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domenica 25 settembre 2011

Lost Conception - Paroxysm of Despair

#PER CHI AMA: Techno Brutal Progressive Death, Pestilence, Death
Abbastanza controverso l’ascolto di questo cd: se dai primi due minuti d’ascolto di “Pathetic Existence” mi ero convinto di avere fra le mani un prodotto di brutal techno death, ecco cadere ogni mia convinzione con la seconda metà del brano, dove passaggi acustici, melodici e atmosferici, ci consegnano una band camaleontica, in grado di cambiare vestito in pochissimi secondi da qualcosa di devastante e ferale a qualcosa di assolutamente tranquillo o al limite dell’imprevedibilità. E cosi anche con l’incipit di “Useless Shell of Void” vengo prontamente annichilito dalla potenza di fuoco del quartetto russo di Krasnoyarsk, prima che il mio cervello subisca un nuovo intervento lobotomizzante per le ritmiche schizoidi della band. Album di debutto col botto per i Lost Conception che nelle note di “Paroxysm of Despair” mischiano in modo egregio ritmiche infernali a la Death, con incursioni devastanti a la primi Pestilence. Mi ritrovo alla terza traccia con le ossa già pesantemente frantumate e fortunatamente il ritmo di “Urbanistic Echoes of Evolution” non è tra i più veloci viaggiando su un mid tempo che comunque fa degli improvvisi cambi di tempo, della elevata tecnica e dell’improvvisazione, il proprio punto di forza, per non parlare poi dell’esagerata sezione solistica, dove il duo Doctor/Verz (tra l’altro anche entrambi i vocalist), duetta con delle saettate impressionanti per tecnica e per gusto estetico. Sono compiaciuto, devo ammetterlo: l’orribile copertina non lasciava presagire nulla di buono e invece, come si suol dire, “l’abito non fa il monaco”, ed ecco che il contenuto di questo album di debutto, farà sicuramente la gioia di chi ama un techno progressive death e di chi ha una profonda nostalgia dei riffs del buon Chuck Schouldiner. Le liriche di questo micidiale lavoro, vertono poi sul degrado della società moderna, ormai allo sbando tra mille scandali e manipolata dai media (“Human Becomes an Idiot”) o prossima all’autodistruzione attraverso una qualche guerra chimica o nucleare (“Society Equals Zero”). Chissà se c’è uno spiraglio a questa continua corruzione dell’animo, di sicuro i Lost Conception provano a illuminarci questa difficile lunga strada, con grande classe e convinzione. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 80

Black Messiah - The First War Of The World

# PER CHI AMA: Viking Black, Thyrfing, Ensiferum, Manegarm
Tornano i crucconi Black Messiah, a distanza di quasi tre anni dal precedente “Of Myths and Legends” e la proposta del combo di Gelsenkirchen non cambia di una virgola il proprio sound rispetto al passato, della serie “squadra che vince non si cambia”. Si tratta sempre di un pomposo black metal in pieno stile vichingo con una pesante spruzzata di suoni folk (per quell’utilizzo di violino e mandolino). Più che dalla Germania, i nostri sembrerebbero decisamente provenire dalle lande nordiche della Lapponia, tante e tali sono le influenze derivanti dai vari Ensiferum, Korpiklaani o Finntroll, tanto per citarne alcuni. La struttura dei brani è quella consolidata: chitarre potenti, tirate a tratti a livelli black con ottime melodie che dipingono paesaggi invernali, ricordando i suoni degli ahimè scomparsi Windir, melodie su cui poi si insinuano i vocalizzi di Zagan (talvolta fastidiosi in quello stile birreria di Baviera) e le aperture epico-sinfoniche, in alcuni casi al limite del power. Quello che più mi piace del cd, ma che forse rischia alla lunga di stancare è l’uso del violino, strumento che peraltro adoro, ma che qui è fin troppo spesso abusato. Comunque il sestetto teutonico ha un buon gusto per le melodie inneggianti ad Odino, che rievocano riti pagani ed oscure epoche medievali. Per chi ama il black vichingo, per chi ha voglia di brandire spade al cielo o per chi desidera divertirsi o rilassarsi ascoltando un disco piacevole, in un periodo non certo brillante in ambito metal, di sicuro non può perdersi questo nuovo lavoro dei Black Messiah, i nuovi paladini del Valhalla! (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 75

sabato 24 settembre 2011

Until My Funerals Began - Behind the Window

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, My Dying Bride, Saturnus
Della serie “My Dying Bride rules”. Eh si perché, in questo ultimo periodo sono molti i cd passati tra le mie mani che si rifanno alla band inglese. Il secondo album del terzetto ucraino Until My Funerals Began è fra questi, e fin dalle sue note iniziali, quei tocchi di pianoforte della title track, non possono che richiamare le gesta dell’ensemble britannico, guidato dal carismatico Aaron Stainthorpe. A differenza della band d’oltre Manica però, il trio di Donetsk offre sonorità molto più rallentate, tipiche del funeral doom, con una ritmica marziale contraddistinta dall’uso (fastidioso) della sintetica drum machine, con il growling soffocante di Coroner che si alterna a quello più graffiante (e talvolta pulito) del factotum Rumit. Si apprezza tuttavia la dinamicità di un brano monolitico, il che sembrerebbe giustamente un controsenso, tuttavia, nonostante la pesantezza del rifferama, e la lunghezza del brano, alcune soluzioni atmosferiche affidate alle tastiere, alleggeriscono di non poco la proposta dei nostri. Cerco conferme alle mie teorie nei successivi sedici minuti di “Snowflakes”, pezzo dal feeling estremamente malinconico per quell’uso, mai esagerato ma di sicuro impatto, del piano. La voce è pulita, con un qualcosa che richiama i Saturnus dell’EP “For the Loveless Lonely Nights” e una sezione ritmica, mai dirompente, con il basso talvolta sopra le linee a disegnare deprimenti passaggi di un autunno non ancora arrivato in fatto di stagionalità, ma che in realtà riempie tutti i solchi di questo lavoro. Certo affrontare questi cinque pezzi, la cui durata media si attesta sui tredici minuti, non è tra le cose più semplici da fare, tuttavia, mi lascio sedurre dal sound, sempre pregno di tristezza, del combo dell’ex repubblica sovietica. Peccato ancora una volta sottolineare quanto l’utilizzo di un vero batterista, potrebbe dare maggiori benefici ad un lavoro che già di per sé risulta più che soddisfacente, e che alla fine ci regala molteplici spunti di interesse grazie alle sue brumose suggestioni autunnali. A volte mi domando se siano realmente le condizioni climatiche o socio-politiche di determinate nazioni a condizionarne il sound, però devo ammettere che è estremamente curioso notare che la maggior parte delle band dedite a queste sonorità plumbee sia originaria di paesi dell’ex blocco sovietico o della Finlandia. A parte queste considerazioni, anche con “Questions” e le conclusive “Funeral Waltz” e “To the Sun” si fa assai complicato trovare un barlume di luce e positività nelle note di questo disco. Piacevoli sì questi Until My Funerals Began, anche se tuttavia le possibilità di stancarsi di fronte a simil proposta sono piuttosto elevate. Arrivo al termine di questi 64 minuti sfibrato, logorato dall’asfissiante monoliticità del sound del terzetto ucraino, che ha bisogno ancora di levigare qualcosina per potersi offrire ad un pubblico più ampio, per ora invece destinata solo a pochi adepti della scena. (Francesco Scarci)

(Silent Time Noise Records)
Voto: 70

Inner Missing - The Age of Silence

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
Nuovo album dei My Dying Bride? No, non credo proprio, ma il sound proposto dal combo di San Pietroburgo non si discosta poi cosi tanto da quanto offerto negli ultimi anni dall’act della terra d’Albione. Il four-pieces russo propone infatti un death doom di pregevole fattura che, forse solo nella sua opening track, non convince appieno, avendo quel sapore un po’ troppo scontato. Con “My Sickened Hope” invece, l’act della “Venezia del Nord” cambia registro e fornisce una prova davvero eccellente con pezzi ispirati che richiamano fin dal riff, posto in apertura di traccia, i gods inglesi e poi grazie alla prestazione vocale, eccelsa e sofferente di Sigmund, spingono per trovare una collocazione di prestigio nella scena death doom internazionale, a fianco di band del calibro di Saturnus e Swallow the Sun, su tutti. A parte queste due band, spunti provenienti dagli esordi degli Anathema, emergono prepotenti in questa prima fatica discografica degli Inner Missing, che segna appunto il loro debutto su lunga distanza, dopo l’EP “All the Lifeless” del 2009. Tutti questi riferimenti a molteplici band non sono da prendere tuttavia con negatività, in quanto il quartetto della città degli zar, reinterpreta con indubbia personalità, uno stile che sta vivendo il suo massimo splendore, grazie anche all’oculatezza di etichette come la Darknagar Records o, sempre rimanendo in territorio russo, Solitude Production e BadMoodMan Music. Intrigante la strumentale “Euphoria”, capace con il suo ritmo incalzante, ma al contempo atmosferico, di instillare un vortice di emozioni contrastanti nell’animo dell’ascoltatore. Un arpeggio apre “For Your Light”, song che gioca ancora una volta la carta “prova eccezionale del proprio vocalist” che, alternandosi tra un growling convincente e quel cantato tipicamente disperato alla Aaron Stainthorpe, garantisce al risultato finale, una elevata qualità. La prova strumentale degli altri membri non è poi da meno, con un riffing portante massiccio, ma sempre pervaso da una componente melodica, malinconica e drammatica assai importante, capace costantemente di portare vibrazioni nelle orecchie ma soprattutto nel cuore di chi li ascolta. Sono sorpreso e compiaciuto di questa prova degli Inner Missing, a conferma del fatto che questo genere, che sembrava essersi perduto in passato, con la virata verso altri lidi da parte dei Paradise Lost e dei già citati Anathema, oggi goda invece di tutto questo interesse e possa mostrare band di assoluto valore come i russi di quest’oggi. Ora sono curioso di ascoltare il nuovissimo “Escapism”. (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 80

giovedì 22 settembre 2011

Infernal Poetry - Nervous System Failure

#PER CHI AMA: Techno Death, Grind Sperimentale, Avantgarde
“Warning! This is not a conventional metal album; if you want to listen to a conventional metal album, please insert a conventional metal album into the player and press play. Otherwise, just wait for a few seconds and relax…if you can”. Ecco lo “User Advisory” con il quale si apre la terza pluri rimandata fatica dei marchigiani Infernal Poetry, un album che effettivamente di convenzionale ha ben poco. Si parte con la brevissima “Post-Split Anathemas” e tutto è già scritto: il quintetto italico ha mantenuto intatto il proprio stile musicale fatto di chitarre al limite della schizofrenia. La successiva “Forbidden Apples”, già presente nel mcd apripista di qualche anno fa, ci ricorda nei suoi due minuti quanto la band si trovi a proprio agio su ritmiche veloci e assai movimentate al limite del grind, mentre “Brain Pop-Ups” mostra il lato più oscuro/sperimentale degli Infernal Poetry. Un altro vecchio pezzo, “They Dance in Circles” (ma come gli altri completamente riregistrato e riarrangiato), ci mostra invece quanto la band sia abile nel produrre song completamente imprevedibili, estremamente brutali e ultra tecniche. Esaltanti, avvincenti, psicotici, “Nervous System Failure” è come un cavallo imbizzarrito, indomabile, che credi sia li per li per cedere e invece ecco esplodere come una scheggia impazzita. Pensavo infatti che i campionamenti di termosifoni, mura domestiche e loop elettronici contenuti in “The Heather, the Wall, the Hitter” fossero un tentativo di percorrere altri percorsi musicali simil industriali, ma in realtà è solo un antipasto per “The Next is Mine”, forse la traccia più convenzionale dell’album, con quel suo rifferama influenzato da Sepultura e Pantera. In questa song fa anche capolino la voce del buon vecchio Trevor dei Sadist, che si affianca a quella magnifica e vetriolica di Paolo Ojetti, uno dei migliori vocalist del panorama italico. La song si evolve poi velocemente in anfratti oscuri e malati della psiche umana con i riffs di Daniele e Christian a rincorrersi come pazzi. “Nervous System Failure” è un turbinio di emozioni maledette che si accavallano costantemente nella nostra mente, deturpandola di quel poco di sanità mentale rimasta. “Back to Monkey” è un’altra piccola gemma capace di alternare momenti furiosi ad altri assai melodici. La bravura del combo marchigiano sta proprio nell’essere capace di spiazzare, sorprendere, ubriacare, violentare l’ascoltatore in un brevissimo lasso di tempo. Un altro avvertimento a non andare ci viene fornito con “La Macchina del Trapasso”, ma noi ce ne freghiamo e imperterriti ci dirigiamo verso la fine che si preannuncia assai scoppiettante. Ciò che differenzia questo album dal precedente lavoro è forse una minor immediatezza e melodia dei brani, ma forse è meglio cosi. C’è talmente tanta carne al fuoco qui, da stare ad ascoltare questo lavoro per mesi. Un altro “vecchio” pezzo, “Pathological Acts at 37 Degrees”, richiama maggiormente la passata produzione della band con le un po’ più chitarre più lineari, un cantato più normale e qualche richiamo qua e là ai System of a Down più selvaggi. Si continua in questo climax ascendente di brutalità e follia collegate, per l’ultimo parte di questo mirabolante cd, che merita assolutamente il vostro curioso ascolto. Quello che avete fra le mani di certo non è nulla di convenzionale o già sentito. I nostri sono dei maestri nell’improvvisazione, della destabilizzazione della psiche umana, sono ottimi musicisti dotati di idee brillanti ma non di cosi facile impatto. Chiude la tribale e psichedelica title track, song che sancisce la grandezza di questa band italiana. Se siete quindi alla ricerca di qualcosa di innovativo, straripante, estremo, geniale, gli Infernal Poetry rappresentano finalmente la risposta che state cercando. Vi prego, supportateli, non ve ne pentirete!! (Francesco Scarci)

(Copro Records)
Voto: 85

Hyra - Seek for Salvation

#PER CHI AMA: Deathcore, Infernal Poetry, Akercocke
Una campana in lontananza, il suono di un temporale, delle urla disumane e una sirena, annunciano l’inizio dell’incubo targato Hyra, una giovane ma promettentissima band proveniente da Padova, che propone un sound estremo, ad elevato tasso tecnico-stilistico e dall’impatto totalmente devastante, che non lascerà il minimo scampo a nessuno. Dopo l’intro si parte facendo subito sul serio, con i nostri che dimostrano di che pasta sono fatti, attaccandoci con un terzetto di song davvero brutali (di cui “Let the Dead Bury the Dead” è la mia preferita): chitarre estremamente potenti e tetre, sorrette da due batterie annichilenti, dal growling profondo dei due vocalist e da un basso schizofrenico, ci conducono in un mondo psicotico, dove nulla è concesso al caso. Sono già stordito dopo pochi minuti, ma fortunatamente arriva il suono di un carillon a donarci una attimo di respiro, ma è pura illusione: dopo 50 secondi si ricomincia con un concentrato di violenza e i nostri tornano a far davvero male, col loro suono affascinante, conturbante e malvagio, che con la melodia, sia ben chiaro, non ha nulla a che fare. Tuttavia mi ritrovo inconsapevolmente a sbattere la testa come un pazzo trascinato dall’aggressività che i 7 (!?) membri della band sono in grado di trasferirci. Il morbo degli Hyra ti assale e a poco a poco ti fa suo e la pazzia ci avvolge, come fossimo la più inerme delle prede. Arriva il momento anche del suono tribal-orientaleggiante di “Lord Belial”, che continua col suo incessante e frastornante feeling a disorientarci non poco. Non finiscono le sorprese con gli Hyra e anche nelle ultime song i nostri continuano abilmente a giocare con schemi assolutamente imprevedibili, dove le chitarre si rincorrono tra continui cambi di tempo, stop’n go repentini e frangenti atmosferici (come in “I Can’t Believe”), mostrando una gran classe e una buona originalità, elemento assai difficile da ritrovare nelle band di questi tempi. Che dire ancora? Se siete amanti di esperienze forti, fatte di sonorità fresche, sperimentali ma abbastanza estreme, gli Hyra faranno di certo al caso vostro… Consigliatissimi! (Francesco Scarci)

(Sweet Poison Records)
Voto: 80

Au Sacre des Nuits - Anti Humain

#PER CHI AMA: Black/Ambient/Funeral/Doom, Pensees Nocturne
Glaciali, mortiferi, ipnotici, depressivi, neri come la pece, apocalittici come poche band sentite nell’ultimo periodo. Ne sono certo, questa è una delle nuove interessanti band provenienti dall’Est Europa, non posso sbagliarmi. E invece no, gli Au Sacre des Nuits vengono dall’inusuale Brasile (inusuale per questo genere intendiamoci), cosi come qualche tempo fa gli Helllight mi avevano sorpreso, anch’essi brasiliani, anch’essi sotto etichetta russa. E allora forse le label della vecchia repubblica sovietica ci vedono lontano e vanno a pescare oltre oceano e, che dire, quelle che abboccano sono interessantissime realtà provenienti dall’underground. La musica della band è frutto della mente malata di Necrophelinthron e i brani (sei e lunghissimi) contenuti in questo “Anti Humain”, non sono altro che gli incubi dell’unico componente dell’ensemble brasilero, che ci trascina con veemenza e angoscia, all’interno delle proprie paure, soffocandoci con ambientazioni oscure, harsh vocals, melodie soffuse, graffianti e seducenti riffs presi in prestito dalla tradizione norvegese (ancora una volta Burzum docet), passaggi doomish (ricordate i primi ossessionanti Void of Silence), vocals femminili e quant’altro. Insomma all’interno dei 50 minuti di questa release c’è davvero di tutto, anche se non credo sia del tutto accessibile a chiunque ascolti musica metal in genere. Ecco, vi suggerisco di avvicinarvi con estrema cautela a questo disco, non vorrei mai che la ferocia black di “Le Prisme De Apollon Captivé” possa seriamente danneggiarvi i vostri padiglioni auricolari o l’ambient della successiva “La Pulsion Dévore” rischi invece di annoiarvi. Con la terza traccia e la lunghissima “Sur Résilience”, la one man band sudamericana potrà avvicinarsi a chi ha ultimamente apprezzato i lavori all’insegna del shoegaze/post rock di Alcest o il black d’avanguardia dei Pensees Nocturne, il tutto però penalizzato da una registrazione non proprio all’altezza. Strafregandomene anche questa volta dell’assenza di una registrazione cristallina, mi lascio sedurre dalla brutalità dei suoni qui contenuti, che spesso finiscono per miscelarsi con dolcissimi tocchi di pianoforte o campionamenti vari. Sarà una mia impressione, ma chissà perché le mie orecchie finiscono per percepire anche echi dei primissimi Katatonia nelle linee di chitarra di questa inaspettata band che di sicuro non è cresciuta sulle spiagge assolate di Copacabana, ma che forse ha vissuto piuttosto la povertà tipica delle favelas della periferia delle grandi metropoli brasiliane, riportando poi tutti i propri demoni nei solchi di questo deviato lavoro. Che dire di più, il funeral dei Au Sacre des Nuits ha saputo conquistarmi e ridarmi ancora interesse per un genere che nell’ultimo periodo sta rischiando seriamente il sovraffollamento. Decadentisti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75
 

domenica 18 settembre 2011

Ad Inferna - Trance'n'Dance

#PER CHI AMA: EBM, Trance, Industrial
Mi trovo tra le mani una band, francese, che si scosta parecchio dal genere di musica che normalmente ascolto e che allieta le mie giornate: i francesi Ad Inferna infatti, con il loro terzo lavoro, propinano un mix di elettronica, industrial metal, trance e dance: non sarà un'impresa semplice recensirlo, ma vediamo di cominciare. L'album si apre con "Fade to Grey", cantata in inglese e in francese, dal sound che varia dal tranquillo e dolce ad un sound più di stampo industrial, che si avvale anche di cori femminili. "Métamorphose" è meno veloce della traccia precedente, ma tendente più al gothic (perdonate quest'eresia, ovviamente rimango sempre sullo stile trance, non al puro gothic metal) caratterizzato da atmosfere cupe elettronicizzate (a me ricordano tanto il personaggio di Abby nel telefilm “NCIS”, solita ad ascoltare musica di questo genere), che terminano con una semplice sfumatura. "Rédemption" si apre con un ritmo irreale, come se si stesse preparando ad un'esplosione: giusto un pizzico di drum machine, frasi in francese, cori femminili e un sintetizzatore che accelera il ritmo man mano che la traccia prosegue, ma senza diventare martellante, per terminare con una frase ripetuta più volte, in stile mantrico. "SM for SM", la quarta traccia, ricalca le atmosfere e il sound dell'iniziale “Fade to Grey”, con un ritmo però più incalzante. "Suicide Girl" inizia con un connubio di drum machine e keyboards, oltre ad una voce femminile molto suadente: il ritmo rimane tale, senza cambiare di una virgola, per tutta la durata del brano; e come per "Métamorphose", la traccia finisce con una semplice sfumatura. "Transcender l'Estase" riprende il ritmo di "Métamorphose" usando la voce campionata per farla sembrare più inquietante, ma non troppo. "Vertige" rimanda la mente alla pura elettronica anni '80, con un sound molto pacato e quasi impercettibile, per ribaltarsi da metà in poi, aumentando leggermente di velocità e continuando ad avvalersi della eterea voce femminile molto dolce. "You as My Own Drug" mescola un po' tutto quanto ascoltato finora, con un risultato tranquillo e agitato al tempo stesso: l'impronta industrial è sempre presente, sebbene messa spesso in ombra, ma dà un tocco particolare a questo miscuglio di sonorità e generi diversi tra loro, creando un lavoro strano ma piacevole all'ascolto. L'album presenta 4 remix, uno del dj Beborn Beton e del dj Combichrist per la canzone “Vertige”, che si differenziano dal fatto che uno predilige un remix più pulito e semplice, mentre l'altro fa un maggiore utilizzo del sintetizzatore; il dj Soman remixa “Transcender l'Estase” campionando la voce per renderla “stile Gollum” e più vicina al genere House e l'ultima "revisione" è ad opera del dj Reaper nel brano “Rédemption”, di stampo più cupo e cattivo. Sebbene io non sia un'estimatrice di questo genere, né dei remix, concludo dicendo che per una “fuga” dal metal questo album è l'ideale, ma preso a piccole dosi e lontano dai pasti. (Samantha Pigozzo)

(Aural Music)
Voto: 65
 

AV Project - This Century

#PER CHI AMA: Hard Rock, Heavy Metal easy listening
Non fatevi fregare dalla copertina: non avete a che fare con un prodotto da discoteca, né con un album progressive/elettronico. Avrete, invece, tra le orecchie dieci brani prettamente melodici, orecchiabili, con pochissime influenze metal. Questa è la prima volta che sento gli AV Project: un quintetto di Parma capitanato dal singer Alberto Venturini, dalle cui iniziali origina il nome della band. Cerco informazioni su di loro solo dopo un primo ascolto di questo “This Century”, loro prima fatica. Venturini è un insegnante di canto all’accademia di Modena, il chitarrista Jonathan è anch’egli insegnante. In effetti, da un punto di vista puramente esecutivo, il CD è veramente ben fatto. Mi lascia invece abbastanza freddo riguardo all’originalità. I riferimenti musicali del quintetto sono diversi, direi che gran parte delle track sia influenzata dell’hard rock e da quel metal anni 90 easy listening con il quale ho un rapporto molto conflittuale di odio/amore. Poco, qualche sprazzo deriva dal metal più classico.Cercate un disco pieno di ballad di una volta, tranquille, bene eseguite, con qualche accordo maggiormente deciso, per qualche momento un po’ romantico? “This Century” farà sicuramente al caso vostro.Purtroppo non va molto oltre. Avete mai vissuto certi piacevoli pomeriggi invernali, passati con i vecchi amici a giocare a carte? A me rilassavano, ma poi si perdevano subito nella memoria, tanto erano simili tra di loro e un po’ avari di emozioni forti. Ecco, la stessa sensazione l’ho provata alla fine del platter. Minuti piacevoli eppure volati via senza lasciare segni. La parte migliore del lavoro risiede nella voce del cantante. Mi prende per la sua malleabilità, intonazione, estensione e timbro. Tutte le tracce appaiono semplici e dirette, con alcune intro piacevoli e aperture melodiche apprezzabili. La sensazione di “già sentito” appare però fin troppo presto. Il disco manca di quella capacità di rimanermi in testa, le songs non s’incastrano tra i miei ricordi come avrebbero dovuto. Credo ci manchi quel pizzico creativo che sgancia un disco dalla zona “occhéi, bello ma quanti ne ho già sentiti?”. Alla fine il risultato è positivo: un buon omaggio ai generi indicati sopra. La prossima fatica però dovrebbe avere maggiore carattere, magari con qualche slancio più aggressivo e deciso. Migliorabili sono anche il prevedibile songwriting e la registrazione non proprio perfetta. Non dovrebbero esserci problemi vista la buona base tecnica dei nostri, uno stimolo ulteriore per una produzione più personale. (Alberto Merlotti)

(Casket Music)
Voto: 65 
 

Sulphur - Thorns in Existence

#PER CHI AMA: Black Metal
Arrivano dalla Norvegia (Bergen), sono al loro secondo full lenght (il primo lo abbiamo avuto nel 2007, “Cursed Madness”) intitolato “Thorns In Existence”: si tratta dei Sulphur e del loro cd composto da 11 tracce, mai eccessivamente lunghe, la cui musica è paragonabile a quella di altri gruppi, in quanto i ragazzi hanno saputo crearsi una propria anima musicale. Immergiamoci in questo lavoro dei Sulphur: l’abum viene aperto da “Revelation”, dove subito notiamo la particolarità dell’inizio con un bel pianoforte che ci accompagna con un bell’arpeggio che si amalgama perfettamente a delle vocals che rendono il tutto parecchio inquietante. Il pezzo corre via con dei riff di chitarra ben studiati che esplodono in tutta la loro violenza, brutalità e cattiveria. La batteria è una mitragliatrice dritta allo stomaco, elettrizzante. Quando passiamo a “True Father of Lies”, iniziamo a farci seriamente un'idea di che pasta siano fatti questi ragazzi scandinavi: fraseggio di chitarre taglienti, fatte risaltare da un drumming devastante. Il pezzo scorre, alternando momenti di violenza totale, con attimi di inaspettata atmosfera. La voce è tipica del genere ma ben giocata con una effettistica vocale molto particolare che rende il tutto più stuzzicante e oscuramente bello. Quando inizio ad ascoltare “The Purifying Flame”, vengo accolto con mia somma e piacevole sorpresa da una batteria che non da respiro. Il pezzo si placa per qualche istante, con delle tenui parti di tastiera, prima di riprendere vita, con vigore e violenza e ancora una voce tenebrosa ad accompagnare perfettamente la music ben suonata, dando al pezzo una sua entità, un suo marchio di fabbrica. Il pezzo alla fine crea perfettamente la tipica atmosfera black. In “Hunting Sickening Seas”, nulla viene lasciato all’immaginazione: tetro, nero come la pece, colmo di malvagità, sembra quasi vibrare di una propria energia. Un riffing claustrofobico e paralizzante ne contraddistinguono il suo andamento, bilanciato da un bel intermezzo con chitarre pulite, rotto dalla feralità che riprende il tema del suo incipit. “Luna Noctiluca”, è un'altra song tipicamente black anche se compare l’utilizzo di cori in stile gregoriano, che si fonde con un riffing distorto, spasmodico e distruttivo che non da tregua; molto bello inoltre il violino nel finale. Quando arrivo al pezzo “Into Nothingness”, vengo travolto da un’ondata di emozioni, sento la batteria che cresce e picchia come un pugno nello stomaco molto ben assestato, per la sua brutalità dilagante. Concludo la mia esperienza con i Sulphur, promuovendoli ampiamente, per quel loro feeling maledettamente oscuro. Non sperate di annoiarvi con le 11 track di questo “Thorns in Existence”, cd che deve far parte della nostra collezione, un sound che in questo genere così inflazionato è difficile trovare in un gruppo: i Sulphur ci sono riusciti con nostra somma delizia. Complimenti ragazzi , andate avanti così! (PanDaemonAeon)

(Dark Essence Records)
Voto: 75

sabato 17 settembre 2011

xARKANEx - Arcane Elitism

#PER CHI AMA: Neoclassic, Ambient, Dark
xARKANEx è il progetto solista di Pantelis, un musicista già noto nell'ambiente neofolk per la sua militanza nel gruppo greco Daemonia Nymphe, il cui album di debutto "The Bacchic Dance of Nymphs" uscì nel 1998 per l'etichetta tedesca Solstitium Records. Mentre i Daemonia Nymphe esplorano il lato più tradizionale della musica ellenica facendo uso di fedeli riproduzioni degli antichi strumenti greci, xARKANEx sembra invece voler seguire un percorso più intimista e meditativo attraverso una cupa dark ambient dalle venature neoclassiche. Nell'animo di Pantelis (che qui si fa chiamare xIkonx) permane comunque sempre vivo l'interesse per il misterioso passato della sua terra d'origine e tale passione risulta più che mai evidente in "Arcane Elitism", un lavoro completamente incentrato sui culti dimenticati della mitologia greca. Non v'è dubbio che come opera concettuale l'album si presenti invitante e che la sobria ed elegante confezione simil-DVD che racchiude il disco faccia subito gola, ma è anche vero che basta qualche minuto d'ascolto perché tutta la pochezza musicale del cd venga smascherata, facendo crollare miseramente ogni entusiasmo iniziale. Inutile andare per il sottile, "Arcane Elitism" è un album che appare deludente sotto molti punti di vista: innanzitutto, tra i diversi momenti di uno stesso brano manca spesso quella soluzione di continuità capace di rendere scorrevole l'ascolto e l'ovvia conseguenza di quest'aspetto è un fastidioso andamento a singhiozzo, un susseguirsi scostante di atmosfere che paiono legare poco l'una con l'altra. Se questa è l'impressione che brani come "Vacchia" e "Dryades of Selene" trasmettono, altri episodi evidenziano invece una maggior coerenza, ma a questo punto sono la disarmante banalità delle partiture e la scarsa ispirazione di xIkonx a lasciare con l'amaro in bocca. Fermo restando che xARKANEx si trova ancora molto distante dalla classe compositiva degli artisti di "scuola" Cold Meat Industry, alcuni punti di riferimento possono comunque ricercarsi tra i Puissance più neoclassici, oppure tra le ambientazioni sinfoniche di The Protagonist (si notino ad esempio i campionamenti d'archi in 'Mesmerism of the Temptresses' Sirens'). Ancora una volta, però, le emozioni che "Arcane Elitism" concede sono veramente poche perché il paragone possa reggere fino in fondo. In sintesi, un lungo sbadiglio di 37 minuti... nient'altro da aggiungere. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 45 
 

venerdì 16 settembre 2011

Lamb of God - Wrath

#PER CHI AMA: Thrash, Metalcore, Pantera
Dopo il mezzo passo falso di “Sacrament”, i grandi Lamb of God erano attesi con il loro sesto album, “Wrath” a rispondere alle critiche ricevute in passato. Il lavoro fortunatamente ci riconsegna una band in un più che buono stato di forma che di sicuro pare essere più ispirata che in passato. Abbandonata la monoliticità che li contraddistingueva nelle vecchie produzioni, questo cd ci regala 11 tracce di velenoso e furioso death thrash, che strizza l’occhiolino anche al metalcore, ma che va a decisamente a pescare dal thrash dei primi anni ’90. Le songs si susseguono granitiche fin dall’iniziale “In Your Words” (tralasciando l’arpeggiata intro di 2 minuti) che apre con quel suo riff stoppato, su una batteria forse un po’ troppo “plastificata” e con la voce del buon vecchio Randy ad alternarsi tra il growling e una voce più “sporca” in pieno stile Soilwork. Grande inizio che mi fa ben sperare per il resto del cd: aperture melodiche, chitarre graffianti e ottime vocals confermano lo stato di grazia dei nostri. La furia si abbatte più violentemente con la successiva “Set to Fail”, toccando il suo apice di devastazione con “Contractor”, cavalcata in pieno stile Pantera, interrotta nel bel mezzo da un breve attimo di sonnolenza catartica dei nostri, prima di riesplodere nella più belluina distruzione. I successivi brani proseguono sulla falsariga dei primi quattro pezzi, mostrando ancora una volta una band in grado di rimettersi in gioco, capace di sperimentare nuove soluzioni musicali, sfoderando una prova tecnica come sempre ineccepibile, regalandoci ottimi cori, un potente massacro a livello ritmico, qualche raro ma buon assolo, stop’n go a profusione (di scuola Meshuggah) e qualche scream tipico dell’hardcore, retaggio delle vecchie origini della band di Richmond, che da ormai più di vent’anni calca la scena mondiale. Le onde del mare della conclusiva “Reclamation”, il suo intro acustico e la nervosa ritmica costituiscono la summa di un album che finalmente ci restituisce una band che sembra essere tornata agli albori della propria gioventù, nel culmine della propria carriera. Grande ritorno per i veri degni eredi dei Pantera! (Francesco Scarci)

(Roadrunner Records)
Voto: 75

Sieghetnar - Endlösung

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
La Kunsthauch Production si sta rivelando sempre più un’ottima etichetta, dalle scelte estremamente oculate anche se costantemente indirizzate al mondo dell’underground più profondo. Ci addentriamo oggi nel fitto sottobosco germanico andando a scovare la creatura misteriosa dei Sieghetnar, capitanata dal folletto Thorkraft, che ripropone per la label russa, il demo del 2008, intitolato “Endlösung” (che insieme al debut album “Verfallen & Verendet”, sono le uniche opere della band a contenere parti cantate). Si tratta di cinque capitoli raggruppati in un’unica song di 29 minuti di musica ambient nel suo incipit di otto minuti, cosi come il buon vecchio Count Grishnackh, insegnò ai suoi discepoli nel lontano 1992, con il pezzo “Tomhet”, estratto da “Hvis Lyset Tar Oss”. Sto ovviamente parlando dei Burzum, per chi non lo avesse capito, e proprio traendo spunto dalla band norvegese e dalla tradizione nordica in genere, la one man band tedesca prosegue il proprio cammino, proponendo successivamente delle parti acustiche che per un po’ mi lasciano intendere che il cd non troverà mai uno sfogo eclatante nella sua proposta. Non faccio in tempo a terminare questo pensiero, che l’album esplode nel bestiale screaming di Thorkraft, che tra guaiti in stile Varg Vikernes e cleaning vocals, vomita tutto il proprio odio nei confronti nel mondo e dell’umanità, su una base estremamente atmosferica, con chitarre in grado di condurci alla disperazione più totale. Terminata la fase suicidal depressive, l’act tedesco si abbandona nei suoi conclusivi nove minuti ad altri vaneggiamenti ambient, contrappunti cibernetici e qualche sample elettronico. Francamente non sono un amante delle sonorità ambient, tuttavia una durata assolutamente non eccessiva della release, spezzata dal black crepuscolare nella sua parte intermedia, mi ha fatto apprezzare non poco “Endlösung”. Certo, non sarà l’album che metterò in auto la mattina per andare a lavoro, però in qualche serata particolarmente malinconica, questo lavoro sarà in grado di darmi il colpo di grazia definitivo. Plauso finale per le immagini in chiaro scuro della cover cd e del booklet interno. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

domenica 11 settembre 2011

Hate in Flesh - Wandering Through Despair

#PER CHI AMA: Modern Death Metal, Carcass
Quando penso al Portogallo, penso ad una terra misteriosa e piena di fascino esoterico. Non posso non pensare anche agli esordi meravigliosi dei Moonspell e cosi quando mi ritrovo sulla scrivania un nuovo lavoro proveniente dalla terra lusitana, confido di trovarci sempre qualcosa di unico e speciale. Il cd in questione è di una giovane band, gli Hate in Flesh, che a distanza di 2 anni dalla loro formazione, ci consegnano un album già maturo, come se fosse stato concepito da un gruppo di veterani della musica metal. Chiaro che “Wandering Through Despair” non si presenta come un capolavoro, ma non può certo passare inosservato perché fin dalla prima traccia, mi ritrovo imbrigliato nel sound corposo, moderno, schiacciasassi e melodico al tempo stesso, della band di Lisbona. Fin dalla prima title track, il quintetto ci fa assaggiare il proprio entusiastico sound, fatto di ritmiche pesanti (meraviglioso il battito sulle pelli di Euler), arricchito da una sezione solistica pazzesca che dà un surplus notevole al risultato finale, con le linee melodiche che, intrecciandosi, si stampano immediatamente nelle mie orecchie. La successiva “Rebirth of Rotten Souls” ha un mood più tipicamente death, senza alcun riffing particolare che possa attirare la mia attenzione: si pesta con intelligenza, sulla falsariga dei Carcass di “Heartwork”. Anche le vocals, se vogliamo, ripercorrono quanto fatto dalla mitica band di Liverpool. L’act continua ad aggredire selvaggiamente anche con la successiva “Grinder Machine” (un nome, un programma) e l’influenza di Bill Steer e soci si fa più palese, con una vena death progressive che emerge prepotentemente dalle note dell’ensemble portoghese, lasciando comunque la componente selvaggiamente death metal come elemento portante. Sono un po’ disorientato: se dalla prima traccia sembrava che i nostri proponessero una sorta di swedish death melodico, il tiro si è immediatamente spostato verso lidi prettamente death, non che sia un dramma per carità, ma sinceramente li preferivo nella prima versione, perché sembrava che potessero incarnare un qualcosa che andò perso a metà anni ’90 con una delle band più sottovalutate del pianeta, i Sarcasm. Non mi lamento però: gli Hate in Flesh hanno la perfetta padronanza dei propri mezzi e sorretti peraltro da un’ottima potente produzione, ci sparano “My Last War”, seguita subitamente da “Hate Me”, che costituiscono un bel duo di brani, capaci di scuotere ancora il mio intelletto, con le sue ritmiche impeccabili, e una discreta dose di melodia. Sebbene pensassi fin di trovare un bel po’ di melodia in questa release, ho dovuto ricredermi, perché la proposta dei nostri è fatta di un bel death metal, un death però a passo con i tempi che sarà in grado di conquistarvi pian piano, cosi come è stato con il sottoscritto. Basterà infilare il cd nel lettore della vostra auto e iniziare a pestare l’acceleratore sul ritmo di “Lost” e tutto il resto sarà noia… Bella sorpresa! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75