire di una band fino a ieri a me sconosciuta? Ce ne siano di ensemble validi e preparati come i Drom, nello sperduto e infinito mare dell’underground: mi risparmierei volentieri di andare a fare qualche giro inutile allo zoo, dove tutto è già cosi stereotipato e dove so perfettamente cosa aspettarmi. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Baht - Bilinçten Derine

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Kalmah, Susperia
Sono le tre di un pomeriggio insolitamente freddo per l’estate quando mi accorgo di essermi trasformato in un fottutissimo headbanger attempato. Non ci sono i Testament nelle mie cuffie, né il vecchio Mustaine inferocito o i brutali Morbid Angel. No. Stiamo parlando dei Baht, una band thrash-death (con qualche via di fuga prog) che infierisce piacevolmente sui sensi dell’apparato uditivo rievocando momenti di gioventù e schizofrenie latenti. Tradizione e innovazione per un album che si inserisce a pieno titolo in un genere che aveva bisogno, e mai come ora, di una spinta decisa verso la sperimentazione e la qualità tecnica. E allora, signore e signori, ecco presentarsi nella scena metal i Baht, con un lavoro memorabile che saprà certo farsi apprezzare sia dagli estimatori del death che dai sostenitori indefessi dei riffoni thrash. Maturità evoluta in tutte le tracce. Le novità si presentano in questo caso durante il lavoro songwriting e della creazione dei vari inserti armonici, una vera manna per le orecchie. Dimenticate l’uso esclusivo della batteria in fuga e delle chitarre compresse. I Baht strutturano ogni singola opera in modo ineccepibile, trasportando elementi alternati di scala in corde alte all’interno di ritmiche decisamente pesanti, e il risultato è magnifico. Vi troverete di fronte a entusiasmanti contrasti di alti e bassi (soprattutto negli assoli) nello stile dei Kalmah, o in quello di una band a me molto ma molto cara che considero innovatrice dal ‘thrash ragionato’ sotto tutti i punti di vista, i Susperia. Maestose anche le ballate che troverete più o meno al termine di ogni singola traccia. Innesti di sound progressive vengono qua e là accennati; mi chiedo se non sia questa la strada che la band turca vuole percorrere nel prossimo futuro. Non farebbe affatto male una ventata di aria fresca in un panorama stagnante, dove il dominio assoluto, chissà perché, proviene nel 90% dei casi da gruppi di nazionalità statunitense. Quindi questo è quanto: guardate a “Bilinçten Derine” come ad un prezioso regalo in un mercato che in questi tempi vomita prodotti noiosi e ripetitivi. Mi stupisco di come ancora il loro nome non sia associato ad altri grandi del genere. Se mi chiedessero che cos’è il metal, i Baht sarebbero una di quelle band che consiglierei subito ai neofiti. C’è tutto quello che serve qui dentro. Anche di più. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 85

sabato 20 agosto 2011

Consciousness Removal Project - The Last Season

#PER CHI AMA: Post/Progressive, Isis, Decoryah, Neurosis, Pelican, Mogway
Per una volta tanto non dirò ai miei lettori di prendere carta e penna e segnarsi il nome di questa band in quanto il cd è completamente sold out (semmai andatevelo a scaricare dal sito ufficiale della band), ma la mia segnalazione va alle etichette discografiche italiane, che non si facciano scappare l’ennesima new sensation che arriva dal freddo nord della terra dei mille laghi. Cosi da Tampere in Finlandia, ecco accomodarsi nel mio stereo un fantastico lavoro, che fin dalle iniziali note mi ha messo a totale agio con l’ascolto di questa perla. Antti Loponen è la persona responsabile di tutta questa meraviglia (liriche, musica e arrangiamenti), che mi avrà anche fatto penare per riuscire ad avere questo cd di 5 pezzi, per un totale di 40 minuti, ma sicuramente l’attesa ne è valsa la pena. Il lavoro si apre appunto con le suadenti note post metal di “Soil Sacrifice”, 11 minuti di musica sofferente, dilaniante l’anima (ottima la voce di Antti), sempre melodica e dinamica, capace di seguire i dettami delle band leader di oggi in fatto di post (Isis, The Ocean, Pelican, Rosetta) e secondo me fare ancora meglio grazie all’inserimento di violini (fantastica la parte conclusiva della opening track, che poi si abbandona ad un vibrante quando mai caldo ed emozionante assolo finale), violoncelli e theremin (che per chi non lo sapesse è il più antico strumento musicale elettronico inventato in Russia nel 1919). Sono ancora inebetito da cotanta bellezza dei suoni proposti da questo ennesimo eccezionale collettivo proveniente dal nord Europa, che vengo investito dal riffing pachidermico di “Moraine”, una sorta di Mastodon in acido che decidono di rallentare il proprio sound nella vena dei Mogway, piazzandoci sopra un bel cantato cavernoso, prima di ricordarsi che sia il caso di citare anche i maestri del genere, Neurosis e Isis, giusto per non fare un torto a nessuno. Quello che ne esce alla fine è un qualcosa dotato di una propria spiccata personalità che alla fine riesce nell’intento assai arduo di prendere le distanze dalle band appena citate. I miracoli della tecnologia eh già: mettere insieme in un bel pentolone tutto quello che abbiamo a portata di mano e farne uscire una succulenta e prelibata pietanza. I Consciousness Removal Project riescono in tutto questo e io mi sbrodolo ascoltando queste sonorità che riverberano nel mio cervello portandomi allo sballo più totale (e senza assumere alcun tipo di droga). Concediamoci una breve pausa ambient prima dei lunghi dieci minuti della esplosiva “Kyoto”, che ben presto si trasforma nelle più dolci delle song, con tocchi di piano vibranti, malinconiche melodie, immagini di foreste dapprima verdeggianti, solcate da bellissimi fiumi blu, poi devastate dalle fiamme avvolgenti che portano soltanto morte e distruzione. Rimango paralizzato di fronte a questo sobbalzare di emozioni altalenanti nel corso di questa meravigliosa song quasi interamente strumentale, una canzone che sembra raccontare quali siano i cataclismi naturali che potranno ben presto colpire il nostro pianeta, ma un barlume di speranza c’è ancora e lo si capta nei passaggi atmosferici e acustici del brano che nella mia mente ha fatto sobbalzare il ricordo degli ormai andati Decoryah. Straordinario l’uso degli archi, degli arrangiamenti, tutto il brano in essere che si candida ad essere uno dei miei preferiti dell’anno e già mi mordo le mani se qualcuno farà finta di non vedere questa band o la ignorerà, a costo di metterla io sotto contratto… La conclusiva title track mi conferma che una nuova mostruosa realtà musicale ha acquisito una propria identità e consapevolezza: ecco comparire una rasserenante clean vocals che forse ci annuncia che la fine del mondo (forse quella che incombe nella cover cd) non è ancora cosi vicina, anche se nubi oscure stanno per avvicinarsi minacciose. Scoperta eccezionale questi Consciousness Removal Project. Dirompenti e geniali! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

Dwelling - Humana

#PER CHI AMA: Folk, Neoclassic, Dead Can Dance, Miranda Sex Garden
I Dwelling nascono nel 1998 come progetto solista di Nuno Roberto e con l'intento di creare musica basata interamente su strumenti acustici, ispirata ai paesaggi costieri dell'Algarve. Col passare del tempo il progetto si arricchisce dell'apporto di altri musicisti e nel 2001 esce un mcd, "Moments", per Equilibrium Music, etichetta personale di Nuno Roberto. La line up del gruppo portoghese in tale lavoro si è estesa a cinque musicisti, grazie all'ingresso in formazione di Catarina Raposo alle voci, Silvia Freitas al violino, Nicholas Ratcliffe alla chitarra e Jaime Ferreira al basso. La natura esclusivamente acustica rimane un segno distintivo nei Dwelling, che nel 2003 pubblicarono "Humana", il primo full length. Nove canzoni vibranti di emozioni dense e struggenti, nelle quali la voce incantevole di Catarina Raposo gioca, intrecciandosi, con le chitarre acustiche e il violino e che si sviluppano in passaggi dal tocco sensibile e appassionato. Sembra essere un tratto tipicamente portoghese l'ardente malinconia che si posa con grazia nelle note di quest'album, soprattutto in "Silêncio Intemporal", "Tecelões da Nova Realidade" e "O Cinzel do Tempo", cantate in lingua madre e, non nascondo, le mie preferite, in quanto sono i momenti più sentiti. Lo spazio di silenzio tra i pezzi è quasi ridotto al minimo, forse a voler trasmettere un senso di dinamica evoluzione che fa di "Humana" un'unica opera in divenire, dove le canzoni hanno senso solo se inserite nel contesto generale, perché singolarmente perderebbero la loro intensità e apparirebbero come un tassello al quale manca il resto della struttura. Degne di menzione anche le altre canzoni che compongono l'album: "The Wheel", "Remember Virtue", "As the Storm Chants", dove la componente neo-classical si sprigiona in tutta la sua leggiadria, "Lingering Stupor", "Chasing the Rainbow's End" e "Reality that Remains", nelle quali si scorgono gradevoli episodi dal sapore folk e tradizionale. Unica pecca è forse da ricercarsi nel fatto che al primo ascolto l'album può risultare un po' troppo uniforme e non immediatamente emozionante, ma sicuramente è un'opera che va scoperta e merita di essere ascoltata con attenzione, solo così si può apprezzarla fin nel profondo della sua anima. "Humana" non è un'opera per tutti, ma solo per chi sa lasciarsi carezzare dal romanticismo degli strumenti classici. (Laura Dentico)

(Equilibrium Music)
Voto: 75
 

Influence - Where Does Your Way Lead To?

#PER CHI AMA: Techno Death/Thrash, Death
Non è stato particolarmente facile trovare qualche informazione su questa band polacca, proveniente da Goleniów e dal look molto accattivante. L’EP in questione rappresenta il loro esordio assoluto, una miscela incandescente di death tecnico, a tratti melodico. L’album si apre con il basso incendiario di “Mental Disease” e la martellante batteria di Karol. La song però quando scopre la sua componente chitarristica, perde un po’ in potenza, in quanto i riffs stanno un po’ troppo in secondo piano e non esplicano al meglio la potenza del quartetto polacco. Peccato, perché se le sei corde di Arek e Sowa, seguissero il roboante incedere fornito dal drumming furioso, sicuramente ne avremo sentito delle belle. La voce dello stesso Arek lascia un po’ a desiderare, ma sono certo che ci sono ampi margini di miglioramento. “World of False” attacca in maniera ancora una volta esplosivo grazie all’egregio lavoro dietro le pelli, ma il techno death dei nostri risulta ancora penalizzato dalla pessima registrazione delle chitarre, sempre abbandonate in secondo piano, salvo in quei casi in cui la batteria lasci completamente il campo agli assoli delle due asce, che si riveleranno assai interessanti. Il fantasma di Chuck Schuldiner e soci, aleggia costantmente nelle songs di questi Influence, però là eravamo ad altri livelli, grazie alla classe cristallina dei singoli musicisti. “Lie Poetry” presenta inizialmente un suono un po’ più bilanciato, ma poi, al solito le chitarre si perdono per strada come un lontano eco nel deserto, nonostante la song si palesi con un configurazione prettamente thrash. Ancora una volta è un peccato che i nostri non abbiamo potuto godere di una registrazione all’altezza, che avrebbe certamente conferito più spessore alla proposta e avrebbe fatto godere appieno dei suoni rilasciati dalle scorribande vetrioliche dei due chitarristi. La conclusiva “Nightmare” conferma le buone potenzialità della band mittleuropea, ma il consiglio che ci sentiamo di dare è sicuramente quello di dare una maggiore dignità ai suoni delle chitarre, spesso intrappolate dall’esponenziale potenza del divertente drumming. Cosi come pure, darei più che volentieri una sgrezzata alla voce, talvolta banale. Comunque una sufficienza abbondante mi sento di darla a questi ragazzi, spronandoli fin d’ora a rivedere alcune cosine nel proprio sound alla ricerca di una propria precisa identità che non rischi cosi spesso di sconfinare nel già sentito. Forza, è tempo di rimboccarsi le maniche! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65
 

Ektomorf - What Doesn’t Kill Me…

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Sepultura
Deve essere una costante per gli ungheresi Ektomorf aprire il proprio lavoro con suoni abbastanza etnici, perché ricordo che anche quando recensii “Outcast”, l’album si apriva con un'ancestrale melodia di un didjeridoo. Anche qui, ma solo per una manciata di secondi, si respira qualcosa di tribale, che poi si scatena nel thrash/death super ritmato, in pieno Sepultura style (era “Chaos A.D.”), che caratterizza drammaticamente l’intero lavoro. Quindi capirete quanto sia facile recensire un lavoro di questo tipo, che di certo non brilla in originalità, essendo estremamente derivativo dalla band sud americana. Che volete che vi dica, un po’ di tristezza me la fa ascoltare questa release: sentire suoni che sono nati più di 15 anni fa e a distanza di tempo, vedere che c’è ancora chi si ostina a ripetere pedissequamente gli stessi riffs, mi fa parecchio incazzare. A differenza del precedente album poi, mancano quei richiami etnico popolari (a parte i 10 secondi centrali di “I Got it All”) che mi avevano fatto apprezzare la musica dei nostri in passato. Solo “Sick of it All” prova ad uscire dagli schemi con l’utilizzo di vocals quasi rappeggianti e un’energia decisamente superiore alle altre song. Nonostante la partecipazione di Lord Nelson (Stuck Mojo) e Mille Petrozza dei Kreator, la bombastica produzione dell’onnipresente Tue Madsen, "What Doesn’t Kill Me…” si rivela alla fine, troppo statico nel suo incedere, senza una impennata, una uscita dagli schemi o comunque qualcosa in grado di smuovere l’ascoltatore: solo ritmiche scontatissime, vocals alla Max Cavalera e una ripetitività estenuante che mi costringe a bocciare il lavoro. Della serie “piccoli Sepultura crescono”, ma da una band che da quasi 15 anni calca la scena, mi aspettavo ben altro. (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 50
 

Memories of Pain - .rewind

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir, Emperor, Aborym
Ancora Italia e sempre più Italia in questo mercato discografico brulicante di bands spesso inutili. Però oggi sono fiero di presentarvi una band, che per quanto giovanissima e in taluni frangenti mostri ancora un po’ di immaturità, farà ben presto parlare di sé. Si tratta dei pugliesi Memories of Pain, capaci nel corso di queste 11 tracce, di sorprenderci con linee melodiche e soluzioni musicali assai interessanti. Si parte con la solita intro e poi già da “Absentia Mentis” è chiaro che i nostri non siano assolutamente degli sprovveduti. Chitarre in pieno stile Dimmu Borgir schizzano via veloci come la luce: si stagliano su di esse meravigliose partiture tastieristiche che vanno ad intersecarsi con improvvisi stop’n go e altri effetti in grado di stordirmi e sorprendermi non poco, che di questo periodo è cosa assai rara. Dopo gli otto minuti e più della seconda traccia, ecco arrivare “Impera, Aeterna Roma” dove fanno la comparsa le liriche in italiano in pieno stile Aborym (da sottolineare che in “The Last Portrait” compariranno addirittura versi tratti dall’Inferno di Dante). Lo spettro degli Emperor aleggia in tutti i 70 minuti e passa di questo lavoro, ma sinceramente me ne frego. Se la musica è ben suonata, ricca di idee ed imprevedibilità (ascoltate l’orientaleggiante “Black Queen” per capire), per quanto possa richiamare alla mente mostri sacri del passato, sarò ben lieto di propagandarla al mondo. E devo ammettere che “.rewind” è un album con le palle, cosi come questi giovani ragazzi di Acquaviva delle Fonti mostrano un grado di maturità che talune band, cosiddette veterane, neppure se la sognano. Non è da tutti comporre pezzi lunghi (che si assestano sui 7-8 minuti), altamente strutturati e caratterizzati da un tasso tecnico assai elevato, senza annoiare; i Memories of Pain centrano in pieno l’obiettivo sfoderando una prova intelligente che riesce a coniugare il black sinfonico norvegese con certe sonorità death progressive, vero punto di forza di questa release. Qualche accorgimento deve ancora messo appunto: migliorerei le growling vocals ed eviterei il più possibile l’uso dei blast beat assestando il sound più su mid-tempos piuttosto che su ritmiche serrate, però sono certo che se saranno seguiti da vicino da persone competenti, il quintetto italico mostrerà la propria bravura al mondo intero. Avanti cosi! (FrancescoScarci)

(Self)
Voto: 75

Solution .45 - For Aeons Past

#PER CHI AMA: Melodic Death, Soilwork, The Few Against Many
Frequentando varie testate di settore e webzine, un dato di fatto salta subito all’occhio: “For Aeons Past” è un album che ha diviso la critica in giudizi nettamente contrastanti. Per questo motivo pare quasi d’obbligo un invito a ridimensionare i miei toni entusiastici a chi non prova grande sintonia con il filone melodico del death, genere che in passato ha visto come precursori i Soilwork, autori di almeno una tripletta di album assolutamente riusciti. Chi invece rimane ancora legato a tali sonorità e prova dunque nostalgia per l’energia di lavori come “Natural Born Chaos” o “Stabbing the Drama” potrà trovare nei Solution .45 materia di assoluto appagamento. Il paragone insistente con i Soilwork trova fondamento in alcune tangibili peculiarità che accomunano le due formazioni svedesi, dagli intrecci melodici di gran classe, all’alternanza continua tra il canonico growl ed i ritornelli di voce pulita di facile appiglio. Tuttavia, il contenuto di “For Aeons Past” non deve essere scambiato per uno sterile surrogato di quanto già proposto dai cugini di Helsingborg. I Solution .45 puntano ad un approccio piuttosto personale al genere, giocando su contrasti nettamente più marcati tra la brutalità del death e momenti di un lirismo quasi “pop”. Complice di quest’attitudine tra l’estremo e l’accessibile non è solo la complessa ossatura ritmica dei brani, ma anche l’eccelso contributo vocale di Christian Älvestam, fino al 2008 tra le fila degli Scar Symmetry ed ora attivo anche in band quali Miseration e The Few Against Many. Älvestam è superbo nel modulare le parti di voce pulita su registri che per molti altri cantanti del genere risulterebbero impervi e risulta ugualmente convincente nelle esplosioni rabbiose di growl, quando deve sostenere i passaggi più violenti. E di violenza in “For Aeons Past” ce n’è parecchia, stemperata unicamente in un paio di episodi come “Lethean Tears” e “Into Shadow”, che assumono il ruolo di vere e proprie ballad. In realtà quasi tutti i brani dell’album potrebbero fungere da “radio-hit-single”, ma mi limito a citare “Gravitational Lensing”, forse perché scelta dal gruppo per la realizzazione di un videoclip ultra-professionale o forse perché riassume in poco meno di cinque minuti tutte le caratteristiche che rendono i Solution .45 un gruppo d’alta caratura: una spruzzata di tastiere mai invadente che dona all’insieme un tocco di modernità assolutamente efficace, l’apporto di Älvestam che, come ampiamente sottolineato, è il vero punto di forza della band ed infine un lavoro di chitarre che vede gli “axeman” Jani Stefanovic e Tom Gardiner rincorrersi in una serie di virtuosismi da capogiro. Un’ultima nota di servizio va spesa per la partecipazione di Mikael Stanne dei Dark Tranquillity, che oltre ad aver preso parte alla scrittura di quasi tutti i testi, appare attivamente in veste di guest vocalist in "Bladed Vaults" e "On Embered Fields Adust". Cosa chiedere di più? (Roberto Alba)

(AFM Records)
Voto: 80
 

giovedì 21 luglio 2011

Collateral Damage - Collateral Damage

#PER CHI AMA: Heavy Thrash, Iron Maiden, Judas Priest
Chiudo gli occhi, schiaccio play e mi sembra di essere tornato negli anni ’80, vi giuro. Ho i jeans grigi strappati, il giubbino in jeans senza maniche (ovviamente strappate) e la fascia di spugna sulla fronte. E mi lancio in un selvaggio headbanger per la stanza (intanto, faccio anche un po’ di air guitar). Bravi questi Collateral Damage, ottimi musicisti. Mi piace questo lavoro del quintetto viterbese. Di primo acchito, mi scapperebbe di dire che si rifanno quasi completamente al classic heavy metal, tipo Iron Maiden e Judas Priest, giusto per citarne un paio. Questo il filone dove inserirei il disco, però, dopo un ascolto più attento, in realtà non mancano spunti di altro tipo. Riffoni thrash metal molto anni ’90, un certo qualcosa di selvaggio dell’hair metal e altre influenze sono dietro l’angolo. Prendiamo l’inizio della open track “The Sin Flower”: ecco io ci trovo qualcosa delle atmosfere dei The Cult. Giurerei di sentire all’inizio di “Drunk in Bloody Rain” una citazione musicale, peraltro molto azzeccata, della scena finale del film “Blade Runner” (“Io... ne ho viste cose...” tanto per chiarire). Nulla da dire sulla parte musicale e della produzione: le grandi capacità del combo si sentono davvero benissimo. Apprezzabili in particolare le chitarre, molto ordinate, con accordi e assoli puliti, potenti. Notevole il cantante, tiene molto bene tutto l’album e sciorina un gamma vocale niente male. L’album mostra una certa coerenza nello stile compositivo; le tracce sono tirate come si deve e, sebbene non ci siano grandi innovazioni, non stancano e anzi tutto gira liscio che è un piacere. Non manca (come potrebbe?) la power ballad: in “Light in the Dark Side” si dispiega tutta la capacità melodica del gruppo (notare gli accordi di violino) e non è niente male. Segnalo inoltre la finale “Man of Brain”, molto particolare per il ritmo più veloce rispetto alle precedenti canzoni. Se non si fosse capito, sono rimasto colpito da questo platter. Ascoltatevelo fiduciosi. Bravi, bravi, bravi. (Alberto Merlotti)

(Alkemist Fanatix Europe)
Voto: 80