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martedì 5 febbraio 2019

Sorrowful Land - I Remember

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
I Sorrowful Land non sono altro che la valvola di sfogo death doom di Max Molodtsov, leader degli ucraini Edenian, formazione dedita ad un gothic metal, dove 'I Remember' rappresenta il secondo capitolo del musicista originario di Kharkiv. "And Wilt Thou Weep When I Am Low?", l'opening track del cd che vede il featuring alla voce di Kaivan Saraei degli inglesi A Dream of Poe, ci consegna una band che paga pesantemente dazio, soprattutto a livello vocale, ai My Dying Bride. E come la band inglese, il buon Max si lancia in lunghi e nostalgici fraseggi di chitarra che chiamano in causa indistintamente altre realtà del panorama death doom e penso a Swallow the Suns e Draconian, con la sola differenza che in questa traccia il musicista ucraino non si affida al growling. La seconda "When The World's Gone Cold" vede innanzitutto la partecipazione alla voce di Daniel Neagoe (personaggio carismatico della scena doom mondiale, grazie alle innumerevoli band in cui suona: Bereft of Light, Clouds, Eyes of Solitude, Pantheist, Shape of Despair credo siano un ottimo biglietto da visita per il musicista rumeno) che presta il suo profondissimo growl per il malinconico incedere della song. La terza, "A Father I Never Had", non vanta invece alcuna guest star ad affiancare il bravo Max, pertanto si possono capire anche le doti vocali del mastermind ucraino in una song piuttosto lineare per il genere, pregna sempre e comunque, di un riffing oscuro decisamente classico. "Weep On, Weep On" può contare sulla partecipazione alla voce del bravo Evander Sinque dei nostri amici Who Dies in Siberian Slush e il risultato non può che essere positivo, vista la stima che nutro per la band moscovita. Altre partecipazioni illustri anche per "I Am the Only Being Whose Doom", in cui Max affiderà un epico e sofferto cantato a Vladislav Shahin dei Mounrful Gust e il conclusivo assolo di chitarra al bravissimo Vito Marchese dei doomster americani Novembers Doom. A completare lo stuolo di eccellenze, non poteva mancare il cavernoso growl di Daniel Arvidsson dei già citati Draconian, a cantare nell'ultima "The Kingdom of Nothingness", l'ultimo struggente atto di questo 'I Remember', un album che in fatto di originalità, sia chiaro, non porta nulla di nuovo al genere. Sembra piuttosto una parata di ospiti interessanti a dare lustro ad un amico che ancora si diverte nel proporre melodie terribilmente struggenti ma stra-abusate. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 65

https://sorrowfulland.bandcamp.com/

Blurr Thrower - Les Avatars du Vibe

#PER CHI AMA: Post Black/Doom
Francia, one-man-band, black obliquo, Les Acteurs de l'Ombre Productions. Tutti i tipici ingredienti del metal estremo sono racchiusi in quest'album dei Blurr Thrower intitolato 'Les Avatars du Vibe'. Due brani per 36 minuti di musica marcescente, ferale, insana, ma comunque attraente perchè assai spesso il male ha una capacità seducente sull'uomo. L'EP d'esordio dell'act parigino, pur non inventando nulla di nuovo, mette in scena un lavoro che appassionerà certamente gli amanti del post black o di sonorità comunque estreme, spazianti tra post e doom. Si perchè "Par-Delà les Aubes" nei primi nove minuti è un attacco all'arma bianca tra accelerazioni disarmanti, urticanti screaming vocals e ritmiche infernali, più vicine al cascadian black metal che alle deviazioni francesi di scuola Blut Aus Nord o Deathspell Omega. Nei successivi nove minuti, il mastermind transalpino si getta invece in un riffing di chitarra dal forte sapore ambient/post rock, a sparigliare le carte sul tavolo per acquisire nuovi consensi, di sicuro ha ottenuto quello del sottoscritto. Il finale è ancora uno spaventoso tornado black che ci conduce, attraverso un ipnotico rifferama e a dronici scenari, alla seconda song, "Silences". Qui, la situazione non cambia poi molto, con la classica tormentata ritmica post black ad aprire le danze in una lunga galoppata che non lascia troppo spazio all'immaginazione, tanto meno alla quiete se non in un angusto rallentamento centrale, che verrà poi spezzato ancora una volta dalle intemperanze sonore dell'oscuro musicista che si cela dietro a questi Blurr Thrower, di cui sono certo, sentiremo parlare molto presto. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 70

https://blurrthrower.bandcamp.com/releases

domenica 3 febbraio 2019

Altars of Grief - Iris

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Hypnotic Dirge Records sta facendo un buon lavoro, fondamentalmente votato a scovare band interessanti in territori black doom senza sbracarsi troppo in innumerevoli uscite annuali. Lo scorso anno tra le release più interessanti dell'etichetta canadese, c'è sicuramente da annoverare quella degli Altars of Grief, quintetto originario di Regina, nel Saskatchewan. Il genere in cui è possibile collocare i canadesi è quello di un death doom emozionale che arriva a sconfinare talvolta nel black. Otto tracce per confermare quanto di buono i nostri avevano lasciato intravedere nel precedente 'This Shameful Burden', ormai datato 2014, anzi fare decisamente meglio. La mid-tempo "Isolation" apre il disco con una certa eleganza, proponendo appunto un death doom atmosferico, corredato da cleaning e growling vocals, che talvolta sfociano in grida dal forte sapore black, pur la traccia muovendosi in territori ritmati e assai melodici. Non si può dire altrettanto della funambolica "Desolation", violentissima nella sua estremissima ritmica black symph con una batteria sparata al fulmicotone, come se non ci fosse un domani. Solo delle evocative vocals provano a placare l'incedere tempestoso di una song dal sicuro impatto sonoro, che nella porzione solistica sembra lasciar intravedere delle reminiscenze progressive. La title track riparte là dove "Isolation" aveva concluso, con un sound decisamente più controllato e decadente, complici le liriche che, come spiegato dal vocalist, narrano di un padre che si ritrova incapace di connettersi e prendersi cura della sua giovane figlia, Iris, che si è gravemente ammalata. Spingendosi sempre più a fondo nei suoi vizi, e sentendosi respinto dalla nuova fede incrollabile di Iris, entra nella sua auto e decide di lasciarla indietro. Da qualche parte lungo la strada ghiacciata, perde il controllo del suo veicolo e perisce. Il suo purgatorio è guardare impotente mentre Iris soccombe lentamente alla sua malattia senza di lui. Tornando alla traccia, non manca neppure qui la forsennata ritmica che schiude a momenti più calibrati, di temperamento doom e linee melodiche dal forte tocco malinconico, spezzate però sempre da quelle intemperanze ritmiche che sembrano deviare notevolmente il corso del brano verso lidi più estremi o ancora far sprofondare il tutto in territori angoscianti in un'altalenanza ritmica davvero pericolosa. "Child of Light" è una song più classica che poco mi ha lasciato al termine del suo ascolto, se non una certa analogia con i grandi del passato. Decisamente più interessante "Broken Hymn" per il violoncello di Raphael Weinroth-Browne, che qui sembra assurgere un ruolo drammaticamente più importante nell'esibire quell'aura decadente all'intero album, in una traccia lenta e ritmata che trova comunque sfogo nelle ormai classiche e divampanti scariche black, contrastate solo dalle splendide vocals pulite del bravissimo Damian Smith, eccellente nella sua prova. "Voices of Winter" mi ricorda un che dei primi Novembre; gli archi di Raphael sono sempre preponderanti ma il corso del pezzo vedrà la proposta della band rallentare verso trame sempre più oscure e tenebrose che ci introducono alla drammatica "Becoming Intangible", dove un duetto formato da chitarra acustica e voce pulita (coadiuvate dal violoncello, qui più in sordina), colpiscono per l'enorme pathos messo in scena nella sua prima parte, prima di esplodere in un'ultima sfuriata black, prima della conclusione affidata al tiepido e nostalgico addio dell'epilogo finale. Davvero intriganti, da ascoltare ad ogni costo. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2018)
Voto: 80

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/iris

sabato 2 febbraio 2019

Rostres - Les Corps Flottants

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Pelican, Pg.lost
Dai Pirenei ecco scendere i Rostres, duo proveniente da un piccolo villaggio rurale al confine tra Francia e Spagna, per proporre il loro sound strumentale all'insegna di un post metal dalle fosche sfumature post rock. Si rivela rischioso proporre un disco senza il minimo accenno di vocals, però voglio immediatamente spoilerarvi il finale: i due ragazzi di Pau hanno superato la difficile prova. Non era facile, perchè conoscete la mia allergia a sonorità interamente strumentali, che mi porta ad annoiarmi ben presto per quella che trovo essere una privazione fisiologica di uno dei più importanti strumenti di una band, la voce appunto. Eppure il duo transalpino s'impegna con una certa efficacia a portare a casa un lavoro pulito e convincente già con l'iniziale title track e i suoi otto minuti di oscure sonorità post metal, che tra tonanti riff di chitarra e sospese melodie dal sapore etereo, mi conquista sin dai primi istanti. Credo tuttavia che sia la successiva "Exorde" a cogliere in pieno tutta la mia attenzione: inizio quasi ambient, guidato da tocchi di basso, pizzichi di chitarra e sfioramento di piatti, per quella che sarà una vera progressione musicale atta a condurci all'estasi. Non servono voci se sei in grado di riempire gli spazi con una musica adeguata, qui a tratti quasi dronica, pur vantando una ritmica che potrebbe stare su un lavoro qualsiasi dei Cult of Luna. Si prosegue con la malinconica delicatezza fluttuante di "Méandres", una song che dipinge freddi paesaggi in bianco e nero, come quelli esposti nell'artwork del disco. La traccia avanza un po' ipnotica e paranoica almeno fino a quando ad innescarsi è la ritmica possente del duo formato da Alain e Lionel. L'attacco tribale di "118" invece entra e s'insinua nella testa, e da li non accenna a muoversi in un mantra evocativo evocante anche i Pg.lost. Sublimi, non c'è che dire dal momento che ho amato alla follia anche l'ultima release della band svedese. Più hardcore oriented "Glaire", figlia di un retaggio ruvido e genuino che in passato ha fatto parte del bagaglio musicale dei Rostres. Non mancano tuttavia nemmeno qui quei momenti di quiete in grado di stemperare il lato più arcigno dei due musicisti, azzeccatissimi e curati senza ombra di dubbio. Una semplicissima chitarra acustica apre la più lunga delle canzoni, "Au Faîte des Honneurs", una song che si dilunga forse un po' troppo nell'apparato introduttivo (circa tre minuti) per poi dare libero sfogo alla sua dirompente furia elettrica, spezzata solo da altri intermezzi ambientali, in un esperimento interessante ma a tratti interlocutorio e poco incisivo. Ancora scosse di adrenalina nel finale affidato alla corrosiva matrice ritmica di "Déversoir", gli ultimi cinque schizofrenici minuti di questo consigliatissimo 'Les Corps Flottants'. (Francesco Scarci)

Morso – Lo Zen e l'Arte del Rigetto

#PER CHI AMA: HC/Punk/Noise Rock
Il posto dell'hardcore nella penisola italiana è sempre stato di prima linea, un laboratorio underground di musiche estreme che spesso e volentieri fu poco considerato, vittima di esterofilia, bistrattato, dimenticato, ma a volte osannato, sicuramente dai fedelissimi tanto amato. I tempi cambiano e si va avanti, ci si evolve. Questo è il caso dei lombardi Morso, che rifacendosi in parte al titolo di un libro assai piacevole, hanno sfoderato un bel disco di musica tesa e moderna, cantato in lingua madre, veloce e convincente. Certo, le derivazioni ci sono ma non eccedono, quindi le mie lodi vanno ad un vocalist (Guido) di tutto rispetto, che si fa notare e che, a discapito di una lingua così difficile da accostare a questo tipo di sonorità, il tutto per farsi capire, adagia un canto così dinamico e potente che, canzone dopo canzone, si ha l'idea di essere davanti ad un disco ben studiato e soprattutto molto ispirato. La formula è un HC di nuova estrazione, con qualche spinta verso il metal, come fecero a loro modo i Negazione, combinata con l'isteria matematica dei The Dillinger Escape Plan sullo sfondo (anche se tecnica e cambi di tempo estremi non sono una priorità della band), il tono polemico tra urla e proclami alla Teatro degli Orrori (anche se qui manca quel lessico spinto, di ardore politicamente scorretto e i Morso inseguono tematiche decisamente più socio/esistenziali), e tutta una serie di richiami in ordine sparso a Marlene Kuntz, Afterhours, Contrasto, perfino i Subsonica, in piccole dosi nelle parti più melodiche (poche e mirate). Così, hardcore, noise e punk alternativo tirato e tosto vanno a braccetto (sarà la buona produzione suggerire un certo richiamo ai Jesus Lizard), suonati al fulmicotone, sparati in faccia all'ascoltatore per far male e toccarlo nelle ferite più vive, evocando un che degli RFT. Il disco vola e diverte, la sua carica esplosiva e il carattere oltraggioso e pessimista dei testi, che hanno la buona virtù di permettere a tutti di potersi rispecchiare (di questi tempi non è poco per la musica italiana in generale), fanno in modo che brani velocissimi come "Liberaci dal Male", "Glamour Suicide", "Il Fine Giustifica i Mezzi" e la favolosa "Ex" (con la sua E meneghina accentuatissima e splendidamente glam!), oppure la conclusiva "Sognavo di Essere Bukowski", diventino inni alla battaglia, inni alla resistenza per la sopravvivenza quotidiana. Alla fine questo album, licenziato via dischi Bervisti (piccola etichetta coraggiosa e piena di buon gusto musicale), è una gran bella sorpresa, un disco sanguigno e intellligente di musica estrema che potrebbe indicare una nuova via percorribile per il futuro della musica alternativa in Italia. (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Cave Canem DIY - 2019)
Voto: 80

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/lo-zen-e-larte-del-rigetto

Tarpit Orchestra - Songs About Dragons

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock, Kyuss
Uno stoner alla Kyuss, primi Queens of the Stone Age, quello dei finlandesi Tarpit Orchestra: chitarre scure, riff pesanti, martellate su martellate. Gli arrangiamenti e le canzoni scorrono senza intoppi in questo 'Damn Dragon', anzi forse un po’ troppo senza intoppi. Mi spiego meglio. Senza dubbio, la band ha una tecnica e una capacità musicale superiori alla norma, tuttavia nel genere iper inflazionato dello stoner, è necessario essere più originali degli altri per spiccare fuori dalla bolgia di band ormai troppo similari tra loro. E in tutta onestà, i Tarpit Orchestra non sono riusciti in questo intento, almeno non completamente. Ora magari io sono abituato a suoni più estremi e a band più pazzoidi, tuttavia non voglio affossare un lavoro obiettivamente ben fatto, molto curato e tecnicamente non scontato. Un plauso va alla voce, sempre sporca al punto giusto e diretta nella sua semplicità, oltre che all’arrangiamento dei pezzi, molto ben architettati, e di cui segnalerei il trittico iniziale formato da "Dues", "Songs About Dragons" (con quel suo stile vocale vicino ai Baroness) e la fortemente grooveggiante "Engines", peraltro le uniche song ascoltabili sul sito bandcamp del quartetto di Oulu. Alla fine, 'Damn Dragon' rappresenta il disco giusto per chi ha voglia di sentire una band stoner cazzuta, qui non troverete sicuramente strane sorprese! (Matteo Baldi)

venerdì 1 febbraio 2019

Loneshore - From Presence To Silence

#PER CHI AMA: Prog Death Doom, Opeth
In Brasile, il Sole deve ormai aver ceduto il passo alle tenebre. Solo in questo modo si spiegherebbe la ragione dell'uscita funerea degli Helllight e ora di questi Loneshore, provenienti addirittura dalle spiagge assolate di Rio de Janeiro. Il quintetto di Rio però, a differenza dei più illustri colleghi dediti al funeral, offre un sound che, per quanto nelle propria struttura veda l'utilizzo di qualche partitura doom, ammicca principalmente agli Opeth di 'Blackwater Park', quale influenza primaria. La cosa è chiara fin dall'opener "The Quiet Visitor", undici minuti in cui i carioca giocano con fraseggi prettamente progressivi, pur mantenendo intatta una certa asprezza a livello ritmico e propinando un dualismo vocale tra growling e screaming vocals davvero intrigante. In tutto questo, non mancano alte dosi di melodia che si sprigionano attraverso le sei lunghe tracce contenute in 'From Presence To Silence'. Detto degli undici minuti iniziali dell'opening track, ne seguiranno altri dieci con l'oscura "Effigy", un pezzo che ben si muove tra riffoni tosti, strutture articolate, ma soprattutto dove il pezzo forte, oltre alle splendide melodie di chitarra, è rappresentato dalla comparsa di clean vocals che poggiano sui vari cambi di tempo che contraddistinguono il pezzo, un buon pezzo. L'arpeggio in apertura di "Winds Of Ill Omen" ricorda inequivocabilmente gli innumerevoli brani degli Opeth che furono, quelli che iniziavano brillantemente le loro canzoni in questo modo tra le melodie gentili di una chitarra acustica e le proseguivano anche meglio, in pezzi ben calibrati tra melodia e aggressività. E i Loneshore non sono tanto distanti dall'emulare le gesta del periodo di mezzo degli eroi svedesi capitanati dal buon Mikael Åkerfeldt, alla stregua di quanto fecero agli esordi gli statunitensi Daylight Dies. Questo per dire, che fondamentalmente la band brasiliana non inventa nulla di nuovo, ma quello che suona, non cosi facile da proporre, mostra comunque le qualità di una band già rodata e che vanta un buon gusto per le melodie, un'ottima preparazione tecnica e qualche idea non proprio da buttare. Se in tutto questo ci mettessero anche un pizzico di personalità, credo che mi ritroverei quei ad osannare 'From Presence to Silence' anzichè dire che di strada da fare per trovare un proprio stile personale ce n'è da fare ancora parecchia. Nel frattempo se siete dei nostalgici dei vecchi Opeth, e vi piacciono anche le accelerazioni post black (ascoltatevi la title track), beh credo che il lavoro dei Loneshore possa supplire egregiamente a questa vostra mancanza nell'attesa che prima o poi Mikael e compagni rinsaviscano. (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music - 2018)
Voto: 75

https://loneshore.bandcamp.com/releases

Rome In Monochrome - Away From Light

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Klimt 1918
A quasi un anno dalla sua uscita, ma per incolpevole ritardo, ecco giungerci fra le mani l'album di debutto dei nostrani Rome in Monochrome, 'Away From Light', rilasciato dalla potentissima label russa Solitude Productions nella sua sub-label BadMoonMan Music. La proposta del quartetto italico, ripercorrendo le orme di gente del calibro di Novembre e Klimt 1918, tanto per fare due nomi a caso, ma rifacendosi anche al loro stesso moniker, si muove nell'ambito di un doom malinconico in bianco e nero che chiama in causa anche un che dei Katatonia più alternativi. Certo, ho citato nomi importanti quindi le aspettative potrebbero essere elevate, vorrei però sottolineare che siamo ancora parecchio distanti dai maestri del genere, anche se i Rome in Monochrome potrebbero rappresentare una discreta alternativa agli originali. Otto le tracce a disposizione della compagine italiana per convincerci della bontà della loro proposta, che parte dalle soffuse atmosfere di "Ghosts Of Us", song dal flavour dark rock che solo nel finale rende più aspro il proprio sound per il solo fatto che un growl sostituisce un cantato pulito a dire il vero un po' titubante. "A Solitary King" ha un piglio più dinamico, sebbene le clean vocals del frontman non abbiano grossa presa sul sottoscritto, considerando poi una musicalità che si mantiene costante nel proprio lento fluire e che vede solo rare intemperanze alterare quell'incedere quasi etereo, che finalmente nella seconda parte del brano, ha modo di crescere ritmicamente e divenire più robusto e convincente. Convincente quanto "Paranoia Pitch Black", una song che poteva stare tranquillamente nell'esordio dei Klimt 1918, o in un disco come 'Arte Novecento' dei Novembre (ah peraltro in questa song, il cantato in scream è ad appannaggio del buon Carmelo Orlando, frontman dei Novembre stessi). La proposta della band laziale è interessante, ma c'è ancora qualcosa che non mi convince, sembra quasi che le manchi quel quid che le permetta di decollare. È il caso di "Uterus Atlantis", un brano semi-acustico, che potrebbe evocare un che degli Antimatter, però anche in questo caso, la band inglese la vedo ancora troppo superiore ai nostri. Il disco alla fine non ha troppi sussulti: forse la mia song favorita sarà "December Remembrances" che, se non è la traccia più aggressiva del lotto (e quell'aggressività la metterei fra virgolette), sicuramente risulterà tra le più lunghe, con i suoi abbondanti nove minuti di sonorità emotivamente rassegnate. Ancora qualche pezzo claudicante, per arrivare a concludere con "Only the Cold", dove il doom dell'act capitolino sprofonda nelle tenebre di una proposta che rivela una maturità artistica ancora non del tutto formata. Sicuramente ci sono buone idee, ma quello su cui lavorerei maggiormente io, è eliminare quella statiticità che permea ogni singolo brano, per questo poco caratterizzato ed elettrizzante. Per ora 'Away From Light' è solo un discreto esordio sulla lunga distanza, direi che c'è ancora da lavorare parecchio per ottenere ottimi risultati. (Francesco Scarci)