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#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner |
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo nello spazio interstellare, ecco che i Kayleth fanno ritorno a casa. La band veronese torna infatti col terzo full length intitolato 'Back to the Earth', continuando con quella loro bella abitudine di trattare tematiche filosofico/spiritual/sci-fi a livello lirico. Il disco include dieci song e la prima cosa che avverto all'ascolto dell'opening track "Corrupted", è un forte ancoraggio dei nostri ai classici del passato, pur non rinunciando alle caratteristiche space rock che ne hanno contraddistinto le loro ultime release. Ma quello del quintetto veneto, più che un ritorno sulla Terra, mi pare piuttosto un ritorno alle origini, là dove tutto è cominciato. Black Sabbath e Kyuss tornano ad essere le preponderanti influenze di questa nuova fatica. La song pertanto mette in mostra un bel riffone di matrice sabbatthiana, con la voce di Enrico Gastaldo però che rimane quasi strozzata in sottofondo, mentre le keys di Michele Montanari assurgono sempre quel ruolo di arrangiamento che va a riempire a tutto tondo il sound dei nostri. Il brano va comunque in levare, con una bella base ritmica che accelera anche grazie alle martellate sulle pelli erogate dal sempre puntuale Daniele Pedrollo. "Concrete" è violenta e abrasiva sin da subito, una cavalcata desertica che trova il proprio ristoro in un litanico break centrale ove dar sfogo a tutte le visioni lisergiche dettate dalla Psilocibina contenuta nei funghi di quei luoghi cosi desolati. I giri di chitarra e basso, a cura del duo formato da Massimo Della Valle e Alessandro Zanetti, ci conducono ancora indietro nel tempo, anni '70 per l'esattezza; quello che non mi torna invece è ancora la voce del buon Enri sommersa da una produzione probabilmente troppo ovattata. Con "Lost in the Canyons", i nostri proseguono sulla medesima pista desertica, guardando questa volta agli Hawkwind, percependo anche un che dei System of a Down in una qualche nota di chitarra, e sottolineando poi come l'ipnotico incedere ritmico venga costellato dai pregevoli synth di Mick che qui assumono quasi la fisionomia del frinire dei grilli nella notte. Se non mi sono poi bevuto del tutto il cervello, mi pare di udire in questa traccia anche il verso di quello che sembra essere un sax ad arricchire i nebulosi arrangiamenti dei nostri. "The Dawn of Resurrection" è un'altra bell'esempio della roboante proposta dei nostri, guidata qui dal basso stentoreo di Ale che, a braccetto col rutilante drumming di Dany, mette a ferro e fuoco un'aria già di per sè incendiata. Qui l'influenza degli Electric Wizard torna a riaffacciarsi, cosi come quella dei Queens of the Stone Age, il cui fantasma aleggia un po' ovunque nel disco. Con "Delta Pavonis", i Kayleth vogliono ricordare parte del loro viaggio intergalattico quando si affacciarono alla costellazione del Pavone, a quasi 20 anni luce dal nostro sistema solare. I suoni da queste parti appaiono più freddi e rarefatti, anche se le melodie delle keys cercano di riscaldarli guidando poi un inebriante giro rock'n roll a base di chitarra e basso. È poi ancora una ritmica pesante quella contro cui sbattiamo il muso nell'incipit di "By Your Side". Mentre le tastiere fanno il diavolo a quattro, la voce di Enri prosegue nel suo evocare il vecchio Ozzy. Quello che preferisco della song è però quel finale etereo tra chitarre e keys che ne rendono davvero giustizia. "Electron" è un pezzo magnetico d'altro canto con un titolo del genere che cosa vi aspettavate? Carico grondante di groove fin dalle note iniziali, il brano scivola che è un piacere in bilico tra uno stoner rock mid-tempo, un post-grunge e una darkwave di fine anni '80, senza troppi fronzoli e trovate, il che ci mostra un lato ancora nascosto del quintetto italico. La sua essenza è tanto perfetta quanto imprevedibile, ideale per un po' di meditazione alla ricerca del proprio IO supremo, l'autocoscienza, prima che nel finale i nostri riaccendano i motori della propria astronave e decidano di riprendere il volo. "The Avalanche", come una valanga, ci investe in modo forse volutamente un po' disomogeneo, mentre "Sirens" ha un che di decisamente magico ed esoterico nei suoi solchi, forse la traccia più strana ed originale del disco, anche se dobbiamo ancora commentare "Cosmic Thunder", la song che furbescamente (e maliziosamente) chiude il disco. Si tratta di una track dall'incedere disco dance anni '70/80 che ci mostra come, in perfetta simbiosi col rock rude dei Kayleth, ci sia ancora molto da scoprire in questa parte non del tutto esplorata di mondo. (Francesco Scarci)