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giovedì 22 settembre 2011

Infernal Poetry - Nervous System Failure

#PER CHI AMA: Techno Death, Grind Sperimentale, Avantgarde
“Warning! This is not a conventional metal album; if you want to listen to a conventional metal album, please insert a conventional metal album into the player and press play. Otherwise, just wait for a few seconds and relax…if you can”. Ecco lo “User Advisory” con il quale si apre la terza pluri rimandata fatica dei marchigiani Infernal Poetry, un album che effettivamente di convenzionale ha ben poco. Si parte con la brevissima “Post-Split Anathemas” e tutto è già scritto: il quintetto italico ha mantenuto intatto il proprio stile musicale fatto di chitarre al limite della schizofrenia. La successiva “Forbidden Apples”, già presente nel mcd apripista di qualche anno fa, ci ricorda nei suoi due minuti quanto la band si trovi a proprio agio su ritmiche veloci e assai movimentate al limite del grind, mentre “Brain Pop-Ups” mostra il lato più oscuro/sperimentale degli Infernal Poetry. Un altro vecchio pezzo, “They Dance in Circles” (ma come gli altri completamente riregistrato e riarrangiato), ci mostra invece quanto la band sia abile nel produrre song completamente imprevedibili, estremamente brutali e ultra tecniche. Esaltanti, avvincenti, psicotici, “Nervous System Failure” è come un cavallo imbizzarrito, indomabile, che credi sia li per li per cedere e invece ecco esplodere come una scheggia impazzita. Pensavo infatti che i campionamenti di termosifoni, mura domestiche e loop elettronici contenuti in “The Heather, the Wall, the Hitter” fossero un tentativo di percorrere altri percorsi musicali simil industriali, ma in realtà è solo un antipasto per “The Next is Mine”, forse la traccia più convenzionale dell’album, con quel suo rifferama influenzato da Sepultura e Pantera. In questa song fa anche capolino la voce del buon vecchio Trevor dei Sadist, che si affianca a quella magnifica e vetriolica di Paolo Ojetti, uno dei migliori vocalist del panorama italico. La song si evolve poi velocemente in anfratti oscuri e malati della psiche umana con i riffs di Daniele e Christian a rincorrersi come pazzi. “Nervous System Failure” è un turbinio di emozioni maledette che si accavallano costantemente nella nostra mente, deturpandola di quel poco di sanità mentale rimasta. “Back to Monkey” è un’altra piccola gemma capace di alternare momenti furiosi ad altri assai melodici. La bravura del combo marchigiano sta proprio nell’essere capace di spiazzare, sorprendere, ubriacare, violentare l’ascoltatore in un brevissimo lasso di tempo. Un altro avvertimento a non andare ci viene fornito con “La Macchina del Trapasso”, ma noi ce ne freghiamo e imperterriti ci dirigiamo verso la fine che si preannuncia assai scoppiettante. Ciò che differenzia questo album dal precedente lavoro è forse una minor immediatezza e melodia dei brani, ma forse è meglio cosi. C’è talmente tanta carne al fuoco qui, da stare ad ascoltare questo lavoro per mesi. Un altro “vecchio” pezzo, “Pathological Acts at 37 Degrees”, richiama maggiormente la passata produzione della band con le un po’ più chitarre più lineari, un cantato più normale e qualche richiamo qua e là ai System of a Down più selvaggi. Si continua in questo climax ascendente di brutalità e follia collegate, per l’ultimo parte di questo mirabolante cd, che merita assolutamente il vostro curioso ascolto. Quello che avete fra le mani di certo non è nulla di convenzionale o già sentito. I nostri sono dei maestri nell’improvvisazione, della destabilizzazione della psiche umana, sono ottimi musicisti dotati di idee brillanti ma non di cosi facile impatto. Chiude la tribale e psichedelica title track, song che sancisce la grandezza di questa band italiana. Se siete quindi alla ricerca di qualcosa di innovativo, straripante, estremo, geniale, gli Infernal Poetry rappresentano finalmente la risposta che state cercando. Vi prego, supportateli, non ve ne pentirete!! (Francesco Scarci)

(Copro Records)
Voto: 85

Hyra - Seek for Salvation

#PER CHI AMA: Deathcore, Infernal Poetry, Akercocke
Una campana in lontananza, il suono di un temporale, delle urla disumane e una sirena, annunciano l’inizio dell’incubo targato Hyra, una giovane ma promettentissima band proveniente da Padova, che propone un sound estremo, ad elevato tasso tecnico-stilistico e dall’impatto totalmente devastante, che non lascerà il minimo scampo a nessuno. Dopo l’intro si parte facendo subito sul serio, con i nostri che dimostrano di che pasta sono fatti, attaccandoci con un terzetto di song davvero brutali (di cui “Let the Dead Bury the Dead” è la mia preferita): chitarre estremamente potenti e tetre, sorrette da due batterie annichilenti, dal growling profondo dei due vocalist e da un basso schizofrenico, ci conducono in un mondo psicotico, dove nulla è concesso al caso. Sono già stordito dopo pochi minuti, ma fortunatamente arriva il suono di un carillon a donarci una attimo di respiro, ma è pura illusione: dopo 50 secondi si ricomincia con un concentrato di violenza e i nostri tornano a far davvero male, col loro suono affascinante, conturbante e malvagio, che con la melodia, sia ben chiaro, non ha nulla a che fare. Tuttavia mi ritrovo inconsapevolmente a sbattere la testa come un pazzo trascinato dall’aggressività che i 7 (!?) membri della band sono in grado di trasferirci. Il morbo degli Hyra ti assale e a poco a poco ti fa suo e la pazzia ci avvolge, come fossimo la più inerme delle prede. Arriva il momento anche del suono tribal-orientaleggiante di “Lord Belial”, che continua col suo incessante e frastornante feeling a disorientarci non poco. Non finiscono le sorprese con gli Hyra e anche nelle ultime song i nostri continuano abilmente a giocare con schemi assolutamente imprevedibili, dove le chitarre si rincorrono tra continui cambi di tempo, stop’n go repentini e frangenti atmosferici (come in “I Can’t Believe”), mostrando una gran classe e una buona originalità, elemento assai difficile da ritrovare nelle band di questi tempi. Che dire ancora? Se siete amanti di esperienze forti, fatte di sonorità fresche, sperimentali ma abbastanza estreme, gli Hyra faranno di certo al caso vostro… Consigliatissimi! (Francesco Scarci)

(Sweet Poison Records)
Voto: 80

Au Sacre des Nuits - Anti Humain

#PER CHI AMA: Black/Ambient/Funeral/Doom, Pensees Nocturne
Glaciali, mortiferi, ipnotici, depressivi, neri come la pece, apocalittici come poche band sentite nell’ultimo periodo. Ne sono certo, questa è una delle nuove interessanti band provenienti dall’Est Europa, non posso sbagliarmi. E invece no, gli Au Sacre des Nuits vengono dall’inusuale Brasile (inusuale per questo genere intendiamoci), cosi come qualche tempo fa gli Helllight mi avevano sorpreso, anch’essi brasiliani, anch’essi sotto etichetta russa. E allora forse le label della vecchia repubblica sovietica ci vedono lontano e vanno a pescare oltre oceano e, che dire, quelle che abboccano sono interessantissime realtà provenienti dall’underground. La musica della band è frutto della mente malata di Necrophelinthron e i brani (sei e lunghissimi) contenuti in questo “Anti Humain”, non sono altro che gli incubi dell’unico componente dell’ensemble brasilero, che ci trascina con veemenza e angoscia, all’interno delle proprie paure, soffocandoci con ambientazioni oscure, harsh vocals, melodie soffuse, graffianti e seducenti riffs presi in prestito dalla tradizione norvegese (ancora una volta Burzum docet), passaggi doomish (ricordate i primi ossessionanti Void of Silence), vocals femminili e quant’altro. Insomma all’interno dei 50 minuti di questa release c’è davvero di tutto, anche se non credo sia del tutto accessibile a chiunque ascolti musica metal in genere. Ecco, vi suggerisco di avvicinarvi con estrema cautela a questo disco, non vorrei mai che la ferocia black di “Le Prisme De Apollon Captivé” possa seriamente danneggiarvi i vostri padiglioni auricolari o l’ambient della successiva “La Pulsion Dévore” rischi invece di annoiarvi. Con la terza traccia e la lunghissima “Sur Résilience”, la one man band sudamericana potrà avvicinarsi a chi ha ultimamente apprezzato i lavori all’insegna del shoegaze/post rock di Alcest o il black d’avanguardia dei Pensees Nocturne, il tutto però penalizzato da una registrazione non proprio all’altezza. Strafregandomene anche questa volta dell’assenza di una registrazione cristallina, mi lascio sedurre dalla brutalità dei suoni qui contenuti, che spesso finiscono per miscelarsi con dolcissimi tocchi di pianoforte o campionamenti vari. Sarà una mia impressione, ma chissà perché le mie orecchie finiscono per percepire anche echi dei primissimi Katatonia nelle linee di chitarra di questa inaspettata band che di sicuro non è cresciuta sulle spiagge assolate di Copacabana, ma che forse ha vissuto piuttosto la povertà tipica delle favelas della periferia delle grandi metropoli brasiliane, riportando poi tutti i propri demoni nei solchi di questo deviato lavoro. Che dire di più, il funeral dei Au Sacre des Nuits ha saputo conquistarmi e ridarmi ancora interesse per un genere che nell’ultimo periodo sta rischiando seriamente il sovraffollamento. Decadentisti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75
 

domenica 18 settembre 2011

Ad Inferna - Trance'n'Dance

#PER CHI AMA: EBM, Trance, Industrial
Mi trovo tra le mani una band, francese, che si scosta parecchio dal genere di musica che normalmente ascolto e che allieta le mie giornate: i francesi Ad Inferna infatti, con il loro terzo lavoro, propinano un mix di elettronica, industrial metal, trance e dance: non sarà un'impresa semplice recensirlo, ma vediamo di cominciare. L'album si apre con "Fade to Grey", cantata in inglese e in francese, dal sound che varia dal tranquillo e dolce ad un sound più di stampo industrial, che si avvale anche di cori femminili. "Métamorphose" è meno veloce della traccia precedente, ma tendente più al gothic (perdonate quest'eresia, ovviamente rimango sempre sullo stile trance, non al puro gothic metal) caratterizzato da atmosfere cupe elettronicizzate (a me ricordano tanto il personaggio di Abby nel telefilm “NCIS”, solita ad ascoltare musica di questo genere), che terminano con una semplice sfumatura. "Rédemption" si apre con un ritmo irreale, come se si stesse preparando ad un'esplosione: giusto un pizzico di drum machine, frasi in francese, cori femminili e un sintetizzatore che accelera il ritmo man mano che la traccia prosegue, ma senza diventare martellante, per terminare con una frase ripetuta più volte, in stile mantrico. "SM for SM", la quarta traccia, ricalca le atmosfere e il sound dell'iniziale “Fade to Grey”, con un ritmo però più incalzante. "Suicide Girl" inizia con un connubio di drum machine e keyboards, oltre ad una voce femminile molto suadente: il ritmo rimane tale, senza cambiare di una virgola, per tutta la durata del brano; e come per "Métamorphose", la traccia finisce con una semplice sfumatura. "Transcender l'Estase" riprende il ritmo di "Métamorphose" usando la voce campionata per farla sembrare più inquietante, ma non troppo. "Vertige" rimanda la mente alla pura elettronica anni '80, con un sound molto pacato e quasi impercettibile, per ribaltarsi da metà in poi, aumentando leggermente di velocità e continuando ad avvalersi della eterea voce femminile molto dolce. "You as My Own Drug" mescola un po' tutto quanto ascoltato finora, con un risultato tranquillo e agitato al tempo stesso: l'impronta industrial è sempre presente, sebbene messa spesso in ombra, ma dà un tocco particolare a questo miscuglio di sonorità e generi diversi tra loro, creando un lavoro strano ma piacevole all'ascolto. L'album presenta 4 remix, uno del dj Beborn Beton e del dj Combichrist per la canzone “Vertige”, che si differenziano dal fatto che uno predilige un remix più pulito e semplice, mentre l'altro fa un maggiore utilizzo del sintetizzatore; il dj Soman remixa “Transcender l'Estase” campionando la voce per renderla “stile Gollum” e più vicina al genere House e l'ultima "revisione" è ad opera del dj Reaper nel brano “Rédemption”, di stampo più cupo e cattivo. Sebbene io non sia un'estimatrice di questo genere, né dei remix, concludo dicendo che per una “fuga” dal metal questo album è l'ideale, ma preso a piccole dosi e lontano dai pasti. (Samantha Pigozzo)

(Aural Music)
Voto: 65
 

AV Project - This Century

#PER CHI AMA: Hard Rock, Heavy Metal easy listening
Non fatevi fregare dalla copertina: non avete a che fare con un prodotto da discoteca, né con un album progressive/elettronico. Avrete, invece, tra le orecchie dieci brani prettamente melodici, orecchiabili, con pochissime influenze metal. Questa è la prima volta che sento gli AV Project: un quintetto di Parma capitanato dal singer Alberto Venturini, dalle cui iniziali origina il nome della band. Cerco informazioni su di loro solo dopo un primo ascolto di questo “This Century”, loro prima fatica. Venturini è un insegnante di canto all’accademia di Modena, il chitarrista Jonathan è anch’egli insegnante. In effetti, da un punto di vista puramente esecutivo, il CD è veramente ben fatto. Mi lascia invece abbastanza freddo riguardo all’originalità. I riferimenti musicali del quintetto sono diversi, direi che gran parte delle track sia influenzata dell’hard rock e da quel metal anni 90 easy listening con il quale ho un rapporto molto conflittuale di odio/amore. Poco, qualche sprazzo deriva dal metal più classico.Cercate un disco pieno di ballad di una volta, tranquille, bene eseguite, con qualche accordo maggiormente deciso, per qualche momento un po’ romantico? “This Century” farà sicuramente al caso vostro.Purtroppo non va molto oltre. Avete mai vissuto certi piacevoli pomeriggi invernali, passati con i vecchi amici a giocare a carte? A me rilassavano, ma poi si perdevano subito nella memoria, tanto erano simili tra di loro e un po’ avari di emozioni forti. Ecco, la stessa sensazione l’ho provata alla fine del platter. Minuti piacevoli eppure volati via senza lasciare segni. La parte migliore del lavoro risiede nella voce del cantante. Mi prende per la sua malleabilità, intonazione, estensione e timbro. Tutte le tracce appaiono semplici e dirette, con alcune intro piacevoli e aperture melodiche apprezzabili. La sensazione di “già sentito” appare però fin troppo presto. Il disco manca di quella capacità di rimanermi in testa, le songs non s’incastrano tra i miei ricordi come avrebbero dovuto. Credo ci manchi quel pizzico creativo che sgancia un disco dalla zona “occhéi, bello ma quanti ne ho già sentiti?”. Alla fine il risultato è positivo: un buon omaggio ai generi indicati sopra. La prossima fatica però dovrebbe avere maggiore carattere, magari con qualche slancio più aggressivo e deciso. Migliorabili sono anche il prevedibile songwriting e la registrazione non proprio perfetta. Non dovrebbero esserci problemi vista la buona base tecnica dei nostri, uno stimolo ulteriore per una produzione più personale. (Alberto Merlotti)

(Casket Music)
Voto: 65 
 

Sulphur - Thorns in Existence

#PER CHI AMA: Black Metal
Arrivano dalla Norvegia (Bergen), sono al loro secondo full lenght (il primo lo abbiamo avuto nel 2007, “Cursed Madness”) intitolato “Thorns In Existence”: si tratta dei Sulphur e del loro cd composto da 11 tracce, mai eccessivamente lunghe, la cui musica è paragonabile a quella di altri gruppi, in quanto i ragazzi hanno saputo crearsi una propria anima musicale. Immergiamoci in questo lavoro dei Sulphur: l’abum viene aperto da “Revelation”, dove subito notiamo la particolarità dell’inizio con un bel pianoforte che ci accompagna con un bell’arpeggio che si amalgama perfettamente a delle vocals che rendono il tutto parecchio inquietante. Il pezzo corre via con dei riff di chitarra ben studiati che esplodono in tutta la loro violenza, brutalità e cattiveria. La batteria è una mitragliatrice dritta allo stomaco, elettrizzante. Quando passiamo a “True Father of Lies”, iniziamo a farci seriamente un'idea di che pasta siano fatti questi ragazzi scandinavi: fraseggio di chitarre taglienti, fatte risaltare da un drumming devastante. Il pezzo scorre, alternando momenti di violenza totale, con attimi di inaspettata atmosfera. La voce è tipica del genere ma ben giocata con una effettistica vocale molto particolare che rende il tutto più stuzzicante e oscuramente bello. Quando inizio ad ascoltare “The Purifying Flame”, vengo accolto con mia somma e piacevole sorpresa da una batteria che non da respiro. Il pezzo si placa per qualche istante, con delle tenui parti di tastiera, prima di riprendere vita, con vigore e violenza e ancora una voce tenebrosa ad accompagnare perfettamente la music ben suonata, dando al pezzo una sua entità, un suo marchio di fabbrica. Il pezzo alla fine crea perfettamente la tipica atmosfera black. In “Hunting Sickening Seas”, nulla viene lasciato all’immaginazione: tetro, nero come la pece, colmo di malvagità, sembra quasi vibrare di una propria energia. Un riffing claustrofobico e paralizzante ne contraddistinguono il suo andamento, bilanciato da un bel intermezzo con chitarre pulite, rotto dalla feralità che riprende il tema del suo incipit. “Luna Noctiluca”, è un'altra song tipicamente black anche se compare l’utilizzo di cori in stile gregoriano, che si fonde con un riffing distorto, spasmodico e distruttivo che non da tregua; molto bello inoltre il violino nel finale. Quando arrivo al pezzo “Into Nothingness”, vengo travolto da un’ondata di emozioni, sento la batteria che cresce e picchia come un pugno nello stomaco molto ben assestato, per la sua brutalità dilagante. Concludo la mia esperienza con i Sulphur, promuovendoli ampiamente, per quel loro feeling maledettamente oscuro. Non sperate di annoiarvi con le 11 track di questo “Thorns in Existence”, cd che deve far parte della nostra collezione, un sound che in questo genere così inflazionato è difficile trovare in un gruppo: i Sulphur ci sono riusciti con nostra somma delizia. Complimenti ragazzi , andate avanti così! (PanDaemonAeon)

(Dark Essence Records)
Voto: 75

sabato 17 settembre 2011

xARKANEx - Arcane Elitism

#PER CHI AMA: Neoclassic, Ambient, Dark
xARKANEx è il progetto solista di Pantelis, un musicista già noto nell'ambiente neofolk per la sua militanza nel gruppo greco Daemonia Nymphe, il cui album di debutto "The Bacchic Dance of Nymphs" uscì nel 1998 per l'etichetta tedesca Solstitium Records. Mentre i Daemonia Nymphe esplorano il lato più tradizionale della musica ellenica facendo uso di fedeli riproduzioni degli antichi strumenti greci, xARKANEx sembra invece voler seguire un percorso più intimista e meditativo attraverso una cupa dark ambient dalle venature neoclassiche. Nell'animo di Pantelis (che qui si fa chiamare xIkonx) permane comunque sempre vivo l'interesse per il misterioso passato della sua terra d'origine e tale passione risulta più che mai evidente in "Arcane Elitism", un lavoro completamente incentrato sui culti dimenticati della mitologia greca. Non v'è dubbio che come opera concettuale l'album si presenti invitante e che la sobria ed elegante confezione simil-DVD che racchiude il disco faccia subito gola, ma è anche vero che basta qualche minuto d'ascolto perché tutta la pochezza musicale del cd venga smascherata, facendo crollare miseramente ogni entusiasmo iniziale. Inutile andare per il sottile, "Arcane Elitism" è un album che appare deludente sotto molti punti di vista: innanzitutto, tra i diversi momenti di uno stesso brano manca spesso quella soluzione di continuità capace di rendere scorrevole l'ascolto e l'ovvia conseguenza di quest'aspetto è un fastidioso andamento a singhiozzo, un susseguirsi scostante di atmosfere che paiono legare poco l'una con l'altra. Se questa è l'impressione che brani come "Vacchia" e "Dryades of Selene" trasmettono, altri episodi evidenziano invece una maggior coerenza, ma a questo punto sono la disarmante banalità delle partiture e la scarsa ispirazione di xIkonx a lasciare con l'amaro in bocca. Fermo restando che xARKANEx si trova ancora molto distante dalla classe compositiva degli artisti di "scuola" Cold Meat Industry, alcuni punti di riferimento possono comunque ricercarsi tra i Puissance più neoclassici, oppure tra le ambientazioni sinfoniche di The Protagonist (si notino ad esempio i campionamenti d'archi in 'Mesmerism of the Temptresses' Sirens'). Ancora una volta, però, le emozioni che "Arcane Elitism" concede sono veramente poche perché il paragone possa reggere fino in fondo. In sintesi, un lungo sbadiglio di 37 minuti... nient'altro da aggiungere. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 45 
 

venerdì 16 settembre 2011

Lamb of God - Wrath

#PER CHI AMA: Thrash, Metalcore, Pantera
Dopo il mezzo passo falso di “Sacrament”, i grandi Lamb of God erano attesi con il loro sesto album, “Wrath” a rispondere alle critiche ricevute in passato. Il lavoro fortunatamente ci riconsegna una band in un più che buono stato di forma che di sicuro pare essere più ispirata che in passato. Abbandonata la monoliticità che li contraddistingueva nelle vecchie produzioni, questo cd ci regala 11 tracce di velenoso e furioso death thrash, che strizza l’occhiolino anche al metalcore, ma che va a decisamente a pescare dal thrash dei primi anni ’90. Le songs si susseguono granitiche fin dall’iniziale “In Your Words” (tralasciando l’arpeggiata intro di 2 minuti) che apre con quel suo riff stoppato, su una batteria forse un po’ troppo “plastificata” e con la voce del buon vecchio Randy ad alternarsi tra il growling e una voce più “sporca” in pieno stile Soilwork. Grande inizio che mi fa ben sperare per il resto del cd: aperture melodiche, chitarre graffianti e ottime vocals confermano lo stato di grazia dei nostri. La furia si abbatte più violentemente con la successiva “Set to Fail”, toccando il suo apice di devastazione con “Contractor”, cavalcata in pieno stile Pantera, interrotta nel bel mezzo da un breve attimo di sonnolenza catartica dei nostri, prima di riesplodere nella più belluina distruzione. I successivi brani proseguono sulla falsariga dei primi quattro pezzi, mostrando ancora una volta una band in grado di rimettersi in gioco, capace di sperimentare nuove soluzioni musicali, sfoderando una prova tecnica come sempre ineccepibile, regalandoci ottimi cori, un potente massacro a livello ritmico, qualche raro ma buon assolo, stop’n go a profusione (di scuola Meshuggah) e qualche scream tipico dell’hardcore, retaggio delle vecchie origini della band di Richmond, che da ormai più di vent’anni calca la scena mondiale. Le onde del mare della conclusiva “Reclamation”, il suo intro acustico e la nervosa ritmica costituiscono la summa di un album che finalmente ci restituisce una band che sembra essere tornata agli albori della propria gioventù, nel culmine della propria carriera. Grande ritorno per i veri degni eredi dei Pantera! (Francesco Scarci)

(Roadrunner Records)
Voto: 75

Sieghetnar - Endlösung

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
La Kunsthauch Production si sta rivelando sempre più un’ottima etichetta, dalle scelte estremamente oculate anche se costantemente indirizzate al mondo dell’underground più profondo. Ci addentriamo oggi nel fitto sottobosco germanico andando a scovare la creatura misteriosa dei Sieghetnar, capitanata dal folletto Thorkraft, che ripropone per la label russa, il demo del 2008, intitolato “Endlösung” (che insieme al debut album “Verfallen & Verendet”, sono le uniche opere della band a contenere parti cantate). Si tratta di cinque capitoli raggruppati in un’unica song di 29 minuti di musica ambient nel suo incipit di otto minuti, cosi come il buon vecchio Count Grishnackh, insegnò ai suoi discepoli nel lontano 1992, con il pezzo “Tomhet”, estratto da “Hvis Lyset Tar Oss”. Sto ovviamente parlando dei Burzum, per chi non lo avesse capito, e proprio traendo spunto dalla band norvegese e dalla tradizione nordica in genere, la one man band tedesca prosegue il proprio cammino, proponendo successivamente delle parti acustiche che per un po’ mi lasciano intendere che il cd non troverà mai uno sfogo eclatante nella sua proposta. Non faccio in tempo a terminare questo pensiero, che l’album esplode nel bestiale screaming di Thorkraft, che tra guaiti in stile Varg Vikernes e cleaning vocals, vomita tutto il proprio odio nei confronti nel mondo e dell’umanità, su una base estremamente atmosferica, con chitarre in grado di condurci alla disperazione più totale. Terminata la fase suicidal depressive, l’act tedesco si abbandona nei suoi conclusivi nove minuti ad altri vaneggiamenti ambient, contrappunti cibernetici e qualche sample elettronico. Francamente non sono un amante delle sonorità ambient, tuttavia una durata assolutamente non eccessiva della release, spezzata dal black crepuscolare nella sua parte intermedia, mi ha fatto apprezzare non poco “Endlösung”. Certo, non sarà l’album che metterò in auto la mattina per andare a lavoro, però in qualche serata particolarmente malinconica, questo lavoro sarà in grado di darmi il colpo di grazia definitivo. Plauso finale per le immagini in chiaro scuro della cover cd e del booklet interno. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

domenica 11 settembre 2011

Hate in Flesh - Wandering Through Despair

#PER CHI AMA: Modern Death Metal, Carcass
Quando penso al Portogallo, penso ad una terra misteriosa e piena di fascino esoterico. Non posso non pensare anche agli esordi meravigliosi dei Moonspell e cosi quando mi ritrovo sulla scrivania un nuovo lavoro proveniente dalla terra lusitana, confido di trovarci sempre qualcosa di unico e speciale. Il cd in questione è di una giovane band, gli Hate in Flesh, che a distanza di 2 anni dalla loro formazione, ci consegnano un album già maturo, come se fosse stato concepito da un gruppo di veterani della musica metal. Chiaro che “Wandering Through Despair” non si presenta come un capolavoro, ma non può certo passare inosservato perché fin dalla prima traccia, mi ritrovo imbrigliato nel sound corposo, moderno, schiacciasassi e melodico al tempo stesso, della band di Lisbona. Fin dalla prima title track, il quintetto ci fa assaggiare il proprio entusiastico sound, fatto di ritmiche pesanti (meraviglioso il battito sulle pelli di Euler), arricchito da una sezione solistica pazzesca che dà un surplus notevole al risultato finale, con le linee melodiche che, intrecciandosi, si stampano immediatamente nelle mie orecchie. La successiva “Rebirth of Rotten Souls” ha un mood più tipicamente death, senza alcun riffing particolare che possa attirare la mia attenzione: si pesta con intelligenza, sulla falsariga dei Carcass di “Heartwork”. Anche le vocals, se vogliamo, ripercorrono quanto fatto dalla mitica band di Liverpool. L’act continua ad aggredire selvaggiamente anche con la successiva “Grinder Machine” (un nome, un programma) e l’influenza di Bill Steer e soci si fa più palese, con una vena death progressive che emerge prepotentemente dalle note dell’ensemble portoghese, lasciando comunque la componente selvaggiamente death metal come elemento portante. Sono un po’ disorientato: se dalla prima traccia sembrava che i nostri proponessero una sorta di swedish death melodico, il tiro si è immediatamente spostato verso lidi prettamente death, non che sia un dramma per carità, ma sinceramente li preferivo nella prima versione, perché sembrava che potessero incarnare un qualcosa che andò perso a metà anni ’90 con una delle band più sottovalutate del pianeta, i Sarcasm. Non mi lamento però: gli Hate in Flesh hanno la perfetta padronanza dei propri mezzi e sorretti peraltro da un’ottima potente produzione, ci sparano “My Last War”, seguita subitamente da “Hate Me”, che costituiscono un bel duo di brani, capaci di scuotere ancora il mio intelletto, con le sue ritmiche impeccabili, e una discreta dose di melodia. Sebbene pensassi fin di trovare un bel po’ di melodia in questa release, ho dovuto ricredermi, perché la proposta dei nostri è fatta di un bel death metal, un death però a passo con i tempi che sarà in grado di conquistarvi pian piano, cosi come è stato con il sottoscritto. Basterà infilare il cd nel lettore della vostra auto e iniziare a pestare l’acceleratore sul ritmo di “Lost” e tutto il resto sarà noia… Bella sorpresa! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

sabato 10 settembre 2011

Cult of Vampyrism - Fenomelogia

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La fenomenologia è una disciplina fondata da Edmund Husserl (1859 - 1938), che ha avuto una profonda influenza sull'Esistenzialismo in Germania e Francia, ma anche sulle scienze cognitive odierne e nella filosofia analitica. “Fenomelogia” è anche il titolo del debut album del giovane progetto Cult of Vampyrism, che vede fondere le idee musicali drone-doom di Trismegisto con quelle della violista Kerres, in un lavoro che “utilizza metaforicamente l’immagine del vampirismo inteso come oppressione, asfissia, abuso che il mondo moderno opera giorno dopo giorno, ora dopo ora sugli esseri umani”, cosi come citato nel flyer informativo della band. E quale modo migliore di promulgare questa asfissia con un prodotto che fa del soffocante doom la sua voce? Aperto dai suoni quanto mai occulti di “On the Edge of the Abyss”, si prosegue con le sonorità doom-esoteriche di “My Deamon”. La terza traccia vede la band presentarsi con sonorità un po’ più classiche, con un musicalità che fa del death-doom mid tempo il suo punto di forza, da contraltare a delle arsh vocals malefiche. Forse un po’ troppo penalizzati da una produzione non certo all’altezza, i Cult of Vampyrism, provano a sollevarsi dalla massa con qualche inserto dal vago richiamo horror come i vecchi Goblin insegnano. Certo non siamo di fronte a nulla di originale o quanto mai trascendentale, ma di questi tempi come ben sapete, è ormai cosa assai rara, tuttavia, un pizzico di originalità nelle sette tracce è avvertibile, con questa coacervo di stili, un death black doom fuso da rituali oscuri, terrificanti, angoscianti, come accade palesemente nell’inquietante “The Gift”. Caratteristica di fondo di questo album è una certa ridondanza nelle soluzioni musicali a mo’ di litania, che forse hanno lo scopo di accentuare ancor maggiormente l’effetto infernale di questa release, ma che d’altro canto può avere il difetto di rendere di difficile approccio l’ascolto di un cd monolitico come questo. Interessante per gli innesti di viola anche “The Chant of the Owl”, anche se ancora manca quel pizzico di dinamicità in più per rendere il risultato finale appetibile a una fetta più allargata di pubblico. Magari questo non sarà l’intento finale di Trismegisto e compagni, relegando i Cult of Vampyrism a semplice progetto underground, tuttavia con qualche piccolo accorgimento addizionale, un po’ più gente potrebbe avvicinarsi al teatrino horrorifico di questa neonata band italica. Ultime note per “The Prisoner” dove alla voce compare Lord Lokhraed dei francesi Nocturnal Depression e per “XVII Februarius MDC”, giorno in cui Giordano Bruno fu messo al rogo per le sua presunta eresia, song che suggella il desiderio dei nostri di mettere in scena la loro musica con un coro di voci che condanna a morte il frate domenicano, in una atmosfera dai connotati totalmente drone. Per pochi, decisamente non per tutti… (Francesco Scarci)

(Mercy Despise)
Voto: 70
 

Ankhagram - Where Are You Now

#PER CHI AMA: Funeral Death Doom, Shape of Despair
Russia, Russia, prepotentemente Russia, a conferma che da quelle parti c’è una scena fiorente più che mai, con una serie di etichette che puntano senza timore su giovani band, molto spesso di grande valore. Ecco arrivare quindi da quelle lande misteriose un “nuovo” (questo è il loro quarto cd) act a sorprendermi, con un sound oscuro, morboso, avvinghiante e malato. Sarà il gelo dell’inverno di Ekaterinburg, ma la one man band guidata da Dead, si conferma molto ispirata nelle 6 lunghe tracce, con un funeral death doom, che ricalca gli insegnamenti di Shape of Despair in testa, ma che poi “sporca” i propri suoni con aperture melodiche quasi shoegaze, a dimostrare l’intelligenza maturata dalla band nei suoi sei anni di esistenza. Tenebrosa la opening track, con i suoi undici minuti spaccati che si chiudono con un lungo assolo di piano, che apre anche la successiva “The Mistress” capace di generare prolungati brividi lungo la mia schiena con quel suo incedere quanto mai suadente, mantenendosi costantemente ancorato alle sonorità estreme solo grazie alla voce growling di Dead. Ho come l’impressione che se solo cambiasse registro vocale, la proposta degli Ankhagram potrebbe aprirsi a masse notevoli di pubblico; questo non sta a significare che la proposta del gruppo russo sia commerciale, ma vi garantisco che non si può non rimanere folgorati dai suoni messi in scena dal buon Dead, capace di coniugare suoni deprimenti ma allo stesso tempo ariosi, freschi, malinconici, emozionanti e potrei aggiungere altri mille aggettivi per cercare di farvi capire che non ci si deve per forza soffermare sull’etichetta funeral o death perché questo è un lavoro di cui mi sento di poter consigliarne un ascolto a tutti, a tutti quelli che hanno voglia di aprire i propri confini mentali, a chi ha voglia di emozionarsi, a chi come me avrebbe il desiderio di abbandonarsi in un sonno senza fine, la cui colonna sonora potrebbe certamente essere quella degli Arkhagram. Quando ancora sono immerso nei fumi inebrianti di “The Mistress”, parte “Trees of Feelings” con i sui dieci minuti e passa di musica per lo più strumentale, come se Dead avesse carpito il mio desiderio di sentirlo meno vomitare in quel microfono, e avesse realizzato che forse un sussurro può essere molto meglio che un growling profondo. La formula non cambia anche con le seguenti “Shade You” e “K.O.D.”, dove le parti atmosferiche costituiscono buona parte dei loro 18 minuti complessivi e dove le tastiere acquisiscono un ruolo di assoluta rilevanza nell’economia dei brani. Citazione conclusiva per l’ultima “Kids”, cover dei (per me sconosciuti) MGMT, ma che comunque ben si amalgama con la proposta degli Ankhagram, band che da oggi in poi inizierò a seguire con estrema dedizione e curiosità, in attesa di scoprire se il prossimo album possa realmente essere quel capolavoro che ipotizzo possa celarsi nella mente di Dead. Meritevoli della vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Silent Time Noise Records) 
Voto: 80
 

Bloodwork - The Final End Principle

# PER CHI ASCOLTA: Death/Thrash, Soilwork, Hatesphere
E anche la Germania può sfoderare la propria band capace di miscelare il death/thrash con l’hardcore e le melodie heavy metal: signori e signore vi presento i Bloodwork, act più famoso per la sua partecipazione ai grandi tour estivi come Wacken Open Air 2008 e Summerbreeze Festival, che per la propria proposta musicale, di certo non delle più originali. Eh si perché il quintetto di Paderborn, ci propina 13 brani di un moderno death melodico, sulla scia dei vari Soilwork, Killswitch Engage o Scar Symmetry, che potrebbe essere tranquillamente recensito utilizzando poche parole e abbastanza scontate, senza per questo disdegnare la musica dei nostri. Il sound come detto, si avvicina molto a quello tipico death/thrash svedese, con i chitarroni che macinano riffs su riffs e con le vocals che si alternano tra il growl e il pulito, quest’ultimo molto molto ruffiano (a tratti fastidioso). Completano il quadro di “The Final End Principle”, aperture melodiche che richiamano l’heavy classico (Iron Maiden per capirci) dei primi anni ’80, ottimi assoli che denotano un’eccellente preparazione tecnica dei nostri e comunque uno spiccato gusto per la melodia. Per quanto sia stato indicato da più parti come uno dei dischi rivelazione del 2009, o come migliore band emergente, sinceramente non me la sento di decantare una band che di originale ha ben poco nel proprio DNA. Per carità sono bravi, preparati e piacevoli da ascoltare, ma niente di più, alla fine è il solito disco già sentito in migliaia di salse differenti… (Francesco Scarci)

(Dockyard1)
Voto: 70